ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo II
La tutela giuridica dei gruppi linguistici e religiosi nell'ordinamento giuridico italiano. Analisi dei presupposti di rispondenza del sistema ad un modello multiculturale

Rosaria Pirosa, 2009

1.1 Premessa. Rilevanza concettuale della problematica minoritaria rispetto ai principi giuridici che traducono una caratterizzazione in senso democratico-pluralista dell'ordinamento. Valenza ermeneutica del principio di eguaglianza sostanziale. Delimitazione della nozione di minoranza rilevante per l'analisi in oggetto

L'analisi delle forme di tutela giuridica dei gruppi sociali minoritari non comporta l'impiego di metodologie particolari, vertendo essenzialmente sull'individuazione del tipo di regime giuridico che risulta applicabile ad un determinato fenomeno qualificabile come minoritario. La plausibilità teorica di questa affermazione, tuttavia, non esclude la propedeuticità che rispetto ad una tale analisi riveste la determinazione del fenomeno sociale cui la disciplina giuridica in esame risulta applicabile; a tal fine è importante stabilire cosa si intenda per gruppo minoritario e quali siano le particolari esigenze delle minoranze.

La tematica minoritaria, infatti, è in primo luogo materia di accertamento della realtà sociale, e successivamente di qualificazione giuridica. A quest'ultimo fine non risulta indifferente la caratterizzazione politica di un ordinamento giuridico e pertanto la sua predisposizione a riflettere la pluralità degli interessi presenti nella società (tra i quali, appunto, quelli minoritari), a riconoscerne in ampia misura la legittimità e a regolare altresì i conflitti che ne conseguono.

La peculiarità dell'approccio metodologico in tale studio, dunque, non risiede nella singolarità degli strumenti ma piuttosto nella preliminare assunzione di una premessa teorica di fondamentale importanza: "la disciplina giuridica delle minoranze esercita significative ripercussioni su alcuni problemi posti dalla teoria generale del diritto" (1).

Come sostiene Pizzorusso, la tematica della tutela giuridica dei gruppi sociali minoritari presenta, infatti, una ineliminabile connessione con due principi propri di un ordinamento giuridico democratico: il principio di eguaglianza e il principio di maggioranza (2). L'analisi in oggetto si soffermerà in particolare sul primo di questi due principi. Il momento di collegamento tra la disciplina giuridica dei problemi minoritari e il principio di eguaglianza è di tale significatività che i risultati dell'indagine giuridica relativi al tema trattato si ripercuotono in qualche misura sull'elaborazione teorica del suddetto principio, la cui esatta portata non può essere pienamente intesa, né tracciata senza tenere conto del modo in cui esso funziona in relazione alle situazioni minoritarie.

Nel corso del primo capitolo di questo lavoro, si è già prestato riferimento alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, quale paradigma storico e giuridico di diritti universali, secondo l'art. 1 di tale documento la società è formata da uomini i quali "nascono e vivono liberi ed uguali nei diritti", da uomini che vengono presi in considerazione dall'ordinamento giuridico statale, soltanto nella loro qualità di individui qualitativamente omogenei, indipendentemente dalla loro partecipazione, volontaria o meno, a raggruppamenti diversi da quello che deriva dal legame che li unisce allo stato. Dal tradizionale paradigma liberale dei diritti individuali fuoriescono diritti non formalizzabili in modo universale ma legati all'identità del soggetto, diritti collettivi intesi come diritti identitari, riconducibili all'appartenenza di gruppo.

L'attribuzione di diritti collettivi passa attraverso una radicale revisione del principio di eguaglianza inteso come identità di trattamento.

Qualora lo stato abbia intenzione di prendere atto della realtà sociale e voglia adeguare il suo orientamento politico alle esigenze di tutti i suoi cittadini, e non soltanto del gruppo dominante, esso deve rinunciare a declinare tradizionalmente il principio di eguaglianza, più precisamente deve sostituire ad esso, inteso come diretto a stabilire la parità formale, il principio di eguaglianza sostanziale, in base al quale il trattamento dei cittadini non deve essere indiscriminatamente pari, ma differenziato in modo tale da soddisfare adeguatamente tutte le esigenze diverse.

Alla luce di queste considerazioni è possibile comprendere come una trattazione tecnico-giuridica della tematica dei diritti collettivi e dunque dei problemi giuridici delle minoranze garantisca una lettura in controluce dei contorni e degli ambiti di effettività del principio di eguaglianza.

I principi e le norme giuridiche, ai fini della verifica della loro effettività, ossia dell'esistenza delle condizioni esterne necessarie per la loro corrispondente validità sostanziale, richiedono di essere collocate all'interno di un determinato contesto storico e sociale (3).

La circostanza che i diritti collettivi non siano formalizzabili in modo universale, unita all'impossibilità di fornire una definizione generale e astratta dello stesso centro di imputazione di tali situazioni giuridiche soggettive (4), induce a circoscrivere il raggio dell'analisi ad uno specifico modello di tutela, quello che l'ordinamento giuridico italiano configura nei confronti dei gruppi minoritari linguistici e religiosi presenti al suo interno. Obiettivo dell'analisi sarà, poi, quello di verificare la rispondenza di tale modello ad una società crescentemente multiculturale.

E'necessario fornire un'ulteriore premessa metodologica: la trattazione delle forme di tutela che l'ordinamento giuridico italiano realizza nei confronti delle minoranze linguistiche e religiose non si soffermerà sulla specifica menzione della totalità degli strumenti giuridici previsti nei due rispettivi ambiti, ma piuttosto cercherà di evidenziare l'analogia di fondo che li contraddistingue.

Ne discende che - in piena congruenza con quanto espresso in precedenza relativamente ai fondamenti filosofici dei diritti collettivi nella tematica multiculturalista - anche nel discorso giuridico è il principio di eguaglianza sostanziale e più specificamente la relazione che unisce tale principio ai modelli di tutela in esame a costituire la principale chiave d'analisi.

Proseguiamo nell'esplorazione della premessa teorica di partenza evidenziando una sostanziale specularità e identità di esiti tra due distinti procedimenti teorici: delineare l'effettiva portata del principio di eguaglianza sostanziale comporta l'individuazione delle lacune che i modelli di tutela dei fenomeni minoritari hanno al loro interno. In linea simmetrica, un'esaustiva trattazione, anche in termini prioritariamente giuridici, della problematica minoritaria spinge a vagliare tutte le possibili applicazioni del principio di eguaglianza sostanziale e il suo rapporto con altre norme fondamentali quali quelle espresse nell'articolo 2, nell'articolo 6 e nell'articolo 8 della Costituzione italiana.

La nozione di "minoranza" può assumere due diverse accezioni; secondo Alessandro Pizzorusso è con riferimento al principio maggioritario che debbono essere delineate le stesse nozioni di "maggioranza" e di "minoranza" (5): alla luce di ciò esiste una profonda differenza tra il significato che la nozione di minoranza assume quando è impiegata per indicare coloro che in occasione di una determinata deliberazione si sono espressi a favore di una tesi diversa da quella che in definitiva ha prevalso e il significato che della stessa espressione è proprio quando, invece, è utilizzata per indicare coloro che, nell'ambito di una determinata società, costituiscono un gruppo sociale distinto da quello che all'interno di essa esercita un ruolo dominante e in qualche modo contrapposto a tale gruppo.

Mentre la prima nozione - fondamentalmente riconducibile al principio maggioritario - costituisce il risultato dell'impiego di un mezzo tecnico, che viene utilizzato in disposizioni legislative o regolamentari tendenti a garantire alle minoranze certi diritti nell'ambito dei procedimenti di formazione delle deliberazioni collettive, ma che di per sé non implica la stabile trasformazione delle minoranze in centri di imputazione di interessi ritenuti meritevoli di tutela, la seconda - essenzialmente legata alla presenza di un fattore di discriminazione nella società di riferimento - è in primis una nozione sociologica descrittiva delle situazioni di fatto dotate di corrispondenti caratteristiche, e può assumere la portata di una nozione giuridica soltanto qualora il legislatore intervenga per conferire al gruppo sociale come tale, o ai singoli, in quanto appartenenti ad esso, determinati diritti o doveri (6). Ciò tuttavia non si verifica necessariamente, ben potendosi avere casi in cui il legislatore intenzionalmente disconosce ogni rilevanza giuridica alle situazione minoritarie, o in cui, come si vedrà nella terza parte del lavoro, adotta misure tendenti, per quanto possibile, a neutralizzare anche praticamente le differenze che sono all'origine di esse. In alcuni casi non soltanto si esclude la predisposizione di strumenti giuridici di tutela ad hoc ma non vengono neppure applicate normative vigenti che, adeguatamente implementate, garantirebbero forme di tutela alle situazioni minoritarie (7).

E' evidente che queste scelte normative non sono però compatibili con politiche che muovano da presupposti multiculturali.

La menzione dell'accezione di nozione di minoranza che non rileva direttamente per la nostra trattazione ha, tuttavia, un fine non secondario che consiste nell'evidenziare il principio maggioritario e la sua naturale contestualizzazione in uno stato democratico di diritto, nondimeno le perturbazioni cui esso è soggetto, come principale ambito di raccordo tra le due citate nozioni di minoranza (8). Non sfugge, infatti, il rilievo secondo cui, nei processi di formazione delle deliberazioni collettive si presuppone l'astratta disponibilità dei componenti il collegio deliberante a votare in un senso o nell'altro, in modo non fisiologicamente precostituito, la medesima assunzione non sussiste nel caso in cui tra coloro che partecipano alla decisione esistono imponenti fattori di differenziazione.

La presenza di differenziazioni dalle quali deriva la formazione di gruppi sociali, quali le minoranze in senso sociologico sono, esclude infatti di regola la possibilità di far ricorso al principio maggioritario per risolvere le questioni che in un modo o in un altro incidono sulle situazioni di fatto che determinano la contrapposizione dei corrispondenti gruppi (9).

Pizzorusso sostiene che la presenza di gruppi sociali tendenzialmente permanenti (10) produce perturbazioni di notevole entità sull'adozione del principio di maggioranza rispetto a quanto avviene negli stati a composizione omogenea. Perché il principio di maggioranza possa svolgere la sua funzione di accertamento della volontà popolare, infatti, è indispensabile che sussista un certo grado di fungibilità fra le posizioni di coloro che concorrono a formare le deliberazioni (11). L'applicazione del principio maggioritario in una società multiculturale rende costitutivamente esigui gli spazi che un ordinamento riserva alla democrazia partecipativa o deliberativa. Quando infatti il processo di decisione politica assume la forma di una lotta strategica per acquisire o mantenere posizioni di potere e il successo di candidati e programmi dipende dall'aggregazione maggioritaria delle preferenze, quantificata dal numero dei voti, non è più necessario che a tradizioni e forme di vita marginalizzate vengano concesse garanzie di status e di sopravvivenza. Una distribuzione del potere ancorata ad un modello di agire strategico vincolato alle opinioni maggioritarie, favorisce l'affermazione di interessi numericamente prevalenti a prescindere dai loro valori o disvalori sostanziali. Una visione aggregativa o "statistica" della democrazia non può che rimanere strutturalmente impermeabile alla volontà politica delle minoranze. Il processo democratico, se intende garantire eguali diritti di cittadinanza, deve anche offrire l'opportunità di esercitare diritti di partecipazione politica destinati a impedire forme di sottorappresentazione sistematica delle minoranze nei luoghi in cui si esercita una volontà politica in grado di condizionare l'amministrazione. Di fatto, in condizioni di pluralismo sociale e culturale, i gruppi minoritari possono concretamente azionare le loro rivendicazioni solo a patto che il processo politico non sia semplicemente l'esito dell'aggregazione maggioritaria delle preferenze in funzione di una lotta per la pura conquista di posizioni di potere, ma possa mantenersi sensibile ad un'idea di democrazia intesa quale progetto di cooperazione tra cittadini considerati come esseri morali liberi ed eguali. Diversamente, l'incommensurabilità o semplicemente la differenza tra visioni del mondo o sistemi di credenze può diventare così acuta da rendere intrattabili i conflitti, dando luogo a situazioni in cui le condizioni sfavorevoli delle minoranze culturali siano tali da precludere a queste ultime la cooperazione sociale necessaria al conseguimento di obiettivi politici.

Il concetto di "democrazia deliberativa" (12) implica l'adesione ad una logica multiculturale. La convergenza tra i teorici della democrazia deliberativa e i sostenitori delle politiche del riconoscimento si fonda sulla posizione che le leggi e le istituzioni fondamentali, così come i modi dominanti di interpretarle, "sono 'ingiuste' nella misura in cui ostacolano le forme di (auto)governo che sono adeguate al riconoscimento della diversità culturale. Si sostiene l'idea che la cultura sia "un aspetto irriducibile e costitutivo della politica". Nessun ordinamento democratico e pluralista può "eliminare, superare o trascurare questa dimensione culturale della politica" (13). Tully sostiene, infatti, che la neutralità etica di diritto e politica non sia che una forma indiretta della pressione assimilatoria imposta sulle minoranze. Secondo l'autore la trattazione istituzionale dei problemi culturali sotto il profilo della mediazione procedurale degli interessi condanna i gruppi minoritari a rigenerare le loro rispettive forme di vita a un livello prevalentemente o esclusivamente subpolitico, che, se garantisce la libertà da costrizioni esterne, non per questo offre pari opportunità di partecipazione ad una prassi comune (14). La garanzia di una coesistenza giuridicamente equiparata non può risolversi nella 'privatizzazione' degli orientamenti di valore propri dei gruppi minoritari o nella neutralizzazione normativa delle differenze.

Il problema che il pluralismo delle pratiche culturali e religiose pone alla legittimità politica ha profonde implicazioni per il dibattito normativo in cui sono impegnati i teorici della democrazia deliberativa, poiché una politica di promozione attiva di particolari concezioni della "vita buona", come si è accennato, mette in discussione la neutralità etica del diritto e della politica e, dunque, richiede un principio di diversa legittimazione politica (15). Secondo i sostenitori di un modello deliberativo di democrazia, il fondamento della legittimità democratica riposa su formazioni di compromesso tra posizioni divergenti che si commisurano a presupposti e procedure che, in linea di principio, sono aperti a processi di deliberazione pubblica da parte di cittadini liberi ed eguali. Questo modello democratico giustifica la presunzione di poter pervenire ad una politica rispettosa dei gruppi minoritari in quanto esso non solo non preclude alla riflessione discorsiva gli orientamenti di valore pertinenti, ma li ricomprende all'interno di una sfera pubblica priva di limitazioni precostituite (16).

Un'altra indicazione, concorrente alla messa a fuoco della nozione di "minoranza" che rileva per l'analisi in oggetto, è quella secondo cui può ritenersi, con sufficiente sicurezza, che le minoranze alle quali si fa riferimento sono quelle che presentano caratteristiche tali da renderle almeno tendenzialmente permanenti, in quanto contrapposte alle corrispondenti maggioranze sulla base di fattori sociali dotati di una certa stabilità, come quello etnico, o quello linguistico e religioso appunto (eventualmente combinati tra loro o con altri fattori meno definiti, come quello che potrebbe qualificarsi genericamente come "culturale").

Un'altra efficace distinzione in seno alla nozione di minoranza, direttamente rilevante per la nostra trattazione, è quella che consente di contrapporre le situazioni nelle quali gli appartenenti ad un gruppo etnico, linguistico o religioso subiscono discriminazioni negative, reagendo alle quali essi aspirano alla loro piena integrazione nella società di cui fanno parte e quindi all'assimilazione agli appartenenti alla maggioranza, e le situazioni in cui gli appartenenti ad un gruppo siffatto aspirano invece alla conservazione delle loro particolarità e si oppongono alle tendenze assimilazioniste della maggioranza (17).

Minoranze volontarie si hanno quando i contrasti col gruppo maggioritario derivano dal fatto che i membri della minoranza aspirano a conservare e a valorizzare le caratteristiche che appunto li differenziano dai membri della maggioranza e a tale scopo tendono a realizzare determinate garanzie giuridiche che assicurino loro il rispetto di elementi distintivi. Questa situazione si verifica in relazione alle minoranze nazionali, ma ricorre frequentemente anche nei casi di minoranze etniche, religiose, linguistiche o culturali.

Minoranze discriminate (o "loro malgrado") si hanno invece quando i contrasti col gruppo maggioritario derivano dal fatto che gli appartenenti alla minoranza vorrebbero assimilarsi con i membri della maggioranza, ma ciò è reso impossibile da questi ultimi, i quali impediscono il raggiungimento di tale obiettivo e si adoperano, invece, per il mantenimento della separazione.

Si è dunque giunti ad una delimitazione del concetto di minoranza rilevante per l'indagine giuridica in oggetto, parimenti approdando ad una qualificazione delle minoranze linguistiche e religiose come volontarie e tendenzialmente permanenti; tale dato non ha esclusivo rilievo classificatorio, bensì, come si vedrà, esso si pone in rapporto con il principio di eguaglianza sostanziale, risultando alla base della distinzione tra un paradigma di tutela "positiva" che di tale principio costituisce l'ipostasi interna alla nostra tematica ed un paradigma di tutela "negativa" rispondente, invece, ad un principio di eguaglianza formale e tendente dunque a realizzare un divieto di discriminazione ed una progressiva assimilazione alla maggioranza (18).

La trattazione ruota intorno ad una problematica nucleare: la necessità di realizzare un sistema politico-giuridico pluralistico in grado di elaborare strategie di convivenza alternative a quelle assimilazionistiche; la direzione politica dello Stato pluralista richiede essenzialmente un sostanziale equilibrio e un metodo negoziale e transattivo fra la pluralità di segmenti in cui si articola la società. L'ordinamento giuridico deve riflettere e garantire tale ordine sociale fondamentale, incentrato sull'appartenenza stabile e permanente degli individui a comunità diverse da quella, inesistente in quanto unitaria, dello Stato.

Il tema della tutela dei diritti delle minoranze corrisponde fondamentalmente alla manifestazione di una concezione pluralista della società e dell'ordinamento che ne costituisce la struttura normativa. Secondo una logica pluralista e multiculturale l'individuo ha rilevanza anche e soprattutto in quanto partecipe di formazioni sociali "ove si svolge la sua personalità" (art. 2 Costituzione italiana).

2.1 La tutela delle minoranze linguistiche. La nozione di situazioni giuridiche soggettive "collettive" nel rapporto tra l'art. 6 Costituzione e il principio di eguaglianza sostanziale. Transito da un paradigma di "tutela negativa" ad un paradigma di "tutela positiva"

Nel nostro ordinamento il principio di tutela delle minoranze linguistiche trova il suo fondamento nell'articolo 6 della Costituzione. L'introduzione di una specifica disposizione costituzionale sulla tutela delle minoranze linguistiche ha un enorme rilevo sul piano delle scelte di politica del diritto poiché ha tradotto l'intenzione, da parte del Costituente, di elevare la finalità della valorizzazione delle minoranze linguistiche ad un obiettivo di politica culturale, nondimeno di predisporre nei confronti dei gruppi minoritari linguistici un trattamento giuridico incentrato su un sistema di norme di tutela "positiva".

Tale osservazione è storicamente confermata dalla circostanza che la proposta tendente all'introduzione della norma in oggetto superò l'opposizione del presidente della "Commissione dei Settantacinque", Ruini, secondo il quale essa era superflua dal momento che il progetto di costituzione conteneva già la proclamazione dell'eguaglianza senza distinzioni di lingua (19), destinata invece, come si approfondirà in seguito, a codificare un paradigma di tutela "negativa".

Non potendo far luogo in questa sede all'intera ricostruzione del dibattito che in Assemblea Costituente ha preceduto e ha seguito l'approvazione della norma in esame, si cercherà di evidenziare alcuni dei passaggi teorici attraverso i quali si delinea la funzione essenziale dell'art. 6 Cost. e il suo rapporto con altri due principi supremi del nostro ordinamento, rispettivamente espressi, nel loro nucleo fondamentale, dagli articoli 2 e 3 della Costituzione.

Ciò in considerazione del fatto che l'art. 6 Cost. costituisce il baricentro della tutela delle minoranze linguistiche, il punto di riferimento obbligato di tutti i successivi sviluppi legislativi in materia, ma ancor più incisivamente un importante sintomo della recettività del sistema rispetto alla radicale revisione del principio di eguaglianza inteso come identità di trattamento.

In particolare si cercherà di mettere a fuoco il rapporto che intercorre tra il principio di tutela della minoranze linguistiche e una più inclusiva concezione dell'eguaglianza, non più intesa come proprietà simmetrica ma piuttosto come proprietà asimmetrica in grado di rendere conto della diversificazione della realtà sociale.

Occorre preliminarmente osservare che, se l'art. 6 Cost. incide indubbiamente anche su rapporti compresi entro la più generale fattispecie prevista dal principio di eguaglianza, due sono le soluzioni che possono astrattamente prospettarsi: l'ipotesi secondo cui l'art. 6 Cost. rappresenta una "specificazione" dell'art. 3, volta ad attuarlo con riferimento ad una fattispecie più circoscritta, e quella secondo cui l'art. 6 introduce invece una deroga all'art. 3, escludendone l'applicabilità ad una parte dell'area nella quale invece esso sarebbe operante (20).

La tesi della deroga fu storicamente sostenuta da Esposito, per il quale presupposto dell'art. 6 "è che unica sia fondamentalmente la lingua ammessa in Italia e che la diversità di lingua del cittadino in via di principio non assuma né rilievo positivo né rilievo negativo nelle leggi" (21). A questa concezione si contrappose quella di Franchi, per il quale la tutela delle minoranze linguistiche non doveva essere riferita tanto al primo comma dell'art. 3, quanto al suo secondo comma, anche se l'art. 6 "non si riduce ad una specificazione delle direttive contenute nell'art. 3. 2º comma, ma - pur ricollegandovisi - fissa un principio indipendente" (22).

Tale riferimento vale soprattutto a porre in rilievo la circostanza che la differenza tra chi ha come lingua materna quella che viene parlata dalla componente maggioritaria della società di riferimento e chi parla una lingua diversa costituisce una differenza di fatto e non di diritto, in considerazione di ciò essa deve essere ricondotta alla previsione dell'art. 3. 2º comma, nella parte in cui tale disposizione sancisce la necessità che tutti gli organi pubblici si adoperino per eliminare le divergenze di fatto pregiudizievoli per l'armonioso sviluppo della vita sociale della comunità (23).

Il problema può essere poi inquadrato con riguardo ad alcune valutazioni di carattere generale inerenti al trattamento dei gruppi minoritari (non soltanto linguistici) nell'ambito di una comunità a struttura sociale composita, dalla quale emergono due ordini di esigenze connesse entrambe alla realizzazione di un sistema pluralistico, ma nettamente distinguibili l'una dall'altra.

Il primo ordine di esigenze è quello che i gruppi minoritari fanno valere quando denunciano discriminazioni eventualmente adottate nei confronti dei loro membri e chiedono, conseguentemente, di essere destinatari di un trattamento eguale a quello di tutti gli altri cittadini. L'accoglimento di questa rivendicazione si traduce in una norma che vieta le discriminazioni fondate sul particolare fattore di separazione dei gruppi sociali che, di volta in volta, viene in rilievo; nel nostro ordinamento la norma in oggetto è espressa appunto dall'art. 3. 1º comma della Costituzione.

Siffatte norme, applicabili prima di tutto agli individui, ma eventualmente anche alle collettività o agli enti, realizzano una tutela "negativa" dei gruppi minoritari la quale è sufficiente a realizzare le aspirazioni delle minoranze dette "necessarie" o "loro malgrado", cioè - come si è accennato in precedenza - di quei gruppi la cui posizione differenziata nell'ambito della comunità è voluta e realizzata dalla maggioranza attraverso sistematiche discriminazioni nei confronti degli appartenenti alla minoranza. Tali norme, pertanto, rispondono all'esercizio della pretesa di un'identità di trattamento rispetto alla maggioranza della società di riferimento ma non alla rivendicazione di un trattamento differenziato quale si configura da parte dei gruppi la cui posizione minoritaria è frutto dell'aspirazione a coltivare una propria cultura o una propria Weltanschauung. A questo genere di minoranze - come si è accennato nella parte introduttiva - appartengono in primis le minoranze linguistiche e quelle religiose, "le cui aspirazioni essenziali non consistono nell'andare esenti da trattamenti discriminatori o persecutori, ma anche e soprattutto nell'ottenere un'organizzazione della vita di relazione che consenta loro di conservare la propria cultura" (24). "La cultura dei gruppi minoritari, essendo diversa da quella della maggioranza, non può svilupparsi se non è protetta da provvedimenti legislativi particolari e derogatori rispetto a quelli adottati in via generale con riferimento alla cultura maggioritaria" (25).

Al fine di realizzare un'effettiva tutela delle minoranze di questo tipo occorre stabilire, dunque, accanto alla tutela "negativa" predetta, anche un sistema di norme che corrispondentemente può appunto essere denominato di tutela "positiva" (26). Le misure che realizzano la tutela positiva delle minoranze linguistiche consistono dunque nell'affiancare alle regole tendenti a facilitare l'uso delle lingue minoritarie ulteriori regole che valgano ad evitare che tale uso si risolva per chi lo pratica in un pregiudizio di carattere economico o di altra tipologia (27).

Alla luce di questa sintesi è possibile comprendere come il divieto di discriminazione stabilito dall'art. 3. 1º comma Cost. fissi esclusivamente un sistema di tutela "negativa" delle minoranze linguistiche, tuttavia, poiché tale principio deve considerarsi anche il presupposto di una più compiuta forma di protezione, quale è quella che occorre assicurare nell'ambito di una società pluralistica e a fortiori multiculturale, se ne deduce che la tutela costituzionalmente sancita dall'art. 6 corrisponde ad una tutela "positiva", concretatesi in norme che parte della dottrina costituzionalistica definisce "relativamente eccezionali".

Attraverso questi brevi cenni si è inteso evidenziare la portata attuativa che la norma espressa dall'art. 6 Cost. riveste rispetto al principio di eguaglianza sostanziale.

Se poi si unisce a tale aspetto la natura specificativa e integrativa che il principio di tutela delle minoranze linguistiche riveste rispetto al principio pluralistico e al principio di eguaglianza formale, il problema relativo alla natura derogatoria dell'art. 6 Cost. non dovrebbe porsi.

Richiamare le diverse posizioni al riguardo implica, però, un utile riferimento alle interpretazioni del principio di eguaglianza che possono sostenersi: pronunciarsi sulla natura derogatoria dell'art. 6 Cost. rispetto al principio costituzionale di eguaglianza dipende, infatti, dalla concezione che di esso si fa propria. Come sostiene lucidamente Pizzorusso, se si declina il principio in oggetto in senso formalistico e restrittivo ossia come divieto di leggi eccezionali o singolari, non vi è dubbio che l'art. 6 Cost. rappresenti una deroga ad esso, ma se invece lo si intende più modernamente e secondo un approccio sostanzialistico, ossia come principio generale di ragionevolezza delle distinzioni cui il legislatore fa conseguire effetti giuridici, si può agevolmente concludere che l'art. 6 Cost. costituisce una mera specificazione di esso rispetto a fattispecie di tipo particolare, ciò in considerazione del fatto che può pacificamente ritenersi ragionevole trattare i rapporti inerenti alle situazioni di fatto che interessano le minoranze linguistiche in modo differenziato rispetto alle previsioni generali relative alla materia dell'uso delle lingue o alle altre connesse.

La distinzione tra le norme di tutela "positiva" e quelle di tutela "negativa" delle minoranze linguistiche consente di chiarire un altro aspetto rilevante per la trattazione e la comprensione del trattamento giuridico previsto nei loro confronti, nondimeno per la messa a fuoco della nozione di situazioni giuridiche soggettive "collettive". Pertanto è necessario considerare il gruppo di strumenti giuridici cui si può ricorrere per realizzare la tutela dei gruppi linguistici minoritari, il quale comprende tutte le ipotesi di attribuzione di situazioni giuridiche soggettive utilizzabili dai membri delle minoranze per valorizzare e soddisfare le proprie esigenze.

A tal proposito occorre evidenziare che nell'ambito di queste situazioni giuridiche soggettive sono incluse anche quelle non attribuibili in linea esclusiva agli appartenenti alle minoranze linguistiche, bensì a più vaste categorie di soggetti, o addirittura a tutti i cittadini, e che, tuttavia, per la loro portata concreta, costituiscono strumenti di tutela delle minoranze, "per le suddette minoranze tali situazioni giuridiche soggettive presentano un interesse affatto particolare a causa della minor forza politica di cui esse normalmente dispongono" (28). Appartengono a tale tipologia in primis i diritti di libertà - tra i quali è da ricomprendere la "libertà di lingua", intesa come specificazione della libertà di manifestazione del pensiero (29) - e il principio di eguaglianza formale che - lo si ribadisce - rappresenta, tuttavia, un presidio per le minoranze, quanto meno nel senso di porle al riparo dalle discriminazioni e di assicurare loro l'esercizio di tutte quelle facoltà che sono riconosciute dall'ordinamento alla generalità dei cittadini.

Attraverso questa prima osservazione si evidenzia in linea ulteriore la specificità che costituisce la cifra caratteristica del principio di tutela delle minoranze linguistiche sancito dall'art. 6 Cost., poiché mediante le summenzionate situazioni giuridiche soggettive si accorda alle minoranze soltanto una tutela negativa che vale a difenderle dalle misure oppressive, ma non a valorizzare le loro esigenze particolari. A questo fine possono essere accordate ai membri delle minoranze (o in linea suppletiva, in difetto di un adeguato sistema di identificazione, anche ad una più ampia categoria di cittadini, delimitata in base a parametri meno stringenti) altre situazioni giuridiche soggettive che realizzano appunto la tutela "positiva" cui finora si è posto riferimento.

Tali misure non tendono alla realizzazione dell'uguaglianza intesa come divieto di discriminazione quanto alla realizzazione di opportunità di sviluppo economico e culturale pari a quelle del gruppo maggioritario, anche se ciò debba comportare l'adozione di misure differenziate, ossia di discriminazioni a loro vantaggio (30).

Introdotto tale discrimen, è importante rilevare che in entrambi i casi descritti le situazioni giuridiche soggettive in esame hanno carattere individuale nel senso che esse sono conferite ai singoli appartenenti alla minoranza (e talvolta anche ad altri cittadini o finanche a tutti) e non al gruppo come tale, previa sua entificazione: tuttavia, mentre le situazioni del primo tipo, proprio per il fatto di essere accordate ad una categoria di cittadini che trascende l'ambito degli appartenenti alla minoranza, non sono in alcun modo ricollegabili a questa, neppure in senso atecnico o attraverso il profilo degli interessi sostanziali tutelati, le seconde, in quanto trovano nella tutela della minoranza la loro giustificazione, acquistano - pur senza cessare di essere di pertinenza dei singoli e dai singoli esercitabili - una speciale rilevanza per tutto il gruppo minoritario e non soltanto per esso.

Dunque sulla base di queste considerazioni è possibile distinguere, nell'ambito delle situazioni giuridiche concernenti le minoranze, quelle che si presentano come situazioni giuridiche "individuali" (cioè meramente individuali), le quali concorrono a realizzare la tutela "negativa" delle minoranze volontarie, dalle situazioni giuridiche soggettive "collettive" (31) che ne stabiliscono invece la tutela "positiva" (32).

Il transito da un paradigma di tutela "negativa" ad un paradigma di tutela "positiva" muove dalla recezione di un principio pluralistico che parallelamente sovrintende al passaggio dalla semplice rivendicazione del rispetto della diversità linguistica ad una vera e propria richiesta di politiche volte alla sua promozione. In questo senso accanto alla richiamata idea del diritto all'uso di una lingua come manifestazione del proprio pensiero, progressivamente si è fatta più pressante la richiesta di riconoscimento della lingua come strumento di espressione dell'appartenenza a una cultura, a un gruppo o a una nazionalità diversa da quella cui appartiene la componente maggioritaria della società di riferimento, "come criterio di identificazione di un gruppo sociale cui viene riconosciuta una qualche forma di soggettività giuridica in base al principio pluralistico inteso come pluralismo istituzionale" (33).

Nell'ambito di questa prospettiva, la tutela della lingua implica l'individuazione di strumenti e di azioni volti alla sua promozione e alla sua diffusione, più estesamente si tratta di mettere a fuoco lo scenario politico-giuridico nel quale il pluralismo linguistico si traduce.

L'affermazione del principio di eguaglianza sostanziale ha introdotto altresì l'elemento del rapporto tra singolo e gruppo sociale, prefigurando al contempo la possibilità di conseguenti formule di riconoscimento. Con il superamento di una concezione liberale-atomistica fondata sul paradigma individuale, la titolarità dei diritti linguistici (34) ha cessato di essere esclusiva attribuzione del singolo individuo ed è divenuta nozione più complessa, variamente articolantesi tra quest'ultimo e il gruppo di appartenenza; il concetto di riconoscimento riveste un ruolo primario nel mettere a fuoco la duplice dimensione dei diritti in questione: il singolo individuo desidera parlare la propria lingua per manifestare e valorizzare la propria identità ed essere riconosciuto da un gruppo che, a sua volta, parla la propria lingua e al contempo salvaguarda la propria identità per essere riconosciuto all'esterno. La lingua può essere simultaneamente intesa come fattore di riconoscimento dell'appartenenza del singolo che la usa ad un gruppo sociale, il quale ha uno statuto giuridico particolare nell'ambito dell'ordinamento statale (nell'ipotesi in oggetto in ragione del fattore linguistico). Questa distinzione implica nel primo caso il conferimento di diritti e poteri al singolo individuo, nel secondo caso al gruppo linguistico considerato come soggetto collettivo. Tale bidimensionalità rimanda alla definizione del ruolo dei diritti: da presidi volti a tutelare l'individuo a strumenti che consentono la realizzazione di fini collettivi e la valorizzazione di identità collettive.

2.2 Il fondamento costituzionale della bidimensionalità dei "diritti linguistici". Qualificazione giuridica delle minoranze linguistiche e conseguente ambito di estensione degli strumenti di tutela

Questo imprescindibile aspetto è confermato, del resto, dalla relazione che intercorre tra l'art. 6 Cost. e l'art. 2 della Costituzione, laddove esso afferma che i diritti fondamentali debbono essere riconosciuti e garantiti non soltanto in quanto riferiti all'uomo come singolo, ma anche come componente delle "formazioni sociali ove si svolge la sua personalità".

In questo modo la tutela della lingua viene ad essere letta come "tutela di un interesse collettivo, cioè di interessi comuni a tutti coloro che usano una determinata lingua, ma non coincidenti con la somma degli interessi individuali di ciascuno di essi" (35).

Quale che sia l'esatta portata della formula adoperata dal costituente, può ritenersi che questa affermazione valga soprattutto ad esprimere il generale orientamento di favore verso le strutture sociali intermedie fra il cittadino singolo e lo stato dal quale il legislatore costituente fu ispirato, in antitesi con l'opposto orientamento proprio del liberalismo (36); alla luce di tale osservazione è possibile sostenere che anche la previsione della tutela delle minoranze linguistiche si presenta come una manifestazione della medesima concezione che sta alla base dell'art. 2 Cost. (37).

In Italia ha prevalso una lettura che equipara le minoranze etnico-linguistiche alle altre formazioni sociali in cui si realizza la personalità dell'individuo, non isolatamente concepito ma considerato nel vivo del tessuto sociale (38).

La rottura della corrispondenza tra comunità linguistica e comunità politica ha altresì posto la necessità di individuare disposizioni specifiche non soltanto a livello statale ma anche a livello intermedio (39).

Occorre, tuttavia, rilevare che la tutela delle minoranze linguistiche raramente si manifesta attraverso strumenti giuridici del tipo di quelli che sono generalmente adottati nei confronti delle comunità intermedie a struttura associativa o territoriale, come la loro costituzione in ente pubblico o il loro riconoscimento come persone giuridiche di diritto privato, o quanto meno come associazioni non riconosciute ma tuttavia dotate di una forma sia pure ridotta di soggettività.

Le minoranze linguistiche costituiscono invece delle mere comunità diffuse le quali, essendo prive di soggettività, fanno valere i loro diritti e, più in generale, utilizzano per la tutela delle proprie aspirazioni e per il raggiungimento dei propri fini la capacità giuridica che ai loro membri spetta in quanto individui (nel caso di attribuzioni di situazioni giuridiche soggettive "collettive") oppure quella riconosciuta ad enti o associazioni aventi diverse finalità istituzionali (quali enti locali o partiti politici).

Questo assetto della disciplina giuridica delle autonomie minoritarie si riscontra nell'ordinamento giuridico italiano nel quale le minoranze linguistiche trovano una tutela che non implica il loro riconoscimento come soggetti di diritto, ma che consente loro di operare giuridicamente avvalendosi, oltre che della soggettività che ai loro membri spetta in qualità di cittadini italiani, di quella di partiti politici o di altre associazioni di diritto comune (40), oppure della soggettività giuridica degli enti pubblici nei quali esponenti di membri della minoranza possono assumere un certo peso.

L'ente pubblico è così concepito non come immediata rappresentazione degli interessi della minoranza, ma come spazio ove i membri del gruppo linguistico possono fare valere le loro ragioni e le loro aspirazioni. Inoltre la possibilità di agire in questo spazio pubblico non dipende dalla circostanza che il territorio dell'ente sia popolato esclusivamente dagli appartenenti alle minoranze, ma è sufficiente che il gruppo abbia assunto una determinata rilevanza entro i confini del territorio (41).

Accanto a limitate forme riconoscimento dell'autonomia territoriale, pertanto, non è prevista dall'ordinamento italiano alcuna forma di autonomia personale delle minoranze, quale è quella che si ha quando viene riconosciuto come soggetto di diritti e di poteri autonomi un ente o un'associazione che comprenda in sé tutti gli appartenenti ad un certo gruppo linguistico, prescindendo totalmente dal luogo di loro insediamento, e di cui si sono avuti esempi in ordinamenti stranieri (42), eccezion fatta per le "consulte culturali" dei tre gruppi linguistici operanti in provincia di Bolzano, la cui importanza pratica è assai ridotta stante la limitatezza dei compiti ad essa assegnati (43).

Dunque la qualificazione giuridica che alle minoranze linguistiche spetta nell'ordinamento italiano è quella di mere "comunità diffuse", prive di soggettività in senso giuridico, ossia di collettività di persone sprovviste come tali di qualunque possibilità di azione sul piano del diritto, nonostante che lo stesso ordinamento le riconosca come centri di riferimento di un compendio di interessi collettivi giudicati meritevoli di tutela ed in effetti in qualche modo tutelati attraverso l'opera degli organi pubblici o di altri soggetti che ne assumono la rappresentanza (in senso atecnico).

Occorre rilevare, però, che a seguito delle modifiche apportate allo Statuto regionale per il Trentino Alto-Adige con la legge costituzionale 10 novembre 1971, n. 1, sono stati introdotti nell'ordinamento italiano taluni istituti che sembrano presupporre un riconoscimento almeno parziale della soggettività delle minoranze linguistiche in quanto tali.

Come principale esempio di questo tipo si può segnalare la disposizione contenuta nell'art. 56 del nuovo Statuto, la quale accorda alla maggioranza di ciascun gruppo linguistico consiliare del consiglio regionale e del consiglio provinciale di Bolzano il potere di impugnare con ricorso alla Corte costituzionale una legge che sia stata approvata dal consiglio regionale o dal consiglio provinciale di Bolzano medesimi e che sia ritenuta da tale gruppo lesiva della parità dei diritti tra i cittadini appartenenti ai diversi gruppi linguistici o delle caratteristiche etniche e culturali dei gruppi stessi, ove non sia stata accolta la richiesta di votazione separata per gruppi linguistici oppure qualora la proposta di legge sia stata approvata nonostante il voto contrario di due terzi dei componenti il gruppo linguistico consiliare che ha formulato la richiesta (44).

La previsione di tale potestà di ricorso viene a configurare un nuovo caso di sindacato in via principale della costituzionalità delle leggi da esercitarsi su ricorso proposto da un soggetto - "la maggioranza del gruppo consiliare" - che non appare facilmente qualificabile dal punto di vista giuridico, ma che, ove si tenga conto di quelli che sono gli interessi sostanziali per la tutela dei quali il ricorso è accordato, si può configurare come un organo della comunità etnico-linguistica di appartenenza, con la conseguenza di dover ritenere quest'ultima, cioè la minoranza in quanto tale, dotata di una sua almeno limitata soggettività (45).

Il conferimento della titolarità dei diritti alla minoranza considerata come un distinto soggetto giuridico presuppone, dunque, un'attribuzione della personalità giuridica o di una più ridotta forma di soggettività ad un ente il quale viene a rappresentare ufficialmente la minoranza, nello stesso modo in cui lo stato rappresenta l'intera comunità nazionale.

Questa prospettiva, se non costituisce un ostacolo assoluto all'introduzione di una tale misura, è vista con sfavore negli ordinamenti in cui il diritto pubblico salvaguarda un'impostazione monoliticamente individualistica e - come si è più volte detto - l'impronta derivante dai principi della rivoluzione francese in base ai quali è considerata con diffidenza la creazione di corpi "intermedi" fra lo stato e il cittadino (46).

La ferma opposizione frapposta dai paesi 'occidentali' (47) all'accoglimento dell'interpretazione che considera i gruppi come destinatari della tutela consente di escludere che un riconoscimento della soggettività dei gruppi minoritari possa ritenersi effettuato dal diritto internazionale attualmente vigente, ma questa conclusione non impedisce affatto che tale soluzione possa considerarsi già operante in alcuni ordinamenti statali in cui sono in vigore principi favorevoli al suo accoglimento e che il problema possa costituire oggetto di discussione con riferimento ad altri ordinamenti in cui principi di ordine sistematico tendenzialmente contrari all'accoglimento di una tale soluzione coesistono con disposizioni particolari che parrebbero invece presupporla, quest'ultimo è il caso del nostro ordinamento.

La predisposizione di una tutela effettiva delle minoranze linguistiche dunque si incentra oltreché su un paradigma di tutela "positiva", su un paradigma di tutela "collettiva", del resto concettualmente incluso nel primo.

E' altresì importante notare che l'affermazione del carattere collettivo dei diritti accordati a tutela delle minoranze comporta che titolari di tali diritti siano, almeno di principio, soltanto gli appartenenti alla minoranza e quindi implica la necessità di stabilire dei criteri legali per accertare chi siano gli appartenenti alle minoranze (48). Tale esigenza deriva anche dalla circostanza che non si è propriamente effettuato un riconoscimento dell'autonomia personale delle minoranze linguistiche, né si è pervenuti ad una tutela generale delle medesime; l'art. 6 Cost., infatti, non ha ricevuto attuazione attraverso l'adozione di norme generali e astratte applicabili a qualunque minoranza linguistica esistente sul territorio nazionale delineando la relativa fattispecie e il trattamento applicabile, bensì tramite norme ad hoc (49) destinate a regolare singole situazioni onde applicare ad esse il principio costituzionale.

2.3 Una tutela affidata a norme ad hoc fino alla L. 482/1999. "Chi dice pluralismo"? Un passo indietro rispetto all'art. 6 Cost.?

E'necessario richiamare che, al momento dell'entrata in vigore della Costituzione e dell'art. 6, erano già stati emanati e resi operativi il D. Lgs. C.P.S 8 novembre 1946, n. 528 e il D. Lgs. C.P.S 11 novembre 1946, n. 365, rispettivamente per la Provincia di Bolzano e la Valle d'Aosta, i quali istituivano in entrambe, per i cittadini di lingua tedesca e francese, quelli che sono stati denominati "sistemi scolastici speciali". Nella fattispecie si trattava di sistemi scolastici nei quali il tedesco e il francese divenivano lingua veicolare per l'insegnamento delle varie materie. Nel territorio libero di Trieste e in provincia di Gorizia, le scuole con lingua d'insegnamento slovena erano già state istituite con specifici atti emanati dal G.M.A (Governo Militare Alleato), prima ancora della firma del Trattato di Pace sottoscritto a Parigi dalle Potenze alleate e dall'Italia il 10 febbraio del 1947, ed entrato poi in vigore il 15 settembre dello stesso anno. Oltre all'insegnamento della lingua materna, alle tre popolazioni venivano assicurati altri essenziali diritti in materia civile, economica, politica.

Nessuna forma di tutela generale veniva predisposta, invece, nei confronti dei cittadini italiani francofoni, germanofoni e slovenofoni viventi fuori dai territori protetti.

Questo minuto riferimento ha una valenza emblematica e confermativa della circostanza che l'art. 6 Cost. non ricevette mai attuazione per il tramite di una disciplina generale e astratta estensibile a tutte le "minoranze linguistiche" presenti sul territorio italiano.

Per estendere la tutela alle altre "minoranze linguistiche", secondo dottrina e giurisprudenza, sarebbe dovuta intervenire una legge del Parlamento.

L'art. 6 Cost. costituiva, a parer loro, un classico prototipo di riserva legislativa (50). Dal 1948 al 1999 i disegni di legge finalizzati all'attuazione di tale norma sono stati rigettati in sede di approvazione parlamentare o non sono stati neppure discussi.

Per contro, le leggi emanate da Regioni, sia a statuto speciale, sia ordinario, o venivano rinviate al mittente dai Commissari del Governo (Veneto, Molise, Calabria), ovvero impugnate dal Governo e respinte dalla Corte Costituzionale (è il caso della Sardegna, con le Leggi 7/10/1993 e 3/11/1993). Del tutto isolate le voci che in dottrina ne affermavano l'immediata precettività o che contrastavano la tesi sulla pretesa riserva di legge dell'art. 6 Costituzione (51). Ciò fino al 1992 quando il TAR di Trieste stabilì che non esiste una materia "tutela di minoranze" demandata specificamente alla competenza di un legislatore (costituzionale, statale o regionale che sia), ma "una tutela che si realizza tenendo conto delle minoranze nel regolamentare, secondo l'usuale riparto di competenze, le materie, di spettanza dello Stato o della regione o dei comuni" (52).

Dopo oltre 50 anni dall'entrata in vigore della Costituzione e dei suoi principi fondamentali, viene emanata la Legge 482/1999. La legge 15 dicembre 1999, n. 482, con la quale si è inteso dare una sembianza di attuazione all'art. 6 Costituzione, ha ad oggetto le "norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche". Nel corso della trattazione ci si soffermerà su alcune disposizioni della disciplina normativa in oggetto, a cominciare dalla sua rubrica, ma sin da ora si introduce un elemento: sembra che nel sistema di tutela linguistica previsto dal legislatore del '99 il principio pluralistico non abbia sostituito l'ideologicamente opposto principio di nazionalità.

Un simile intervento normativo, per il ritardo con il quale giunge e per il contesto socio-politico nel quale nasce, avrebbe dovuto recepire un fondamentale profilo in virtù del quale l'uso della lingua rileva per il diritto: qualunque espressione linguistica può essere considerata come un "bene culturale" (53) e al pari di ogni altro merita "rispetto e protezione" come opportunamente dispone l'art. 3 comma 3º della Costituzione spagnola del 1978 (54).

Questa concezione si differenzia considerevolmente dalle precedenti perché non inquadra unilateralmente la lingua come fattore di rivendicazione della nazionalità (55). Tale impostazione supera il presupposto ideologico del principio di nazionalità nella tutela linguistica, e, risultando conforme ad un'istanza pluralistica e multiculturale, può ritenersi operante nei confronti delle lingue dei migranti, degli stranieri o di altri soggetti che possono essere considerati come appartenenti a minoranze linguistiche in senso proprio (56).

La concezione della lingua come "bene culturale" afferma un principio di pari dignità di tutte le forme di espressione linguistica e traduce l'idea che ogni singola lingua è soltanto una delle possibili forme di espressione e che essa non è migliore o peggiore di altre.

Invece di discutere sulla qualità dell'una o dell'altra lingua, come è accaduto in famose occasioni (57), l'obiettivo di una politica linguistica rispondente alle esigenze della realtà sociale in cui viviamo deve consistere nel diffondere la maggior possibile conoscenza di tutte le lingue, incrementando, sul piano individuale e collettivo, la condizione di bilinguismo e di plurilinguismo. L'attuazione di questo principio comporta che la libertà di usare la lingua che ciascuno considera la propria - ovvero di più lingue, in regime di bilinguismo oppure di diglossia (58) - non possa venir limitata mediante strumenti di carattere giuridico se non quando ciò risulti assolutamente necessario per tutelare i corrispondenti diritti degli altri.

Ogni gruppo sociale ha diritto alla propria lingua, alla conservazione di essa come risorsa culturale (59) e alla sua trasmissione alle nuove generazioni.

In questo d'ordine di idee si ripalesa la linea direttrice della trattazione in oggetto, il rilievo del principio di eguaglianza sostanziale e della predisposizione di forme di tutela positiva nei confronti dei gruppi linguistici minoritari, in questo caso lato sensu intesi.

Dunque il principio del riconoscimento della lingua come "bene culturale" offre una cornice assiologica di più ampia portata, consentendo di adottare misure di tutela anche nei confronti di realtà linguistiche che non presentano tutti i presupposti perché si faccia luogo a un regime di bilinguismo o di tutela giuridica minoritaria.

Dopo le considerazioni svolte, si intende porre alcuni parziali rilievi (60) riguardanti la legge 482/1999, emblematici del discrimen che sussiste tra un profilo di mera regolamentazione di un fenomeno ontologicamente inteso e una normazione che riporti e attui concretamente un obiettivo di politica legislativa e culturale di un ordinamento giuridico: nella specie la tutela dei gruppi linguistici minoritari; a tal proposito, significativa è l'osservazione secondo cui la qualificazione della forma di stato può ritenersi integrata dal fattore minoritario (61).

La qualità e il carattere della norma, assumono, come di consueto, un rilievo sostanziale oltreché formale, nello specifico caso divengono denotativi dell'apertura in senso pluralista e multiculturale del nostro ordinamento.

Il primo rilievo riguarda la rubrica della L. 482/1999, la considerazione che di seguito verrà svolta appare del resto in piena contiguità con uno degli aspetti che, ai fini della nostra analisi, più risaltano: l'esclusione dei gruppi Rom e Sinti dalle minoranze storiche riconosciute e conseguentemente dalla tutela linguistica.

Avendo riguardo a quanto precedentemente si è evidenziato relativamente alla mancata attuazione dell'art. 6 Cost. per il tramite di un sistema di tutela di norme generali e astratte operanti nei confronti di tutte le minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano, la rubrica della 482/1999 non pare incoraggiante: "Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche". "A parziale ristoro per la ritardata attuazione del disposto costituzionale succitato, si sarebbe potuto ricorrere, ad esempio, alla diversa locuzione "lingue minoritarie", eliminando così l'impegnativo richiamo alla 'storia'" (62).

Il legislatore del '99 dà corpo, nell'incipit normativo dell'art. 1, ad una scelta non presa in considerazione dal Costituente, quella di prevedere esplicitamente che "la lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano".

Non privo di significatività è poi il richiamo all'art. 3 della L. 482/1999, il quale decreta che le disposizioni di tutela si applicano per mezzo della "delimitazione dell'ambito territoriale e subcomunale". Non viene cioè protetta la lingua in sé e per sé, la lingua come "bene culturale" cui si è fatto riferimento, bensì "la lingua nel territorio" dove vive chi la parla; è evidente che i suddetti paradigmi di tutela non si pongono affatto su un piano di equipollenza. Sono stati infatti esclusi dalla tutela i gruppi Rom e Sinti che il disegno di legge, presentato da Loris Fortuna e giunto all'approvazione di un ramo del Parlamento, poneva su un piano di parità con tutte le altre minoranze linguistiche.

Il criterio dell'ambito territoriale affida il conseguimento della tutela ad una effettiva e "censita" presenza del gruppo nei territori corrispondenti, con evidente regresso rispetto all'intenzione di non ricorrere per l'individuazione dei soggetti inclusi in un determinato sistema di tutela a strumenti quali l'anagrafe linguistica. La salvaguardia linguistica trova attuazione se è "richiesta" da "almeno il quindici per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi" (art. 3). L'effettiva intenzione di tutelare una lingua e una cultura "minoritaria" non dovrebbe contemplare censimenti o "conte", a fortiori quando la salvaguardia viene concessa dopo secoli di misconoscimento, come è accaduto per la gran parte delle popolazioni nominate nell'art. 2 della L. 492/1999 (63).

Secondo il disposto dell'art. 4 comma 1 della L. 492/1999 "nelle scuole materne dei comuni di cui all'art. 3, l'educazione linguistica prevede, accanto all'uso della lingua italiana, anche l'uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle attività educative. Nelle scuole elementari e nelle scuole secondarie di primo grado è previsto l'uso anche della lingua della minoranza come strumento di insegnamento". L'avverbio "accanto" e la congiunzione "anche" delineano, in ordine a quello che è stato, è e sarà il fulcro della tutela delle lingue (maggioritarie o minoritarie che siano), il tipo di struttura e di organizzazione scolastica che dovrà consentire l'apprendimento di esse. In altri termini vengono riproposti i "sistemi scolastici speciali", secondo la formula prima richiamata, che, tuttavia, risultano diversi da quelli istituiti prima dell'entrata in vigore della Costituzione, nei quali la lingua cosiddetta "minoritaria" svolgeva pienamente una funzione veicolare nell'apprendimento delle altre materie ("scuole con lingua di insegnamento tedesca", "scuole con lingua di insegnamento slovena"). D'altra parte, occorre, però, considerare che nel 1º comma dell'art. 4 si dice che nelle scuole elementari e nelle scuole secondarie di primo grado è previsto l'uso "anche" della lingua della minoranza come strumento di insegnamento.

E'necessario soffermarsi sulla congiunzione richiamata (64).

Tra le condizioni necessarie per l'uso della lingua come "strumento di insegnamento", la norma in esame pone il requisito psicologico-culturale che si identifica con la "richiesta dei genitori". Il requisito viene ribadito più estesamente in chiusura della norma: "Al momento della preiscrizione i genitori comunicano alla istituzione scolastica interessata se intendono avvalersi per i propri figli dell'insegnamento della lingua della minoranza" (65).

In questa materia entra in gioco la combinazione tra movimenti auto-percettivi ed etero-percettivi dei singoli gruppi cui nella prima parte del lavoro si è posto riferimento: nelle province di Trieste e Gorizia gli sloveni che fanno frequentare ai propri figli le scuole per essi apprestate sono una porzione sparuta. Per contro, ad esempio in Slovenia e in Croazia, le scuole istituite per la "nazionalità" italiana, dopo i primi anni di tensioni politiche e di assestamenti economici, sono state preferite dai dominanti quadri politici, finanziari, intellettuali di lingua slava, per consentire ai loro figli di diventare bilingue. Non dissimile nelle motivazioni, sebbene diverso nei risultati, è quanto si è verificato in Alto-Adige, dove, superate antipatie e diffidenze, i cittadini di madre lingua italiana avrebbero desiderato per i propri figli un curriculum scolastico con lingua d'insegnamento tedesca; si sono compresi i vantaggi che derivano dall'apprendimento, alla pari con la propria lingua di una lingua diversa, benefici non esclusivamente culturali, ma nondimeno economici, per le maggiori possibilità di lavoro, di relazioni, di studio.

Considerato l'intrinseco valore del patrimonio costituito da una lingua e la risorsa rappresentata dal suo insegnamento, appare restrittivo subordinare quest'ultima circostanza al requisito di una richiesta proveniente dai genitori (66). A sostegno di tale orientamento è stato invocato l'argomento secondo cui nelle località dove vivono "le popolazioni parlanti lingue diverse risiedano anche cittadini la cui lingua materna è diversa da quella protetta" (67), si rileva che tale motivazione non giustifica sufficientemente la scelta del legislatore.

Apprendere (68) in età scolare una lingua diversa dalla propria significa sviluppare un'apertura immediata verso l'universo culturale di riferimento, ciò, dunque, può condurre ad adottare un atteggiamento di naturale e sano relativismo nei confronti della cultura d'origine.

L'art. 17 della L. 482/1999 (69) stabiliva poi che le norme regolamentari di attuazione dovessero essere adottate entro sei mesi dalla data in vigore della legge stessa (70). Al di là del fatto che il regolamento in oggetto è stato emanato con D.P.R. 2 maggio 2001, n. 345, si dirà che esso, al pari e forse più di altri regolamenti, si caratterizza per la macchinosità delle disposizioni: un elemento emblematico, al cui riferimento ci si intende limitare, lo si rinviene fin dall'art. 1 (71), che, avendo lo scopo di regolamentare il criticato art. 3 della legge (72) sulla delimitazione degli ambiti territoriali di applicazione della stessa introduce tutta una serie di adempimenti e di termini ("entro novanta giorni", "entro quindici giorni", "entro tre mesi", etc..etc..), tale da compromettere gli stessi obiettivi sottostanti al dettato normativo (73). E' evidente che la fissazione di termini e scadenze di legge, prima facie (ma forse non soltanto), mal si concilia con una finalità imponente quale la valorizzazione e la tutela dei patrimoni linguistici minoritari.

L'art. 6 della Legge stabilisce poi che le Università delle regioni interessate "assumono ogni iniziativa a sostegno della finalità della presente legge", "ivi compresa l'istituzione di corsi di lingua e di cultura delle lingue di cui all'art. 2" (74). A chiosare questo richiamo giunge la considerazione fin troppo ovvia che iniziative da parte delle università a tutela delle lingue minoritarie implicherebbero l'accesso ai fondi stanziati dalla legge. Allo stato attuale tra tutti gli insegnamenti previsti negli atenei italiani non è possibile annoverarne uno che si occupi delle lingue minoritarie, ciò non tanto sotto il profilo glottologico e filologico bensì per ciò che concerne l'inquadramento giuridico dei principi e delle norme del sistema rilevanti ai fini della tutela dei gruppi linguistici minoritari (75). Qualsiasi provvedimento concernente le lingue non può non assumere forma normativa, la politica linguistica ha per base il diritto (76).

Occorre altresì che la lingua diventi fatto sociale, che circoli, che venga usata nella forma scritta e parlata. A questo fine l'art. 7 riconosce il diritto di usare la lingua ammessa a tutela nei pubblici arenghi ("consigli comunali e altri organi a struttura collegiale") (77). Anche se, poi, nel secondo comma, estendendo tale diritto ai "consiglieri delle comunità montane, delle province e delle regioni" impone che tali "territori ricomprendano comuni nei quali è riconosciuta la lingua ammessa a tutela, che complessivamente costituiscano almeno il 15 per cento della popolazione interessata". L'uso della lingua ammessa a tutela per i consiglieri delle comunità montane, delle province e delle regioni di riferimento dunque non è previsto in linea generale come si converrebbe ove si promuovesse una concezione della lingua come fatto sociale ma viene subordinato anche in questo caso ad una condizione: la sussistenza di una soglia percentuale. "Una simile clausola non risulta in linea con la ratio di un provvedimento legislativo che intenda predisporre una tutela effettiva delle lingue minoritarie; alla luce di ciò le percentuali divengono contraddizioni in termini" (78).

Per ciò che concerne "l'uso orale e scritto della lingua ammessa a tutela" "negli uffici delle amministrazioni pubbliche", occorre richiamare la previsione del n. 1 dell'art. 9, di cui il successivo n. 2 dovrebbe costituire attuazione: esso dispone infatti che le pubbliche amministrazioni provvedano a "rendere effettivo l'esercizio della facoltà" (si noti come la situazione giuridica in questione non venga configurata come un diritto), assicurando la presenza di personale qualificato (79); a tal fine viene istituito un Fondo Nazionale con una dotazione finanziaria annua.

Occorre richiamare, altresì, che l'uso della lingua materna davanti al giudice di pace e la difesa penale nella lingua materna vengono garantiti dal n. 3 dell'art. 9, che in riferimento al secondo profilo fa salvo il disposto di cui all'art. 109 del c.p.p. secondo il quale: "Davanti all'autorità giudiziaria avente competenza di primo grado o di appello su un territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta (80), il cittadino italiano che appartiene a questa minoranza è, a sua richiesta, interrogato o esaminato nella madrelingua e il verbale è redatto in tale lingua. Nella stessa lingua sono tradotti gli atti del procedimento a lui indirizzati successivamente alla sua richiesta. Restano salvi gli altri diritti stabiliti da leggi speciali e da convenzioni internazionali. Le disposizioni di questo articolo si osservano a pena di nullità".

Ne resta esclusa la volontaria giurisdizione dove l'uso della lingua materna riveste particolare rilievo.

L'art. 11 della Legge si preoccupa poi di consentire (81) agli appartenenti alle comunità etnico-linguistiche di riappropriarsi dei nomi e dei cognomi che erano loro propri e che per pregiudizio verso la diversità o inconscia tendenza all'omogeneità sono stati tradotti, modificati e storpiati.

L'espressione del proprio nome nella lingua materna è riconducibile ad un profilo di identità culturale. La norma si scontra con l'osservazione che molti nomi che hanno forma e grafica italiana sono diventati ormai irriconoscibili così come con la circostanza che la forza che si riconnette al paradigma del riconoscimento non può armonizzarsi con il ripristino erga omnes dell'uso del nome originario. E' il caso di alcuni cognomi tipicamente albanesi (82). Si ricordi che in Italia gli albanesi "storici" (83), Arbereshe, costituiscono, insieme con i gruppi Rom, la più numerosa "minoranza diffusa" (84). Personaggi come Francesco Crispi, Costantino Mortati, il padre di Antonio Gramsci, il cui nome è di per sé stesso eloquente, erano di origine albanese.

L'ultima notazione concerne la norma espressa dal n. 1 dell'art. 19 che ha ad oggetto la promozione dello sviluppo delle lingue e delle culture minoritarie diffuse all'estero; la portata e il profilo operativo della norma in oggetto appaiono ridimensionati dal contenuto del n. 2 dell'art. 19, il cui disposto recita "il Ministero degli affari esteri promuove le opportune intese con altri stati al fine di assicurare condizioni favorevoli per le comunità di lingua italiana presenti sul loro territorio e di diffondere all'estero la cultura e la lingua italiana". Non sfugge che in questo caso l'opera di salvaguardia e valorizzazione concerne il patrimonio linguistico italiano complessivamente e unitariamente inteso e viene normativamente sancito in una legge la cui rubrica reca "Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche".

2.4 L'esclusione dalla tutela linguistica dei gruppi Rom e Sinti in una società multiculturale

Si intende adesso riprendere il tema nucleare accennato all'inizio, relativo all'omissione di "popolazioni" non ammesse alla tutela (art. 2); l'unica certa, e fuori da qualsiasi contestazione, è quella concernente i gruppi Rom e Sinti. La legge 482/1999 prevede la tutela delle minoranze linguistiche storiche, vale a dire di quei gruppi che sono stanziati sul territorio nazionale da tempo sufficiente ad essere considerati propri del luogo. Nonostante la penetrazione di tali gruppi in Italia sia assai risalente e la consistenza numerica considerevole (che li pone ai primi posti tra le popolazioni allofone), essi sono stati esclusi dalla tutela linguistica. Il romanés non è stato considerato "lingua storica". Il romanés costituisce il nucleo linguistico comune alla maggior parte dei gruppi Rom e Sinti, anche se nel tempo esso si è molto diversificato e assortito in ragione dei prestiti mutuati da altri ambiti linguistici e delle influenze più disparate (85).

Occorre evidenziare che la tutela rilevante ai fini della trattazione è la tutela linguistica, non privo di significatività è un richiamo concernente la stesura dell'art. 6 Costituzione cui all'inizio dell'analisi non si era posto riferimento: i Costituenti si opposero all'inserimento nel testo definitivo della norma dell'aggettivo "etniche" che originariamente figurava nell'emendamento Codignola, si può supporre che tale scelta sia stata determinata dall'intento di "attenuare in qualche misura la portata dell'affermazione di principio e precisamente di limitare la tutela minoritaria al suo aspetto linguistico-culturale onde isolarlo da quello politico-nazionale, forse ritenuto (anche se in verità non esattamente) più strettamente ricollegabile al termine 'etnico'" (86).

Probabilmente si è determinato un fenomeno di eterogenesi dei fini poiché tale orientamento avrebbe sicuramente agevolato se non addirittura consentito l'attuazione dell'art. 6 Cost. attraverso l'estromissione dal novero dei criteri di individuazione del soggetto destinatario della tutela di quelli implicati dall'ingombrante e non 'universale' aggettivo "etnico" (87). Infatti è curioso che la normativa con la quale si è inteso dare attuazione all'art. 6 Cost. rappresenti un passo indietro rispetto alle scelte e ai principi sottostanti alla disposizione costituzionale: una norma nata e formulata per consentire un sistema di tutela linguistica incentrata su un principio pluralistico ha finito per essere attuata, dopo un cinquantennio, da una legge di tutt'altro segno. Per utilizzare le categorie di Pizzorusso, la L. 482/1999 non soltanto riconduce la tutela linguistica minoritaria all'aspetto politico-nazionale ma reintroduce distinzioni che rimandano a quanto si lega al termine 'etnico'. A questo proposito sembra però che il criterio della "storia", inutilmente invocato, non valga per alcune 'etnie'. L'aggettivo "storiche", infatti, fa riferimento al presupposto del radicamento sul territorio ma sembrano fare eccezione quei gruppi di Rom e Sinti "storici", che si sono stabiliti in Italia a partire dal XV secolo, la maggior parte dei quali oggi sono cittadini italiani (88), le stime parlano di 80.000\120.000 unità di Sinti e di Rom (89).

Anche e proprio alla luce della cornice costituzionale dell'art. 6, la scelta del legislatore del 1999 di escludere dalla tutela linguistica i gruppi Rom e Sinti si inquadra come una grave mancanza.

In generale la garanzia che i Rom possano effettivamente godere di alcuni diritti che facilitano il mantenimento di proprie espressioni culturali, nel nostro e in molti altri paesi europei, manca non soltanto perché essi non godono di un vero e proprio riconoscimento come minoranza culturale, dunque un riconoscimento a livello collettivo, ma anche perché di fatto difficilmente godono a livello individuale dei diritti che formalmente spettano loro in relazione alla personale condizione giuridica: siano essi cittadini, stranieri, profughi o apolidi.

Da un punto di vista strettamente giuridico, come abbiamo visto, la definizione di un gruppo come minoranza è tutt'altro che semplice. Il caso di Rom e Sinti è in tal senso esemplare. Essi vengono di fatto considerati una minoranza e ad essi viene riconosciuta tutela dal diritto europeo (90) (si vedrà in seguito anche per ciò che concerne specificamente la tutela linguistica); invece, come nel caso dell'ordinamento giuridico italiano, non rientrano esplicitamente tra le minoranze da tutelare nel diritto nazionale, per essere poi oggetto di esplicita tutela come "minoranza culturale" a livello di singole realtà geografiche, mediante leggi regionali emanate ad hoc. L'inclusione nella legge 482/1999 avrebbe potuto essere un'occasione per sancire un'esplicita tutela a livello nazionale. A livello nazionale la normativa riguardante il riconoscimento e la tutela delle minoranze Rom e Sinti si riduce essenzialmente ad alcune circolari del Ministero dell'Interno (91) e a due circolari del Ministero della Pubblica Istruzione (92).

E' evidente poi che la questione, nondimeno negli ultimi anni e mesi, è stata trattata a livello istituzionale come un problema sociale e di sicurezza e non nei termini del riconoscimento giuridico di un gruppo culturale minoritario. La reale condizione nella quale si trovano Rom e Sinti in Italia non può che dipendere dalle scelte politiche adottate dalle singole realtà locali, dalla discrezionalità e dalla conseguente politica messa in atto nei vari contesti, nondimeno dalle amministrazioni, dagli "operatori del diritto", in senso ampio, dai soggetti privati (93). E'certo che se ciò può comportare consistenti traguardi e significative differenziazioni sul piano delle politiche scolastiche e abitative, tuttavia, anche l'orientamento più lungimirante di un'amministrazione locale non può includere, sul piano del riconoscimento formale e degli strumenti, una compiuta tutela linguistica attuata per via generale e astratta.

Il debole riconoscimento giuridico della minoranza Rom, riguardo al quale la normativa europea e quella locale (94) suppliscono al silenzio della legislazione nazionale, è senza dubbio spia delle difficoltà che incontrano i sistemi giuridici nell'affrontare fenomeni che non possono essere considerati e irrigiditi entro i confini "nazionali" degli stati e soprattutto, questioni legate ai diritti collettivi (in questo caso sussiste un collegamento tra il mancato riconoscimento di alcuni diritti individuali e il mancato riconoscimento di situazioni giuridiche collettive).

I Rom, infine, raramente, in passato hanno rivendicato i propri diritti e la propria identità attraverso canali istituzionali; soltanto recentemente essi hanno cominciato a rendere pubbliche le loro richieste. In Italia il Comitato "Rom e Sinti Insieme" ha redatto un documento (29 marzo 2008) che sintetizza le principali rivendicazioni di tali gruppi e lo ha inviato a tutti i candidati premier per le elezioni politiche del 2008. Il documento è incentrato in particolare su sette questioni, è importante rilevare che esse riguardano essenzialmente la parità di trattamento e il riconoscimento culturale e giuridico. In particolare si fa riferimento al riconoscimento di status di minoranza, proponendo la promulgazione della proposta di legge n. 2858: "Modifiche alla legge 15 dicembre 1999, n. 482, per l'estensione delle disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche alle minoranze dei Rom e dei Sinti", presentata alla Camera dei deputati il 2 luglio 2007. Durante l'iter parlamentare della legge, infatti, il riferimento alle minoranze rom e sinte fu stralciato; secondo il testo della proposta di legge n. 2858 ciò avvenne "sia a causa di quel pregiudizio culturale che storicamente accompagna tali gruppi minoritari", "sia a causa di un'errata interpretazione dei principi della 'Carta europea delle lingue regionali o minoritarie'". Il documento citato infatti, nella parte I, articolo I, lettera c), riconosce le "lingue non territoriali" ovvero le lingue che "sebbene usate tradizionalmente sul territorio dello stato non possono essere ricollegate a un'area geografica particolare di quest'ultimo". La proposta di legge in oggetto, facendo proprie le risoluzioni e le raccomandazioni adottate a livello comunitario, individua le modificazioni alla legge 1999, n. 482, necessarie ad estendere alle minoranze rom e sinte la tutela linguistica prevista per le popolazioni menzionate nell'art. 2; essa, oltre ad inserire Rom e Sinti nell'elenco delle minoranze linguistiche tutelate dalla legge del'99, fissa un comma aggiuntivo all'art. 1 della L. 482/1999 nel quale si dispone che "la Repubblica promuove lo sviluppo delle lingue e delle culture diffuse in aree del Paese in cui la presenza minoritaria è tale da non poter essere inquadrata nell'ambito della disciplina prevista dalla legge". Quest'ultima norma recepisce dunque il richiamato principio della "Carta europea delle lingue regionali o minoritarie". Attualmente i Rom e i Sinti che vivono in Italia sono circa 150 mila; il riconoscimento dello status di minoranze linguistiche (già adottato da paesi europei come Austria, Svezia, Spagna, Ungheria) costituirebbe un atto essenziale per una compiuta interazione culturale.

Il riconoscimento alle popolazioni Rom e Sinti dello status di minoranze culturali e linguistiche rappresenterebbe, infatti, il presupposto giuridico per avviare una politica organica nei confronti di tali gruppi (95), che si affidi ad una regolamentazione legislativa ordinaria e cessi di sussistere esclusivamente tra gli obiettivi delle politiche legate alla sicurezza e all'ordine pubblico. E' evidente che la priorità assoluta di tali esigenze, nel bilanciamento dei diritti e degli interessi in gioco, impedisce l'effettiva apertura dell'ordinamento in senso multiculturale.

3.1 La tutela dell'esercizio della libertà religiosa nella realtà multiculturale dell'ordinamento giuridico italiano. Rilievi introduttivi

Il riconoscimento dell'appartenenza ad una cultura diversa da quella contingentemente maggioritaria e la modulazione del diritto in ragione dell'identità culturale rappresentano presupposti fondamentali per un ordinamento giuridico che consideri la complessità e la diversità come un valore e non come un fenomeno da arginare.

Un territorio nevralgico nella dinamica identitaria individuale e collettiva è costituito dalla religione (96), più specificamente dall'esercizio della libertà religiosa (97), o più latamente dalla possibilità di perseguire un'esistenza fondata su una specifica idea di bene o su valori peculiari.

E'necessario fin da ora evidenziare che il diritto di libertà religiosa come ogni altro diritto di libertà, oltre a caratterizzarsi per l'inviolabilità, si caratterizza per la strumentalità (98). Piero Calamandrei sostiene:

"I diritti di libertà si presentano come mezzo per rendere operosa e feconda la vita politica della comunità e per far sì che tutti i cittadini possano liberamente contribuire con le migliori forze individuali alla formazione e al perenne rinnovellarsi di quella volontà comune che, nella democrazia, è l'unico titolo di legittimazione dell'autorità. [...] In un ordinamento giuridico democratico le libertà individuali, anche se non fossero reclamate dai singoli a difesa dell'interesse privato, apparirebbero come primordiale esigenza dell'interesse pubblico: perché di esse la democrazia ha bisogno per respirare, ossia per vivere" (99).

In tale concezione la libertà non viene diminuita, bensì rafforzata e mantenuta nel suo valore strumentale alla piena partecipazione dell'individuo alla vita della società, partecipazione la cui garanzia costituisce il contenuto del pubblico interesse. Ravà afferma che mediante i diritti di libertà viene favorito lo sviluppo della persona umana e che, dunque, la tutela della libertà religiosa non può vedersi in prima istanza come tutela della religione per ciò che essa vale per gli individui, ma come tutela di uno dei mezzi mediante i quali è favorito lo sviluppo della persona umana (100).

La funzionalità del diritto di libertà religiosa, rilevata dalle autorevoli voci citate, può essere estesa al contesto di una società multiculturale: in tal modo risulta immediata l'osservazione secondo cui quella che Cappelletti chiama l'ultra-individualità dei diritti fondamentali, e nella specie, del diritto di libertà religiosa, non sembra valere ove i titolari di tali diritti siano individui non cittadini e appartenenti a gruppi religiosi minoritari (101). La strumentalità del diritto di libertà religiosa relativamente alla piena partecipazione alla vita della società, infatti, si svuota di senso, ove i soggetti giuridici non abbiano lo status di cittadini, e, dunque, non siano soggetti della vita politica. Il nucleo del valore strumentale del diritto di libertà religiosa, nel principale senso che esso costituisce uno dei mezzi dello sviluppo della persona umana, invece, deve essere riferito a tutti gli individui, e, conseguentemente, ai gruppi cui essi appartengono. L'ultra-individualità del diritto di libertà religiosa, infatti, deve essere concepita principalmente con riferimento alle formazioni sociali intermedie, nelle quali sono ricomprese le confessioni religiose minoritarie.

Occorre verificare se rispetto alla tutela della libertà religiosa dei gruppi minoritari il nostro ordinamento proponga risposte di carattere multiculturale.

Si è visto come, per ciò che riguarda la tutela della diversità linguistica, il paradigma teorico di riferimento sia la parziale rispondenza ad un'istanza pluralistica, non dunque a moduli giuridico-politici compiutamente discendenti dalla recezione di postulati multiculturali. La valorizzazione dei distinti patrimoni linguistici facenti capo ai gruppi sociali di riferimento si incastona nella salvaguardia dell'unitarietà piuttosto che nella promozione de iure e de facto della diversità linguistica. Si è rilevato come il discrimen della "storia" giochi un ruolo inclusivo/esclusivo nella tutela giuridica dei gruppi linguistici minoritari. Ciò conferma una visione sclerotica dell'identità culturale individuale e collettiva in cui il fattore "storico" da naturalmente contingente diviene permeante e definitivo, ma - dato ancor più incisivo - occorre osservare come il criterio "storico" si traduca anche in un efficace indicatore del fatto che dell'ambizioso processo di costruzione delle identità culturali spesso si fanno indebitamente carico le istituzioni; alla rivendicazione di una determinata tradizione, infatti, non di rado fanno capo diritti e privilegi.

L'introduzione del tema dei presupposti di rispondenza del modello di tutela della libertà religiosa ad un paradigma multiculturale evoca una considerazione che sembra prospettare un quadro teorico estraneo ad un'istanza di compiuta ed effettiva tutela delle minoranze 'volontarie' e, dunque, distante (almeno concettualmente) da un approdo sul piano delle soluzioni del diritto. E' evidente che la conformità di un sistema al paradigma multiculturale sia esclusa laddove in ambito politico e giuridico si recida il collegamento con le discipline delle scienze sociali che consentono di mettere a fuoco il concetto di cultura e di delineare la differenza che intercorre tra la sfera religiosa e la sfera culturale nel suo complesso. Prima di esporre la considerazione richiamata, è necessario svolgere alcuni rilievi preliminari. A tal proposito occorre rilevare che in taluni casi l'appartenenza religiosa non è neutralmente considerata come un ambito nucleare dell'identità collettiva, ma, piuttosto, viene finalisticamente "sovraconnotata" in senso culturale. Tale atteggiamento, infatti, risulta strumentale alla culturalizzazione delle tensioni sociali che possono derivare dalla convivenza multiculturale e, come si è più volte rilevato, alla teorizzazione del 'conflitto tra civiltà ' (102). Si aggiunga poi che l'appartenenza confessionale rappresenta il terreno nel quale si misurano i primi (non fluidi) tentativi degli ordinamenti democratici di tutelare e promuovere la diversità per via normativa. E' a questo proposito che diviene significativa l'osservazione secondo cui "'nell'Italia del post-2001' (103) il tema del multiculturalismo si esaurisce quasi totalmente nell'appartenenza religiosa e ancor più specificamente nell'appartenenza all'Islam" (104).

Può ripetersi il discorso fatto a proposito dei gruppi Rom e Sinti per ciò che concerne la tutela linguistica; anche in questo caso la tutela della minoranza religiosa musulmana poteva essere il primo passo per una politica tesa a concepire il rapporto con l'Islam nei termini della convivenza e dell'interazione multiculturale, non attraverso la categoria dello 'scontro di civiltà ' o ancora attraverso le categorie della sicurezza e dell'ordine pubblico (105).

Nel caso dell'Islam si ritiene che un modello di tutela della libertà religiosa che modifichi in senso inclusivo la capacità ordinativa del diritto e della politica non possa essere attuato. Sembra plausibile che le potenzialità integrative dell'ordinamento giuridico italiano si arrestino di fronte all'Islam. L'ultra-individualità del diritto di libertà religiosa, con riferimento alla confessione musulmana, subisce una pesante compressione. Identificare l'appartenenza religiosa musulmana con la dimensione di rilevanza del multiculturalismo in Italia significa, però, respingere le problematiche che il fenomeno, nel suo complesso, comporta. In una logica compiutamente multiculturale ciò che viene in rilievo non è la cultura o la religione ridotta ad ipostasi teorica. In primo piano vi sono gli individui che appartengono ad una cultura altra o che professano una religione diversa dalla cattolica, laddove, come si è detto, la cultura venga intesa come un orizzonte nel quale la persona può esercitare opzioni di senso e la religione sia concepita come un territorio nevralgico della dinamica identitaria individuale e collettiva. Ma si aggiunga poi che nella stragrande maggioranza dei casi tali individui si spostano dai paesi islamici e migrano in Italia per motivi legati alla sopravvivenza e al sostentamento economico.

A tal proposito, Nicola Fiorita, condividendo il punto di vista di Aime, si orienta verso la sostanziale identificazione del "multiculturalismo italiano" con l'elemento religioso. Fiorita sostiene che "l'emergere ininterrotto di esigenze identitarie e il contestuale sub-appalto di tali esigenze all'ambito della tutela della libertà religiosa (106) pare germogliare dall'incapacità degli ordinamenti giuridici 'occidentali' di realizzare uno dei principi-cardine del modello democratico" (107). Il principio fondamentale cui l'autore fa riferimento è costituito dalla rappresentanza e dalla tutela delle minoranze.

In contiguità con questo pensiero occorre evidenziare che due milioni di moderni meteci che vivono nella nostra società, privi di rappresentanza sul piano politico e sociale, si affidano in larga parte all'Islam e "si identificano con le rivendicazioni identitarie che dall'Islam provengono per uscire dalla marginalità, dall'invisibilità giuridica e sociale in cui sono confinati" (108). E' necessario, tuttavia, rilevare che, se l'appartenenza religiosa viene ribadita dai migranti nell'articolazione del rapporto con la società di insediamento (109), è altresì evidente che spesso essi si distanziano dal monolitismo che talvolta nei loro paesi d'origine contraddistingue l'imposizione di certe regole di condotta ascrivibili alla sfera religiosa.

A fondamento della tutela di diritti collettivi che si riconducono al profilo identitario e culturale, come si è più volte evidenziato, non deve porsi una concezione ipostatizzante o sclerotica delle culture e correlativamente dunque delle identità culturali (110).

Nell'ambito della tutela delle minoranze religiose, il rapporto con l'Islam, costituisce il terreno nel quale con maggiore evidenza risulta possibile proseguire la trattazione alla luce della linea direttrice scelta: la verifica dell'effettiva portata e applicazione del principio di eguaglianza sostanziale.

Si anticipa infatti che, differentemente dalla regolamentazione giuridica della tutela delle minoranze linguistiche, in prevalenza affidata ad atti normativi unilaterali statali o regionali, la regolamentazione giuridica della tutela delle minoranze religiose ha una base contrattualistica che vede il suo principale strumento nella stipulazione di intese tra lo Stato italiano e le confessioni religiose di riferimento. Ad oggi l'ordinamento giuridico italiano ha concluso otto intese (valdesi, avventisti, assemblee di Dio, ebrei, battisti, luterani, testimoni di Geova, buddhisti), ma non ha ancora stipulato una intesa con l'Islam, benché esso sia la seconda religione più diffusa nel territorio nazionale.

La centralità del principio di eguaglianza sostanziale, in una società pluralistica o multiculturale, risulta connaturata alla tutela della libertà religiosa intesa come situazione giuridica soggettiva ascrivibile al gruppo oltreché al singolo individuo. Non è un caso, poi, che "il riconoscimento dell'esistenza di tradizioni, usi, costumi, valori, regole peculiari non riconducibili nell'alveo della legge generale avviene storicamente proprio con riferimento alle religioni" (111). Colaianni sostiene:

"La libertà di religione, proprio perché libertà originaria, è stata anche l'antesignana della democrazia nella protezione delle minoranze culturali, allora identificantisi con quelle degli eretici, scismatici o, in altre situazioni, appartenenti alla Chiesa romana; ha costituito il primo diritto culturale, 'matrice ed esempio' della libertà di manifestazione del pensiero, stimolo e modello per l'introduzione di diritti culturali ulteriori, base positiva dello stesso liberalismo politico" (112).

E' proprio con riguardo alle confessioni religiose che si afferma l'idea di una promozione dell'individuo in quanto parte di un gruppo. Prestando riferimento alla letteratura ecclesiasticista ed in generale al diritto ecclesiastico, si ha l'impressione che almeno su un piano teorico non si discuta sull'an del riconoscimento giuridico dell'identità riconducibile all'appartenenza religiosa, in linea eventuale, la contesa verte piuttosto sul quomodo.

L'identità religiosa, infatti, è oggetto di rivendicazione da parte del gruppo maggioritario oltreché del gruppo minoritario, la circostanza che la salvaguardia dell'identità religiosa e culturale si coniughi, in entrambi i casi, a fattori di altra natura si traduce spesso in un'asimmetria di trattamento (113), in cui si ripalesa l'attaccamento ad una visione tradizionale del principio di eguaglianza. Nel nostro ordinamento giuridico l'identità religiosa maggioritaria nella quasi totalità dei casi non è disgiunta dallo status di cittadinanza e dunque dall'elemento territoriale, nel caso dell'Islam, invece, l'identità collettiva minoritaria sconta in primo luogo la propria capacità di sussistere come de-territorializzata (114). Le dinamiche ascrivibili al fenomeno della globalizzazione hanno mandato in frantumi la soluzione westfaliana del fenomeno delle differenze religiose (e culturali).

3.2 Il baricentro della tutela dell'esercizio del diritto di libertà religiosa. Refrattarietà dell'ordinamento all'attuazione di un'idea di pluralismo avanzato

E' proprio con riferimento all'elemento religioso che il nostro ordinamento abbandona per la prima volta la tradizionale concezione liberale della neutralizzazione delle differenze e opta per una politica di tutt'altro segno. A tal proposito, ancora una volta, ha un rilievo imprescindibile non soltanto l'art. 8 della Costituzione ma anche quella che è possibile definire come una vera e propria Grundnorm dell'ordinamento giuridico italiano: la norma espressa dall'art. 2 Cost.; essa raccorda e coniuga la concezione individualista propria del liberalismo e a lungo prevalente nel costituzionalismo 'occidentale' e, come si è rilevato in precedenza, la tendenza all'apertura ai diritti collettivi propria del nuovo assetto socio-politico globale e multiculturale. L'idea di promuovere il pieno sviluppo della persona anche all'interno delle formazioni sociali trova una significativa specificazione nel rapporto che intercorre tra l'art. 2 Cost. e l'art. 8 Cost., alla luce del quale è possibile considerare le confessioni religiose professabili come una parte non affatto marginale delle "formazioni" sociali di cui all'art. 2 Cost. Come si è evidenziato, ineliminabile diviene anche la relazione tra l'art. 8 Cost. e l'art. 3 Cost. per ciò che concerne in particolare, il suo secondo comma: il diritto all'eguaglianza di tutti i cittadini non può trovare ostacoli nella diversità di religione. Alla luce delle tematiche affrontate in questo lavoro, lo si ribadisce, l'indice di effettività del principio di eguaglianza diviene la cartina tornasole della rispondenza del sistema di tutela dei gruppi minoritari ai postulati di una politica multiculturale.

Soffermiamoci adesso alla norma che costituisce il baricentro della tutela del diritto di libertà di religione: l'art. 8 Costituzione. Differentemente da altre norme volte alla regolamentazione del fenomeno religioso, l'art. 8 Cost. è stata tra le norme meno dibattute in sede di lavori preparatori, giungendo adesso, invece, a costituire l'asse attorno al quale ruota la politica ecclesiastica italiana e, per ciò stesso, norma tra le più scandagliate e discusse dalla dottrina. Da essa discendono naturalmente tre corollari: il principio dell'eguale libertà tra confessioni religiose, la libertà delle confessioni religiose di organizzarsi secondo propri statuti, l'individuazione dell'intesa quale strumento naturale per la regolamentazione dei rapporti tra Stato e confessioni religiose. L'art. 8 Cost. consacra un principio estremamente innovativo rispetto ai fondamenti teorici che sottostavano all'assetto di uno stato sostanzialmente monoconfessionale (115) e rigidamente liberale nel promuovere una concezione della laicità "negativa", intesa come non interferenza dello Stato nell'esercizio del diritto di libertà di religione. La norma precorreva l'assetto politico-sociale che nei fatti caratterizzava l'Italia al momento dell'entrata in vigore del testo costituzionale. Essa introduceva nel nostro ordinamento giuridico l'idea di un pluralismo forte, basato sulla valorizzazione delle differenti identità religiose a fronte di una scarsa attenzione verso le esigue minoranze religiose presenti sul territorio e dell'assenza di discipline speciali attraverso cui regolamentare la tutela dei diversi gruppi. Anche in questo caso, tuttavia, un ritardo attuativo di enorme portata, segna il destino di tale norma costituzionale: il tenore innovativo che contraddistingueva la stessa idea di pluralismo promossa dal Costituente restò un feticcio per quasi quarant'anni poiché fino al 1984 rimase immutata la legislazione ordinaria precostituzionale essenzialmente costituita dalla normativa di derivazione pattizia, nella specie dalla L. 810/1929 nella parte in cui essa dava esecuzione al Trattato lateranense dell'11 febbraio 1929. Fino alla revisione concordataria e dunque fino all'entrata in vigore della L. 121/1985 che ha dato esecuzione all'Accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984, rimanevano inalterati i privilegi della Chiesa cattolica e la regolamentazione delle confessioni diverse dalla cattolica restava affidata alla legge sui culti ammessi. Seguiranno, poi le Leggi n. 449/1984, n. 516/1988, n. 517/1988, n. 101/1989, n. 409/1993, n. 116/1995, n. 520/1995, n. 638/1996 corrispondenti alle leggi di approvazione delle intese concluse con valdesi, avventisti, pentecostali, ebrei, battisti e luterani. Mentre le intese concluse con i Testimoni di Geova e i buddhisti stipulate il 20 marzo 2000 non sono state ancora trasfuse nelle corrispondenti leggi di approvazione (116).

Non si è inteso fare luogo ad una rapida ricognizione delle fonti di carattere "primario" del diritto ecclesiastico italiano, ma si è fatto luogo all'introduzione degli ultimi riferimenti per evidenziare un dato: il contrasto tra i principi sanciti dal dettato costituzionale in materia di esercizio della libertà religiosa e la protratta impermeabilità della legislazione ordinaria precostituzionale rispetto ad esso. Tale circostanza, oltre a concretizzarsi nella dilazione attuativa dell'art. 8 Cost., si pone alla base del ritardo con cui l'ordinamento è giunto a disciplinare il fenomeno religioso mediante il diritto speciale, rinunciando così a tradurre nella predisposizione di uno specifico sistema di tutela delle minoranze religiose l'idea di pluralismo avanzato sancita in Costituzione. Il sistema delle intese, infatti, si è sviluppato un quarantennio dopo l'entrata in vigore dell'art. 8. 3 Cost. e senza un sistema di regole volto a disciplinare il procedimento di formazione del diritto pattizio tra stato e confessioni religiose. Come si vedrà in seguito, l'assenza di una legge organica in materia di libertà religiosa, unita al fatto che la negoziazione dello stato con la Chiesa cattolica abbia finito per assumere la valenza di archetipo, ha determinato una 'distorsione' del diritto speciale. Le intese con le confessioni diverse dalla cattolica sono state stipulate sulla traccia segnata dalla revisione del concordato lateranense, e dunque, hanno perso l'originaria funzione di tutela delle identità religiose. A questa circostanza storica può ricondursi anche l'attuale refrattarietà dell'ordinamento italiano a conformarsi ad una logica multiculturale quale è quella richiesta dal riconoscimento giuridico della religione musulmana.

La scelta del Costituente cristallizzata nell'art. 8 è infatti quella di riconoscere l'esistenza di identità religiose diverse cui si riconnette la necessità di predisporre trattamenti specifici che rischiano di rimanere inattuati ove non si dia corso all'introduzione di apposite deroghe nella legislazione generale.

3.3 "Un pluralismo a corrente alternata". La portata sperequativa dello strumento delle intese, le ripercussioni sul principio di eguaglianza dell'assenza di una legge organica in materia di esercizio del diritto di libertà religiosa

Lo strumento con cui si è stabilito di garantire la promozione e la salvaguardia del pluralismo religioso è quello delle intese. Si approda, dunque, al riconoscimento giuridico delle identità religiose minoritarie, ma ciò avviene per il tramite di un filtro che individua la portata e i destinatari del processo di riconoscimento e degli effetti giuridici che ad esso si riconducono. Il diritto derogatorio viene a configurarsi come un diritto speciale "contrattato" dalle autorità esponenziali della confessione religiosa e dalle autorità statali competenti. E' dunque nella negoziazione tra rappresentanze confessionali e autorità dello stato che si disegna il raggio di apertura del sistema alla diversità religiosa e "si contabilizzano" (117) le deroghe.

Proprio attorno alla non univoca determinazione dei presupposti che sottostanno alla stipulazione di un'intesa ruotano alcune problematiche.

Uno dei problemi principali è sicuramente costituito dalla definizione della portata inclusiva che il riconoscimento di un'identità religiosa può comportare. Esso implica la tutela del sentimento religioso e dell'appartenenza confessionale, ma tradizionalmente si obietta che se il riconoscimento totale delle richieste confessionali assicura il pieno rispetto delle identità, parimenti esso potrebbe comportare l'introduzione di pratiche che contrastano con i principi fondamentali dell'ordinamento di accoglienza. In merito a quest'ultima questione, in realtà, se occorre evitare grossolane assimilazioni e omogeneizzazioni arbitrarie nel campo delle pratiche religiose, non vi è dubbio che il limite ultimo tracciato dall'ordinamento è rappresentato dal rispetto dei diritti umani (118).

Un problema di non agevole soluzione è invece rappresentato dai criteri con cui si sceglie di far luogo o di non addivenire al riconoscimento di un'identità religiosa. Il corollario di questa tematica è costituito dalle implicazioni che il processo di autoqualificazione della rappresentanza confessionale comporta, la maggiore probabilità di accedere all'intesa potrebbe condurre ad una declinazione 'finalisticamente orientata' della propria identità religiosa. Il rischio principale è che le istituzioni politiche assecondino implicitamente questa tendenza, sanzionando, nella selezione delle confessioni religiose con cui stipulare l'intesa, l'anonimato giuridico dei gruppi identitari meno suscettibili di essere assimilati al sistema, dunque potenzialmente conflittuali. Inutile dire che i fattori ostativi alla stipulazione di un'intesa con la confessione islamica sono da rintracciarsi nell'ambito di questo ordine di motivazioni e non nell'assenza di una rappresentanza unitaria. Se si è detto che le identità non sono sclerotiche, fisse, ipostatizzabili e che di ciò deve tenere conto l'ordinamento giuridico che intende tutelare tali identità, occorre rilevare che sussiste un varco concettuale tra identità "fluide", "dinamiche", e identità "diluite". Una compiuta tutela di situazioni giuridiche collettive riconducibili all'identità religiosa o più ampiamente all'identità culturale implica una netta emancipazione dal paradigma assimilazionistico dello stato liberale.

Come sottolinea efficacemente Fiorita, il potere politico si è rivelato estremamente carente, al punto che una parte della dottrina ecclesiasticista ha teorizzato e sostenuto l'attribuzione ai giudici del compito di scegliere i soggetti religiosi che intendono addivenire alla conclusione di un'intesa con lo stato italiano (119). Posizione questa, che mette in primo piano la maggiore capacità dei giudici di tutelare più efficacemente le minoranze religiose presenti sul territorio italiano e di assecondare la naturale dinamicità delle culture mediante l'elaborazione di rimedi che tengano conto delle tante sfaccettature di ogni caso concreto (120). Si rileva una stretta contiguità tra la suddetta concezione ed un profilo di diagnosi socio-politica a più ampio spettro cui non sfugge che l'unica forma di proceduralizzazione dei conflitti presidiata da garanzie giuridiche, attualmente funzionante nel nostro ordinamento, è costituita dalla giurisdizionalizzazione del conflitto sociale (121). L'idea nucleare che sottostà alla teoria del 'riconoscimento giurisprudenziale' dei gruppi religiosi muove dalla circostanza che le minoranze religiose potenzialmente più conflittuali non riuscirebbero ad ottenere il riconoscimento delle proprie esigenze identitarie ove esse siano formulate in maniera globale, mentre godrebbero di maggiori possibilità qualora esse si presentino singolarmente ad un organo giudiziario, in linea paradigmatica almeno sulla base del riferimento ad un riconoscimento giuridico precedentemente effettuato e, dunque, alla luce della sussistenza dei medesimi requisiti.

Questa considerazione pone l'urgenza di una legge organica in materia di libertà religiosa e dunque di una tutela generale e non frammentaria ed episodica che potrebbe aversi attraverso la giurisdizionalizzazione dell'esercizio di un diritto fondamentale quale quello della libertà di religione (122).

Per tre volte in Parlamento è stato presentato un progetto di legge sulla libertà religiosa, ma esso non è mai giunto a definitiva approvazione (123). Una legge organica in materia di libertà religiosa produrrebbe una razionalizzazione del sistema, alle diverse confessioni religiose sarebbero riconosciuti diritti e garanzie di ordine generale. Il raggio di apertura del sistema alla diversità religiosa non sarebbe modulato, di volta in volta, nel contenuto delle singole intese ma verrebbe definito una volta per tutte e avrebbe la stessa ampiezza per tutti i gruppi religiosi minoritari; in tal modo l'ordinamento giungerebbe ad assicurare una tutela piena e indifferenziata del pluralismo religioso. Si aggiunga poi che una normativa applicabile in linea generale a tutte le confessioni religiose minoritarie agevolerebbe la deducibilità in giudizio delle violazioni relative all'esercizio del diritto di libertà religiosa, in particolare per ciò che concerne il profilo della libertà di culto (124).

Per quanto attiene all'elemento della unitarietà della rappresentanza religiosa, citato a proposito della confessione islamica, non vi è univocità sul fatto che esso debba considerarsi un valore per i medesimi assunti che sovrintendono alla tutela delle identità religiose ma anche alla salvaguardia delle identità minoritarie e correlativamente delle istanze minoritarie. Infatti, tralasciando l'iter che afferisce alla formazione della rappresentanza e ponendo esclusivo riferimento in luogo di una compiuta trattazione alla possibilità che vi siano più rappresentanze di un'unica identità religiosa portatrici di diverse strategie di integrazione nel medesimo ambito territoriale, occorre evidenziare che la contrattazione di un'intesa con un'unica rappresentanza conduce inevitabilmente alla recezione dei valori maggioritari di quel determinato gruppo culturale e religioso, a detrimento di chi in quel determinato universo costituisce a sua volta la minoranza (125).

Da questi rilievi si comprende come lo strumento dell'intesa abbia un certo interesse teorico ma sia, in primis alla luce dell'assenza di una legge organica sul diritto di libertà religiosa, uno strumento non esaustivo che, ad un primo e sostanziale livello, esplica la sua portata potenzialmente sperequativa nella determinazione dei soggetti religiosi da ammettere all'intesa. Il mancato riconoscimento giuridico di una confessione religiosa produce vuoti macroscopici nella tutela delle minoranze religiose. La selezione dei soggetti religiosi da ammettere alla conclusione di un accordo con l'ordinamento giuridico italiano deve considerarsi l'ambito del sistema delle intese che maggiormente rileva anche in relazione alla problematica identitaria. Riconoscere giuridicamente un'identità religiosa, infatti, costituisce la premessa preliminare ed ineliminabile di qualsiasi ricognizione più profonda delle peculiarità culturali di un gruppo e dunque di una tutela collettiva maggiormente inclusiva e più avanzata.

La mancata stipulazione di un'intesa con la confessione islamica evidentemente è emblematica del fatto che l'attribuzione di rilevanza alla specificità culturale può pericolosamente cristallizzarsi impedendo la messa in atto di una strategia di inte(g)razione (126) culturale che ponga l'accento sulla condivisione di valori comuni.

Sebbene prioritaria, la problematica concernente la selezione dei soggetti da ammettere all'intesa non costituisce l'unica lacuna che la prassi applicativa di tale strumento fa emergere; ad essa si unisce la mancanza di una regolamentazione espressa delle varie fasi in cui si articola il procedimento che porta all'emanazione della legge di approvazione. Tale osservazione si riconduce a due recenti avvenimenti inquadrabili attraverso la medesima chiave di lettura: la mancata predisposizione di garanzie per le confessioni religiose. Se, infatti, il silenzio mantenuto da parte statale dinanzi alla richiesta proveniente da alcune organizzazioni islamiche costituisce una violazione del principio di eguaglianza sostanziale, la mancata presentazione del disegno di legge volto ad introdurre nell'ordinamento statale le due intese formate con buddhisti e Testimoni di Geova costituisce un vero e proprio inadempimento. In assenza di una disciplina specifica, la dottrina ecclesiasticista inquadra la mancata emanazione delle relative leggi di approvazione rilevando l'impossibilità di configurare come un obbligo giuridico sia la conclusione dell'intesa che la fase relativa alla perfezione dell'accordo: in capo al Governo ricorre soltanto un obbligo politico e morale consistente nell'avvio di una trattativa con la confessione religiosa a fronte di una richiesta in tal senso da parte di quest'ultima. Inoltre, anche una volta raggiunta l'intesa, il Parlamento non è giuridicamente vincolato ad approvarla (127).

Occorre, altresì, porre riferimento alla circostanza che le bozze delle intese stipulande ricalcano le intese già concluse con altre confessione religiose, in particolare è necessario evidenziare il sostanziale allineamento della normativa bilaterale su standard di tutela vicini a quelli propri della Chiesa cattolica. Gli accordi sono comprensivi della regolamentazione di più materie (128). Il riferimento all'aspetto contenutistico permette di distinguere all'interno delle intese due gruppi di norme: un primo insieme di disposizioni che appaiono rispondenti alle esigenze specifiche delle singole confessioni e, dunque, volte a proteggere e valorizzare le identità di riferimento, ed un secondo gruppo di disposizioni che risulta essere svincolato da istanze di promozione della specificità delle identità religiose in oggetto e appare preposto ad estendere, in forma più o meno compiuta, la tutela prevista in favore della Chiesa cattolica.

La previsione di norme in tema di finanziamento, per esempio, tende a replicare uno status di privilegio. Tutte le intese seguono la stessa traccia, nonostante i caratteri profondamente diversi delle confessioni religiose con cui sono state concluse e hanno una rilevanza concreta come canale di finanziamento agevolato poiché consentono alle confessioni religiose di accedere al sistema di ripartizione dell'8 per mille dell'Irpef (129).

L'impoverimento dei contenuti e l'elemento della ripetitività offuscano considerevolmente le potenzialità dello strumento dell'intesa la cui struttura bilaterale (130) in concreto può consentire modifiche di contenuto nel rapporto tra le parti (131).

Il riferimento alla casistica minuta evidenzia come, tuttavia, il corso favorevole di una certa prassi non possa né astrattamente né concretamente colmare i limiti della normativa vigente.

Occorre verificare se, come si è detto al principio della trattazione, lo strumento dell'intesa costituisca realmente l'espressione dell'opzione pluralistica che l'ordinamento giuridico italiano ha formalmente esercitato in relazione al fenomeno religioso. La circostanza che la stipulazione di un accordo con una confessione religiosa sia subordinata al vaglio della discrezionalità del soggetto statale può determinare una tutela lacunosa e differenziata del pluralismo religioso. Come si è evidenziato in precedenza, la principale conseguenza è l'assenza di tutela per i soggetti non ammessi all'intesa. Si aggiunga poi che, se l'intesa costituisce il mezzo tramite il quale l'ordinamento statale addiviene al riconoscimento giuridico di una identità religiosa, a ciò sovrintendono istanze di valorizzazione, promozione e tutela della specificità di quella determinata identità religiosa. Per tale ragione la mancata stipulazione di un'intesa esclude assieme alla diretta conseguenza del riconoscimento giuridico, l'eco che nella società deriva dall'ammissione di una confessione religiosa ad un rapporto pattizio con l'ordinamento giuridico; l'assunto di riferimento diviene il rapporto di coincidenza tra specificità e disvalore. La specificità che non è suscettibile di essere giuridicamente garantita diviene anche un disvalore sociale. Le intese hanno acquistato, dunque, un valore simbolico, divenendo la prova della piena legittimazione giuridica e sociale di una comunità religiosa.

Per la concreta rilevanza assunta dal sistema delle intese, più intese vengono concluse e più si acuisce il grado di discriminazione cui sono sottoposte le confessioni che non intendono o piuttosto non possono concludere un accordo con lo Stato. Con l'emanazione di una legge organica sulla libertà religiosa (132) questo esito potrebbe essere progressivamente neutralizzato. Sotto il profilo tecnico-giuridico del diritto ecclesiastico il diritto speciale da "derogatorio" e "contrattato" sarebbe riconsegnato alla sua funzione connaturale, preposto a tradurre normativamente le richieste specifiche provenienti dalle singole confessioni religiose (133). Nondimeno con la fissazione di un corpo di diritti e garanzie generali, attraverso i canali della giurisprudenza, potrebbe realizzarsi una tutela non frammentaria ma più avanzata e tendente ad un continuo adeguamento delle risposte statali al fenomeno della diversità religiosa, recidendo ogni forzatura attualmente riconducibile ai limiti che in questo senso pone un ordinamento di civil law.

Più ampiamente per ciò concerne il problema dell'attribuzione di diritti collettivi 'religiosi' in una società multiculturale, l'assenza di una regolamentazione generale del rapporto tra lo stato e le confessioni religiose minoritarie che chiedono di essere giuridicamente riconosciute ha per conseguenza la violazione del principio di eguaglianza anche ove esso venga inteso come proprietà simmetrica.

Se il riconoscimento dell'esistenza di Weltanschauung diverse, tradizioni, norme e valori peculiari non riconducibili all'alveo delle statuizioni della maggioranza avviene storicamente proprio con riferimento alle religioni e, se il diritto di libertà religiosa, nel nostro ordinamento costituzionale, è inteso come situazione giuridica ascrivibile al gruppo, oltreché all'individuo, ciò non sembra valere quando l'esercizio della libertà religiosa riguarda determinati gruppi, e conseguentemente, gli individui appartenenti a tali gruppi. Il rispetto del principio di eguaglianza, formale e sostanziale, imporrebbe la tutela compiuta ed effettiva della libertà religiosa del singolo attraverso il riconoscimento giuridico e la tutela del gruppo di appartenenza. Il diritto di esercizio della libertà religiosa, come si è accennato in precedenza, ontologicamente può configurarsi come un diritto ultra-individuale, parallelamente il valore costituzionalmente garantito dello sviluppo della persona umana è inscindibilmente connesso alla rilevanza e alla tutela delle formazioni sociali di cui le confessioni religiose costituiscono un ambito specifico.

E' in relazione al diritto di libertà religiosa che emerge con particolare evidenza la dimensione di strumentalità del diritto collettivo rispetto al diritto individuale. Questa dimensione ha una portata anche maggiore se si considera che essa non rileva soltanto ai fini della predisposizione di una tutela individuale nei suoi indici di compiutezza ed effettività, ciò che è in gioco è la stessa possibilità di esercizio, da parte del singolo, del diritto di cui è titolare. Come si è detto il diritto di libertà religiosa comprende tre diverse situazioni giuridiche soggettive, la libertà di coscienza ascrivibile al foro interiore del soggetto, la libertà di culto e la libertà di propaganda. Prescindendo dal primo aspetto, diventa difficile concepire l'esercizio della libertà religiosa e della libertà di culto, nei termini di una dimensione esclusivamente individuale (134). Gismondi ha sostenuto che "i diritti al culto e alla libertà ecclesiastica siano diritti sociali invocabili anche dai singoli in quanto appartenenti ad un determinato gruppo confessionale" (135), in ragione di ciò "la qualità di fedele, pur essendo adiafora ai fini del godimento e dell'esercizio dei diritti individuali di libertà, può divenire rilevante quando un soggetto invochi la tutela di determinati interessi concreti fondati sull'organizzazione della confessione religiosa cui egli ha dato la sua adesione" (136). L'autore evidenzia la connessione inscindibile presente tra dimensione individuale e collettiva (137).

Gismondi utilizza l'espressione "diritti sociali" (138), ma essa può ritenersi in questo senso equivalente alla formula "diritti collettivi" (139).

L'individuo è un prius in quanto precede, giustifica e condiziona l'esistenza delle formazioni sociali, che acquistano particolare rilievo proprio in virtù della loro strumentalità nei confronti di esso. Ciò costituisce l'idea basilare dell'orientamento personalistico presente in Costituzione. Nel dettato costituzionale, si realizza anche un transito fondamentale: la socialità non è concepita soltanto come un elemento caratteristico della natura umana, essa viene tradotta in formule giuridiche, vi è un totale riconoscimento dell'importanza che il fenomeno associativo presenta per l'individuo. In questo senso, accanto all'art. 2 e all'art. 18 Costituzione, si colloca l'art. 19 Cost. Sostiene Ravà:

"E' questo il merito della vigente Costituzione, quello cioè di avere avvertito la rilevanza sociale e politica delle manifestazioni collettive, ed in particolare di quelle associative, dando ad esse un'appropriata rilevanza giuridica attraverso il riconoscimento dell'esistenza di interessi collettivi distinti da quelli individuali, e necessitanti di una propria disciplina giuridica che li tuteli, distinta da quella posta a tutela degli interessi individuali" (140).

Prosegue l'autrice:

"Si ha così la collettività come figura giuridica soggettiva, cioè quale raggruppamento più o meno stabile di individui uniti tra loro in un rapporto reciproco; raggruppamento che persegue interessi propri ed ha diritti propri; che sono, così, interessi e diritti collettivi, cioè - nel rapporto individuo-collettività - interessi e diritti degli individui in quanto raggruppati" (141).

La confessione religiosa è dunque una collettività giuridicamente rilevante della quale il singolo entra a far parte con propri diritti. Ma l'attuazione e l'effettività dell'esercizio di alcuni di questi diritti risulta connessa al riconoscimento e all'attribuzione di situazioni giuridiche collettive. L'esercizio della libertà di religiosa in capo al credente implica che una confessione religiosa possa costituirsi liberamente, possa organizzarsi e agire per il conseguimento dei suoi fini specifici (142), si tratta di diritti collettivi che sono propri delle confessioni religiose quali entità di per se stesse rilevanti, ma che sono strumentali ai diritti degli individui in quanto membri di esse. Nondimeno, come afferma Ravà, sono diritti azionabili, nel senso che possono essere fatti valere in giudizio ogni qualvolta siano lesi da un atto costituzionalmente illegittimo (143). A questo proposito Barile indica alcune fattispecie specifiche: "lesioni della libertà di organizzazione delle confessioni acattoliche", (quando sia negata la costituzione in ente morale per l'asserita non conformità dello statuto con l'ordinamento italiano), "lesioni alla libera espressione del culto sia cattolico che acattolico", commesse sotto la specie della tutela del buon costume o del mantenimento dell'ordine pubblico (144). Ad esse, sostiene Ravà, se ne possono aggiungere altre, quali le lesioni al libero esercizio del potere di ordine e di giurisdizione, quelle al libero conferimento dei sacramenti, ma soprattutto lesioni, per le confessioni acattoliche, del diritto di vedere regolati, mediante intese i rapporti con lo Stato.

La tematica della rilevanza del sistema delle intese ai fini della valutazione dei presupposti di rispondenza dell'ordinamento ad istanze pluralistiche e multiculturali può concludersi circolarmente. Gli autorevoli contributi di Barile e Ravà su questa specifica materia sono successivi di un decennio all'entrata in vigore della Costituzione ma essi prospettano problemi che acquistano nell'attualità una dimensione di evidenza ancora maggiore. Può dirsi che anche nell'ambito della tutela dei gruppi minoritari religiosi le soluzioni normative adottate dall'ordinamento dopo (e non di poco) l'entrata in vigore del dettato costituzionale, rappresentano un passo indietro rispetto agli orientamenti e ai principi in esso espressi. "Anche in materia di tutela della libertà religiosa la Costituzione, insomma, non orienta più la legislazione ordinaria, ma addirittura ne viene orientata" (145). All'inizio della trattazione si era affermato che, prestando riferimento alla letteratura ecclesiasticista ed in generale al diritto ecclesiastico, si aveva l'impressione che almeno su un piano teorico non discutesse sull'an del riconoscimento giuridico dell'identità riconducibile all'appartenenza religiosa. I vuoti di tutela insiti nell'attuale disciplina del fenomeno religioso, privano questa impressione di una portata generale; sembra che l'ordinamento giuridico italiano escluda l'an del riconoscimento giuridico dell'identità ove essa non si riconduca a determinate appartenenze religiose; anche per ciò che riguarda il quomodo vi sono imponenti 'differenziazioni'.

Non si farà luogo alla trattazione di quest'ultimo aspetto, ossia il regime di disparità di trattamento per ciò che concerne buddhisti e Testimoni di Geova, mentre ci si soffermerà sul fenomeno di discriminazione riguardante alla confessione islamica (146).

3.4 I diritti di religione spettanti alla comunità musulmana nel nostro paese

Il fenomeno di crescente simbolizzazione delle intese contribuisce a chiarire l'importanza consequenzialmente attribuita dalle organizzazioni musulmane alla stipulazione di un accordo con lo stato italiano. In ragione di tale valenza simbolica, la conclusione di un'intesa non si ricondurrebbe esclusivamente all'ambito di tutela dell'identità religiosa. Anche se alcuni autori evidenziano a buon diritto l'opportunità di una legislazione protettiva delle diversità culturali (147) che consenta di rispettare la distinzione tra identità religiosa e identità culturale, è un fatto che nella società multiculturale la libertà religiosa si riposiziona come libertà culturale. "Essa si trasforma da diritto civile di prima generazione - anzi storicamente il diritto civile primogenito dopo la Riforma protestante, secondo Francesco Ruffini, la libertà originaria, secondo Georg Jellinek - in diritto culturale di ultima generazione" (148). Non è più un diritto già affermato, scontato, pacifico, ancorché circoscritto, è un diritto in espansione, ancora in cerca di garanzia e di riconoscimento pubblico. D'altro canto, come sostiene Colaianni, le domande di riconoscimento partono anche dalle chiese cristiane, ora che la loro posizione dominante vacilla e non è più immune da riserve. In Italia a favore del crocifisso esposto nei luoghi pubblici si è pronunciato personalmente lo stesso papa. E nella pretesa di citazione delle radici cristiane nel preambolo della Costituzione europea si sono trovate unite la Chiesa cattolica e varie Chiese protestanti. Quest'ultima circostanza segnala il carattere particolare delle suddette domande di visibilità nella sfera pubblica. Benché avanzate prevalentemente da gruppi religiosi o con motivazioni religiose, esse non riguardano la libertà di religione. Si tratta, invece, di domande relative alle ricadute culturali della visione religiosa nella sfera pubblica. Non gli aspetti culturali della religione, ma la religione come cultura. Questa sovrapposizione di piani condiziona in modo determinante il rapporto con l'Islam al punto che l'asse del problema viene completamente spostato: per l'ordinamento giuridico italiano non si tratta di garantire la tutela di una confessione religiosa diversa da quella cattolica ma di respingere una cultura inconciliabile con quella cristiana. Il presupposto strumentalmente invocato è che, nel caso dell'Islam, non sia possibile distinguere gli aspetti culturali da quelli religiosi. A tal proposito si rileva che "l'intreccio, tendente alla sovrapposizione, tra religione e cultura (din-dunja-dala: religione-mondo-Stato) non appartiene alla grande tradizione dell'Islam - ed infatti non è condiviso dalla maggioranza dei migranti musulmani - ma alle piccole tradizioni" (149). Tuttavia, attualmente, sono tali tradizioni, in quanto fatte proprie dalle correnti islamiste radicali ad estremiste, le più visibili e quelle recepite dall'opinione pubblica. La libertà religiosa è dunque sottoposta a questa torsione strumentale e viene ridotta a cultura religiosa.

Rimane ferma la circostanza che attualmente la stipulazione di un'intesa (150) rappresenti l'esito più naturale e più probabile del processo di inclusione della comunità islamica nel sistema di tutela delle minoranze religiose previsto dall'ordinamento giuridico italiano.

L'elemento della mancanza di una rappresentanza ufficiale unitaria islamica, addotto, come si è accennato, dalle istituzioni italiane quale elemento ostativo alla conclusione dell'intesa non costituisce una problematica isolata o di natura meramente organizzativa.

In Italia l'appartenenza collettiva all'Islam ripercorre le dinamiche in atto nel resto d'Europa (151), esprimendosi in forma diversificata e con molteplici attori (152). Si tratta di un'appartenenza collettiva che rispecchia la varietà di interpretazioni e correnti dell'Islam contemporaneo, classificabili schematicamente in tre tipologie: iniziative più o meno dirette degli stati musulmani o che comunque fanno riferimento all'Islam ufficiale degli stati d'origine, confraternite religiose, movimenti che uniscono strettamente la dimensione religiosa all'ideologia politica. Sono numerosi, dunque, i centri che tentano di assumere la leadership nazionale dell'Islam e aspirano a raggiungere la posizione di interlocutore ufficiale nei confronti dello stato italiano. E' interessante rilevare come i principali centri in competizione appartengano ad ognuna delle tre succitate categorie in cui trova espressione l'Islam organizzato in Italia: "l'Islam degli stati" è infatti rappresentato dal Centro culturale islamico d'Italia anche noto come "la moschea di Roma" (153); l'Islam militante è variamente rappresentato dalle moschee e dai centri islamici che aderiscono all'Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia) (154); l'ambito dell'Islam sufi e l'area delle confraternite è rappresentato dall'Associazione per l'informazione sull'Islam in Italia-Coreis (Comunità religiosa islamica) (155) ed ha sede a Milano. A questi enti occorre aggiungere l'Associazione dei musulmani italiani che ha come suo tratto specifico quello di accettare tra i suoi membri effettivi, nella specie di ammettere alle cariche direttive, solo cittadini italiani (156).

Ognuno di questi organismi ha autonomamente presentato alla Presidenza del Consiglio una domanda di intesa con lo stato italiano; la prima bozza di intesa è stata formulata e presentata nel 1992 dall'Ucoii, essa è stata seguita nel 1993 da una lettera ufficiale del Centro culturale islamico di Italia in cui si avanzava la medesima richiesta. Nel 1994 si è proposta come interlocutore nei confronti dello stato l'Associazione dei musulmani italiani, proponendo anch'essa una propria bozza di intesa; infine analoga iniziativa è stata assunta nel 1996 dall'Associazione per l'informazione sull'Islam in Italia-Coreis (157).

Molti sono i contributi che mettono in risalto la competizione che a partire dai primi anni Novanta ha caratterizzato i rapporti tra i vari enti musulmani, resta da vedere se l'enfatizzazione dell'assenza di una legittimazione unitaria della confessione musulmana abbia portata strumentale e dunque poggi su un'analisi che identifica come prematura la stipulazione di un'intesa tra l'Islam e lo stato italiano. Sono considerazioni che si fondano oltreché sul presupposto dell'unitarietà, sull'elemento della reale aderenza degli organismi rappresentativi rispetto alle distinte comunità di credenti. Rilievi analoghi, per esempio, non hanno avuto spazio nella conclusione di un'intesa con la confessione buddhista. Altra considerazione doppiamente claudicante è quella secondo cui la maggior parte della popolazione musulmana residente in Italia si sia insediata recentemente e avendo a che fare principalmente con problemi di ordine economico, non abbia ancora scelto come sintetizzare la propria appartenenza all'Islam con l'adesione ai valori fondamentali della società italiana (158).

A tal proposito occorre rilevare che l'immigrazione non viene vissuta più come un'esperienza temporanea nella quale l'orizzonte di vita rimane il paese d'origine. Se in una società globale e multiculturale antitetici sono i fattori che spingono i diversi soggetti a spostarsi (159), è evidente che chi abbandona il proprio paese per cercare un'opportunità di lavoro, oltre ad essere un potenziale componente della forza-lavoro del paese di insediamento, è un individuo titolare di un'identità culturale (160).

Aver piegato l'intesa alla funzione impropria (sia sotto il profilo formale dell'utilizzo delle fonti di produzione, sia sotto il profilo sostanziale dei contenuti delle discipline) di predisporre un (asserito) "diritto comune a formazione progressiva" (161), non pensato come tale ab origine e, dunque, non estensibile a tutte le confessioni religiose, fa della conclusione di un accordo con la confessione musulmana (162) o di specifiche intese con le singole comunità musulmane il fondamento, inattuato, di un compiuto sistema di tutela.

La strutturazione delle "condizioni di fede", necessaria alla riproducibilità del sistema di credenza religiosa (163), può infatti rappresentare compito assai difficile senza il riconoscimento dello stato ospite. "Le società contemporanee presentano conflitti la cui posta in gioco è concettualizzabile ricorrendo a una terza nozione di libertà, legata ai concetti di libertà positiva e di libertà negativa, ma distinta da essi: è quella dell'accezione di libertà come riconoscimento dell'identità" (164). In altri termini, con riguardo al nostro ordinamento, è da temere che l'uguale libertà di tutte le confessioni religiose, garantita dal 1º comma dell'art. 8 Cost., possa essere intesa in un'accezione che non ricomprende il riconoscimento dell'identità legata all'appartenenza religiosa.

Ma lo stesso dibattito ufficiale italiano sulla questione dell'intesa con l'Islam è assai limitato. La vicenda è oggetto di discussione da parte di giuristi e sociologi, o di esponenti della Chiesa cattolica, ma non viene affrontata dai partiti politici o dalle istituzioni in quanto tali. Come sostiene Renzo Guolo, preoccupazioni di carattere diplomatico, strategie di politica estera, questioni di sicurezza, esigenze di mercato delle imprese, insieme alla scarsa conoscenza del mondo islamico autoctono, sono tra i fattori che hanno prodotto il silenzio istituzionale. "La politica italiana nei confronti dell'Islam sulla scena pubblica, più che una scelta strategica ponderata, è così la risultante oggettiva delle spinte non sempre univoche, dei diversi attori interessati a un rapporto con questo o quel settore del mondo musulmano" (165).

E' certo che l'opzione di fondo dello stato italiano è quella di richiedere l'unificazione dell'Islam e dunque di approdare ad una sua "nazionalizzazione". Il problema del riconoscimento della confessione religiosa musulmana si raccorda poi alla tematica della previsione di trattamenti specifici e derogatori, dal momento che, per ciò che concerne il piano degli elementi ostativi all'ammissione dell'intesa, da un punto di vista teorico un discrimen apprezzabile separa gruppi (Coreis) che non intendono negoziare con la Repubblica italiana un particolare statuto di cittadinanza per i musulmani e che ritengono che questo sia unico per tutti e non vada definito su basi religiose (166), da gruppi (Ucoii) che cercano di inserirsi nel paese ospite per "comunitarizzazione", ovvero costruendo socialmente una comunità che nega l'integrazione individuale e negozia collettivamente, su base politico-religiosa, uno statuto derogatorio di cittadinanza che consenta il riconoscimento più ampio possibile del corpus delle regole giuridiche islamiche e stabilisca il grado di autoesclusione necessario alla riproduzione della propria separatezza (167).

Al fine di incoraggiare l'emersione delle componenti moderate dell'Islam e di promuoverne il distacco dai gruppi neotradizionalisti, recentemente si è posta nel nostro paese l'iniziativa governativa della "Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione": una proposta politica alla cui "attuazione e diffusione sono chiamate a partecipare le rispettive comunità che aderiscono alla Carta medesima". Con la "dichiarazione di intenti per una federazione dell'Islam italiano", nel marzo 2008, hanno aderito alla Carta sette tra le organizzazioni islamiche operanti nel nostro paese, gli esponenti di tali gruppi hanno sostenuto di far parte di un'aggregazione islamica "moderata e pluralista". L'accento deve essere posto su questo secondo aggettivo, che implica l'adesione al principio pluralistico come elemento fondante del sistema democratico italiano; sotto questo profilo non può non rilevarsi l'accettazione - espressa nella dichiarazione di intenti senza alcuna condizione - del principio di laicità e la mancanza di ogni riferimento alla Shari'a, dunque il superamento del conflitto di lealtà tra stato e Umma. Ma in definitiva i presupposti della Carta dei valori attingono ad una logica assimilazionista, tesa a svilupparsi nel senso di inserire un cuneo all'interno dell'Islam italiano: l'obiettivo è quello di isolarne una parte che possa costituire un interlocutore 'affidabile', incline ad un accordo con lo Stato (168). In realtà il risultato conseguito dalla Carta, cioè la dichiarazione di intenti, come si è detto, è stato condiviso solo da una componente minoritaria delle comunità musulmane e non dall'Ucoii che sostiene di rappresentare la maggior parte delle moschee italiane.

Una conclusione "affrettata", non per questo, però, non respinta, è quella secondo cui l'Islam non è integrabile. Ma tale valutazione è statica, è un fotogramma della situazione attuale a livello esclusivamente normativo, che non comprende le possibilità di modifica e di apertura del sistema in un senso diverso dall'omologazione. L'integrazione, con la sua inevitabile tendenza all'assimilazione forzata o apparentemente volontaria, trova le condizioni agevoli di sviluppo nelle società sostanzialmente monoculturali, come era quella italiana, fino a qualche decennio fa. "Svolge invece la parte del 're nudo' nelle società multiculturali, in cui nessuna cultura può accampare pretese e privilegi da cultura dominante, se non a costo di rinunciare a quel 'profilo fondamentale della forma di stato' (169) che è la laicità" (170). A questo proposito Colaianni sostiene lucidamente: "non si vede l'utilità di richiedere ai musulmani e ai migranti, come a qualsiasi altro cittadino (e perché non anche ai cristiani?), una previa ma astratta adesione a principi percepiti come equivoci, quali la laicità o la distinzione degli ordini o il pluralismo, per quanto tradotti in talune loro implicazioni concrete" (171). L'autore rileva che "occorrerebbe piuttosto valutare in concreto quali comportamenti o istituti delle loro organizzazioni siano compatibili con quei principi" (172). E' questa una chiave di analisi che proietta il problema verso la sua soluzione. A questo riguardo si impone con ulteriore evidenza quella che si è definita come la principale carenza del sistema di tutela dei gruppi minoritari religiosi: l'assenza di una legge organica. Secondo Colaianni, infatti, la maggior parte delle questioni poste dall'Islam, e in generale da tutti i gruppi religiosi, è risolvibile attraverso una buona legge sulla libertà religiosa, che disciplini le istanze dell'Islam come delle altre religioni minoritarie eguagliandone la condizione a quella delle confessioni convenzionate. Ci sono delle specificità, per l'Islam come per le altre religioni, che non possono essere risolte se non con una deroga mirata e specifica - e ciò si riconduce al campo delle intese - ma le problematiche basilari concernenti la dialettica eguaglianza/diversità religiosa, come consolidati studi sull'argomento hanno dimostrato, sono risolvibili con una legge apposita per ciò che attiene agli aspetti religiosi e cultuali e con la vigente legge sull'immigrazione (T.U. n. 286/1998) per quanto concerne gli aspetti sociali (173). Ma ciò che appare ineliminabile, e pregiudiziale, per affrontare correttamente il fenomeno del pluralismo religioso, è un cambio delle strutture culturali e di mentalità. E tale mutamento comporta una netta emancipazione dall'ideologia integrazionista che costituisce il sostrato delle politiche governative italiane ed europee, sostanzialmente 'continuiste' a prescindere dal variare delle maggioranze: sostituire l'ideologia del "nous" e "les autres" al pensiero - per dirla con le parole di Lévinas - del "tra noi", della "possibilità dell'uno per l'altro" (174).

4.1 Diritto di avere diritti?

Sulla scorta della pretesa di approdare ad una "naturalizzazione dell'Islam", un approfondimento necessario riguarda il rapporto tra il fenomeno religioso e lo status civitatis.

Non sfugge lo sfondo teorico dell'art. 19 Cost. per cui la titolarità e l'esercizio della libertà religiosa prescindono dalla cittadinanza e sono riconosciuti allo straniero senza il limite della condizione di reciprocità di cui al 1º comma dell'art. 16 disp. prel. al codice civile.

Gli ecclesiasticisti, tuttavia, hanno tradizionalmente pensato al tema della libertà religiosa, prefigurandosi quali destinatari i cittadini: se è certo che l'espresso disposto costituzionale di cui all'art. 19 sia stato loro ben presente, la maggiore estensione soggettiva della garanzia costituzionale è stata utilizzata al ben diverso fine di qualificare la libertà religiosa quale libertà "privilegiata" (175).

Secondo alcuni autori, l'art. 8 Cost. deve essere correttamente letto nel sistema integrato delle norme e dei principi costituzionali, ed in particolare del principio della appartenenza della sovranità al popolo (2º comma, art. 1 Cost.) che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Un'intesa con una confessione costituita "quasi esclusivamente da stranieri avrebbe la peculiarità di non concernere cittadini-fedeli, pur sempre contitolari della sovranità popolare, bensì residenti-fedeli cui non compete iure proprio alcun aspetto di quella sovranità che connota in via esclusiva la cittadinanza-appartenenza" (176). Tale tesi, ancorata al presupposto della sovranità della nazione, sembra collocare il fondamento dell'esercizio del diritto di libertà religiosa nel presupposto della titolarità dello status di cittadino.

La cittadinanza, come ogni altra nozione giuridica, si compone di elementi assiologici ad essa non interni ma evidentemente intrinseci. Il riferimento assiologico intrinseco, che inquadra la genesi storica del concetto di cittadinanza come semplice etichetta apposta ai processi di differenziazione intercorsi tra gli esseri umani, coincide con un universalismo inclusivo, 'sostanziale', "sensibile alle differenze". Il riferimento assiologico interno che sovraccarica il modulo definitorio 'cittadinanza' di una valenza identitaria e culturale fissa e precostituita converge, invece, con l'universalismo esclusivo dello stato-nazione. Occorre muovere dalla considerazione che il modulo definitorio 'cittadinanza'rappresenta di per sé l'ipostatizzazione giuridica delle diversità (principalmente e tradizionalmente ricondotte al fattore etnico e territoriale) che nel corso della storia sono emerse tra i diversi individui. Essa ha cristallizzato in un modulo giuridico alcuni criteri di identificazione dell'appartenenza dell'individuo al gruppo, costituendo al contempo per il singolo un veicolo di decodificazione della propria appartenenza alla collettività di riferimento. Due sono i criteri in base ai quali le comunità definiscono il loro senso di appartenenza: criteri che fanno riferimento al passato (condivisione di tradizioni, di lingua, di religione) e criteri che guardano al futuro (proiezione verso la costruzione di un nuovo ordinamento giuridico). In Europa si è solidificata la cittadinanza come espressione di etno-nazionalismo; come si è più volte accennato, emblematica, al riguardo, è la centralità della categoria dello stato-nazione. Se Arendt condensa il senso della cittadinanza nel "diritto di avere diritti", dal punto di vista del nostro ordinamento la cittadinanza non rappresenta un diritto ma si configura piuttosto come uno status, una condizione giuridica soggettiva cui accedono diritti ed obblighi.

L'ingombrante nesso che riconduce l'esercizio di alcuni diritti alla titolarità di una determinata cittadinanza è parzialmente mitigato dalla previsione di diritti umani fondamentali riconosciuti all'individuo in quanto tale. Ad una concezione teorica volta a promuovere la fuoriuscita di tali diritti dal "contenitore-cittadinanza" non pare corrispondere sul piano della prassi un'adeguata garanzia. Inutile dire che nel caso dell'ordinamento giuridico italiano il riconoscimento tout court della libertà di manifestazione del pensiero e di religione, mancando totalmente di un'adeguata implementazione legislativa in questo senso, conduce agli esiti evidenziati in precedenza: la violazione del principio di eguaglianza formale e sostanziale unitamente alla sussistenza di pesanti vuoti di tutela nel sistema di protezione delle minoranze. L'impressione, dunque, è che sul piano della teoria si tenda ad incardinare nella cittadinanza la maggior parte dei diritti e sul piano della prassi vi sia effettivamente incardinato l'intero corpus dei diritti. Se le dichiarazioni internazionali operano in senso centrifugo rispetto alla cittadinanza e promuovono il massimo grado di inclusività nella tutela dei diritti, i sistemi di welfare dei singoli stati agiscono in senso fortemente centripeto, decretando per converso la garanzia di determinati diritti ai soli cittadini (177).

Come è possibile ancorare la titolarità e l'esercizio del diritto di libertà religiosa allo status di cittadino? La realtà attuale e le richieste di tutela che emergono nel nostro ordinamento disegnano un quadro che nulla o poco deve avere o ha a che vedere con la titolarità della cittadinanza. Il ridottissimo ambito che sessanta anni fa dava concretezza al "tutti" (178) dell'art. 19 Cost. è profondamente mutato (179). Si è passati dalle occupazioni di luoghi pubblici per occasionali cerimonie di culto alla richiesta di assegnazione di aree per l'edificazione di appositi edifici; dalla presenza di guide spirituali private alla richiesta di assistenza religiosa negli istituti di detenzione e di pena laddove la presenza di stranieri irregolari musulmani è percentualmente significativa; dalla macellazione rituale clandestina alla richiesta di approntare mense (nelle strutture pubbliche e private) atte a fornire il cibo preparato in modo conforme alle prescrizioni religiose (180).

In una società multiculturale, la cittadinanza non può essere vissuta come univoca espressione di un'appartenenza, soprattutto con riguardo ai principi che sottostano ad un sistema democratico. Ciò, più direttamente, per evitare il fenomeno di deficit democratico e di discrasia tra governanti e governati, e, più estesamente, perché il modulo giuridico della cittadinanza presenta contenuti diversi che possono essere modellati sul presupposto delle appartenenze plurime e non sul dogma dello stato-nazione.

La presenza musulmana in Italia erode il fondamento del carattere etno-nazionale della cittadinanza, producendo, però, nei fatti un tenace attaccamento alla fissità e alla pericolosa esclusività di tale modulo. La riprova di tale osservazione risiede nell'intento di dare all'Islam un volto 'italiano', un volto 'nazionale' (181), nel presupposto che la libertà di religione e la salvaguardia della diversità religiosa e culturale, se rivendicate da individui migranti che non abbiano la cittadinanza italiana, possano essere degradate da diritti a pretese dal contenuto derogabile.

Il modulo della cittadinanza esclusiva, se nei fatti si riconduce all'incapienza dei sistemi di welfare, dal punto di vista teorico, si pone in continuità con una concezione "difensiva" della nazione, il cui presupposto fondante risiede nel fatto che un ordinamento giuridico nazionale si fonda su valori e principi giuridici che nel loro complesso definiscono "l'identità di uno stato" (182). Si tratta di un'espressione impropria, in quanto l'identità non è nozione semanticamente riferibile ad un'entità statuale. Si afferma più propriamente che il contenuto espressamente rivendicabile e rivendicato della suddetta "specificità identitaria" riguarda il principio supremo di laicità (183) che dovrebbe connotare la forma repubblicana dello stato italiano. In realtà guardando soltanto alla tradizionale declinazione del principio di laicità, quale effettiva neutralità dello stato di fronte alle diverse esperienze di fede, esso è contraddetto dalla palese discriminazione tra confessioni ammesse all'intesa e confessioni non ammesse. La confutazione dell'effettività di tale attributo presenta a fortiori una più ampia articolazione per ciò che concerne il concetto di laicità positiva (184).

Alla luce di queste considerazioni, dunque, nel nostro ordinamento l'identità confessionale esprime un valore costituzionalmente garantito, ma non assolutamente sovraordinato; nessuna confessione che miri ad una disciplina pattizia cha attenui o disconosca il carattere laico che connota la forma repubblicana dello stato potrà legittimamente vantare un diritto al riconoscimento della sua identità per il tramite di un'intesa con lo Stato italiano.

In realtà lucide analisi distinguono la valutazione della discrezionalità politica del governo nell'ammettere all'intesa una confessione che neghi il carattere laico dello stato dal compito del giurista cui spetta assicurare che, nel caso si addivenga alla stipulazione di un'intesa, questa non contenga norme che contraddicono i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico statale, tra cui rileva quello della laicità dello stato (185). A questo proposito Onida ritiene che, in forza del fondamento pluralista dell'intesa, non possa ostare alla sua applicazione all'Islam il fatto che quest'ultimo sia portatore di una concezione diversa, anzi contrastante, su molti dei principi che stanno alla base dell'esistenza stessa di quello strumento normativo (186).

La via percorribile, sia pure costellata di limiti, dunque, è quella del diritto, ma la sua efficacia dipende da una paziente opera di decostruzione e riconcettualizzazione di istituti giuridici, che sono stati progressivamente irrigiditi, resi impermeabili e ritenuti non componibili con destinatari provenienti da altri sistemi. Per contro, risulta poi evidente che, come tutti i principi, anche la laicità per sopravvivere ha bisogno di una recezione più o meno ampia delle culture sottostanti, ma il raggiungimento di questo obiettivo deve essere perseguito in prima battuta con metodi politici e non giuridici: cioè con il consenso e non con l'imposizione.

Occorre poi aggiungere che comunque per la tenuta di un principio come la laicità o i diritti umani universali non è necessaria la condivisione delle culture, a cui essi vengono ricondotti, da parte della maggioranza dei consociati (187). Se così fosse, laicità e diritti fondamentali trarrebbero la loro legittimità dall'essere diritti della maggioranza, suscettibili di essere cancellati se questa divenisse minoranza, mentre, invece, riportando un pensiero di Luigi Ferrajoli, "sono diritti contro le stesse maggioranze democraticamente elette" (188).

5.1 La tutela de facto del "diritto alla moschea": la neutralizzazione della dimensione comunitaria del diritto di libertà religiosa sancita in Costituzione

Un altro ambito nel quale il rapporto che intercorre tra la tutela delle minoranze religiose e il principio di eguaglianza sostanziale disegna i parametri di effettività e di inclusività del sistema di tutela in oggetto è costituito dalla materia dell'esercizio della libertà di culto. La tematica relativa al "diritto alla moschea" non offre soltanto un esempio significativo di diritto collettivo: l'analisi successiva, infatti, intende mettere in evidenza come nel nostro ordinamento giuridico il riconoscimento della libertà di culto, per ciò che concerne la confessione musulmana, de facto venga effettuato in linea individuale e non per il tramite di un paradigma collettivo.

La religione, come si è visto, è tutelata, non solo sotto la specie delle esigenze personali del singolo, ma anche come fenomeno che riguarda la persona umana nella dimensione superindividuale. "E' giuridicamente rilevante che le suddette esigenze si manifestino contemporaneamente nella loro forma individuale, ovvero strutturate in forma collettiva, fino al livello di organizzazioni complesse, identificate come confessioni religiose" (189). Il transito dalla unidimensionalità alla bidimensionalità del diritto di libertà religiosa sancito in Costituzione, in relazione all'Islam, viene sospeso. Questo esito non si riconduce tout court al riposizionamento nella società multiculturale della libertà religiosa come libertà culturale cui si è accennato in precedenza. Dalla configurazione di un diritto, infatti, discendono stringenti conseguenze in punto di tutela del diritto in questione. La libertà religiosa non è concepita come un diritto di libertà ma come un diritto culturale; come tale, si discute, se esso debba essere giuridicamente rilevante per il gruppo, e, simultaneamente per l'individuo che vi appartiene. Nella filosofia politica e del diritto è ormai diffusa la nozione di "diritti culturali" come "possibilità dei cittadini di accedere a quelle comunicazioni, tradizioni, e pratiche comunitarie che essi ritengano di volta in volta necessarie alla formazione e al mantenimento della loro identità personale" (190): ma proprio "per questo carattere provvisorio, ad hoc" (191), che li caratterizza, si stenta a definirli in termini strettamente giuridici. Qualificare l'appartenenza religiosa come appartenenza culturale e non come situazione soggettiva tutelabile nel campo del diritto civile sposta l'accento dal quomodo all'an del riconoscimento del diritto di libertà religiosa come diritto collettivo: ciò è particolarmente evidente nel caso della libertà di culto, che concorre significativamente a definire la struttura comunitaria del diritto di religione. Come si è evidenziato in precedenza la libertà di manifestare la propria religione è uno degli aspetti fondamentali del diritto di libertà religiosa; l'esercizio in pubblico e in privato di tale culto costituisce una delle modalità più rilevanti di tale libertà manifestazione.

Questo principio fondamentale è sancito da numerosi atti internazionali ai quali il nostro paese ha aderito. Tra i principali ricordiamo la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 (art. 18) (192), la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (art. 9) (193); il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 18) (194) e la Dichiarazione sulla eliminazione di tutte le forme di intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o la convinzione del 1981 (artt. 1 e 6 lettera a) (195).

La rassegna delle norme internazionali in materia evidenzia il seguente dato: i principi fissati in tali documenti internazionali si riferiscono alla libertà di culto come ad un diritto visibilmente scardinato dalla cittadinanza, e il cui esercizio non è scindibile dalla dimensione comunitaria. Il momento comunitario e associativo è anch'esso espressione della libertà religiosa del singolo, per ciò stesso sede elettiva di estrinsecazione della sua personalità (196).

Come dispone l'Osservazione generale n. 22 in relazione all'art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, "la libertà di manifestare la propria religione o credo con il culto" concerne atti molto vari in quanto il concetto di culto comprende "gli atti rituali e cerimoniali che esprimono direttamente una convinzione, così come differenti pratiche inerenti a tali atti, comprese la costruzione di luoghi di culto, l'impiego di formule e oggetti rituali, la presentazione di simboli e l'osservanza dei giorni di festa e dei giorni di riposo" (197).

La disponibilità di un adeguato numero di edifici o "luoghi" adibiti alla celebrazione dei riti appare, quindi, un elemento imprescindibile per assicurare effettivamente alle comunità di credenti il libero esercizio del proprio culto, nel contempo la costruzione e la conservazione di questi edifici si presenta come un compito al quale lo stato non può sottrarsi. Si tratta invero di un settore particolarmente idoneo a porsi quale banco di prova dello "stato di salute" in cui versa l'effettivo rispetto dei principi fondanti la regolamentazione giuridica del fenomeno religioso e della loro capacità di incidere in maniera plausibile sulla gestione del mutamento ovvero su ragioni e forme di quella 'reazione giuridica' che l'ordinamento sembra essere sempre più decisamente tenuto ad approntare nei confronti della recente evoluzione in senso multireligioso e multiculturale della società italiana (198).

Non a caso, infatti, la Risoluzione dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa relativa agli edifici religiosi sconsacrati del 9 maggio 1989, anche sulla base della constatazione che gli edifici di culto costituiscono spesso il "punto focale" della vita di una comunità e "un punto di riferimento locale", ha invitato gli stati a prevedere, tra le altre misure dirette alla conservazione e alla valorizzazione di tali edifici, "l'istituzione di crediti o agevolazioni fiscali per il restauro, la riparazione e la manutenzione degli edifici religiosi, che siano in servizio o sconsacrati, al fine di garantirne il mantenimento in uso" (199).

Nel nostro ordinamento rappresenta acquisizione pressoché pacifica, decisamente confermata dalla Corte Costituzionale (200), quella per cui il sistema di sostegno dell'edilizia di culto, coerentemente con l'impegno costituzionalmente assunto dalla Repubblica a promuovere le condizioni che contribuiscono al progresso materiale e spirituale della società (art. 3. 2 Cost.), "ha per effetto di rendere concretamente possibile, o comunque di facilitare, le attività di culto, che rappresentano un'estrinsecazione del diritto fondamentale ed inviolabile della libertà religiosa espressamente enunciata nell'art. 19 Cost." (201).

"Deve essere perseguita con coerenza l'attivazione del principio di eguale libertà delle confessioni esteso alla garanzia del divieto di discriminazioni sancito in generale dall'art. 3 della Costituzione" (202). L'intervento dello stato in materia di finanziamento pubblico dell'edilizia di culto è sovrainteso dal principio di laicità. Ciò implica che ogni iniziativa promozionale si realizzi nel rispetto del pluralismo, della pari libertà di tutti, e, nondimeno, in conformità del principio di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.). Gli enti locali non possono tutelare soltanto gli interessi dei gruppi rappresentati politicamente, con svantaggio per quelli più deboli (203).

Gli edifici di culto, in base alle leggi 29 settembre 1967, n. 847 (come modificata dalla l. 22 ottobre 1971 n. 865) e 28 gennaio 1977, n. 10, costituiscono "opere di urbanizzazione secondaria" che entrano obbligatoriamente a far parte dei piani regolatori secondo standard urbanistici definiti dal d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 o da particolari disposizioni regionali.

E'emblematico che una delle norme cardine in materia di edilizia di culto, l'art. 831 comma 2 c.c., abbia ad oggetto esclusivamente gli edifici dedicati al culto pubblico cattolico, secondo tale disposto gli edifici in oggetto "non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano". La norma, nonostante sia limitata agli edifici privati destinati al culto pubblico cattolico, fornisce un'indicazione utile rispetto alla ratio e al contenuto tecnico-giuridico della tutela che il nostro ordinamento accorda agli edifici di culto. La tutela prevista per gli edifici di culto "non deriva soltanto da una loro utilità strumentale per il conseguimento delle finalità per cui sono costruiti, bensì anche dal fatto di servire quale mezzo per il soddisfacimento di un interesse religioso diffuso nella generalità indistinta dei fedeli" (204).

La disposizione in rilievo, dunque, evidenzia una funzione sociale degli edifici di culto che risiederebbe nel "consentire l'esercizio in pubblico ed in forma associata del culto (art. 19 Cost.), per concorrere al progresso spirituale (art. 4, cpv., Cost.) della società, mediante la soddisfazione diretta dell'interesse religioso dei credenti" (205), ossia, come si è detto in precedenza, nel realizzare una tra le molteplici condizioni che tendono a favorire il pieno sviluppo della persona umana (art. 2 Cost.) e garantiscono la realizzazione dei diritti inviolabili dell'uomo, nella specie il diritto di libertà religiosa che, lo si ribadisce, ha anche e principalmente struttura comunitaria (art. 2 Cost.).

Il riconoscimento di una funzione sociale degli edifici di culto sancisce una "qualificazione giuridica a livello costituzionale" dell'interesse "pre-giuridico dei fedeli a localizzare in un edificio pratiche e cerimonie di culto" (206) e pone le basi per un intervento finanziario pubblico per la costruzione e la manutenzione di tali edifici.

Si precisa altresì che la funzione sociale degli edifici di culto impedisce ricostruzioni interpretative in ragione delle quali tali edifici rientrerebbero nel novero delle opere pubbliche stricto sensu intese, ciò secondo una declinazione coerente con la logica confessionista e centralista del periodo precostituzionale, dovendosi piuttosto ritenere che il fine cui è destinato l'edificio di culto è solo indirettamente qualificabile come pubblico, cioè proprio di un soggetto rappresentante istituzionale dell'intera comunità sociale, caratterizzandosi in via immediata come fine di natura collettiva, connesso alle istanze religiose di una determinata confessione e della correlata base comunitaria (207).

Alla "conservazione degli edifici serventi al culto pubblico" generalmente fanno fronte gli enti locali territoriali, regioni e comuni che provvedono - in casi eccezionali anche con un contributo dello stato - sia alla ricostruzione di edifici pericolanti o distrutti sia al loro ampliamento nei casi di accresciuta popolazione, dunque ad eseguire tutti quei lavori che possano mantenere i suddetti edifici in condizioni idonee ad assicurare una reale partecipazione al culto pubblico. Gli enti locali pongono in essere tali adempimenti non solo al verificarsi delle calamità naturali in forza di una legislazione che potremmo definire di emergenza, ma in "via corrente" in forza di una specifica legislazione regionale dedicata all'edilizia di culto e che prevede contributi per il restauro, ripristino, ristrutturazione, conservazione, ampliamento e adeguamento degli edifici di culto esistenti nel territorio di competenza dell'ente locale. D'altra parte il d. lgs. 31 marzo 1998, n. 112, con il quale si è attuata la delega contenuta nella cosiddetta "Riforma Bassanini" sul decentramento amministrativo, ha sostanzialmente trasferito alle regioni e agli altri enti locali tutte le funzioni relative all'edilizia di culto (art. 94, 2º comma, lettera d).

L'attività di intervento finanziario degli enti locali trova, altresì, un riconoscimento nella legislazione di derivazione pattizia sviluppatasi con la revisione concordataria e la stipulazione delle intese ex art. 8 Cost. L'art. 53 della l. 20 maggio 1985, n. 222, con la quale si è data attuazione agli accordi tra stato e Chiesa circa gli enti e i beni ecclesiastici, prevede, infatti, che "gli interventi finanziari per gli edifici di culto cattolico e delle pertinenti opere parrocchiali sono determinati dalle autorità civili competenti secondo le disposizioni delle leggi 22 ottobre 1971, n. 865 e 28 gennaio 1977, n. 10, e successive modificazioni", assoggettando le opere costruite con contributi regionali e comunali ad un vincolo ventennale in ordine alla loro destinazione al culto. L'art. 5 comma 3 della l. 25 marzo 1985, n. 121 stabilisce, poi, che "l'autorità civile terrà conto delle esigenze delle popolazioni, fatte presenti dalla competente autorità ecclesiastica, per quanto concerne la costruzione di nuovi edifici di culto e delle pertinenti opere parrocchiali".

E' possibile rinvenire norme analoghe nelle intese concluse con gli ebrei e gli avventisti (208). Al contrario non si rintraccia niente di simile nelle intese stipulate con i valdesi, pentecostali, battisti, nelle quali gli edifici di culto sono considerati solo ai fini della tutela da requisizioni, occupazioni o interventi della forza pubblica.

La disparità di trattamento che emerge dalla citata normativa pattizia attesta il persistente favor del nostro ordinamento nei confronti della Chiesa cattolica. Nella legislazione regionale sull'edilizia di culto è, infatti, riscontrabile la tendenza a limitare la sfera dei destinatari degli interventi finanziari alla Chiesa cattolica (209), e in subordine, alle confessioni religiose munite di intese. Tale limitazione è stata giudicata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 195 del 27 aprile 1993 ha, infatti, pronunciato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della l.r. Abruzzo 16 marzo 1988, n. 29, nella parte in cui esso limitava il diritto all'erogazione dei contributi in essa previsti esclusivamente alla Chiesa cattolica e alle confessioni diverse dalla cattolica i cui rapporti fossero regolati da intese, ai sensi dell'art. 8 comma 3 Cost. La Corte ha ritenuto che il fatto che una confessione religiosa non abbia concluso con lo stato un'intesa non può costituire motivo di discriminazione: tale differenziazione violerebbe il principio di parità di trattamento e della "eguale libertà di culto" sancito dallo stesso art. 8 Cost. e recherebbe pregiudizio all'esercizio in concreto del fondamentale e inviolabile diritto a professare la propria fede religiosa, stabilito dall'art. 19 Cost. La stipulazione di un'intesa costituisce, altresì, una mera facoltà e non un obbligo, mentre per tutte le confessioni religiose - senza distinzioni vale il principio di eguale libertà di fronte alla legge (210). Nonostante la suddetta pronuncia della Corte, tale "limitazione" è rimasta invariata nelle l.r. Lazio 9 marzo 1990, n. 27 (211), l.r. Lombardia 9 maggio 1992, n. 20, l. del Cons. Reg. Toscana 9 giugno 1987, n. 225, l.r. Calabria 12 aprile 1990, n. 21 che pure è stata modificata con l.r. 16 gennaio 1995, n. 2, ed infine ancor più significativamente nella l.r. Molise 21 ottobre 1997, n. 22 la cui emanazione è evidentemente successiva di un quinquennio rispetto alla richiamata sentenza della Corte costituzionale (212).

Non appare, dunque, giustificato limitare l'area dei possibili beneficiari dei contributi comunali e regionali ai soli edifici di culto cattolico o di confessioni munite di intesa, specialmente in considerazione del fatto che l'intervento degli enti locali in materia risulta sostanzialmente finalizzato alla tutela dell'estrinsecazione del sentimento religioso che si pone alla base delle norme costituzionali in materia di libertà religiosa. La Corte Costituzionale, nella summenzionata sentenza n. 195/1993, infatti, ha individuato lo scopo della legislazione regionale sull'edilizia di culto (oggetto di esame era la legge abruzzese, ma il ragionamento è suscettibile di generalizzazione) nell'esigenza "di assicurare edifici aperti al culto pubblico mediante l'assegnazione delle aree necessarie e delle relative agevolazioni" ed ha osservato che, rispetto all'indicata esigenza, "la posizione delle confessioni religiose va presa in considerazione in quanto preordinata alla soddisfazione dei bisogni religiosi del cittadino", in una prospettiva nella quale "tutte le confessioni sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti". In virtù di ciò l'avvenuta stipula di un'intesa non può costituire elemento di discriminazione "nell'applicazione di una disciplina posta da una legge comune, volta ad agevolare l'esercizio di un diritto di libertà dei cittadini" (213). Del medesimo tenore è la pronuncia con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la normativa della Regione Lombardia (art. 1, l.r. Lombardia 9 maggio 1992, n. 20) con riguardo alla mancata erogazione di contributi finanziari nei confronti delle confessioni prive di intesa. In questo senso: "Le intese di cui all'art. 8, terzo comma, sono infatti lo strumento previsto dalla Costituzione per la regolazione dei rapporti delle confessioni religiose con lo Stato per gli aspetti che si collegano alla specificità delle singole confessioni o che richiedono deroghe al diritto comune: non sono e non possono essere una condizione imposta dai pubblici poteri alle confessioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione, loro garantita dal primo e dal secondo comma dello stesso art. 8, né per usufruire di norme di favore riguardanti le confessioni religiose" (214). E' evidente che non è possibile subordinare la rilevanza giuridica e costituzionale della dimensione comunitaria del diritto di libertà religione alla pre-condizione della conclusione di un accordo tra l'ordinamento giuridico italiano e la confessione religiosa di riferimento. La bidimensionalità del diritto di religione, sancita in Costituzione, non può essere neutralizzata nell'esercizio del potere discrezionale del soggetto statale: l'esclusione dall'intesa, e, dunque, il mancato riconoscimento giuridico del gruppo religioso, produrrebbero questa conseguenza. La dicotomia diritto individuale/diritto collettivo, come si è visto, non soltanto incide negativamente sulla tutela del diritto individuale di libertà religiosa; occorre ribadire che anche, sotto il profilo dell'ontologia giuridica, il diritto non può essere dimidiato, non può essere "tagliato a metà". Secondo la Corte, infatti, vale il divieto di discriminazione (art. 3 comma 2 Cost., art. 8 comma 1 Cost) poiché "ne risulterebbe, in caso contrario, violata anche l'eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l'eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario, e sulla quale esercita una evidente, ancorché indiretta influenza la possibilità delle diverse confessioni di accedere a benefici economici come quelli previsti dalla legge in esame" (215). Il "pluralismo a corrente alternata" modifica la dialettica e la simultaneità della dimensione individuale e collettiva del diritto di libertà religiosa che vale per le confessioni munite di intesa nella direzione di una polarizzazione tra i due ambiti ove il soggetto religioso di riferimento sia l'Islam. La tutela giuridica de facto viene realizzata per il tramite di un paradigma di tutela individuale, poiché la titolarità del diritto viene riconosciuta al singolo ma non al gruppo religioso di riferimento. Si prevede che il credente musulmano possa esercitare la libertà di culto a livello individuale, mentre l'esercizio della libertà di culto a livello comunitario, nei fatti, subisce forti limitazioni. In tal modo, la libertà di religione, unitariamente intesa, viene riconosciuta al musulmano in quanto individuo, non in quanto appartenente ad un gruppo religioso. L'unico accesso ad una tutela giuridica collettiva è dunque ineliminabilmente rappresentato dalla stipulazione di un'intesa. La menomazione del diritto di libertà religiosa del suo carattere comunitario produce, dunque, una tutela individuale fortemente compressa nei suoi indici di effettività e compiutezza. Per la Corte infatti, come si è visto, la conseguenza principale del trattamento discriminatorio in tema di edilizia di culto è la violazione dell'eguaglianza dei singoli nel godimento concreto ed effettivo della libertà di culto, l'eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare è una proiezione necessaria della situazione giuridica soggettiva individuale. Dunque, per gli individui che professano una determinata religione, la disponibilità di edifici di culto è un diritto che non può essere degradato ad interesse in ragione della diversa appartenenza confessionale (216).

Si rileva ancora una volta che la violazione del principio di eguaglianza sostanziale - e in questo caso anche del principio di eguaglianza formale - vada di pari passo con il mancato riconoscimento giuridico dei gruppi sociali diversi da quello maggioritario, e dunque, si riconduca alla polarizzazione diritti individuali/diritti collettivi funzionale all'esclusione dei secondi. Se alcune differenze culturali e religiose non vengono considerate rilevanti nello spazio pubblico, diventa facile escludere l'attribuzione di diritti che si riconducono alla valorizzazione e, più neutralmente, alla tutela giuridica di queste differenze. La concezione delle differenze come dati ascrittivi e non come caratteristiche relazionali esclude, poi, un approccio adeguato nella distinzione degli aspetti religiosi da quelli culturali. L'indebita sovrapposizione tra appartenenza religiosa e appartenenza culturale, come si è evidenziato, costituisce un territorio di resistenza alla teorizzabilità dei diritti collettivi, e, dunque, all'attuazione di un sistema che tuteli effettivamente la diversità religiosa, anche soltanto sulla base della legislazione ordinaria esistente. Come si è accennato, l'assimilazione della religione a cultura implica uno spostamento del baricentro del problema: ciò che viene in rilievo per l'ordinamento non è la tutela della libertà di praticare e professare una religione minoritaria, ma il riconoscimento giuridico di una cultura diversa da quella maggioritaria.

Dalla deduzione di tali elementi, per ciò concerne il terreno delle soluzioni normative, è possibile rilevare che la vigente legislazione regionale sull'edilizia di culto non pone ostacoli alla possibilità che i comuni mettano a disposizione aree o contribuiscano finanziariamente alla realizzazione di moschee o di altri edifici destinati al culto islamico. Una sostanziale libertà di azione può esistere anche nei casi in cui la legge regionale sembri più circoscritta in relazione alla individuazione dei possibili beneficiari degli interventi previsti, laddove venga opportunamente presa in considerazione la consistenza della presenza islamica entro un determinato territorio. A tal proposito occorre rilevare che il criterio di collegare l'erogabilità (e la stessa quantità) degli interventi finanziari pubblici all'entità della presenza delle diverse confessioni nel territorio di competenza dell'ente locale, a giudizio della Corte Costituzionale (sentenza 195/1993), ha proprio il significato di condizionare e "proporzionare l'intervento all'esistenza e all'entità dei bisogni al cui soddisfacimento l'intervento stesso è finalizzato", e si pone quindi in coerenza con l'obiettivo di soddisfare le esigenze religiose della popolazione cui deve essere funzionale l'impegno degli enti locali nella progettazione urbanistica, nella realizzazione e nel finanziamento dell'edilizia di culto. In questo senso in linea più generale la circostanza che la confessione islamica rappresenti la seconda religione più diffusa nel territorio nazionale si impone come uno dei fattori che rendono ancora più evidente il vuoto di tutela del sistema e la necessità di rimediarvi.

Si aggiunga poi che la cura degli edifici di culto ha oggi assunto per i comuni la dignità di finalità statutaria (217). Se poi, come esplicitamente dispone lo statuto del comune di Cossato, l'impegno "pubblico" per la cura degli edifici di culto è assunto da un comune che si dichiara "istituzione laica e aconfessionale", che "rispetta allo stesso modo tutte le fedi religiose e ne tutela la possibilità di espressione", l'utilizzo dello strumento urbanistico e l'intervento finanziario comunale non possono trovare altra legittima giustificazione che non sia quella della consistenza e della diffusione a livello locale di una particolare fede.

La situazione si complica, invece, in presenza di disposizioni che pongano quali condizioni per l'accesso alla disponibilità di aree o di contributi per la realizzazione di edifici di culto il riconoscimento giuridico della confessione religiosa e, nondimeno, il carattere istituzionale della competenza dell'ente religioso abilitato a "trattare" con il comune (218). E' palese il rischio di riprospettare a livello locale il medesimo elemento ostativo addotto a livello nazionale alla conclusione di un'intesa ex art. 8 Cost., ossia la difficoltà di individuare una rappresentanza istituzionale unitaria della confessione islamica.

La connessione tra la diffusione della religione islamica e l'incremento sul territorio di migranti musulmani provenienti da paesi non compresi nella Comunità Europea, sovente oggetto delle più grossolane strumentalizzazioni, costituisce in realtà il terreno nel quale è possibile rinvenire una base normativa finalizzata a risolvere il problema della "disponibilità di moschee", in particolare per ciò che concerne la popolazione residente nei comuni maggiormente interessati dal fenomeno migratorio.

La legislazione sull'immigrazione che le regioni hanno in questi anni elaborato al fine di organizzare un sistema di tutela dei migranti 'extracomunitari' presenti sul territorio regionale, potrebbe, infatti, offrire una piattaforma di partenza, ponendo le condizioni favorevoli per un più fattivo impiego dello strumento urbanistico e degli interventi regionali e comunali in materia di edilizia di culto a vantaggio dell'Islam. Infatti, se la gran parte delle leggi regionali sull'immigrazione impegna le regioni nella promozione di iniziative idonee a consentire ai migranti "il mantenimento dei valori culturali del paese d'origine" (219), impegno che già potrebbe essere sufficiente, nella sua genericità, ad includere interventi a favore dell'esercizio di culto, altre, più esplicitamente, parlano di "mantenimento della cultura d'origine con particolare riferimento a religione, abitudini alimentari, vita sociale e tradizioni" (220), di valorizzazione del "patrimonio linguistico, culturale e religioso" (221) oppure di mantenimento della "identità linguistica culturale e religiosa" (222). Altre norme regionali, poi, fanno luogo ad espressa previsione: "nel rispetto dell'art. 8 della Costituzione e nel quadro del riconoscimento ai cittadini stranieri del diritto a professare il proprio credo religioso, in accordo con gli enti locali, la Regione promuove iniziative atte a reperire locali necessari per l'esercizio di culto" (223), o trattando un tema assai prossimo quale è quello degli interventi a favore dei gruppi Rom, impegnano la regione nel garantire "il diritto all'esercizio del culto" (224).

I principi contenuti nelle norme citate trovano, poi, un rafforzamento e un complemento in alcune parti del "Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero" (D. Lgs 25 luglio 1998, n. 286), un esempio è costituito dal testo dell'art. 43 per il quale: "costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale".

Nel novero di tali diritti e libertà è certamente rinvenibile la libertà di esercitare il culto e il diritto di disporre di luoghi adatti allo scopo. Se la legislazione regionale sull'immigrazione, poi, ha promosso la costituzione di Associazioni di immigrati, di cui sono stati istituiti appositi albi, e ha creato enti consultivi degli organi di governo locali ai quali è prevista la partecipazione dei rappresentanti dei migranti e di loro enti associativi, la normativa nazionale si è mossa nella stessa direzione.

Il D. Lgs 286/1998 ha istituito, infatti, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, un apposito Registro nel quale possono iscriversi le associazioni di questo tipo e ha previsto l'istituzione della Consulta per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie e dei consigli territoriali per l'immigrazione. Poiché il conseguimento di un "luogo" ove esercitare liberamente il proprio culto può legittimamente ascriversi nel quadro delle politiche di integrazione sociale perseguite dal Testo Unico, che prevedono tra le altre cose "la valorizzazione delle espressioni culturali, ricreative, sociali, economiche e religiose degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia" (art. 42), tanto le associazioni quanto gli enti consultivi, potrebbero svolgere, stante la richiesta di una rappresentanza islamica, il ruolo che le leggi regionali sull'edilizia di culto assegnano agli enti religiosi istituzionalmente competenti nelle trattative dirette ad evidenziare le esigenze della popolazione residente, cui è appunto connessa l'erogabilità di contributi per la costruzione o manutenzione degli edifici adibiti al culto (225).

La legislazione unilaterale statale e regionale, dunque, astrattamente, offre sufficienti ancoraggi normativi alla tutela del diritto dei credenti musulmani a disporre di "luoghi" da dedicare all'esercizio comunitario del culto, compendiabile nell'espressione "diritto alla moschea".

Se nel corso della trattazione si è cercato di evidenziare come la titolarità dello status di cittadino ponga un discrimen in merito all'esercizio del diritto di libertà religiosa, è possibile rilevare come, a fortiori, all'interno del nostro ordinamento, nel sistema di tutela delle confessioni religiose minoritarie (226) un solco ancora più profondo sia posto dalla titolarità dello status di regolare soggiornante. Sarebbe superfluo ribadire che la mancata ricorrenza di tale presupposto, per esempio, esclude automaticamente per i singoli la partecipazione agli enti associativi cui si è posto riferimento in precedenza. Nell'ambito di politiche migratorie che non hanno implementato né più banalmente tenuto conto del carattere di legge-quadro del già pur deficitario Testo Unico, degradando la suddetta normativa - con le modifiche apportate dalla L. 189/2002 - a legge di pubblica sicurezza, la quasi totalità dei diritti dei migranti viene fortemente compressa o soccombe di fronte all'assoluta prevalenza delle esigenze della sicurezza e dell'ordine pubblico (227).

In considerazione di tali fattori, si comprende agevolmente come, nella stragrande maggioranza dei casi, le comunità islamiche presenti sul territorio si siano organizzate adibendo a "luoghi di culto" edifici che, a norma delle vigenti leggi urbanistiche, sono stati realizzati per altri scopi.

Si tratta di sistemazioni precarie che prestano il fianco ad una eventuale strumentalizzazione delle attività di controllo di conformità urbanistica degli immobili che gli organi di governo degli enti locali sono tenuti a svolgere (non di rado costituenti il pretesto formale nel quale affluiscono tensioni altrimenti non sostanziabili) (228), ma che attestano l'urgenza che per ogni comunità religiosa può avere la disponibilità di "luoghi" ove esercitare comunitariamente il proprio culto.

Botta nota lucidamente come i comuni potrebbero agevolmente assicurare tale disponibilità per il tramite di un'autonoma azione amministrativa diretta a sanare le modifiche di destinazione d'uso degli immobili in oggetto, ogni volta che ciò si renda possibile senza compromettere la "sostanza" dei piani regolatori adottati (229).

Si ribadisce che tale azione sarebbe volta a tutelare l'estrinsecazione del sentimento religioso della popolazione residente, ascrivibile al campo di una situazione giuridica collettiva e individuale, e soltanto mediatamente ad un interesse delle istituzioni confessionali. Nondimeno, nel quadro della descritta legislazione regionale sull'edilizia di culto e sull'immigrazione, risulterebbe pienamente giustificato un intervento finanziario degli stessi comuni per l'erogazione dei contributi necessari all'esecuzione di opere finalizzate alla messa a norma degli edifici in oggetto, ciò in base ai parametri previsti dalle disposizioni urbanistiche, igienico-sanitarie e nel rispetto delle misure di sicurezza per la prevenzione degli incendi.

A tal proposito la bozza di intesa presentata dalla Coreis prevede un impegno della Repubblica "a secondare il rilascio delle autorizzazioni per la costruzione, su domanda della comunità islamica, di nuove moschee e per l'apertura di nuove sale di preghiera, in rispondenza ai bisogni spirituali della popolazione di religione islamica, e nel rispetto degli strumenti urbanistici e dei vincoli ambientali e artistici" (art. 7 comma 1º). Tale bozza così come le proposte rispettivamente presentate dall'Ucoii e dall'Ami prevedono poi per "gli edifici destinati all'esercizio pubblico del culto islamico" un vincolo analogo a quello previsto dall'art. 831 c.c. per gli edifici destinati all'esercizio del culto cattolico (rispettivamente agli artt. 13 comma 1º, 14 comma 1º, 7 comma 2º).

Se un'intesa potrebbe costituire la premessa necessaria all'introduzione di un simile vincolo di destinazione per gli immobili adibiti al culto islamico, altrettanto indispensabile essa non è affinché in primo luogo gli enti locali si impegnino per favorire la disponibilità di "luoghi di culto" da parte della popolazione residente di religione islamica, bastando a tal fine la vigente legislazione regionale sull'edilizia di culto, correttamente interpretata alla luce della sentenze n. 195/1993 e n. 346/2002 della Corte Costituzionale (230).

Si è inteso soffermarsi sugli ambiti preliminari in relazione ai quali si misura la congruità che il nostro sistema di tutela delle minoranze religiose presenta rispetto ai presupposti di una società multiculturale. Nel tentativo di una coerenza tematica con la linea direttrice del lavoro, si è evidenziata - lo si ribadisce - la centralità che il principio di eguaglianza sostanziale riveste nel definire il grado di inclusività ed effettività del sistema in oggetto, a tal proposito si è cercato di porre in rilievo la regione in cui maggiormente si manifesta l'attrito tra questi ultimi paradigmi e il suddetto principio: il sistema delle intese e la mancata conclusione di un accordo con la seconda confessione religiosa più diffusa nel territorio italiano, in primis l'assenza di una legge organica in materia di esercizio della libertà religiosa.

Un passaggio ulteriore - e ancor più significativo al riguardo - ha teso ad evidenziare la sostanziale refrattarietà dell'ordinamento italiano all'attuazione concreta e compiuta di un complesso di norme tutelative della diversità religiosa e culturale, norme che occupano una parte significativa nel panorama legislativo statale e regionale ma che, sul piano dell'applicazione, scontano l'inerzia di un legislatore suppostamente neutrale e sul piano dei contenuti replicano premesse giuridiche più congrue ai confini di uno stato-nazione che a quelli di un ordinamento caratterizzato dalla multiculturalità e dalla multireligiosità.

Differentemente dal campo della tutela della diversità linguistica, in materia di tutela religiosa dei gruppi minoritari, si è visto come, tuttavia, non mancherebbero adeguati presidi normativi e come le soluzioni conseguibili potrebbero caratterizzarsi per un maggior grado di immediatezza. Se teniamo presente che a connotare in senso multiculturale e multireligioso la società italiana non sono esclusivamente i cittadini stranieri e i soggiornanti regolari, occorre rilevare che, stante il fatto che non soltanto per ciò che concerne la tutela religiosa l'ordinamento appare totalmente "sprovvisto", non si comprende perché il campo di tutela esistente non riceva applicazione o compiuta attuazione almeno per coloro che non possono essere disciolti nell'attributo di clandestini.

5.2 Il paradosso della laicità. La laicità come modello di composizione e tutela della diversità religiosa

Il problema politico posto dalla società multiculturale non è strutturalmente diverso da quello storico e sociale che la laicità ha cercato di dirimere: come conciliare l'unità con la differenza (religiosa), come offrire una cittadinanza uguale a credenti appartenenti a fedi diverse, nonché a credenti e a non credenti, ad atei e ad agnostici. E' evidente che la patina di universalismo di cui le istituzioni dei paesi 'occidentali' vestono il concetto di laicità non costituisce una buona premessa di partenza (231). Al contempo occorre rilevare che l'applicazione del "metodo laico" non può essere meccanica. In particolare essa non può comportare - con un procedimento uguale e contrario a quello della riduzione delle religioni a culture - un appiattimento delle differenze culturali sulle differenze religiose in modo da potervi adattare la laicità (232). Le culture, così come le religioni, devono essere assunte nella loro pienezza e nella loro singolarità, senza essere piegate a forzose e finalistiche diagnosi riduttivistiche (233).

Uno sforzo ermeneutico rilevante, allora, non può non riguardare anche il concetto di laicità. In relazione a questo principio non è produttivo un atteggiamento dogmatico. Non è essenziale alla laicità la cecità o l'indifferenza da parte dello Stato alle differenze, in nome di un'astratta eguaglianza dei soggetti; è essenziale, invece, una valorizzazione giuridica delle differenze: dunque un pluralismo garantito e non soggetto ad una continua torsione monistica, un pluralismo effettivo e non snaturato nell'uso monopolistico di un gruppo dominante.

Religioni e culture, con i loro ambiti di sovrapposizione e di esclusività, reggono alla prova dei diritti nella misura in cui la laicità, reinterpretata in senso pluralista e inclusivo, assurga a "norma di riconoscimento" con l'esito di abbandonare del tutto la pregiudiziale incompatibilità rispetto alle domande di riconoscimento giuridico delle differenze culturali e religiose (234) e di acquisire la capacità, se non di accoglierle senza riserve, di vagliarne e rispettarne la specificità.

A tal proposito, occorre individuare il nucleo essenziale del principio di laicità, sfrondarlo dalle addizioni ideologiche che esso ha subito nel corso dei secoli o subisce in determinati contesti culturali, liberarlo dalle impostazioni usualmente percorse all'interno degli schemi culturali e giuridici (235). In queste impostazioni è la laicità alla francese, di cui nella terza parte del presente lavoro si evidenzieranno le diverse declinazioni, che viene assunta come parametro: una separazione tra diritto e culture senza il combinato carattere del riconoscimento. Ne consegue, come si è accennato in precedenza, un'imparzialità interessata e non proprio indifferente, perché in realtà solo apparente rispetto ai fattori culturali e religiosi. La separazione che diviene lo strumento attraverso il quale si garantisce l'universalismo dei diritti non esaurisce il campo della laicità: questa deve comporsi anche del riconoscimento pieno e rispettoso della dignità dell'altro e, quindi, della salvaguardia della sua diversità culturale e religiosa. Lo Stato è laico in quanto non è culturale (come neppure etico o confessionale), è separato da ogni cultura nella misura in cui riconosce il pieno valore delle differenze e, conformemente al carattere necessariamente relativistico della democrazia (236), non ne assume alcuna in proprio: in un quadro fondamentale di valori condivisi o di principi supremi, che trovano espressione nella Costituzione, le tratta tutte con eguaglianza di rispetto (237).

A tal proposito, come si è accennato in precedenza, il nostro ordinamento, accanto ad una laicità negativamente intesa, ha accolto un concetto di laicità positiva.

Il concetto può articolarsi giuridicamente, attingendo al lessico utilizzato dalla Corte Costituzionale in varie sentenze sul tema. Essa ha tradotto il lessema "laicità" con termini come "equidistanza" o "imparzialità" (238); questo atteggiamento può esprimersi come eguale indifferenza agli interessi rappresentati (secondo il modulo della giustizia commutativa) o eguale attenzione ai diversi bisogni (secondo il modulo della giustizia distributiva) (239): due significati che si possono cogliere con riferimento a due soggetti che la Costituzione vuole entrambi imparziali, ma ad uno dei quali, la Pubblica Amministrazione, è inibita una partecipazione alla decisione mentre, all'altro, il giudice, è prescritto di adottarla (art. 97 Cost. e art. 111 Cost.).

Intesa come mero separatismo rispetto alle parti culturali e religiose, la laicità si pone appunto come pari indifferenza e non come pari attenzione, traducendo, dunque, la sua accezione negativa. L'equazione laicità/separatismo, per esempio, induce taluni ad autori ad affermare che "l'Italia, pur certamente pluralista, è ben lontana dall'essere laica" (240) e quindi, a negare l'utilità stessa dell'uso giuridico della nozione di laicità, in quanto priva di univocità e chiarezza (241). Ma la Corte Costituzionale, in coerenza con una valenza in positivo del concetto e dunque con una sua rimodulazione, ha adottato anche un'altra accezione di laicità: "il principio di laicità quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost., implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale" (242). La Corte, quindi, ha interpretato la laicità come pari attenzione, e non come semplice indifferenza, alle espressioni culturali e religiose. Prescindendo da una rassegna delle reazioni che tale interpretazione ha suscitato, occorre evidenziare che non tutte le norme invocate hanno lo stesso peso nella costruzione del principio di laicità. A questo proposito la problematicità di una nozione di laicità fondata anche sul capoverso dell'art. 7 Cost. - che richiama i Patti lateranensi e il loro contenuto (243) - ma ricondotta in linea essenziale al principio di separazione posto dal primo comma del medesimo articolo, è stata risolta dalla giurisprudenza successiva. Essa ha precisato, infatti, che è la "distinzione tra 'ordini distinti' che caratterizza nell'essenziale il fondamentale o 'supremo' principio costituzionale di laicità o non confessionalità dello Stato, quale configurato numerose volte nella giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 203 del 1989 e n. 195 del 1993) (244).

Il principio opera in una duplice direzione: quale divieto di reciproche ingerenze negli affari "interni", e quale divieto di commistione anche parziale dei rispettivi apparati di governo (legislativi, giurisdizionali e amministrativi). "La distinzione tra 'ordini distinti'" altro non è che un aspetto della distinzione tra diritto e morale, tra politica e religione, tra foro interno e foro esterno che costituiscono aspetti della 'eredità della cultura laica moderna'" (245). In questo modo si attua il pluralismo: che secondo la Corte, è unico, non è divisibile con riguardo distinto alle confessioni e alle culture: "regime di pluralismo confessionale e culturale, risultante appunto dall'accoglimento del principio di laicità dello stato" (246). E, tuttavia, il primo comma dell'art. 7 Cost., come sostiene Zagrebelsky, "non contiene ancora una fotografia della realtà, a dispetto della sua formulazione, è una norma programmatica, un obiettivo che deve essere quotidianamente realizzato" (247). La separazione non esaurisce il campo della laicità: questa si compone anche del riconoscimento pieno e rispettoso della dignità dell'altro e, quindi, della salvaguardia della sua diversità culturale, religiosa. Il carattere separatistico e perciò universale della laicità è quello comunemente realizzato nelle esperienze costituzionali ma esso è intimamente legato all'altro, quello del riconoscimento, senza il quale la laicità rimane cieca alle differenze, correndo il rischio, perciò, di rafforzare indirettamente la posizione della cultura dominante (248).

Una rinuncia dell'Islam all'integralismo richiede, al contempo, una laicità proiettata a ripensarsi in una società multiculturale e dunque tesa a fondare un nucleo di regole di convivenza effettivamente neutrali rispetto alle scelte confessionali. "La pluralità delle credenze e delle opinioni, sia religiose che politiche, in pacifica concorrenza tra loro, è una condizione essenziale per la sopravvivenza e il regolare sviluppo di una società democratica" (249). A ciò si riconduce il valore di una laicità pluralista, diversa da quella monista in competizione con altri valori e con le culture e le religioni, una laicità aperta all'inserimento di principi corrispondenti alle diverse identità culturali. In tal modo la laicità si caratterizza come neutralità "attiva" o "positiva": da criterio di neutralità indifferente e di imparzialità distante e procedurale a separazione che contiene l'attitudine dello Stato a porsi "a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini" (250). La decostruzione di un concetto di laicità meramente negativa ha in sé anche il transito verso una laicità inclusiva che riconosca le diverse culture e si ponga a fondamento dei diritti si riconducono alle identità culturali.

In senso interculturale, relativo, la laicità è effettivamente un profilo fondamentale della forma di Stato, come stabilito dalla sentenza 203/89 della Corte costituzionale. Non a caso questa sentenza ha posto la laicità in regime di "pluralismo confessionale e culturale" come principio supremo dell'ordinamento costituzionale: e non potrebbe essere diversamente in una società in cui "hanno da convivere fedi, religioni, culture diverse" (251).

Nella sfida che il multiculturalismo lancia, tra gli altri, al sistema giuridico italiano, la laicità quale strumento e ipostasi del pluralismo, quale piattaforma normativa di una tutela inclusiva e non univocamente rispondente ad appartenenze già pubblicamente rilevanti, traccia alcune significative coordinate. Nella tutela della libertà religiosa dei gruppi minoritari ma ancor più estesamente nella predisposizione di un fondamento logico-giuridico di diritti collettivi attribuibili ed esercitabili in funzione di un'identità culturale e religiosa, questa laicità, accanto al principio di eguaglianza sostanziale, costituisce un criterio-guida. Ai principi e alle istanze che una laicità così intesa sottintende si riconnette fluidamente il riconoscimento dell'eguale diritto a sviluppare differenti identità - linguistiche, religiose, culturali - che "fanno di ciascuna persona un individuo diverso dagli altri e di ciascun individuo una persona come tutte le altre" (252).

Tradurre giuridicamente (253) questa relazione di eguaglianza-diversità entro una società multiculturale e per il tramite di un paradigma multiculturale significa riconoscere "i diritti degli altri" (254) in un contesto normativo "proprio" (255).

Questa considerazione riconduce al pensiero espresso all'inizio della trattazione: il multiculturalismo si caratterizza per una dimensione eminentemente fattuale. Al termine "multiculturalismo", essenzialmente descrittivo, potrebbe essere riconosciuta una valenza prescrittiva forse soltanto nel senso che verrà di seguito precisato: il multiculturalismo come "fatto" si riconnette al diritto vivente. Il diritto prescrive, ma, nella relazione logica fatto-diritto, il diritto non è il prius. Dunque "la società multiculturale rimescola le stesse fonti dei diritto" (256), perché "il diritto non nasce nel palazzo oracolare di un legislatore centralizzato, ma piuttosto entro la vita quotidiana, sorpresa nella sua concretezza dalla operosità dei giudici" (257).

Note

1. A. Pizzorusso, Le minoranze nel diritto pubblico interno, Giuffré, Milano, 1967, p. 11.

2. Cfr. A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Einaudi, Torino, 1993, cap. I e cap. III.

3. Alla base di un'esigenza di razionalizzazione prescrittiva circa i valori di fondo dell'ordinamento si pone il contributo del diritto, tuttavia, non è possibile ignorare l'esistenza dei limiti intrinseci ad un intervento razionalizzatore affidato esclusivamente al diritto, ciò in considerazione della complessità dei meccanismi sociali che fanno sì che la garanzia dell'effettività delle norme non appartenga solo al diritto stesso.

4. La determinazione della nozione di minoranza dà luogo, infatti, a notevoli difficoltà, ciò in considerazione della grande varietà di situazioni, potenzialmente riconducibili ad essa, che si riscontrano nella realtà socio-politica. Non è possibile adottare una definizione unitaria e onnivalente del concetto di minoranza poiché non bisogna prescindere dall'evoluzione storica delle problematiche minoritarie così come dalle differenze che esse presentano nelle varie aree geografiche. In una prospettiva del tutto aperta e astratta, infatti, la tipologia delle minoranze è indeterminabile e infinita, non potendosi stabilire una volta per tutte quei caratteri in base ai quali, nello spazio e nel tempo, un gruppo umano assuma consapevolezza di una propria identità distintiva minoritaria, la quale lo induca poi a rivendicare a proprio vantaggio un riconoscimento e una tutela di tipo giuridico.

5. Cfr. A. Pizzorusso, Minoranze e Maggioranze, cit., 1993, p. 46.

6. A tal proposito è possibile richiamare la distinzione tra una condizione meramente esistenziale di minoranza e una, giuridicamente rilevante, di minoranza protetta: la prima si presenta come la risultante della mera applicazione del principio di eguaglianza formale e di non discriminazione nell'esercizio dei diritti di libertà in ragione dell'appartenenza a gruppi minoritari ed è pertanto conseguente ad un riconoscimento solo indiretto da parte dell'ordinamento; la nozione di minoranza protetta, invece, discende da un riconoscimento esplicito e diretto della sua esistenza, del valore che essa, di per sé rappresenta all'interno dell'ordinamento, dell'obbligo specifico di adeguamento della legislazione generale che quel valore comporta, anche in via derogatoria, rispetto alla portata del principio di eguaglianza formale, dell'assunzione di un onere di riequilibrio della condizione sostanziale dei cittadini a titolo quasi compensativo rispetto alle restrizioni imposte dal fatto minoritario in sé. Cfr. R. Toniatti, Minoranze e minoranze protette: modelli costituzionali comparati, in T. Bonazzi e M. Dunne (a cura di), Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 298. Nel corso della trattazione, per il tramite di un diverso paradigma, si cercherà approfondire tale distinzione.

7. Un esempio in questo senso è significativamente offerto dalla mancata attuazione della normativa vigente in materia di edilizia di culto che consentirebbe di predisporre un importante ambito di tutela nei confronti della minoranza religiosa islamica anche in assenza della stipulazione di una intesa con lo stato italiano. In tal senso il legislatore non ha tenuto conto neppure degli orientamenti giurisprudenzialiche si sono espressi in questa direzione; anticipando un aspetto di successiva trattazione, si richiama la circostanza che le normative della Regione Abruzzo e della Regione Lombardia, discriminanti le confessioni religiose prive di intesa nell'erogazione dei contributi finanziari in tema di edilizia di culto, sono state dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale, ma ciò non ha comportato alcun adeguamento da parte dei suddetti legislatori regionali; cfr. Sent. C. Cost. 27 aprile 1993 n. 195, sent. C. Cost. 16 luglio 2002 n. 346.

8. Il rilievo dogmatico della considerazione non ne esclude il sottostante profilo di analisi politico-giuridica.

9. La trattazione del rapporto tra le due nozioni di "minoranza" e il principio maggioritario è debitrice dell'autorevole analisi svolta da Pizzorusso. Cfr. A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, cit. p. 48; A. Pizzorusso, Le minoranze nel diritto pubblico interno, cit., pp. 8-9.

10. Su tale qualificazione ci si soffermerà in seguito.

11. Cfr. A. Pizzorusso, Le minoranze nel diritto pubblico interno, cit., p. 8.

12. Sul concetto di democrazia deliberativa cfr. S. Benhabib, La rivendicazione dell'identità culturale, Eguaglianza e diversità nell'era globale, cit., pp. 145-192; F. Viola, La democrazia deliberativa tra costituzionalismo e multiculturalismo in "Ragion Pratica", giugno 2003 pp. 33-71; E. Greblo, Politiche del riconoscimento e democrazie deliberativa, in "Ragion Pratica", dicembre 2007, pp. 517-536.

13. Cfr. J. Tully, Strange, Multiplicity. Constitutionalism in an Age of Diversity, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 2-3.

14. Cfr. E. Greblo, Politiche del riconoscimento e democrazia deliberativa, cit., p. 518.

15. Cfr. I.M. Young, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano, 1990, pp. 196-240, v. A.E. Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia e conflitto identitario, Liguori Editore, Napoli, 1999, pp. 32-35.

16. Cfr. J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., pp. 235-259.

17. J.A. Laponce, The protection of Minorities, University of California Press, Berkeley, 1960, pp. 12-13, il quale parla di "minorities by will" e "minorities by force"; A. Pizzorusso, Le minoranze nel diritto pubblico interno, cit., p. 126 e ss.

18. Tali istanze costituiscono il nucleo delle rivendicazioni delle minoranze "loro malgrado".

19. Cfr. Ass. Cost. Disc., p. 5318.

20. Cfr. A. Pizzorusso, Il pluralismo linguistico tra Stato nazionale e autonomie regionali, Pacini Editore, Pisa, 1975, p. 37.

21. C. Esposito, Eguaglianza e giustizia nell'art. 3 della Costituzione, nel volume La Costituzione italiana. Saggi, Cedam, Padova, 1954, p. 49.

22. G. Franchi, Problemi del bilinguismo nel Trentino-Alto Adige, in Atti del primo convegno di studi regionali (Bressanone 27 settembre -1 ottobre1954), Cedam, Padova, 1955, pp. 337-338.

23. In questo senso, F. Finocchiaro, Uguaglianza giuridica e fattore religioso, Giuffré, Milano, 1958, pp. 65-66; A. Pizzorusso, Libertà di lingua e diritto all'uso della lingua materna nel sistema costituzionale italiano, in Rass. dir. pubbl., 1963, pp. 305-306; A. Pizzorusso, Le minoranze nel diritto pubblico interno, cit., p. 323; E. Costa, Le minoranze nel diritto costituzionale italiano, Galizzi, Sassari, 1968, pp. 62,139.

24. A. Pizzorusso, Il pluralismo linguistico tra Stato nazionale e autonomie regionali, cit., p. 40.

25. Nel senso che la tutela dei diritti linguistici non può essere realizzata soltanto attraverso il non-intervento dello Stato, K.D. Mc Rae, The Constitutional Protection of Linguistic Rights in Bilingual and Multilingual States, nel volume Human Rights, Federalism and Minorities, a cura di A. Gotlieb, Canadian Institute of International Affairs, Toronto, 1970, p. 215.

26. Cfr. A. Pizzorusso, Le minoranze nel diritto pubblico interno, cit., pp. 126-134, 321-329.

27. Ciò comporta, ad esempio, la realizzazione di un'organizzazione scolastica nell'ambito della quale i bambini che hanno come propria lingua materna una lingua minoritaria possano sostenere l'intero corso di studi nella loro lingua, anche quando non vi sarebbero i presupposti economici per l'istituzione di scuole adeguate a tale scopo, senza essere costretti a sopportare maggiori spese o maggiori disagi di quelli che gravano sugli alunni che hanno come lingua materna quella della maggioranza. Analogamente la ratio della tutela in esame comporta che gli uffici pubblici debbano essere organizzati in modo da poter comunicare con coloro che usano una lingua minoritaria quale che sia il numero di questi soggetti.

28. A. Pizzorusso, Le minoranze nel diritto pubblico interno, cit., p. 319.

29. A. Pizzorusso, Libertà di lingua e diritti linguistici: una rassegna comparata in "Le Regioni", n. 6/1987, pp. 301-305.

30. Sul carattere di tali discriminazioni ci si è soffermati anche nella prima parte di questo lavoro, esse non si pongono in rapporto di incompatibilità col principio di eguaglianza poiché hanno lo scopo di compensare la situazione di svantaggio derivante dall'inferiorità numerica della minoranza o da altre circostanze che conducono ad esiti analoghi.

31. Gli strumenti di tutela minoritaria che consistono nell'attribuzione di situazioni giuridiche "collettive" non devono essere confusi con gli strumenti che si risolvono nella concessione di autonomie a favore delle minoranze stesse, nel primo caso l'attribuzione di situazioni giuridiche soggettive viene effettuata avendo come termine di riferimento gli individui (anche se si cerca attraverso modalità più o meno perfezionate, di riferirle esclusivamente alla classe di individui appartenenti alla minoranza), mentre nel secondo caso si ha un'attribuzione di poteri a favore di un soggetto in vario modo investito della rappresentanza della minoranza, sia questa provvista o meno di soggettività in senso tecnico.

32. Cfr. A. Ravà, Contributo allo studio dei diritti individuali e collettivi di libertà religiosa nella Costituzione italiana, Giuffré, Milano, 1959, p. 151.

33. A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, cit. p. 199.

34. Come si è visto finora si è preferito restituire tale concetto attraverso l'espressione "tutela dei gruppi linguistici minoritari"; il sintagma "diritti linguistici", scelto in veste sinonimica, traduce, tuttavia, il complesso delle situazioni giuridiche soggettive suscettibili della tutela in esame: tra le altre il diritto a ricevere l'insegnamento nella propria lingua materna, il diritto all'uso della propria lingua nei rapporti con gli uffici pubblici.

35. A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, cit., p. 203.

36. Cfr. C. Mortati, La persona, lo Stato e le comunità intermedie, Torino, ERI, 1971.

37. L'art. 2 costituisce la principale piattaforma costituzionale di un'apertura in senso multiculturale delle istituzioni del nostro paese, sia in ambito giurisprudenziale che legislativo; tale norma può essere il punto di partenza per il riconoscimento di diritti che possono facilitare il mantenimento di espressioni riconducibili all'identità culturale, non soltanto, dunque, a livello individuale ma anche collettivo.

38. A. Pizzorusso, 'Commento all'art. 6' in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli, 1975, vol. I, p. 306.

39. La tematica dei diritti delle minoranze contribuisce in misura apprezzabile alle dinamiche politiche potenzialmente eversive del tradizionale e vigente ordine pubblico interno e internazionale, imperniato sulla sovranità esclusiva dello Stato nazionale; il superamento dell'uniformità normativa quale riflesso (forzato) del dato (e del mito) dell'unità della nazione costituisce la premessa dell'introduzione di statuti giuridici differenziati in relazione ai rispettivi destinatari.

40. Come avviene soprattutto nel caso della Sudtiroler Volkspartei rispetto alla minoranza di lingua tedesca nella provincia di Bolzano, ma anche in quello della Slovenska kulturno-gospodarska zveva rispetto alla minoranza slovena.

41. E' quindi in particolare con riferimento agli enti territoriali la cui costituzione e organizzazione sia avvenuta proprio in considerazione dell'opportunità di consentire alle minoranze di utilizzare per i propri fini le strutture dell'ente che può parlarsi, seppure con un certo margine di improprietà, di autonomie territoriali delle minoranze, pur essendo evidente che gli enti cui sono conferiti i poteri nei quali tali autonomie si concretano non si identificano con le minoranze, né le rappresentano (almeno in senso tecnico), ma costituiscono semplicemente un mezzo per permettere ai membri dei gruppi minoritari di far valere i loro diritti.

42. Cfr. A. Pizzorusso, Le minoranze nel diritto pubblico interno, cit., p. 380 e ss.

43. Cfr. le leggi prov. di Bolzano 29 ottobre 1958 n. 7, 24 novembre 1960 n. 16, 19 gennaio 1973 n. 4.

44. Si consideri anche l'art. 24 del decreto pres. 1º febbraio 1973, n. 49. Sul ricorso ex art. 56 dello Statuto cfr, A. Pizzorusso, Verso il riconoscimento della soggettività delle comunità etnico-linguistiche?, in "Giur. it"., 1972, IV, col. 65 e ss.

45. Analoghe considerazioni potrebbero ripetersi muovendo dall'interpretazione di altre disposizioni del nuovo Statuto, quali l'art. 19 comma 1º, laddove prevede una "proposta vincolante" del "gruppo linguistico interessato" per la determinazione della classe da cui si debba iniziare l'insegnamento in lingua materna dell'italiano o del tedesco come seconda lingua; l'art. 19 comma 5º e 6º, laddove prevedono la formazione da parte dei rappresentanti dei gruppi linguistici tedesco e ladino nel consiglio scolastico provinciale di Bolzano di terne di nomi dalle quali la giunta provinciale di Bolzano deve scegliere, sentito il Ministero della Pubblica istruzione, l'intendente scolastico per l'amministrazione delle scuole tedesche ed, il Ministero stesso, l'intendente scolastico per l'amministrazione delle scuole ladine; l'art. 84, laddove prevede che la maggioranza di ciascun gruppo linguistico consiliare del consiglio regionale e del consiglio provinciale di Bolzano possa chiedere la votazione per gruppi linguistici su singoli capitoli del bilancio regionale o provinciale di Bolzano, o l'art. 92 laddove prevede che i consiglieri regionali e provinciali di Bolzano, anche singolarmente, e la maggioranza dei gruppi linguistici consiliari dei comuni della provincia di Bolzano, possano impugnare dinanzi alla sezione di Bolzano del tribunale regionale di giustizia amministrativa, gli atti amministrativi degli enti ed organi della Pubblica amministrazione aventi sede nella regione, ritenuti lesivi del principio di parità dei cittadini, in quanto appartenenti ad un gruppo linguistico.

46. Il problema, per esempio, ha dato luogo a discussioni in sede di interpretazione dell'art. 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, sostenendosi da parte di alcuni che la tutela prevista da questo testo avrebbe come destinatari i gruppi minoritari in quanto tali e rispondendosi da altri, in conformità alla lettera dello stesso testo, che la tutela in questione non è conferita ai gruppi, bensì alle "persons belonging to such minorities", considerate nella loro qualità di individui. Così dispone la norma citata: "negli Stati nei quali esistono minoranze etniche, religiose o linguistiche, gli individui appartenenti a tali minoranze non possono essere privati del diritto di avere, in comune con gli altri membri del proprio gruppo, una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua"; art. 27, Patto internazionale sui diritti civili e politici, Codice di diritto internazionale pubblico, a cura di R. Luzzatto e F. Pocar, IV edizione, Giappichelli, Torino, 2006.

47. Su un fronte opposto si collocano, per esempio, gli ordinamenti costituzionali di molti paesi del Sudamerica, tra gli altri si cita la Colombia.

48. Poiché tuttavia il problema dell'identificazione degli appartenenti ai gruppi minoritari coinvolge spesso rilevanti difficoltà di ordine politico, psicologico e sociale, che rendono arduo il ricorso agli strumenti tecnici che normalmente vengono impiegati per questo genere di scopi (censimento o anagrafe), si è preferito consentire l'esercizio dei diritti linguistici di tutela minoritaria a chi dichiari di appartenere ad un determinato gruppo, non essendo di norma possibile l'esercizio dei suddetti diritti in forma anonima. Ciò si uniforma pienamente ai principi di libertà e democrazia ma determina qualche difficoltà per ciò che concerne il profilo dei mutamenti di gruppo. Per tale motivo l'ordinamento, tuttavia, si è orientato nel configurare la dichiarazione di appartenenza al gruppo linguistico richiesta dalla legge come una dichiarazione di volontà e non come una dichiarazione di scienza. Se si ammette infatti che la dichiarazione di appartenenza al gruppo sia una dichiarazione di scienza, è possibile istituire un sistema di controllo per accertarne la veridicità, con l'aberrante conseguenza che sarà in definitiva un giudice o un funzionario a stabilire, ad esempio, ove esista un sistema di scuole separate, a quali scuole debbano essere iscritti i bambini. Se si ritiene, invece, che la dichiarazione di appartenenza al gruppo è una dichiarazione di volontà, un controllo quale quello precedentemente descritto non risulta ammissibile e limitazioni di ordine giuridico ai cambiamenti di gruppo potranno venire ostacolate soltanto attraverso mezzi indiretti che le disincentivino, ma non potranno certo essere impedite in modo assoluto.

49. Il principale strumento normativo è rappresentato dall'istituzione delle regioni a Statuto speciale, per alcuni costituenti, ad esso, nei territori in cui si manifestavano corrispondenti esigenze, si sarebbe dovuto integralmente sostituire il principio stabilito dall'art. 6 Cost.

50. Si ometteva tra l'altro di considerare che la struttura espressiva dell'art. 40 Cost, ancor più rigida sotto il profilo dell'interpretazione letterale (art. 12 disp. prel.), non aveva impedito per oltre quarant'anni (1948-1990) il pieno esercizio, pur in assenza di "leggi che lo regolano", del diritto di sciopero.

51. A. Pizzorusso, Tutela delle minoranze linguistiche e competenza legislativa regionale, in "Riv. Trim. dir. pubbl.", 1974, p. 1093 e ss.

52. T.A.R F.V.G., Sentenza 12 agosto 1992, n. 382, in "Foro amm.", 1993, p. 2494.

53. Cfr. T. De Mauro, La cultura degli italiani, F. Erbani (a cura di), Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 8,73,86. A questo proposito, don Lorenzo Milani scriveva "è solo la lingua che fa eguali", Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1967, p. 69.

54. "La riqueza de las distintas modalidades liguisticas de Espana es un patrimonio cultural che séra objeto de especial respeto y proteciòn".

55. La regolamentazione giuridica dell'uso delle lingue non corrisponde ad un'esigenza avvertita in ogni tempo e in ogni parte della terra; al contrario gli storici hanno dimostrato come tale esigenza si sia sviluppata soprattutto in concomitanza con l'avvento dei moderni "stati nazionali". Il rapporto tra lingua e diritto è stato storicamente vagliato nell'ambito di impostazioni centrate sul paradigma dello stato-nazione. L'uso della lingua è divenuto oggetto di disciplina giuridica quando si è manifestata l'aspirazione dei popoli a dotarsi di un'organizzazione statale la quale potesse costituire un fattore di unificazione per tutti gli appartenenti ad una stessa 'nazione', cioè per tutti coloro che presentassero caratteri omogenei dal punto di vista etnico, linguistico e culturale e un corrispondente animus comunitario. (Questa evoluzione storica è descritta in modo efficace da Chabod, cfr. F. Chabod, L'idea di nazione, a cura di A. Saitta, E. Sestan, Laterza, Roma-Bari, 2002). Specialmente nel corso del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo, le ideologie nazionalistiche hanno portato in molti casi alla formazione di stati linguisticamente unitari, sia attraverso la modificazione dei confini, sia attraverso la valorizzazione di una lingua assunta a fattore di unificazione nazionale. Ma lo stesso tipo di moventi ha portato altresì, in alcuni paesi, alla realizzazione di forme di pluralismo linguistico basato sulla pari dignità di differenti lingue nazionali, alcune delle quali riconosciute come tali soltanto con riferimento ad una parte del territorio dello stato. In seguito ai tragici avvenimenti culminati nei due conflitti mondiali, che hanno dimostrato a quali esiti potesse condurre l'esasperazione dello spirito nazionalistico, e in seguito alla crescente comunicazione globale determinata dall'imponente sviluppo tecnologico degli ultimi decenni, le motivazioni che avevano determinato l'adozione di forme di tutela linguistica negli stati plurilingui hanno subito un'importante evoluzione che ha condotto al transito dal principio di nazionalità al principio pluralistico nella funzione di presupposto ideologico della tutela linguistica. Ciò ha prodotto un notevole ampliamento della sfera di operatività della suddetta tutela. La concezione della lingua come bene culturale ha poi consentito di estendere le prospettive della tutela linguistica, liberandola almeno in parte dal collegamento alle ideologie nazionalistiche che avevano caratterizzato la fase precedente e che rendevano la corrispondente impostazione inaccettabile a settori non trascurabili dell'opinione pubblica. In questo senso cfr. A. Pizzorusso, Minoranze e Maggioranze, cit., pp. 185-204.

56. La suddetta concezione naturalmente può altresì ritenersi operante nei confronti di quelle espressioni linguistiche che vanno sotto il nome di "dialetti".

57. Si pensi all'impostazione del famoso Discours sur l'universalité de la langue française che nel 1784 valse al suo autore, Antoine Rivarol, il premio dell'Accademia di Berlino, ovvero alle tesi che furono sostenute dall'abbé Grégoire, durante il periodo rivoluzionario, sulla necessità di considerare il francese come la langue de la liberté e conseguentemente di imporne l'uso ai popoli sottomessi dagli eserciti della Repubblica (Su quest'ultima vicenda, cfr. L. Renzi, La politica linguistica della rivoluzione francese, Liguori, Napoli, 1981).

58. Il termine è stato coniato nel 1959 da C.A Ferguson, 'Diglossia', in "Word", XV, 1959, pp. 325-340, ad indicare l'uso, all'interno di una singola società o comunità, di codici linguistici distinti.

59. Per giungere ad una notazione di carattere concreto, vivendo in un clima temperato siamo soliti dare un solo nome al ghiaccio, per gli Inuit, invece, risultando essenziale per la loro stessa sopravvivenza la conoscenza di quale tipo di ghiacci e di nevi possano sostenere il peso di un uomo, di un cane o di un kajak, ciascuno di questi tipi di ghiaccio ha assunto un nome diverso.

60. Gli aspetti richiamati saranno introdotti nella forma della notazione e verranno scelti in funzione della loro attinenza, ma ancor più della loro valenza analitica in relazione al fine principale di questo lavoro: la ricognizione - lo si ribadisce - per il tramite di una trattazione tecnico-giuridica dei diritti collettivi, dei presupposti di rispondenza del nostro ordinamento ad un'istanza pluralista e più specificamente multiculturale. Per tale motivo, evidentemente, la trattazione successiva non ambisce ad un'analisi esaustiva della L. 492/1999.

61. In questo senso si pronuncia Toniatti, cfr. R. Toniatti, La rappresentanza politica delle minoranze linguistiche: i ladini tra rappresentanza "assicurata" e "garantita", Nota a sentenza n.261/1995, "Giur. Cost.", p. 1281 e R. Toniatti, Minoranze e minoranze protette: modelli costituzionali comparati, cit., p. 292 e ss.

62. D. Bonamore, Lingue minoritarie, lingue nazionali, lingue ufficiali nella legge 482/1999, FrancoAngeli, Milano, 2004, p. 24.

63. Si tratta delle popolazioni albanesi, catalane, greche e croate e delle minoranze linguistiche franco-provenzali, friulane, occitane e sarde.

64. A tal fine intervengono i commi della norma; comma 1º: "in conformità a quanto previsto dall'art. 3 comma 1º della presente legge, nell'esercizio dell'autonomia organizzativa e didattica di cui all'art. 21, commi 8 e 9, della legge 15 marzo 1997, n. 59; comma 2º: "nei limiti dell'orario curricolare complessivo definito a livello nazionale"; comma 3º: "nel rispetto dei complessivi obblighi di servizio dei docenti previsti dai contratti collettivi"; comma 4º: "anche sulla base delle richieste dei genitori degli alunni".

65. Non sfugge l'analogia con la formula legislativa adottata in riferimento alla scelta di avvalersi "della religione cattolica". Cfr. D. Bonamore, L'insegnamento della religione cattolica nel diritto positivo italiano, in "I Problemi della pedagogia", 1983, p. 465 e ss.

66. Cfr. le clausole di cui al n. 2 e n. 5 dell'art. 4 che appunto esigono la richiesta dei genitori affinché i loro figli frequentino classi in cui sia stato istituito "l'uso anche della lingua della minoranza".

67. In questo senso l'insegnamento di una lingua non viene subordinato ad una restrizione; infatti, secondo l'argomento richiamato, dato il pluralismo linguistico presente de facto, ciò che si privilegia è la facoltà da parte dei genitori di scegliere di "avvalersi" per i propri figli dell'insegnamento di una determinata lingua piuttosto che di un'altra, nel caso di specie della lingua maggioritaria sul territorio nazionale piuttosto che della lingua della minoranza protetta.

68. Si è espressamente fatto riferimento alla nozione di apprendimento, perché essa include simultaneamente sia il mezzo sia il fine che una struttura organizzata, nella specie un sistema scolastico, deve offrire per conseguire il risultato per cui è predisposta: la piena conoscenza della lingua riconosciuta.

69. Si aggiunga che, stante la presenza di tale norma i decreti ministeriali di cui all'art. 5 della L. 482/1999 potevano non essere emanati. Se si considera il disposto dell'articolo citato ("Il Ministero della pubblica istruzione, con propri decreti, indica i criteri generali per l'attuazione delle misure contenute nell'articolo 4 e può promuovere e realizzare progetti nazionali e locali nel campo dello studio delle lingue e delle tradizioni culturali degli appartenenti ad una minoranza linguistica riconosciuta ai sensi degli articoli 2 e 3 della presente legge") e si riflette sulla circostanza che il regolamento di attuazione è stato emanato prima dei decreti ministeriali, può rilevarsi un'assenza di coerenza nel piano di implementazione legislativa. Gli interventi del Ministero della Pubblica Istruzione in oggetto sono i seguenti: "Ministero della Pubblica Istruzione - Direzione generale per gli ordinamenti scolastici - Lettera circolare n. 89 (Prot. n. 4037) del 21 maggio 2001", "Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca - Dipartimento per lo sviluppo dell'Istruzione, Direzione generale per gli ordinamenti scolastici, Ufficio X - Circolare Ministeriale n. 90 (Prot. n. 14360) del 31 luglio 2002".

70. Si tratta di un termine ordinatorio, e, in ogni caso, il ritardo non è in alcun modo sanzionabile per l'ordinamento giuridico italiano.

71. L'unica norma dell'articolo citato che non incorpora termini e scadenze di legge è contenuta nel terzo comma: "L'ambito territoriale e sub-comunale in cui si applicano le disposizioni di tutela di ciascuna minoranza linguistica storica previste dalla legge coincide con il territorio in cui la lingua ammessa a tutela è il modo di esprimersi dei componenti della minoranza linguistica", art. 1 comma 3, L. 482/1999.

72. Si è già fatto riferimento all'art. 3 e al paradosso che mette in campo: "La delimitazione dell'ambito territoriale e sub-comunale in cui si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche previste dalla presente legge è adottata dal consiglio provinciale, sentiti i comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi, ovvero di un terzo dei consiglieri comunali dei medesimi comuni", art. 3 comma 1, L. 482/1999.

73. Se la salvaguardia linguistica trova attuazione solo se "richiesta" dai soggetti interessati, numerosi sono i paletti posti dalla disciplina circa il procedimento previsto. Il quarto comma dell'art. 1 del regolamento di attuazione innalza e complica il tenore burocratico dell'art. 3 comma 1 L. 482/1999: "Entro novanta giorni dal ricevimento delle richieste avanzate dai soggetti di cui al comma 1 dell'articolo 3 della legge, i consigli provinciali, sentiti i comuni, sono tenuti a pronunciarsi, sulla delimitazione dell'ambito territoriale con un atto motivato", art. 1 comma 4 cpv., D.P.R 2 maggio 2001, n. 345. In questo senso si colloca l'intero corpo della norma. A tal proposito: "A nessuno verrebbe in mente di affidare l'incarico di riportare alla luce civiltà ormai scomparse a burocrati e a politici; per di più fissando loro termini e scadenze di legge", D. Bonamore, Lingue minoritarie, lingue nazionali, lingue ufficiali nella legge 482/1999, cit., p. 45.

74. Per due di esse, la cui presenza è maggioritaria nelle rispettive regioni, è il caso del friulano e del sardo, l'insegnamento era stato attivato prima che intervenisse il legislatore. Per altre, ad esempio il "grico" e l'albanese, l'insegnamento esisteva, in alcune facoltà in quanto lingue ufficiali di stati vicini: Albania, Jugoslavia, ora Croazia e Slovenia, Grecia, sebbene quelle parlate in Italia siano esito di evoluzioni diverse. Del pari erano già state attivate, in alcune Università cattedre di sloveno e di ladino, in virtù del riconoscimento di quelle lingue in tre circoscritte province (Bolzano, Gorizia, Trieste). Ignorate dalle Università, ma come tutte quelle oggi riconosciute, anche dalla cultura dominante, restavano l'occitano e il franco-provenzale. Il catalano, in ragione dei trascorsi legami etnici, storici, culturali e della contiguità geografica, viene insegnato ad Alghero.

75. Anche se, ascritto al piano di obiettivo da raggiungere, il pluralismo è un principio che, nelle odierne società multiculturali, sottostà (o dovrebbe sottostare) a tutti gli effetti alla regolamentazione giuridica dell'uso delle lingue. Più in generale l'intero rapporto tra lingua e diritto sfugge per gran parte alla coscienza comune. Una maggiore cognizione delle norme in materia di tutela linguistica, potrebbe favorire l'attribuzione di nuove situazioni giuridiche collettive, 'ex parte populi'. E' evidente che tali obiettivi non sono conseguibili sul piano accademico, ma la mancata previsione in ambito universitario di insegnamenti specifici - che mettano a fuoco l'ambito di intersezione tra lingua e diritto - appare sintomatica.

76. Nel corso del convegno tenutosi a Udine nel maggio 2001 dal titolo "Università e tutela delle lingue minoritarie", in una relazione ufficiale è stata avanzata la proposta di istituire la cattedra "diritto delle lingue minoritarie", A. Biasatti, Lingue minori in cattedra, "Il Friuli", maggio 2001, p. 23.

77. "Nei comuni di cui all'articolo 3, i membri dei consigli comunali e degli altri organi a struttura collegiale dell'amministrazione possono usare, nell'attività degli organismi medesimi, la lingua ammessa a tutela", art. 7 comma 1, L. 482/1999.

78. D. Bonamore, Lingue minoritarie, lingue nazionali, lingue ufficiali nella legge 482/1999, cit., p. 47.

79. A tal proposito si introduce quanto è accaduto a Kriz S.Croce, un paese del Carso mai costituito in Comune e accorpato a quello di Trieste, abitato in tempi passati quasi esclusivamente da sloveni, i quali oggi rimangono sempre la maggioranza. Il giornale italiano in lingua slovena, il Primorski dvenik del 17 novembre 2001, titolava: Kriz: na posti ne znajo slovenscine (all'ufficio postale non conoscono lo sloveno). Il Consiglio circoscrizionale si è rivolto per provvedimenti alle Direzioni postali competenti e, per conoscenza, al Prefetto. Si noti che per gli sloveni di Trieste e Gorizia l'uso negli uffici pubblici della lingua materna è un diritto-dovere sancito da norme spesso disapplicate.

80. Sono considerate minoranze linguistiche riconosciute quella francese della Val D'Aosta, quella tedesca e ladina del Trentino Alto-Adige e quella slovena della Provincia di Trieste. Norme speciali applicabili nel processo penale esistono però solo per i cittadini di lingua francese della Val D'Aosta (art. 38 della L.C. 28 febbraio 1948, n. 4, approvante lo Statuto speciale della regione) e per i cittadini di lingua tedesca del Trentino Alto-Adige (in particolare il capo IV del D.P.R. 15 luglio 1988, n. 574, recante attuazione dello Statuto speciale della regione, disciplina l'uso della lingua minoritaria nei rapporti con gli uffici giudiziari e con gli organi giurisdizionali), I nuovi codice penale e codice di procedura penale e leggi complementari, a cura di Luigi Alibrandi e PierMaria Corso, 2007 ed. XXIV, CasaEditriceLaTribuna.

81. Il termine suggerisce un concetto emblematico, quello di "octroyer".

82. Nella provincia di Cosenza l'originario Tomori è divenuto "Tamburi", cognomi quali "Sarro", "Sarri", "Pisarri", "Pisarra", "Pisarro", derivano tutti dall'originario Sharri; i Kelmendi si sono trasformati in "Chimenti"; i Maliq in "Malicchio"; i Myzeki sono ormai diventati "Musacchia", "Muracchia", "Musacco".

83. L'espressione non è totalmente neutra e priva di riferimenti.

84. Sono presenti con più di cinquanta frazioni o comuni nelle sette regioni meridionali. In ordine discendente: Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia.

85. Dall'italiano dialettale ai prestiti sloveni o croati (Slovensko Ròma, Hrvatsko Ròma, vengono definiti i parlanti); dall'influenza turca (che caratterizza i Xoraxani Ròma) a quella romena dei dialetti vlaz.

86. A. Pizzorusso, Il pluralismo linguistico tra Stato nazionale e autonomie regionali, cit., p. 29.

87. Cfr. nota 12 del capitolo I.

88. Documenti storici fanno risalire i primi arrivi in Italia al 1422, a Bologna e a Forlì; altri gruppi sono arrivati all'inizio del Novecento, essi provenivano in particolare dall'Ungheria; a metà degli anni cinquanta, vi furono migrazioni dalla Jugoslavia, e tra gli anni sessanta e ottanta dalla Serbia, dalla Croazia, dal Kosovo, dalla Macedonia e dalla Bosnia. Occorre menzionare poi i 60.000/80.000 profughi arrivati in Italia dalla ex-Jugoslavia a partire dal 1991-1992.

89. In generale la situazione di maggiore precarietà riguarda indubbiamente Rom e Sinti stranieri: è il caso, ad esempio, dei Rom khorakhané, dacixané, kanjara, rudari arrivati in Italia dalla Jugoslavia a ondate successive dal 1960 fino alla fine della guerra jugoslava. La maggior parte di loro sono entrati illegalmente in Italia e molti non posseggono neanche un documento di riconoscimento del paese d'origine. In quest'ultimo caso la loro condizione giuridica è drammaticamente precaria, non potendosi comprovare né l'identità, né la determinazione di una nazionalità. Sono assimilabili a questa categoria anche i minori nati in Italia, ma mai denunciati all'anagrafe. Per ciò che concerne i Rom giunti in Italia dall'ex-Jugoslavia a partire dal 1991, citati nella nota precedente, in ragione del motivo del loro ingresso, essi rientrano di diritto nella categoria degli sfollati. La loro condizione di sfollati, tuttavia, non ha trovato di fatto un concreto riconoscimento. A tal proposito cfr. A. Schiavon, Le normative italiane riguardanti l'accoglienza degli sfollati dai territori della ex-Jugoslavia e M. Delle Donne, Roma: profughi dalla ex- Jugoslavia e zingari. Una questione di pubblica sicurezza, in Zingari profughi. Popolo invisibile, a cura di C. Osella, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1997.

90. Nel settembre 1995 il Consiglio d'Europa, da sempre attivo in materia di tutela delle minoranze, ha istituito un Comitato di esperti sulle problematiche dei Rom, con l'obiettivo di promuovere indagini, studi e programmare attività. Anche l'Osce ha adottato un Piano d'azione globale incentrato sul miglioramento della situazione dei Rom e dei Sinti nei paesi aderenti. A livello di Unione europea è presente un quadro giuridico antidiscriminazione, fondato in particolare su tre dispositivi specifici: la direttiva 2000/43/CE, la direttiva 2000/78/CE e la decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia. In seguito ai processi di transizione dei paesi dell'Est e all'aumento dei flussi migratori verso ovest, ma soprattutto agli ampliamenti dell'Unione a 27 paesi con i quali alcuni milioni di Rom sono diventati cittadini comunitari, è aumentato anche l'interesse dell'UE verso tale minoranza, soprattutto per gestire l'impatto determinato dalla libera circolazione delle persone. Nei confronti degli Stati membri, l'Unione ha formulato raccomandazioni e linee guida per il miglioramento delle condizioni di vita dei Rom, che come tali non sono però vincolanti. Inoltre, attraverso i fondi strutturali - in particolare il Fondo sociale europeo e gli altri strumenti finanziari di preadesione - sono stati finanziati numerosi programmi di lotta alla discriminazione, alla povertà, al razzismo e di promozione dell'inserimento socio-lavorativo. Tra questi un rilievo particolare l'ha avuto l'iniziativa comunitaria "Equal", nell'ambito della quale la Commissione europea ha invitato gli Stati membri a riservare un'attenzione particolare ai Rom. Nel 2007 la Commissione ha anche pubblicato la "Relazione del gruppo consultivo di esperti di alto livello sull'integrazione sociale delle minoranze etniche e sulla loro piena partecipazione al mercato del lavoro", che contiene raccomandazioni specifiche per combattere l'esclusione dei Rom attraverso un investimento maggiore nella formazione e nella scolarizzazione dei bambini Rom.

91. In particolare in una circolare del 1973 si chiedeva ai sindaci di abolire i divieti di sosta per i nomadi e di favorirli in materia di iscrizione anagrafica, licenze di lavoro, aree di sosta e scolarizzazione dei bambini. Nel 1985 un'altra circolare auspicava che a livello locale venisse garantita eguaglianza degli appartenenti ai gruppi nomadi agli altri cittadini e si fornisse un'adeguata risposta ai bisogni primari delle popolazioni nomadi, nel rispetto della cultura e delle tradizioni di vita. Quale riconoscimento dell'identità e quali garanzie nel godimento dei diritti potevano derivare da tale normativa?

92. Di altro tenore e segno rispetto alle circolari citate nella precedente nota, sono le circolari n. 301 del 1989 e n. 205 del 1990.

93. Ci si riferisce, ad esempio, all'attività svolta ormai da decenni dall'Opera Nomadi.

94. A partire dal 1984, diverse regioni italiane hanno varato leggi volte a promuovere la tutela della cultura Rom, prevedendo finanziamenti ai Comuni per l'allestimento dei campi soste e l'attivazione di iniziative a sostegno di tali gruppi.

95. Tale necessità era stata ribadita nell'ambito della prima conferenza internazionale sulla situazione dei Rom, organizzata nel gennaio 2008 dal Ministero dell'Interno e dal Ministero della Solidarietà sociale, in essa è stato illustrato il progetto finalizzato al riconoscimento nei loro confronti dello status di minoranza linguistica ma anche l'avvio per il riconoscimento del loro status giuridico, tramite la costituzione di una commissione interministeriale della quale avrebbero dovuto far parte anche le associazioni delle comunità.

96. La religiosità si colloca e trova la sua giustificazione anche nell'ambito antropologico-culturale. A tal proposito: "La religione è un sistema culturale", C. Geertz, Interpretazione di culture, cit., p. 114.

97. Il diritto di libertà religiosa comprende la facoltà di professare la propria fede religiosa, di farne propaganda e di esercitarne il culto.

98. "Nello stato democratico, infatti, se i diritti di libertà non possono più concepirsi come una difesa contro l'autorità, non possono concepirsi neppure come il momento originario di detta autorità". A. Ravà, Contributo allo studio dei diritti individuali e collettivi di libertà religiosa nella Costituzione italiana, cit., p. 16.

99. P. Calamandrei, L'avvenire dei diritti di libertà, in F. Ruffini, I diritti di libertà, Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. XIV.

100. Cfr. A. Ravà, ult. op. cit., p. 26.

101. "Tali diritti sono permeati di un valore che trascende l'uomo singolo e investe tutta intera la società, per cui di fronte ad una illegittima violazione di uno di questi diritti, si sentono in modo diretto colpiti tutti i cittadini e non soltanto quelli che siano interessati: colpiti in quel loro diritto di libertà, che è in fondo uno solo: spetta ad ogni uomo e la sua lesione lede ciascuno", M. Cappelletti, La giurisdizione costituzionale delle libertà, Giuffré, Milano, 1955, p. 2.

102. E' del resto storicamente nota la tendenza alla "culturalizzazione" o "etnicizzazione" di conflitti di carattere politico; tendenza, del resto non disgiunta dall'ipostasi ultima della "umanitarizzazione" dei conflitti. (Spontaneo è il riferimento alla massima di Proudhon che ha offerto lo spunto per il titolo di un'opera di D. Zolo, cfr. D. Zolo, Chi dice umanità ?, Einaudi, Torino, 2000). Cfr. D. Zolo, Fondamentalismo umanitario, in M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 147 e ss. Colaianni parla invece di ricorso ad "una sorta di mitologia sostitutiva del carattere politico ed economico dei conflitti". N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose, Un percorso costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 12.

103. Cfr. S. Ferrari, Libertà religiosa e sicurezza in Europa dopo l'11 settembre, in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 1/2005, p. 161.

104. M. Aime, Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004, p. 17.

105. Questo paradigma viene frequentemente invocato per ciò che concerne i luoghi di culto della religione musulmana: si è posto aproblematicamente un bilanciamento tra la libertà di culto e supposte esigenze legate alla sicurezza e all'ordine pubblico. In ragione della prevalenza delle suddette esigenze, molte amministrazioni comunali in Lombardia e in Veneto (Treviso), hanno stabilito la chiusura degli spazi adibiti a moschee.

106. In conformità con la fisionomia di uno stato liberale, sembra che sia più agevole prendere in considerazione l'individuo come soggetto libero di professare una religione diversa da quella cattolica, piuttosto che come individuo appartenente ad un gruppo minoritario svantaggiato rispetto al gruppo maggioritario.

107. N. Fiorita, Alla ricerca di una nozione giuridica di identità culturale: il contributo del diritto ecclesiastico, p. 4 in volume di prossima pubblicazione. Ciò che ne esce debole è dunque in generale l'intero sistema di tutela delle minoranze 'volontarie'.

108. E. Olivito, Primi spunti di riflessione su multiculturalismo e identità culturali nella prospettiva della vulnerabilità, in "Politica del diritto", n. 1/2007, p. 71 e ss.

109. Il tema della salvaguardia della cultura d'origine da parte dei migranti nella forma del riflesso autodifensivo rispetto alla società di insediamento sarà approfondito nella terza parte del presente lavoro.

110. Le culture né si scontrano né si incontrano, al massimo ciò accade agli individui che a tali culture appartengono.

111. N. Fiorita, Alla ricerca di una nozione giuridica di identità culturale: il contributo del diritto ecclesiastico, cit., p. 7.

112. N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, cit., p. 37.

113. "Quanto più grande è la disuguaglianza tra i gruppi religiosi, tanto più limitata rischia di divenire la libertà religiosa di ciascun membro dei gruppi meno favoriti", cfr. S. Ferrari, Separation of Church and State in Contemporary European Society, in "Journal of Church and State", n. 3, Autumn 1988, pp. 543-547.

114. Un diritto che preveda discriminazioni positive per assicurare ad ogni persona una diversità effettiva in un contesto caratterizzato dalla diseguaglianza nelle condizioni di partenza, dunque, in primo luogo, dovrebbe trascendere, l'elemento territoriale.

115. Se il regime fascista qualifica il cattolicesimo come religione di stato, l'ordinamento giuridico italiano conferisce alla Chiesa cattolica uno status di privilegio che, come si vedrà successivamente, non viene a cadere neppure con l'entrata in vigore dei dirompenti principi codificati nell'art. 8 Cost.

116. Tali strumenti normativi sono necessari per la produzione dei relativi effetti giuridici nell'ordinamento statale.

117. N. Fiorita, Alla ricerca di una nozione giuridica di identità culturale: il contributo del diritto ecclesiastico, cit., p. 11.

118. Si pone il problema del contrasto tra il ricorso a determinate pratiche anche indebitamente ascritte alla sfera religiosa e i principi che regolano la convivenza nella società di insediamento, il parametro giuridico e assiologico invocato nella soluzione di tale conflitto è costituito dai diritti umani (tale tematica sarà approfondita nella terza parte del lavoro). Ne discende che un contemperamento tra l'esigenza di svolgere pratiche in cui si concreta la diversità religiosa e i principi fondamentali dell'ordinamento può risultare sempre possibile ove non sia integrata una violazione dei diritti umani. Il problema dell'incompatibilità rispetto ai principi-cardine dell'ordinamento si pone piuttosto con riguardo ai comportamenti impropriamente qualificati come religiosi.

119. Cfr. R. Mazzola, La convivenza delle regole. Diritto, sicurezza e organizzazioni religiose, Giuffrè, Milano, 2005, p. 39 e ss.; A. Guazzarotti, Giudici e minoranze religiose, Milano, Giuffré, 2001.

120. Cfr. N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose, Un percorso costituzionale, cit., p. 16.

121. Cfr. E. Santoro, Diritto e diritti: lo stato di diritto nell'epoca della globalizzazione, Giappichelli, Torino, 2008.

122. Pur in presenza di un processo di patologia che affligge le istituzioni degli altri due poteri dello stato, altra parte della dottrina rileva che l'ordinamento giuridico italiano resta comunque un sistema di civil law. A questo rilievo fa poi eco la considerazione che negli ultimi anni il giudice italiano, in alcune pronunce relative all'esercizio della libertà religiosa (esposizione dei simboli religiosi, crediti scolastici), è apparso piuttosto nella veste storica e tradizionalmente conservatrice di "bouche de la loi", confermando i valori della cultura maggioritaria e non offrendo copertura giuridica ad esigenze difformi.

123. I tentativi al riguardo si susseguono da vent'anni senza risultato: l'ultimo è stato il testo unificato dal relatore Zaccaria (il quale lo ha ripresentato nell'attuale legislatura: A.C. 448) delle proposte A.C. 36, Boato, e A.C. 134, Spini e altri.

124. La fonte legislativa assicurerebbe univocità e uniformità per ciò che concerne il parametro di giudizio.

125. Questo rilievo evoca il tema del conflitto tra diritti riconducibili all'identità collettiva e diritti facenti capo all'identità del singolo, che, con riferimento alla problematica di genere, sarà oggetto di successiva trattazione.

126. "Parola ambigua 'integrazione'. E' il risultato dell'integrare e/o dell'integrarsi. La prima è l'azione di una comunità più ampia che realizza le condizioni, rimuove gli ostacoli come dice l'art. 3. 2 Cost., perché quella più piccola possa entrare a farne parte a parità di diritti e assumendone le caratteristiche sociali e culturali più salienti. La seconda è l'azione di una comunità più piccola che si avvale di quelle condizioni per entrare a far parte della comunità più grande. Ma a quale prezzo? Può trattarsi di un'annessione da parte della comunità più forte, che assimila la più debole, ne disperde le differenze culturali. Non senza trascurare che a determinare la torsione della politica del soggetto più forte in senso assimilazionista o annessionista o xenofobo sono le sue parti più deboli, sul piano professionale o del reddito, data la loro più diretta esposizione alla concorrenza dei migranti. E può essere, peraltro, la comunità più debole ad appiattirsi su un sistema di vita culturale accettato passivamente. L'ambiguità dell'integrazione è data insomma dal fatto che all'origine dell'azione c'è un soggetto culturalmente, politicamente, economicamente forte ed un soggetto debole", N. Colaianni, Islam ed ebraismo: dall'integrazione all'interazione, in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 1/2009, p. 70.

127. Cfr. R. Botta, Tutela del sentimento religioso e appartenenza confessionale nella società globale, Giappichelli, Torino, 2002.

128. Cfr. G. Casuscelli, Le proposte di intesa e l'ordinamento giuridico italiano. Emigrare per Allah/emigrare con Allah, in Musulmani in Italia, La condizione giuridica delle comunità islamiche, a cura di S. Ferrari, Il Mulino, 2000, pp. 84-91.

129. Tale rilevanza risulta consolidata anche per il tramite di una serie di rinvii - talvolta impropri - che le leggi ordinarie hanno operato "alle confessioni dotate di intesa" per assicurare a queste (e non ad altre comunità religiose) agevolazioni in materia di disciplina urbanistica e trattamento dei dati informatici, ad esempio.

130. Si anticipa che, stante l'assenza di una legge organica in materia, l'intesa si è sostanzialmente trasformata da accordo bilaterale a passaggio obbligato per accedere ai vantaggi della legislazione unilaterale, statale e regionale. Non solo il legislatore statale ma anche quello regionale ha limitato l'applicazione di alcune norme alle sole confessioni religiose munite di intesa: è quanto è accaduto nella disciplina che regolamenta il finanziamento dell'edilizia di culto, in quella dettata in materia di privacy (materie cui si è posto riferimento in precedenza), in quella relativa alle ONLUS, nella normativa che stabilisce i vantaggi fiscali degli enti ecclesiastici. Cfr. G. Casuscelli, ult. op. cit.

131. A tal proposito, le modifiche intervenute nelle intese con le Comunità ebraiche e con i Valdesi sono state emblematiche della duttilità dello strumento e dunque della capacità di recepire all'interno dell'accordo mutamenti di sensibilità intervenuti in entrambi i soggetti contraenti.

132. A questo proposito, si aggiunga che, rebus sic stantibus, un ampio settore di studiosi si sia espresso, in relazione alle future intese, in favore di uno spostamento nell'ambito del diritto unilaterale dello stato di numerose materie che finora sono state disciplinate per intesa: questa tesi è stata sostenuta con l'apprezzabile finalità di ripristinare l'originaria funzione delle intese ma condurrebbe (salvo inverosimile rinuncia alle posizioni acquisite da parte delle confessioni che hanno già stipulato un'intesa) ad un esito non meno sperequativo nei confronti delle confessioni da ammettere all'intesa. La ragione consiste nel fatto che una medesima materia, verrebbe disciplinata con norme di forza diversa: le confessioni i cui rapporti sono regolati mediante intesa beneficerebbero della copertura costituzionale dell'art. 8 Cost., mentre la disciplina normativa di una determinata materia nei rapporti con le confessioni da ammettere all'intesa avrebbe il rango di legge ordinaria. Inaugurare questo corso proprio con l'Islam sarebbe iniquo, ma nondimeno politicamente arduo. A tal proposito, cfr. S. Berlingò, La prospettiva di un'intesa con l'Islam in Italia, in "Anuario de derecho eclesiastico del Estado", 1998, pp. 643-656.

133. Soltanto ricorrendo a tale soluzione, per molti autori potrebbe essere arginato il processo di deterioramento che concerne l'istituto delle intese, esso ha quasi completamente perso la funzione, in cui risiedeva la sua principale utilità, di dare cittadinanza nell'ordinamento giuridico dello stato agli istituti maggiormente espressivi del proprium di ogni esperienza religiosa, coerentemente con le libertà (e anche con le limitazioni) caratteristiche di un modello pluralista. Da strumento di salvaguardia del pluralismo esso è divenuto piuttosto espressione di una politica assimilazionista, come si è detto, al paradigmatico e tutt'altro che formale aspetto della ripetitività delle intese sottostà l'annacquamento della specificità dell'identità religiosa e dell'appartenenza confessionale.

134. La rilevanza della dimensione associativa è confermata dal rapporto che intercorre tra l'art. 19 e l'art. 18 Costituzione, la prima disposizione viene considerata una specificazione della seconda. Il fenomeno associativo religioso è una species del fenomeno associativo in generale, la cui tutela è stabilita dal combinato disposto dell'art. 2 e dell'art. 18 Cost.

135. P. Gismondi, L'interesse religioso nella Costituzione, in "Giurisprudenza Costituzionale", 1958, p. 1234.

136. Ibidem.

137. "L'espressione 'interessi concreti fondati sull'organizzazione della confessione religiosa' sta a significare che si tratta di interessi che traggono origine dal fatto dell'esistenza dell'associazione e che, come tali, possono essere fatti valere soltanto dall'associazione medesima, dai suoi rappresentanti, o dai suoi componenti"; A. Ravà, Contributo allo studio dei diritti individuali e collettivi di libertà religiosa nella Costituzione italiana, cit., p. 160. Sostiene Gismondi: "Naturalmente dal punto di vista formale, qualsiasi soggetto può essere titolare di diritti, ma daccapo, in tanto è configurabile un concreto rapporto dal quale possano sorgere questi diritti, in quanto si tratti di una confessione o dei fedeli di quella confessione", P. Gismondi, L'interesse religioso nella Costituzione, cit., p. 1234. "Tra i diritti propri della confessione religiosa, vi sono diritti che devono considerarsi soggettivi, propri di ogni individuo uti civis indipendentemente dall'esistenza di un qualsiasi rapporto tra esso e la confessione medesima", A. Ravà, ult. op. cit., p. 167. In questo senso possono essere inquadrati il diritto alla libera costituzione, all'esistenza di una confessione religiosa e all'attività di magistero.

138. L'espressione traduce la rilevanza che i Costituenti hanno scelto di dare alle formazioni sociali intermedie, le nuove dimensioni umane sono dunque dimensioni sociali. A tal proposito: "L'espressione 'diritti sociali', utilizzata in campo di diritti di libertà, potrebbe generare qualche equivoco [...]. Diciamo allora che tutti i diritti di libertà, nella nuova visione dello stato, quale è desumibile dalla realtà odierna, si presentano come diritti sociali, scaturenti appunto dal momento della socialità insito nella natura umana; diritti sociali e, come tali, diritti funzionali, in quanto strumenti per la formazione e lo sviluppo della personalità umana. Tuttavia non è certo in questa accezione generica che l'espressione può essere assunta nel caso del diritto di culto e della libertà ecclesiastica.", A. Ravà, Contributo allo studio dei diritti individuali e collettivi di libertà religiosa nella Costituzione italiana, cit., p. 152. Secondo Ravà tale concezione supera i limiti della comune dogmatica privatistica in tema di diritti soggettivi, poiché essa prende in considerazione l'elemento pubblicistico dei diritti di libertà, il quale va individuato non già (o meglio non solo) nell'essere tali diritti qualificati dalla protezione che essi danno al singolo contro le invadenze del pubblico potere, bensì nel concorso, accanto all'interesse privato, di un analogo interesse pubblico sul bene tutelato dalla norma. Di rilievo attuale risulta la definizione di interesse pubblico che dà Mortati: "In un sistema democratico l'interesse pubblico non può, per l'essenza stessa democrazia che non lo consente, ritenersi precostituito a priori, né derivabile dall'arbitrio di un capo o dalla fantasia di un gruppo dominante, ma emergente dalla faticosa ricerca, dal provare e riprovare, dalla conquista di ogni giorno, attraverso un contrasto necessario a saggiare, insieme alla bontà delle aspirazioni che emergono dal tessuto sociale, la saldezza delle convinzioni che l'alimentano, e perciò ad affermare insieme alla validità storica di nuove istanze di libertà che si fanno valere, la legittimità dei regimi che si instaurano per tutelarle"; C. Mortati, La comunità statale, Arti grafiche Chicca, Tivoli, 1957, p. 361.

139. "L'espressione più esatta, in questa sede, è dunque quella di diritto collettivo"; A. Ravà, ult. op. cit., p. 153.

140. A. Ravà, Contributo allo studio dei diritti individuali e collettivi di libertà religiosa nella Costituzione italiana, cit., p. 155.

141. Ibidem.

142. Ciò nel rispetto dei limiti stabiliti dalla Costituzione.

143. In questo senso: "Il diritto riconosciuto dall'art. 8 Costituzione è un diritto di libertà civile attribuito alla confessione come ente collettivo, e una volta che sussistano i presupposti di cui all'art. 8, è un diritto soggettivo perfetto della confessione che dovrà essere fornito di azione per la sua tutela giurisdizionale", G. Baschieri, L. Bianchi-D'Espinosa, C. Giattanasio, La Costituzione italiana, Noccioli, Firenze, 1949, pp. 36 e 118.

144. P. Barile, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Cedam, Padova, 1953, pp. 216-217.

145. N. Colaianni, Musulmani in Italia e Costituzione: il caso della consulta islamica, in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 1/2006, p. 257. In senso analogo: "La politica non è più costituzionale: è finalistica: non persegue più, necessariamente, i fini indicati nella Costituzione, ma si affida ad opzioni tattiche, dettate dall'emergenza, che però, complessivamente considerate, si inseriscono in un lucido disegno di declassamento della costituzione da legge superiore ad ordinamento settoriale", M. Dogliani, Costituzione e sistema politico, in "Questioni di giustizia", n. 1/2005, p. 61.

146. A tal proposito - si anticipa sin da ora - emerge chiaramente un'area in cui le richieste avanzate nelle bozze di intesa predisposte dalle organizzazioni islamiche potrebbero essere accolte sulla base della legislazione vigente, dunque anche in assenza di un'apposita normativa pattizia: gli ambiti in questione sono molteplici, essi riguardano la materia della costruzione e della manutenzione degli edifici di culto, la concessione di reparti separati all'interno dei cimiteri, il rispetto delle esigenze religiose musulmane per ciò che concerne la macellazione e l'abbigliamento, l'assistenza spirituale nelle carceri disciplinata dal recente regolamento di esecuzione della legge 26 luglio 1975, n. 354. Nel corso dell'analisi ci soffermeremo in particolare sul primo aspetto.

147. Onida sostiene che tale legislazione protettiva delle diversità culturali dovrebbe comunque prevedere una forma di bilateralità, anche se solo a livello consultivo obbligatorio, cfr. Las relaciones entre el Estado y las confessiones minoritarias: los derechos religiosos de los immigrantes, pp. 109-110, in "Anuario de Derecho Eclesiastico del Estado", 1998.

148. N. Colaianni, Eguaglianza e diversità religiosa, Un percorso costituzionale, cit., p. 9. Cfr. F. Ruffini, I diritti di libertà, cit., G. Jellinek, Die erklarung der menschen und burgerrecht, tr. it. in La dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, Giuffré, Milano, 2002.

149. N. Colaianni, ult. op. cit., p. 8.

150. Anche ove si considerino i profili deficitari dell'istituto evidenziati in precedenza.

151. "Non esiste l'Islam. Esistono gli Islam. Nasce da qui, da questa eterogeneità che è culturale, religiosa, etnica, la difficoltà di formazione di una rappresentanza unitaria in ogni paese europeo, la quale, ciononostante, costituisce l'obiettivo, finora rivelatosi velleitario, di ogni politica di integrazione dei musulmani", N. Colaianni, Islam ed ebraismo: dall'integrazione all'interazione, cit., p. 79.

152. O. Schmidt di Friedberg e M. Borrmans, Musulmans et Chrétiens en Italie, in "Islamochristiana", n. 19/1993, pp. 153-198.

153. L'organismo, già riconosciuto dallo stato italiano nel 1974 come "ente di culto", è gestito da un consiglio di amministrazione composto dagli ambasciatori di numerosi paesi a maggioranza musulmana ed è sostenuto dal peso politico e finanziario della Lega del mondo islamico (Rabita), in particolare dal suo membro egemone, l'Arabia Saudita, e dal Marocco, paese musulmano che conta il maggior numero di cittadini in Italia.

154. L'Ucoii nasce nel 1990 per impulso di alcuni membri del Centro islamico di Milano. L'Unione, formata dall'associazione dei maggiori centri islamici italiani, è senza dubbio la struttura musulmana più diffusa nel territorio italiano. Al suo radicamento ha contribuito anche il fatto di aver "ereditato" le strutture nazionali dell'Usmi (Unione degli studenti musulmani in Italia), organizzazione in profonda trasformazione a seguito della stabilizzazione del ciclo migratorio musulmano in Italia, nella quale hanno un ruolo centrale i Fratelli musulmani, in particolare siriani ed egiziani. I Fratelli Musulmani costituiscono oggi, più che un gruppo fondamentalista radicale, un movimento neotradizionalista che, in particolare in Europa, costituisce il centro ideologico e organizzativo di riferimento per numerose associazioni islamiche locali. La prima richiesta esplorativa di intesa è stata avanzata dal Centro islamico di Milano e Lombardia, nato per iniziativa dell'Usmi, poi il Centro ha rinunciato a proporsi come soggetto dell'intesa, delegando a tal fine l'Ucoii stessa.

155. La Comunità religiosa islamica italiana, il cui acronimo ricorda il nome della tribù del profeta Muhammad, è espressione di un piccolo gruppo di convertiti italiani che si richiama al sufismo e all'esoterismo islamico di René Guenon, il suo leader è Abdal Wahid Pallavicini; sulla sua visione "spiritualista" dell'Islam, cfr. L'Islam interiore, Milano, Mondadori, 1991.

156. L'Associazione, fondata da un militare italiano di origine somala, raggruppa cittadini italiani convertiti e propugna un Islam moderato capace di integrarsi nella società e aperto al dialogo interreligioso; questo gruppo sembra voler rappresentare unitariamente il mondo musulmano: il contrasto tra sunna e shi'a si attenua di fronte alla comune adesione all'Islam.

157. Restano estranei al tema dell'intesa gli sciiti, il movimento pietista Tabligh, gli islamisti radicali di viale Jenner, ma tra le correnti senza rappresentanza, significativa per la sua massiccia e diffusa presenza è quella della confraternita (tariqa) senegalese della muridiyya. Alla confraternita muride, la più diffusa in Italia, aderiscono circa il 70% dei migranti del paese africano; dato rilevante se si tiene conto che la presenza senegalese rappresenta circa il 13% della popolazione musulmana residente, ovvero la seconda componente nazionale dopo quella marocchina. Nonostante il suo peso numerico questa confraternita non ha mai cercato un'intesa con lo stato italiano né alleanze, a tal fine, con le altre componenti attiviste del mondo musulmano; i senegalesi si organizzano nel Casi (Coordinamento delle associazioni senegalesi in Italia), raggruppamento che privilegia l'appartenenza etnoculturale piuttosto che quella confessionale.

158. Cfr. A. Pacini, I musulmani in Italia. Dinamiche organizzative e processi di interazione con la società e le istituzioni italiane, in Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, cit.

159. In questo senso si veda la distinzione posta da Zygmunt Bauman. L'autore ha delineato chiaramente dentro la globalizzazione due essenziali categorie di soggetti: quelli che sono in grado di coltivare l'aspirazione all'extra-territorialità, di viverla come un'inebriante libertà perché il loro potere (soprattutto finanziario) è svincolato dalla compressione dello spazio e del tempo, quelli insomma che si muovono in conformità dei loro desideri; e "gli altri", vincolati al loro territorio come una prigione o che, se si muovono, lo fanno come "vagabondi", costretti dal bisogno e dall'asservimento in cui si trovano. Cfr. Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences, Polity Press-Blackwell, Cambridge-Oxford 1998; tr. it. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 1999.

160. Anche al livello del sentire comune la prevalenza della tipologia dell'immigrato lavoratore su quello del cittadino musulmano ritarda il processo di visibilizzazione che si pone all'origine di compiute dinamiche integrative e interattive, l'esito è quello di circoscrivere alla sfera familiare ed endocomunitaria qualsiasi espressione riguardante l'identità.

161. G. Casuscelli, Le proposte d'intesa e l'ordinamento giuridico italiano. Emigrare per Allah/emigrare con Allah in Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, cit. p. 89.

162. Dal punto di vista teorico sono state ritenute ammissibili sia intese "collettive" sia intese "aperte" o "plurime", le quali presuppongono la previa esistenza di norme statutarie organizzative che consentano di affidare all'ente esponenziale di una confessione la rappresentanza davanti allo stato degli interessi dei fedeli appartenenti ad altre confessioni. Sotto il profilo tecnico-giuridico è quindi condivisibile l'affermazione che, potendosi stipulare sia intese collettive sia intese aperte, quello delle molteplici rappresentanze del mondo islamico sia, per gran parte, un falso problema. Cfr. S. Berlingò Risposta, in Las relaciones entre el Estado y las Confesiones mioritarias: los derechos religiosos de los immigrantes, in "Anuario del Derecho Eclesiastico del Estado", 1998.

163. Per sistema di credenza religiosa si intende una particolare rete cognitiva che lega insieme conoscenze, esperienze e senso dell'agire individuale e collettivo in relazione al sacro. Ogni sistema religioso ha l'esigenza di stabilire i propri confini simbolici, di marcare le frontiere che lo separano da altri sistemi e da altre forme di credenza concorrenti o alternative. Per l'Islam cfr. E. Pace, Sociologia dell'Islam, Roma, Carocci, 1999.

164. S. Veca, Libertà e uguaglianza: una prospettiva filosofica in Aa.Vv., Sulle libertà, Unicopli, Milano, 1983, p. 40 (modif.).

165. R. Guolo, Rappresentanza e questione delle intese in Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, cit., p. 80.

166. "Nell'abbandono della riproposizione di una neoetnicità che rifiuta radicalmente la dialettica con l'occidente (come invece nell'islamismo radicale) consiste lo sforzo di 'islamizzare' la stessa democrazia occidentale", cfr. M. Campanini, Ideologia e politica nell'Islam, Il Mulino, Bologna, 2008.

167. Sul comunitarismo islamista cfr. G. Kepel, A l'Ouest d'Allah, Paris, Seuil, 1994; tr. it. All'Ovest di Allah, Palermo, Sellerio, 1995.

168. I presupposti che si riconducono all'istituzione della Consulta islamica superano queste stesse premesse e risultano perfino estrinseci all'ambito della regolamentazione giuridica delle minoranze religiose, riconnettendosi piuttosto alle istanze dell'ordine e della sicurezza pubblica (evocate al primo posto tra le esigenze considerate nel preambolo del decreto istitutivo della Consulta). Non è possibile in questa sede trattare la suddetta tematica in modo esauriente ma si forniranno alcuni rilievi emblematici ai fini della presente trattazione. Al diffondersi dell'allarme suscitato dagli attentati terroristici, in particolare da quello della metropolitana londinese, il ministro responsabile della sicurezza pubblica, il 10 settembre 2005, con un decreto motu proprio, ha provveduto ad istituire presso il Ministero dell'interno la Consulta per l'Islam italiano; la norma di cui all'art. 8 comma 3 Cost. è stata aggirata per creare un organo che in realtà non rappresenta il frastagliato associazionismo dell'islam italiano. E' lo stesso Ministro dell'Interno a presiedere la Consulta, composta da sedici membri, la metà dei quali cittadini italiani. Se fanno parte dell'organo i massimi dirigenti dell'Ucoii, del Coreis e della Moschea di Roma, è indubbio che tali soggetti, per il fatto stesso di sedere in un simile organo, siano stati declassificati della loro qualità rappresentativa: da parte proponente, esterna all'amministrazione, nella possibilità di entrare in rapporto con essa attraverso un modulo convenzionale prestabilito, costituzionalmente previsto, ad organo strumentale dell'amministrazione, funzionale ad assicurarle conoscenze religiose, o al massimo pareri o proposte, ovviamente del tutto facoltativi. "Nel passaggio dall'uno all'altro ruolo si può consumare il principio di laicità dello stato, che in materia religiosa viene a dotarsi di un organo ausiliario laddove aveva di fronte una controparte", N. Colaianni, Musulmani italiani e Costituzione: il caso della Consulta islamica, cit., p. 255. Le comunità musulmane non possono che rientrare nella categoria statuale delle confessioni religiose e il dialogo se "istituzionale" (quello interreligioso, citato nel secondo visto del preambolo, non rientra nella competenza del Ministro e neppure dello stato laico), non può attuarsi che attraverso lo strumento costituzionale delle intese. E' vero che nel caso dell'Islam le questioni di libertà religiosa si confondono spesso, e strutturalmente con quelle di libertà culturale e finiscono per essere sovrapposte agli ambiti delle politiche migratorie e della pubblica sicurezza, queste sicuramente spettanti al Ministero dell'Interno. Secondo tale impostazione, lo strumento delle intese rimarrebbe limitato alle confessioni del ceppo giudaico-cristiano ritenute "sicure" e già dotate di "un armonico inserimento nella società nel rispetto dei principi della Costituzione e delle leggi della Repubblica. Il terzo comma dell'art. 8 Cost. darebbe luogo ad un ordinamento settoriale, comprensivo solo delle intese "facili", quelle con le confessioni di minoranza tradizionali nel nostro paese, o almeno nel contesto occidentale, e senza particolari esigenze al di là del riconoscimento delle garanzie costituzionali e del tendenziale allineamento al regime riservato alla confessione dominante. Rimarrebbero esclusi i "nuovi culti" ed in particolare le comunità islamiche. "Esse costituiscono, prima di tutto un problema di ordine pubblico, ad esse va riservata - con la legge unilaterale e con qualche provvedimento estemporaneo suggerito dalla consulta - tanta libertà religiosa quanta è compatibile con le esigenze di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica", N. Colaianni, ult. op. cit., p. 257.

169. C. Cost. 12 aprile 1989, n. 203.

170. N. Colaianni, Islam ed ebraismo: dall'integrazione all'interazione, cit., p. 89. Sul discorso riguardante la laicità si rimanda al paragrafo che conclude questa parte del lavoro.

171. N. Colaianni, ult. op. cit, p. 90.

172. Ibidem.

173. Cfr. su quest'ultimo punto il paragrafo 5.1 del presente capitolo. E' necessario rilevare che l'orientamento complessivo del legislatore in tema di politiche migratorie, nella migliore delle ipotesi, riflette tendenze contraddittorie e a volte confliggenti. Tale schizofrenia trova un esempio significativo nel testo dell'art. 3 del D. Lgs 286/1998, il quale al terzo comma, con riferimento alle "politiche migratorie" dispone che l'apposito documento programmatico predisposto triennalmente oltre che individuare "i criteri generali per la definizione dei flussi di ingresso", deve determinare "gli interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari, l'inserimento sociale e l'integrazione culturale degli stranieri residenti in Italia, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone, purché non contrastanti con l'ordinamento giuridico" e deve prevedere "ogni possibile strumento per un positivo reinserimento nei Paesi d'origine". Come opportunamente rilevato, lo scontro è legato alla delicatezza del passaggio dal riconoscimento dei diritti fondamentali della persona a quello dei diritti civili e rispetto, a questi ultimi, dalla visione individuale a quella comunitaria con l'inserimento in tale vicenda della rivendicazione dell'appartenenza culturale e religiosa come forma strutturata di richiesta dell'uguale trattamento. Per ciò che concerne poi il diritto di libertà religiosa, l'ambito delle politiche migratorie non può prescindere da una concezione che tenga conto della sua bidimensionalità. Cfr. G. Baumann, L'enigma multiculturale. Stati, etnie, religioni, Bologna, 2003, cap. 1, 6 e 7.

174. E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare all'altro, a cura di E. Baccarini, Milano, Jaka Book, 1998, p. 28.

175. Cfr. sul punto F. Finocchiaro, 'Art. 19', in A. Scialoja e G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Rapporti civili, Artt. 13-28, Roma-Bologna, Zanichelli, 1977, pp. 295 e ss.

176. In questa direzione si pronuncia anche Casuscelli, G. Casuscelli, Le proposte d'intesa e l'ordinamento giuridico italiano. Emigrare per Allah/emigrare con Allah in Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, cit., pp. 95-97.

177. L'osservazione sulle opposte direzioni in cui i documenti internazionali e i sistemi di welfare dei singoli stati operano rispetto alla cittadinanza è debitrice dell'analisi svolta da Giuliano Amato; G. Amato, "Lectio magistralis", Multiculturalismo e cittadinanza, VII Corso di formazione in diritto costituzionale, Multiculturalismo e diritti: accomodating diversity, Volterra, settembre 2008.

178. Il riferimento, peraltro più astratto che concreto, poteva configurarsi in relazione ai pochissimi cittadini stranieri (per lo più temporaneamente) residenti in Italia, agli apolidi, ai rifugiati, agli occasionali turisti stranieri.

179. Dal combinato disposto dell'art. 19 Cost. e dell'art. 1 del D. Lsg 286/1998 si desume che l'esercizio del catalogo di diritti di cui all'art. 19, nei limiti in esso richiamati, deve essere garantito "alla frontiera e nel territorio dello Stato" anche agli stranieri irregolari. Di conseguenza, nei "centri di prima accoglienza" (oggi C. I. E.), non soltanto dovrebbe essere assicurato l'esercizio del culto, ma ciò dovrebbe avvenire con l'assistenza dei ministri delle confessioni interessate cui, dunque, dovrebbe essere consentito l'accesso per l'espletamento delle proprie funzioni.

180. Cfr. R. Botta, Tutela del sentimento religioso ed appartenenza confessionale nella società globale cit., F. Finocchiaro, 'Art. 19', in A. Scialoja e G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Rapporti civili, Artt. 13-28, cit.

181. Tutto questo si cala in un contesto globale nel quale, in relazione ad altri settori, la denazionalizzazione ha riguardato l'intera produzione delle regole, come dimostra l'emergere in campo economico di una trasnational law derogatoria dei diritti interni.

182. Il proprium della nazione si confonde con il proprium del sistema giuridico di riferimento.

183. Tra i principi irreformabili dell'ordinamento italiano figura proprio la laicità; è quanto ha stabilito - lo si ribadisce - la Corte Costituzionale con la sentenza 203/1989.

184. Sulla distinzione tra laicità "negativa" e laicità "positiva" cfr. paragrafo 5.2 del presente capitolo.

185. Cfr. S. Ferrari, Risposta, in Las relaciones entre el Estado y las Confesiones mioritarias: los derechos religiosos de los immigrantes, in "Anuario del Derecho Eclesiastico del Estado", 1998, p. 83 e ss.

186. Cfr. F. Onida Risposta, in Las relaciones entre el Estado y las Confesiones mioritarias: los derechos religiosos de los immigrantes, cit.

187. In questo senso si pronuncia Colaianni, cfr. N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose, Un percorso costituzionale, cit., p. 43.

188. Secondo Ferrajoli essi costituiscono il "campo dei contropoteri", L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, Laterza, 1989, p. 954.

189. V. Tozzi, Il finanziamento pubblico dell'edilizia di culto, in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 1/1998, p. 84.

190. J. Habermas, Dalla tolleranza alla democrazia, in "Micromega", n. 5/2003, p. 326.

191. E. Vitale, Diritti umani e diritti delle minoranze, Torino, Giappichelli, 2000, p. 31.

192. L'art. 18 della Dichiarazione stabilisce che: "Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare individualmente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti".

193. L'art. 9 della Convenzione, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848, stabilisce al primo comma che: "Ogni persona ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo e la libertà di manifestare la propria religione o credo individualmente o collettivamente, sia in pubblico che in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti".

194. L'art. 18 del Patto, firmato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con l. 25 ottobre 1977, n. 881, stabilisce al primo comma che: "Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di avere o di adottare una religione o un credo di sua scelta, nonché la libertà di manifestare individualmente o in comune con altri, e sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo nel culto e nell'osservanza dei riti, nelle pratiche e nell'insegnamento".

195. L'art. 1 della Dichiarazione stabilisce al primo comma che: "Tutti hanno diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto implica la libertà di manifestare individualmente o in comune con altri, tanto in pubblico quanto in privato, la propria religione o convinzione nel culto e nel compimento dei riti nelle pratiche e nell'insegnamento. L'art. 6 lettera a) di tale documento stabilisce poi che il diritto alla libertà di religione implica "la libertà di praticare un culto e di tenere riunioni che siano in relazione con una religione o una convinzione e di stabilire e mantenere dei luoghi per questa finalità".

196. Secondo Mortati è su questo presupposto che acquista significato la distinzione fatta in dottrina, tra libertà essenziali dell'individuo e libertà non essenziali. A questo proposito sostiene l'autore: "le prime attengono all'integrità della persona fisica e spirituale e appaiono pertanto irriducibili non solo, ma così connesse alla più intensa partecipazione dell'individuo alla società, da dover essere sempre più estese nel loro godimento effettivo da parte di tutti e sempre meglio garantite. Si tratta di libertà diffusive che non soffrono il pericolo di venire diminuite in ciascuno per il fatto che altri vi partecipino. Le seconde invece non possono importare limiti a carico di coloro che prima ne godevano per il fatto della estensione del loro esercizio ad altri"; C. Mortati, La comunità statale, cit. p. 363.

197. Cfr. R. Botta, Codice di diritto ecclesiastico, Giappichelli, Torino, 1997, pp. 82 e ss.

198. Cfr. G. D'Angelo, Pronunce in materia di edifici ed edilizia di culto: uno sguardo d'insieme in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 3/2008, pp. 737-738.

199. R. Botta, Codice di diritto ecclesiastico, cit., pp. 160 e ss.

200. C. Cost., sent. 27 aprile 1993, n. 195 in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 3/1993, pp. 693 e ss.

201. Ibidem.

202. G. D'Angelo, Pronunce recenti in materia di edifici ed edilizia di culto: uno sguardo d'insieme, cit., p. 744. In questo senso si è espressa la Corte Costituzionale, cfr. la sentenza sopra richiamata e la successiva pronuncia, C. Cost., sent. n. 346/2002 in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 3/2003, pp. 667 e ss.

203. Cfr. V. Tozzi, Il finanziamento pubblico dell'edilizia di culto, cit., p. 84.

204. D. Barillaro, Edifici di culto ed art. 700 c.p.c., in "Diritto ecclesiastico", n. 1/1966, p. 183.

205. G. Casuscelli, Edifici ed edilizia di culto. I. Problemi generali, Giuffré, Milano, 1979, p. 80.

206. Ibidem, p. 81.

207. Cfr. sul punto A. Licastro, Brevi note sulla (problematica) qualificazione come "opera pubblica" degli edifici di culto cit. in A. Mantineo, La legislazione in "Quaderni di diritto e di politica ecclesiastica", n. 3/1998, p. 692.

208. L'art. 28 della l. 8 marzo 1989, n. 101, attuativa dell'intesa ebraica, prevede disposizioni quasi identiche a quelle di cui all'art. 53 della l. 222/1985, mentre l'art. 16 comma 3 della l. 22 novembre 1988, n. 516, prevede disposizioni quasi speculari a quelle di cui all'art. 5 comma 3 della l. 121/1985.

209. E' quanto emerge con particolare evidenza dalla l.r. Basilicata 30 dicembre 1995, n. 69 e dalla l.r. Friuli-Venezia Giulia 7 marzo 1983, n. 20, mentre la l.r. Sardegna, pur facendo riferimento anche a confessioni diverse dalla cattolica, prevede, poi, l'istituzione presso l'Assessorato regionale dei lavori pubblici di un Comitato tecnico consultivo regionale per l'edilizia di culto di cui fanno parte il Presidente della Conferenza episcopale sarda o un suo delegato e il rappresentante tecnico delle diocesi sarde ma nessun rappresentante delle altre confessioni.

210. Cfr. V. Tozzi in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 3/1993, p. 691.

211. Più esattamente tale normativa prevede l'estensibilità dell'area dei destinatari anche alle confessioni che, senza aver concluso l'intesa, siano comunque riconosciute in base alle vigenti leggi.

212. Si sono invece espressamente adeguate alla pronuncia della Corte costituzionale - oltre naturalmente alla l.r. Abruzzo 16 marzo 1988, n. 29 con le modifiche apportate dalla l.r. 25 novembre 1998, n. 139, il cui art. 11 ha aggiunto all'art. 1 della l.r. n. 29/1988 il seguente comma: "In mancanza dell'intesa prevista dal comma 3 dell'art. 8 Costituzione, la natura di confessione religiosa potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione" - la l.r. Liguria 24 gennaio 1985, n. 4, con le modifiche apportate dalla l.r. 15 dicembre 1993, n. 59 e la l.r. Piemonte 7 marzo 1989, n. 15, con le modifiche apportate dalla l.r. 17 luglio 1997, n. 39.

213. "Il condizionare l'erogazione dei contributi a favore delle confessioni religiose al requisito dell'avere queste stipulato un'intesa con lo Stato ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione, è in contrasto, con i principi di eguale libertà delle confessioni (art. 8, primo comma, Cost.) e di libertà di esercizio di culto (art. 19 Cost.), libertà sulla quale gli interventi pubblici in questione incidono positivamente". C. Cost. sent. 8 luglio 2002 n. 242 in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 3/2002, pp. 702-703. Cfr. anche C. Cost. sent. 16 luglio 2002, n. 346, in "Il foro italiano", 2002, I, 2935.

214. C. Cost. sent. 8 luglio 2002 n. 242 in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 3/2002, p. 702.

215. Ibidem.

216. Il ricorso ad un'intesa non risulta indispensabile anche per ciò che concerne la possibilità di ottenere la celebrazione dei riti funebri e l'esecuzione di una sepoltura in conformità alle prescrizioni stabilite dalla confessione islamica, a tale ambito astrattamente è in grado di far fronte la normativa unilaterale statale. L'art. 100 del Regolamento di polizia mortuaria approvato con d.p.r. 10 settembre 1990, n. 285, dispone espressamente che i piani regolatori cimiteriali possano "prevedere reparti speciali e separati per la sepoltura di cadaveri e persone professanti un culto diverso da quello cattolico". Il secondo comma della medesima disposizione aggiunge che "alle comunità straniere, che fanno domanda di avere un reparto proprio per la sepoltura delle salme dei loro connazionali, può parimenti essere data dal sindaco in concessione un'area adeguata del cimitero". Tale norma consente di tener conto anche delle esigenze dei gruppi musulmani; un'esemplificazione, al riguardo, è rappresentata dalla delibera del Comune di Firenze del 20 luglio 1995 con la quale è stata concessa al Centro culturale islamico un'area delimitata, all'interno del cimitero di Trespiano, da destinarsi a sepolture di cittadini di religione islamica, le cui sepolture si svolgono secondo i riti islamici senza violare le leggi e i regolamenti vigenti in materia di polizia mortuaria e cimiteriale. In una direzione analoga si muove l'Ama che gestisce i servizi cimiteriali per il Comune di Roma.

217. Come risulta dall'assunzione di un tale compito all'interno delle norme degli statuti di alcuni comuni come quello di Biella e Cossato, in provincia di Biella, Commezadura in provincia di Trento, Eboli, Pontinia in provincia di Latina, Vallecorsa in provincia di Frosinone. Cfr. R. Botta, Le norme di interesse religioso nelle norme statutarie regionali, provinciali e comunali, Giuffré, Milano, 1999, pp. 94, 183, 189, 343, 604.

218. Si vedano, ad esempio, le l.r. Sardegna 13 giugno 1989, n. 38, e l.r. Veneto 20 agosto 1987, n. 44.

219. Così le l.r. Calabria 9 aprile 1990, n. 17; l.r. Campania 3 novembre 1994, n. 33; l.r. Friuli Venezia-Giulia 10 settembre 1990, n. 46; l.r. Lazio 16 febbraio 1990, n. 17; l.r. Puglia 11 maggio 1990, n. 29; l.r. Sardegna 24 dicembre 1990, n. 46; l.r. Veneto 30 gennaio 1990, n. 9. Nello stesso senso si esprime la l.r. Molise 21 ottobre 1997, n. 23. L'art. 1 comma 1 lettera b) della nuova l.r. Toscana, l. n. 229 approvata il 9 giugno 2009, prevede più estesamente: "la realizzazione di una società plurale e coesa, tale da favorire la valorizzazione delle culture di origine e delle tradizioni dei cittadini stranieri e contestualmente il rafforzamento, attraverso un processo di interazione, della coesione sociale intorno ai principi e alle regole costituzionali, al fine di garantire il rispetto dei diritti di ciascuno e l'adempimento dei doveri individuali e collettivi".

220. Art. 14, comma 2, lettera d, l.r. Umbria 10 aprile 1990, n. 18.

221. Art. 1 comma 2, l.r. Marche 2 marzo 1998, n.2.

222. E' la previsione del disposto dell'art. 1 comma, l.r. Abruzzo 28 aprile 1995, n. 79 e dell'art. 1, l.r. Emilia Romagna 21 febbraio 1990, n. 14. Parimenti nell'art. 1, l.r. Emilia Romagna 2004, n. 5.

223. Tale è il caso della Regione Piemonte con la l.r. 8 novembre 1989, n. 64.

224. L.r. Toscana 18 aprile 1995, n. 73.

225. Per ciò che concerne la trattazione delle norme contenute nel D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 o nella legislazione regionale sull'immigrazione rilevanti ai fini dell'effettiva predisposizione di forme di tutela del diritto di culto nei confronti dei gruppi religiosi musulmani, l'analisi è debitrice della riflessione svolta da Raffaele Botta in R. Botta, "Diritto alla moschea" tra "intesa islamica" e legislazione regionale sull'edilizia di culto in Musulmani in Italia, La condizione giuridica delle comunità islamiche, cit. Relativamente ad alcune osservazioni di carattere più ampio sull'orientamento complessivo delle leggi regionali preposte alla tutela dei diritti religiosi dei migranti si veda invece A.G. Chizzoniti, D. Milani, Immigrazione, diritto regionale e libertà religiosa, in "Quaderni di diritto e di politica ecclesiastica", n. 2/2004, pp. 438-446.

226. Per i motivi di diverso ordine, precedentemente indicati, questa considerazione si pone con particolare riguardo all'Islam.

227. La Legge n. 94/2009 recante "Disposizioni in materia di pubblica sicurezza" ne è un'ulteriore dimostrazione. L'art 1, comma 16 della Legge n. 94/2009 introduce il reato di clandestinità (contravvenzionale in quanto punito con ammenda). La norma citata modifica l'art. 10 bis del D. Lgs 286/1998 ("Salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del presente testo unico nonché di quelle di cui all'art. 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68, è punito con l'ammenda da 5.000 a 10.000 euro. Al reato di cui al presente comma non si applica l'articolo 162 del codice penale"). Oltre alla permanenza nel territorio dello Stato senza idoneo titolo di soggiorno viene sanzionato penalmente anche l'ingresso, la fattispecie normativa prevede infatti l'ipotesi di reato permanente, riconducibile a chi si trova già illegalmente nel territorio dello Stato e l'ipotesi di reato istantaneo, che concerne chi vi entra clandestinamente. E' esclusa la possibilità di ricorrere all'oblazione.

228. A tal proposito risulta emblematica una proposta di legge, decaduta con la fine della legislatura, sui limiti alla "realizzazione di nuovi edifici dedicati ai culti ammessi": è la proposta Gibelli e altri C. 4858 del 26 marzo 2004. "Tale progetto non ha avuto corso ma è un segnale estremamente pericoloso della possibile involuzione, motivata all'occorrenza dall'azione di contrasto al fondamentalismo islamico, verso un sistema di controllo governativo dell'apertura degli edifici di culto, che, unitamente all'obbligo di preavviso delle funzioni religiose in luoghi aperti al pubblico, fu la prima norma della legislazione fascista ritenuta illegittima dalla Corte Costituzionale", N. Colaianni, Come la xenofobia si traduce in legge: in tema di edifici di culto, in Commenti e contributi di OLIR, a cura di A.G. Chizzoniti, Aracne, Roma, 2005. (Sul punto v. anche C. Cost. 18 marzo 1957, n. 45, in "Il foro italiano", 1957, I, c. 773 che dichiara l'illegittimità dell'art. 25 del r.d. 18.6.1931, n. 773 e C. Cost. 24 novembre 1958, n. 59, in "Il foro italiano", 1958, I, c. 1778 che dichiara l'illegittimità dell'art. 1 r.d. 28.2.1930, n. 289). Attraverso tali norme si concretava la politica di contrasto all'espressione e diffusione non solo dei culti di minoranza all'esterno ma anche del loro diritto di istruire religiosamente i fedeli al proprio interno. La proposta Gibelli non si occupa soltanto di norme urbanistiche ma sale a monte per restringere le condizioni di riconoscimento delle confessioni religiose. Si tratta di una revisione strisciante della Costituzione con cui si intende raggiungere l'obiettivo di selezionare i "culti ammessi" aventi diritto a richiedere l'intesa o l'autorizzazione regionale per la realizzazione di un edificio di culto. Si segnala che condizione necessaria per ottenere la suddetta autorizzazione è la previa approvazione della "popolazione del comune interessato espressa mediante residenza", (art. 2 comma 1). "E' in sostanza un diritto di veto, esercitando il quale la popolazione difende il suo territorio, la patria locale e la stessa cristianità dall'inquinamento di stranieri e infedeli. Un sostegno, verosimilmente disperato, alla xenofobia e all'opposizione all'Islam: e alla stessa globalizzazione per gli effetti di spaesamento che essa - come dimostrano le analisi di Bauman - produce sulle persone. Un diritto di veto nel quale si esprime il rifiuto di qualsiasi modello di integrazione: fosse pure quello assimilazionista - di tradizione francese, per non parlare di quello habermasiano del riconoscimento di una cittadinanza piena in cambio dell'accettazione di un sano 'patriottismo' costituzionale, fatto di regole democratiche e di rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo", N. Colaianni, ult. op. cit., pp. 4-5.

229. Cfr. R. Botta, "Diritto alla moschea" tra "intesa islamica" e legislazione regionale sull'edilizia di culto, in S. Ferrari (a cura di), Musulmani in Italia, La condizione giuridica delle comunità islamiche, cit., p. 126.

230. Occorre introdurre una breve considerazione conclusiva: se le sentenze citate promuovono e tutelano una declinazione del principio di eguaglianza quale salvaguardia della diversità, non sfugge in esse il riferimento alla titolarità della cittadinanza. Si ripropone la dicotomia presente tra la normativa internazionale tesa a disgiungere l'esercizio della libertà religiosa dalla titolarità dello status di cittadino e l'opzione centripeta percorsa poi concretamente dal nostro ordinamento rispetto alla cittadinanza per ciò che concerne la tutela del sentimento religioso.

231. Ci si è soffermati a lungo e ci si soffermerà anche nella terza parte del lavoro sulla controvertibilità della nozione di "universalismo dei diritti": "l'universalismo dei diritti e della laicità è falso, esprime una particolare cultura, quella occidentale, che con una più raffinata forma di imperialismo o di colonialismo (culturale) si vuole imporre a chi appartiene a culture altre", G. Vattimo, Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, Milano, 2003, p. 143.

232. Costituirebbe un cedimento all'integralismo, oltreché all'approssimazione, risolvere le diversità culturali in mere diversità religiose tanto quanto sarebbe una lettura secolarizzante la riconduzione tout court delle religioni a componenti delle culture.

233. Il forte rischio del riduzionismo, tuttavia, non può condurre ad ignorare la componente religiosa di molte culture. Le convinzioni e le pratiche religiose in materia religiosa in ogni cultura influenzano l'autocomprensione etica dei credenti. La religiosità si colloca, come si è detto, anche nell'ambito antropologico-culturale. E' evidente che le religioni e le morali non sono tutto e in determinati universi culturali, in primis trovano un limite nel diritto che è separato da esse, come emblematicamente rappresentato nel settore penale dalla differenza tra peccato e reato.

234. Il riconoscimento cui si pone riferimento concerne differenze culturali e religiose "vive", non soltanto differenze congelate in identità formalizzate, confezionate per essere opposte ad un interlocutore istituzionale.

235. L'esempio principale è costituito dall'instaurazione di una relazione di equivalenza tra "laico" e "occidentale".

236. "La democrazia si può opporre all'assolutismo politico soltanto perché è l'espressione di un relativismo politico", H. Kelsen, La democrazia, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 151.

237. Cfr. R. Dworkin, Questioni di principio, Milano, Il Saggiatore, 1989, pp. 221 e ss.

238. C. Cost. 29 aprile 2005, n. 168, in "Giurisprudenza costituzionale", 2005, p. 1379. Per una rassegna dei corollari di laicità enucleabili dalla giurisprudenza precedente vedi G. Casuscelli, L'evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di vilipendio della religione, in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 3/2001, p. 1124.

239. Cfr. A. Cerri, L'eguaglianza, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp.109 e 128.

240. F. Finocchiaro, La Repubblica italiana non è uno stato laico, in "Il diritto ecclesiastico", n. 2/1997, p. 24.

241. Cfr. G. Dalla Torre, Il primato della coscienza. Laicità e libertà nell'esperienza giuridica contemporanea, Studium, Roma, 1992, p. 68.

242. C. Cost. 12 aprile 1989, n. 203, in "Il foro italiano", 1989, I, c. 1333.

243. "La vicenda del principio di laicità è emblematica della resistenza delle istituzioni e della dottrina (e in parte anche della società civile) a distaccarsi da una cultura in senso lato confessionista, ad abbandonare il correlato modello privilegiario", G. Casuscelli, Le laicità e le democrazie: la laicità della "Repubblica democratica" secondo la Costituzione italiana, in "Quaderni di diritto e politica ecclesiastica", n. 1/2007, p. 180.

244. C. Cost. 8 ottobre 1996, n. 334, in "Il foro italiano", 1997, I, c. 25.

245. Cfr. G. Preterossi, Contro le nuove teologie della politica, nell'opera collettanea a cura di G. Preterossi, Le ragioni dei laici, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 3.

246. C. Cost. sent. 5 maggio 1995, n. 149, in "Giurisprudenza costituzionale", 1995, p. 1241.

247. Cfr. G. Zagrebelsky, Principi e voti, Einaudi, Torino, 2005, p. 96.

248. Cfr. N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose, Un percorso costituzionale, cit., p. 46.

249. N. Bobbio, Laicità. Domande e risposte in 38 interviste (1988-2003), a cura del Comitato torinese per la laicità della scuola, Claudiana, Torino, 2003, p. 54.

250. C. Cost. 12 aprile 1989, n. 203, in "Il foro italiano", 1989, I, c. 1333.

251. C. Cost. 18 ottobre 1995, n. 44, in "Il foro italiano", 1996, I, c. 30.

252. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 948. Si noti come, il concetto di persona, diversamente, da quello di individuo, sia un concetto "relazionale". In tal senso, una significativa indicazione è offerta anche dall'etimologia del termine, l'autorevole pensiero citato condensa efficacemente il senso stesso del principio di eguaglianza, tracciando il confine che separa il valore dell'eguaglianza, quale presupposto della convivenza sociale, dalla omologazione; ancor più significativamente restituisce il rapporto di coincidenza sostanziale tra i termini "eguaglianza" e "diversità".

253. Conferire uno statuto giuridico, dare una vita nel diritto a tale relazione.

254. Per riprendere il titolo di una interessante opera, già citata, di Seyla Benhabib, "I diritti degli altri".

255. Il termine, non soltanto adottato per simmetria stilistica, riflette anche il principale movimento auto-percettivo che spesso caratterizza il gruppo maggioritario delle società di insediamento. Per un corretto bilanciamento normativo tra eguaglianza e diversità occorre che lo spazio pubblico venga liberato dai fattori che non soltanto condizionano ma cristallizzano i processi di autoidentificazione delle comunità (una laicità pluralista, del resto, accoglie in sé un principio di non identificazione), a questo proposito, per esempio, il dibattito converge non di rado sul symbolon che diventa diabolon. Cfr. F. Dingo, Identità albanesi, cit. La dimensione trascendente del simbolo si riconnette a ciò che unisce i componenti di un gruppo (dal greco symballo: metto insieme), ma anche a ciò che unifica un gruppo in contrapposizione ad un altro (dal greco diaballo: separo). Il riferimento posto da quest'ultima valenza, forse prevalente nella società multiculturale, è al simbolismo finalisticamente orientato, proveniente dai pubblici poteri, sintomo della pregnanza etica dello Stato di diritto di cui parla Habermas, in antitesi con il simbolismo che è espressione del diritto all'identità personale e al pluralismo sociale. Su questo aspetto ci si soffermerà nella terza parte del lavoro.

256. N. Colaianni, Eguaglianza e diversità, Un percorso costituzionale, cit., p. 52.

257. P. Grossi, Globalizzazione e pluralismo giuridico, in "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno", 2001, p. 556.