ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
Disciplina delle tutele previdenziali

Giacomo Muraca, 2009

1. Panoramica sul concetto e le fonti principali del diritto della previdenza sociale

1.1 I diritti sociali

Le vicende dei diritti sociali nel corso della storia sono state quanto mai alterne, fino al punto di dubitare addirittura, come vedremo, della loro configurabilità come diritti. La stessa locuzione risulta essere foriera di una quantità di interpretazioni tale da rendere difficile la ricerca del nucleo centrale del concetto (1).

Per cercare di chiarire quale sia l'elemento portante di questa tipologia di diritti e quali siano le loro caratteristiche crediamo sia utile muoversi dal lavoro di T.H. Marshall (2) e dalle discussioni dottrinali che ne seguirono. L'autore inglese analizzava la connessione esistente tra i vari diritti ed il concetto di cittadinanza (3), sostenendo che quest'ultimo fosse un elemento in continua evoluzione, destinato a realizzare la totale uguaglianza dei soggetti e dei loro diritti. Secondo Marshall la cittadinanza moderna, che si è sviluppata con l'avvento della società industriale, ha carattere aperto ed espansivo, a differenza di quella premoderna che invece risultava essere esclusiva ed elitaria. In questo nuovo tipo di cittadinanza si possono riscontrare tre componenti o fasi, all'incirca corrispondenti ad altrettanti tipi di diritti: la cittadinanza civile, quella politica, quella sociale.

La prima si sarebbe sviluppata antecedentemente alle altre ed avrebbe attribuito agli individui i diritti di libertà. La seconda, sviluppatasi solo nel diciannovesimo secolo, conferirebbe ai soggetti il diritto di partecipare all'esercizio del potere politico. La terza infine sarebbe la più recente, avendo trovato affermazione solo nel XX secolo, e consisterebbe "nel diritto a un grado di educazione, di benessere e di sicurezza sociale commisurato agli standard prevalenti entro la comunità politica" (4).

Veniva quindi rilevato dall'autore che i diritti sociali erano stati gli ultimi in ordine di tempo ad affermarsi, in virtù del loro particolare carattere, e che segnavano quindi l'apice massimo della continua evoluzione che avrebbe portato all'eguaglianza totale dei soggetti. Indubbiamente dobbiamo rilevare come i diritti sociali siano stati gli ultimi ad affacciarsi sul panorama storico dei vari Stati, e come altrettanto recente sia la loro costituzionalizzazione (5). I problemi che da sempre sono stati connessi alla loro affermazione storica e dottrinale infatti non hanno permesso a questi diritti di svilupparsi contestualmente agli altri.

La ricostruzione di Marshall porgeva però il fianco, nonostante l'indubbia portata innovativa, a molteplici critiche. Si è notato (6) come fosse un errore connettere alla cittadinanza tanto i diritti civili quanto quelli politici e sociali. Da sempre la tradizione giuridica ha distinto tra diritti derivanti dallo stutus personae e diritti derivanti dallo status civitatis; ritenere che diritti quali quelli civili, che, come sosteneva lo stesso autore, racchiudono al loro interno "le libertà personali, di parola, di pensiero e di fede, il diritto di possedere cose in proprietà e di stipulare contratti validi e il diritto di ottenere giustizia", siano connessi allo status di cittadino risulta non essere esatto (7). I diritti civili sarebbero quindi da considerarsi come elementi propri dell'essere umano in quanto tale, mentre alla cittadinanza andrebbero ricondotti i diritti politici e sociali (8).

Quella inerente alla mancata distinzione tra le varie tipologie di diritti non è stata l'unica critica mossa a Marshall, come accennato alcuni autori hanno dubitato della stessa configurazione dei diritti sociali come veri e propri diritti. J.M. Barbalet (9) per esempio ha sottolineato come i diritti sociali, a differenza di quelli civili, non si rivolgano contro lo Stato ma siano richieste di benefici che devono essere forniti dallo Stato (10). Affinché queste posizioni possano realizzarsi è quindi necessario non che lo Stato si astenga da ogni tipo di intervento, ma che partecipi attivamente alla loro attuazione con provvedimenti di vario tipo. Da ciò discende, come sostiene Zolo (11), che i diritti sociali sono condizionati dalla "esistenza di un'economia di mercato ben sviluppata, di solide infrastrutture amministrative e professionali e di un'efficiente apparato fiscale", inoltre "La definizione dei contenuti e della quantità delle prestazioni sociali dipende costantemente [...] dalla disponibilità di risorse economico-finanziarie garantite dal mercato, da decisioni discrezionali dell'amministrazione pubblica, e dal gioco degli equilibri di forza e delle rivendicazioni politico-sociali che emergono conflittualmente dalla società" (12). Questa tipologia di diritti è resa precaria infatti dalla stretta connessione con la presenza di risorse economiche atte a soddisfarla e con le scelte discrezionali dell'amministrazione pubblica al riguardo.

Altro elemento che ne mina la configurabilità come veri e propri diritti è inoltre la loro giustiziabilità. Sulla scorta del realismo giuridico è stato infatti osservato come "un diritto formalmente riconosciuto ma non justiciable - e cioè non applicato o non applicabile dagli organi giudiziari con procedure definite - è tout court un diritto inesistente" (13).

Proprio in virtù della stretta connessione con esigenze di mercato e della assenza di una loro particolare forma di tutela giudiziale Barbalet reputò che quelli sociali dovessero essere considerati più che dei diritti delle conditional opportunities in rapporto di strumentalità rispetto ai diritti civili e politici (14).

Indubbiamente il merito di Marshall è quindi stato quello di "aver segnalato che un cittadino pleno iure [...] è abilitato a godere di un pacchetto di diritti non solo civili e politici, ma anche sociali" (15). Al contrario però di quanto previsto dall'autore inglese ci si deve rendere conto di come "i diritti sociali non hanno a tutt'oggi acquisito nelle società occidentali la stessa forza normativa di quelli civili o politici, non hanno raggiunto, in altre parole, lo status di diritti universali" (16).

Come abbiamo già accennato questi diritti, a differenza di quelli di libertà, comporterebbero da parte dello Stato un impegno maggiore poiché gli sarebbe richiesto non un semplice non facere ma una vera e propria attivazione, un facere (17). Solo i diritti di libertà, diversamente dai diritti sociali sarebbero 'diritti perfetti' in quanto "lo Stato purché voglia li può immediatamente rispettare e soddisfare senza fatica e senza spese, dato che per rispettarli e soddisfarli le autorità pubbliche non devono fare altro che mantenere una posizione di non intervento e di inerzia, che non costa nulla" (18) o, per citare Santoro: "la rivendicazione dei diritti sociali non equivale, come avviene per i diritti civili, alla rivendicazione di una sfera di libertà sottratta al potere dello Stato, ma equivale al contrario alla richiesta di un aumento del suo potere di sorveglianza" (19). È stato infatti sostenuto che solo i diritti di libertà, una volta garantiti, sono 'self-executing' (20). Alcuni autori a fronte di questa diversità vedevano nel rapporto tra i due tipi di diritti una "tensione (che) è necessariamente e in ultima analisi irrisolubile" (21), dovuta alla derivazione dei diritti di libertà dal concetto appunto di libertà negativa e di quelli sociali dal concetto di uguaglianza, comportando così, quest'ultimi, vincoli tanto verso lo Stato che verso le libertà degli altri soggetti. I diritti sociali sono infatti strettamente connessi alla liberazione del soggetto da quelle forme di privazione che lo indurrebbero in uno stato di bisogno (22), minando così la possibilità di una piena esplicazione del suo essere. La loro nascita sarebbe infatti da riscontrare dal punto di vista storico nella necessità di compensare la condizione di quei soggetti che non possono liberamente godere dello status di cittadini o che ne sono esclusi (23).

Secondo altri autori, invece, nonostante le peculiarità di ciascuna tipologia, tra la schiera dei diritti di libertà e dei diritti sociali non esiste un vero e proprio contrasto quanto un'implicazione reciproca. In base a queste posizioni "La garanzia dei diritti di libertà è condizione perché le prestazioni sociali dello Stato possano essere oggetto di diritti individuali; la garanzia dei diritti sociali è condizione per il buon funzionamento della democrazia, quindi per un effettivo godimento delle libertà civili e politiche" (24). La distinzione tra diritti richiedenti un facere e libertà richiedenti un non facere sarebbe inoltre sorpassata dalla configurazione delle stesse istanze sociali. Secondo Baldassarre (25) infatti la categoria dei diritti sociali non richiede unanimemente un'attivazione da parte dello Stato, ma ha delle ripartizioni, delle differenziazioni, al suo interno. In base a questa teoria si devono infatti riscontrare tra i diritti sociali tanto dei diritti sociali di libertà (26), connotati da caratteri di assolutezza e auto-applicabilità, che dei diritti sociali a prestazioni positive, i quali invece richiedono un intervento attivo da parte della figura statale. Per questi ultimi inoltre (diritti a prestazioni positive) è necessaria un'ulteriore distinzione in diritti sociali a prestazioni positive incondizionati e condizionati (27). Volendo quindi utilizzare quest'ultimo tipo di schematizzazione la differenza ontologica tra diritti di libertà e diritti sociali verrebbe a cadere, rimanendo riscontrabile solo per i diritti sociali condizionati a prestazioni positive, l'unica categoria di questa ricostruzione alla quale sarebbe riferibile il concetto di conditional opportunities.

Quanto finora illustrato dovrebbe aver dato un'idea della complessità della materia che stiamo andando ad affrontare. I diritti sociali, e tra essi ovviamente i diritti previdenziali dei quali ci occuperemo in maniera specifica, sono diritti che, pur con tutte le problematiche connesse alla loro giustiziabilità e alla loro natura condizionata, risultano del tutto essenziali e speculari rispetto al godimento dei diritti civili e politici. Quest'ultimi infatti non garantiscono l'eguaglianza sostanziale dei cittadini (28), solo i diritti sociali possono creare quelle "basi egualitarie [...] su cui edificare le strutture della disuguaglianza" (29). La base dei diritti sociali può essere infatti ritrovata nel principio dell'eguaglianza sostanziale (art. 3 c. II Cost.) in quanto questi "presuppongono nei soggetti una discriminazione economica che attiva il cosiddetto principio solidaristico diretto ad eliminare gli impedimenti al pieno sviluppo della personalità umana" (30). Da questo punto di vista risulta quindi comprensibile la definizione che vede nei diritti sociali "l'insieme delle norme attraverso cui lo Stato attua la sua funzione equilibratrice e moderatrice delle disparità sociali, allo scopo di 'assicurare l'eguaglianza delle situazioni malgrado la differenza delle fortune'" (31).

Dobbiamo infine considerare come, nonostante il percorso sia stato estremamente lungo ed affatto pacifico, oggi non si può dubitare che anche i soggetti reclusi debbano essere ritenuti cittadini e possano quindi godere dei relativi diritti che da questo status derivano. L'affermazione dei diritti sociali nei confronti di questi soggetti è stata infatti a lungo inficiata dalla difficoltà della popolazione libera di accettare che il soggetto recluso, che con le sue azioni aveva rotto il contratto sociale, potesse ancora usufruire dei benefici che discendono dalla condizione di cittadino. Tale pensiero ha comportato, come vedremo, un estremo ritardo nell'affermazione di questi diritti all'interno della realtà carceraria.

1.2 Le prestazioni previdenziali e la differenziazione rispetto all'assistenza sociale

Parte rilevante della categoria dei diritti sociali sono i diritti connessi alla previdenza e all'assistenza sociale. In questo paragrafo si cercherà di analizzare il contenuto e le differenze tra questi due tipi di tutele. Lo studio da noi condotto infatti, pur incentrandosi principalmente sull'analisi delle prestazioni previdenziali offerte ai lavoratori detenuti, non ha potuto fare a meno di esaminare alcune previsioni di carattere assistenziale, dato lo stretto connubio tra le due materie.

Con il termine previdenza sociale si intende generalmente: "Le diverse forme di tutela dei lavoratori-predisposte a fronte di situazioni di bisogno in cui i lavoratori stessi o i loro familiari possono venire a trovarsi in seguito al verificarsi di determinati eventi, connessi o meno con l'attività lavorativa- che si realizzano mediante l'erogazione di somme di denaro o di altre utilità" (32). Ovviamente, come abbiamo già visto per i diritti sociali, la definizione di questi concetti risulta spesso sfuggente e può rendere solo un'idea approssimativa, senza però riuscire ad esprimere a pieno tutto il contenuto delle relative tutele. In queste condizioni la strada più razionale da seguire è quella di delimitare i confini genetici ed evolutivi della tutela e quelli dettati dal rapportarsi con la complementare assistenza sociale.

Le origini della previdenza sociale nel nostro paese si fanno comunemente coincidere con l'approvazione della legge del 17 marzo 1898 n. 80 (33) contro gli infortuni sul lavoro nell'industria. Questa prima forma di tutela mirava infatti a garantire gli operai (gli impiegati trovarono analoga tutela solo alcuni anni dopo) contro la possibilità di vedere menomata, o del tutto perduta, la propria capacità lavorativa. In verità modelli assicurativi che tentavano di offrire analoga copertura, pur se in forma non istituzionalizzata, erano presenti già da alcuni secoli e potevano essere riscontrati nelle forme di tutela corporativistica proprie del medioevo. Ovviamente in quest'ultimo caso si trattava di mutualità gestite direttamente dai lavoratori, o tutt'al più da enti privati, sullo stampo di contratti di tipo assicurativo. Anche le associazioni di mutuo soccorso, nate durante la rivoluzione industriale, mantennero sempre un carattere fortemente improntato al modello assicurativo. Il sistema del mutuo soccorso non risultava però il più adatto alla gestione di queste tutele. Visto infatti il gravare della spesa assicurativa sui lavoratori solo i soggetti più benestanti potevano aderire a questa forma di copertura, realizzando così il paradosso funzionale per cui risultavano assicurati i soggetti che versavano in un minor stato di bisogno. Il sistema, inoltre, si basava su quella che oggi definiamo 'capitalizzazione', struttura in base alla quale il rischio dello stato di bisogno è coperto dai contributi versati dagli stessi soggetti che a quel rischio sono attualmente esposti. Questa base contributiva faceva sì che il sistema mutualistico fosse naturalmente incline ad essere un 'sistema generazionale' (34). Ogni generazione di lavoratori, infatti, versava i contributi per poter coprire i propri tassi di rischio, formare la propria pensione, senza che questi contributi potessero garantire un attivo di gestione tale da poter invitare le nuove generazioni a parteciparvi. Queste piuttosto preferivano sviluppare nuove società nelle quali ripartire i propri rischi, senza dover partecipare dell'onere dell'invecchiamento dei partecipanti. Si creava così, a lungo andare, una frammentazione del sistema previdenziale che poteva essere visto, in questo periodo, come una vera e propria costellazione di sistemi previdenziali autonomi. Una tutela di questo tipo risultava perciò limitata ad ambiti di associazionismo piuttosto ristretti ed era ben lungi dal realizzare una copertura previdenziale universale per i membri della società. Anche in epoca recente, dopo la nascita di una previdenza istituzionalizzata, con la legge n. 80, concetti come quelli di assicurazione, di mutualità e di capitalizzazione, pur del tutto inattuali nella moderna strutturazione del sistema, hanno continuato a sopravvivere nel linguaggio e nella concezione comune.

Come molti autori hanno notato non capita di rado, ad esempio, che venga utilizzato quale sinonimo di previdenza sociale il termine 'assicurazioni sociali'. In questo modo "viene tacitamente operato un indebito scambio tra il mezzo e il fine, e pressoché del tutto si oblitera la relatività storica dell'istituto delle assicurazioni sociali" (35) (proprie del modello delle società di mutuo soccorso piuttosto che di un moderno apparato statale previdenziale). Indubbiamente esiste a tutt'oggi un onere a carico del lavoratore e del datore di lavoro che potrebbe ricondurre, in un qualche modo, all'idea assicurativa. Si deve però notare come vari siano gli elementi che, nel corso tempo, soprattutto nel passaggio dallo Stato liberale a quello sociale, hanno smorzato e mutato i caratteri che erano riconducibili al modello assicurativo. Tra i vari fattori che hanno contribuito a questo graduale mutamento grande rilievo hanno avuto elementi quali l'adozione del modello dell'automaticità delle prestazioni e il passaggio dai modelli di capitalizzazione, dei quali prima parlavamo, a quelli di 'ripartizione'.

Volendo fare un breve accenno a questi due elementi possiamo infatti notare come in campo previdenziale il principio di automaticità delle prestazioni garantisca al lavoratore il raggiungimento delle prestazioni a lui spettanti anche in caso di mancata o errata contribuzione da parte del datore di lavoro. Viene perciò meno il classico modello assicurativo in base al quale la copertura e la relativa prestazione possono discendere solo dal relativo pagamento del premio (36). L'adozione poi del modello di ripartizione, in luogo di quello di capitalizzazione dei vari contributi versati, ha fatto in modo che ogni generazione non finanziasse direttamente le prestazioni che sarebbero spettate a lei, ma quelle di cui necessitava la parte non operativa (per ragioni di anzianità, malattia, infermità) della popolazione lavorativa. Si riusciva in questa maniera a rompere definitivamente quell'andamento generazionale che tanti problemi aveva creato nella gestione capitalizzata.

Questi elementi, assieme ad un costante concorso finanziario dello Stato nella gestione delle tutele previdenziali, ad una sempre maggiore solidarietà tra gestioni di vario genere (37) e ad altri fattori (38), hanno fatto in modo che ci si allontanasse dallo schema assicurativo per creare una tutela più estesa capace di garantire meglio il lavoratore. Parlare quindi oggi di assicurazioni sociali, rimandando la mente al classico schema assicurativo di stampo privatistico, rischia di essere estremamente fuorviante.

Come abbiamo già accennato scopo delle prestazioni sociali, e quindi anche delle prestazioni previdenziali e assistenziali, è quello di liberare il soggetto dal bisogno. Cosa si debba concretamente intendere con il termine 'liberazione dal bisogno' risulta comprensibile solo dopo l'analisi delle singole tutele sociali nei loro caratteri particolari congiuntamente ad una visione di ampio spettro sulla realtà sociale dello Stato. La liberazione dal bisogno sarebbe infatti da intendere come la possibilità di "pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva possibilità di partecipazione di ciascuno all'organizzazione politica, sociale ed economica del paese" (39). Il bisogno che viene in gioco in questo campo deve avere natura socialmente rilevante, deve essere cioè determinato da taluni fattori appositamente previsti e portare con sé un rischio di danno a beni essenziali della vita (40). In base a questa definizione non è difficile quindi comprendere, come avevamo già accennato, quanto sia stretta la connessione tra i diritti sociali e la previsione dell'art. 3 c. II della Costituzione sull'eguaglianza sostanziale degli individui. Le tutele previdenziali, e quelle assistenziali che tra poco vedremo, fanno infatti parte delle iniziative dello Stato volte a ricondurre a condizioni di eguaglianza i soggetti intervenendo nella loro sfera economica. Altrettanto facilmente si può comprendere come il mezzo delle assicurazioni sociali, come era inteso nello Stato liberale, non è assolutamente adatto a realizzare quest'ampio progetto che lo Stato sociale si è proposto (41). La frammentarietà e parcellizzazione della liberazione dal bisogno cui porta il sistema mutualistico non è infatti adatta agli obbiettivi prefissati dalla nuova forma di Stato.

Sempre nell'ottica di garantire il pieno sviluppo del soggetto si dovrebbe constatare come ben poca forza avrebbe il sistema previdenziale senza il connesso sistema di assistenza sociale. Se infatti la previdenza viene ad essere una tutela connessa allo svolgimento dell'attività lavorativa tutti i soggetti che non siano, o siano stati, occupati in una qualche attività, si ritroverebbero, senza il complementare elemento dell'assistenza, privi di ogni tutela e, quindi, soggetti allo stato di bisogno. Proprio quello della distinzione tra previdenza e assistenza sociale viene ad essere un punto critico sul quale la dottrina si è più volte espressa (42). In verità la questione viene oggi a perdere gran parte della sua portata a seguito dei cambiamenti subiti dal sistema di previdenza sociale nel suo costante allontanamento dal sistema mutualistico-assicurativo. Una volta infatti era possibile intendere l'assistenza come il frutto di una solidarietà estesa, spesso caritatevole e limitata alla disponibilità di risorse, capace di dar vita non a diritti perfetti, ma solo ad interessi legittimi o addirittura a meri interessi (43). La previdenza sociale, d'altro canto, era l'espressione di una solidarietà limitata, riservata ai lavoratori (talvolta suddivisa addirittura in base alla tipologia di attività svolta) e improntata agli schemi mutualistici. Una continua evoluzione ha successivamente limato le differenze tra le due facendo sì che la tutela universale e gratuita (44), propria del modello assistenziale, venisse ad avere una sempre maggior copertura normativa, fino alle previsioni, che vedremo, di natura costituzionale. Si è inoltre sviluppata nel corso del tempo una vera e propria rete sistematica di assistenza che allontana sempre più questi interventi da quella che una volta era la loro natura caritatevole e finanziariamente condizionata. Specie a fronte dei diritti di maggior rilievo, dei beni essenziali, viene infatti riconosciuto ad ogni cittadino, e ad ogni soggetto ad esso equiparato, un vero e proprio diritto soggettivo perfetto.

Percorso analogo, ma inverso, è stato invece compiuto dal sistema previdenziale che si è sempre più distaccato dal modello assicurativo (45) per giungere ad avere regole fortemente simili e coordinate con quelle assistenziali. Quegli stessi elementi che abbiamo visto connotare il distacco dal modello privatistico di assicurazione (automaticità delle prestazioni, ripartizione invece di capitalizzazione, adozione del sistema pensionistico retributivo, solidarietà tra gestioni, concorso finanziario dello Stato) hanno infatti influito anche sul graduale venir meno della differenza tra previdenza e assistenza.

Tra i due schemi di servizi ormai non si può neppure riscontrare una diversità basata sugli enti erogatori, visto il continuo accentramento degli incarichi, almeno a livello generale, in capo all'Inps (46). La necessità di mantenere una ripartizione all'interno del sistema di sicurezza sociale, finalizzata soprattutto a di limitare le spese assistenziali (47), può trovare oggi riscontro nell'analisi delle modalità di finanziamento. In questo modo la materia può essere ancora suddivisa osservando i casi in cui il finanziamento è a totale carico dello Stato rispetto ai casi nei quali risulta ancora, almeno formalmente e parzialmente, a carico delle categorie interessate.

La distinzione tra previdenza ed assistenza, come vedremo nei prossimi paragrafi, benché considerata generalmente sorpassata, continua ad avere una qualche utilità per l'analisi dell'accesso alle tutele sociali dei soggetti reclusi.

1.3 Le fonti nazionali

La Costituzione italiana, come quelle di Spagna, Portogallo e Grecia, fa parte del novero delle carte fondamentali che garantiscono direttamente i diritti sociali, secondo il cosiddetto modello sud-europeo di welfare state (48). I diritti sociali, e con essi quelli previdenziali, sono di conseguenza nell'ordinamento italiano diritti costituzionali e non diritti meramente legali. Nel nostro ordinamento i diritti sociali, e più specificamente i diritti previdenziali, risultano trovare il loro an nella carta costituzionale, mentre trovano il loro quomodo ed il loro quando nella legislazione ordinaria (49). Questa loro strutturazione non è però indicativa del grado di tutela, dal momento che anche Stati come l'Inghilterra e l'Austria, che non hanno previsioni analoghe (la prima ovviamente per l'assenza di una costituzione scritta), riescono a garantire tutele sociali di buon livello ai propri cittadini.

In assemblea costituente i pareri sull'inserimento di questi nuovi diritti nella Carta costituzionale non erano stati concordi, parte della dottrina (50) risultava contraria poiché riteneva altamente improbabile la loro attuazione e si rifiutava di inserire norme programmatiche, quindi dal valore solo politico e non giuridico, nel testo fondamentale.

Al di là delle singole previsioni riguardanti i diritti sociali (51) molte erano le norme che potevano offrire una sicura base di appoggio a questa nuova tipologia di diritti. Il fondamento stesso dei diritti sociali sarebbe infatti da ritrovarsi nelle statuizioni degli art. 2 e 3 Costituzione. Col passaggio dallo Stato liberale a quello sociale l'eguaglianza non può più essere definita solo in una prospettiva di garanzia e salvaguardia della distribuzione naturale delle risorse (eguaglianza formale) ma, dovendosi rapportare con l'autorealizzazione personale, va vista come "eguaglianza delle condizioni di partenza o, più precisamente, delle chances (cioè come eguaglianza sostanziale)" (52). Si tratterebbe quindi di realizzare quella equal liberty propria della libertà positiva (quella propria dei diritti sociali), che trova nella già ricordata liberazione dal bisogno l'elemento cardine della sua realizzazione. I diritti sociali sarebbero quindi tanto ancorati al principio di eguaglianza formale dettato dall'art. 3 c. I che a quello di eguaglianza sostanziale di cui al 3 c. II. I due commi dell'art. 3 risultano, infatti, del tutto complementari nel garantire la fruizione dei vari diritti, compresi quelli sociali. Mentre infatti il c. I "pone un divieto (negativo) di discriminare arbitrariamente tra cittadino e cittadino garantendo così una 'pari dignità sociale', l'art. 3 c. II, autorizza i poteri pubblici, e in primo luogo il legislatore, a operare interventi positivi diretti a creare condizioni effettive per un equal liberty" (53). In ciò il carattere aperto della previsione dell'art. 3 c. II permette al legislatore un'ampia scelta circa gli interventi realizzabili in materia sociale.

Oltre al principio d'eguaglianza i diritti sociali si fonderebbero anche sul principio dell'inviolabilità dei diritti dell'uomo, di cui all'art. 2 Cost., da intendersi come "nucleo di valori costituente il contenuto normativo della dignità umana" (54). I diritti sociali farebbero quindi parte di quei diritti inviolabili finalizzati a dare pieno sviluppo alla persona umana "sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". In questo, ovviamente, il singolo non può essere lasciato solo ma deve essere necessariamente supportato da quella solidarietà economica, politica e sociale che tanta parte ha all'interno del sistema sociale. Solo dal connubio dei principi di eguaglianza con quelli di inviolabilità dei diritti dell'uomo e della sua dignità può svilupparsi un'effettiva garanzia delle tutele sociali.

Anche se le previsioni finora analizzate forniscono un valido fondamento costituzionale alle tutele sociali altri sono però gli articoli della Carta fondamentale che richiamano in maniera specifica il concetto di previdenza sociale.

L'art. 38 Cost. può essere infatti considerato alla base tanto del nostro sistema di previdenza che di assistenza sociale. Al suo interno sono racchiusi entrambi i concetti poiché viene stabilito al c. I che "Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale", mentre il c. II stabilisce che "i lavoratori hanno diritto che siano provveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria". A fronte della natura bipartita di questo articolo la Corte costituzionale con sentenza n. 31 del 1986 ha sostenuto che l'articolo in questione sia la fonte di due "modelli tipici" di intervento sociale: "l'uno fondato unicamente sul principio di solidarietà (1º comma), l'altro suscettivo di essere realizzato e storicamente realizzato anche nella fase successiva all'entrata in vigore della Carta costituzionale, mediante gli strumenti mutualistico-assicurativi (2º comma)" (55). Come abbiamo già accennato, nell'abbozzare questa prima distinzione tra le funzioni, comunemente definite di assistenza e di previdenza, la Corte continuava a ricondurre le seconde all'ormai anacronistico modello mutualistico assicurativo.

A fronte dei dettati della Carta costituzionale devono essere effettuati alcuni chiarimenti. Il concetto di cui al c. I informerebbe le prestazioni di assistenza sociale alla sola impossibilità di svolgere una fruttuosa attività lavorativa. Rimarrebbero così privi di ogni tutela tutti quei soggetti che, pur capaci di svolgere attività di qualche sorta, si trovino in situazioni di indigenza. In quest'ultime situazioni potrebbero essere comunque richiamati i principi dell'eguaglianza sostanziale (art. 3 c. II Cost.) e della dignità della persona umana (art. 2 Cost.) (56). Dobbiamo anche constatare come il sistema assistenziale italiano nel suo complesso riservi particolare attenzione ai soggetti incapaci di poter svolgere attività lavorative. Viene invece dedicata un'attenzione nettamente inferiore ai soggetti che, pur potendo lavorare, non lo facciano per motivi di vario genere. La centralità del lavoro nel nostro ordinamento fa infatti in modo che lo stimolo generale sia verso la ricerca di un'occupazione da parte di tutti i soggetti abili allo svolgimento di un'attività lavorativa (57).

Per quanto riguarda poi il c. II dell'art. 38, la parte cioè più prettamente previdenziale di questa norma, dobbiamo rilevare come l'elencazione delle tutele effettuata ("in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria") non sia da intendersi in senso tassativo. Un'interpretazione di questo tipo porrebbe infatti un limite ad una materia, come quella previdenziale, che abbiamo visto essere in continuo divenire. L'utilizzo di elencazioni in settori come quello previdenziale ha valore spesso contingente o esemplificativo e, qualora ciò non venga compreso, rischia di essere foriero di gravi deficit di tutela. Il testo costituzionale inoltre riporterebbe, sempre nello stesso comma, il termine "lavoratori", non limitando così l'ambito di operatività di queste tutele ad alcune categorie quali ad esempio i lavoratori subordinati. Proprio grazie a questo termine viene ribadito il principio di eguaglianza di tutte le tipologie di lavoratori, così come sancito anche dall'articolo 36 Costituzione e 2060 c.c. (58). L'art. 38 può essere visto quindi come segno della lungimiranza del legislatore costituzionale il quale, in previsione della continua creazione di nuove tipologie di impiego, ha deciso di fornire una garanzia costante alla loro tutela tramite una previsione dal carattere aperto (59).

Lo Stato, nel tutelare il lavoro come elemento fondamentale, a norma dell'art. 38 c. IV Cost., non si può limitare alla creazione di istituti appositi ma ne deve garantire anche il corretto funzionamento (60). Sempre più attivo e pregnante risulta quindi il ruolo assunto dalle istituzioni pubbliche in questa materia.

Possiamo infine notare come un'analisi comparata degli artt. 38 e 36 Cost. (61) condurrebbe all'introduzione delle gestioni previdenziali speciali (62). Mentre l'art. 38 sostiene infatti la tutela di ogni forma di lavoro e la garanzia dei "mezzi adeguati alle loro esigenze di vita" in caso di particolari eventi (quali ad esempio infortunio, malattia, vecchiaia, ecc.), l'art. 36 lascia spazio ad attività lavorative la cui retribuzione sia proporzionata alla quantità e qualità del lavoro effettuato. In questo caso, quindi, le prestazioni di natura previdenziali verranno rapportate agli importi e alle caratteristiche di queste attività lavorative al fine di "garantire le esigenze di vita" del lavoratore e della sua famiglia. Nel fare ciò è possibile, come è stato, che si riscontri l'esigenza della creazione di apposite gestioni previdenziali di natura speciale, connesse alla particolarità dell'attività svolta o dei redditi percepiti (63). La possibilità di organizzare sempre nuove gestioni e di concorrere e collaborare con lo Stato nella gestione della previdenza e dell'assistenza sociale è sancita dall'ultimo comma dell'art. 38 il quale stabilisce che "l'assistenza privata è libera" (64).

Il codice civile, se si segue la teoria che riscontra nel testo costituzionale l'an delle tutele sociali e il loro quomodo e quando nella legge ordinaria, viene ad essere il primo elemento normativo 'di dettaglio' in questa materia. Per quanto riguarda le sue statuizioni abbiamo già accennato all'art. 2060 che provvede ad offrire generica tutela al lavoro in tutte le sue "forme organizzative ed esecutive". Le apposite previsioni inerenti a previdenza e assistenza si trovano nel libro quinto, quello del lavoro, sotto il titolo secondo rubricato "Del lavoro nell'impresa". Gli artt. 2114 ss. (65) si occupano infatti di regolare i lineamenti generali delle tutele previdenziali e assistenziali. La previsione dell'art. 2114 stabilisce che siano le leggi speciali a "determinare i casi e le forme di previdenza e assistenza obbligatorie e le contribuzioni e le prestazioni relative". Di seguito l'art. 2115 (66) sancisce la solidarietà tra il datore e il lavoratore in tema di versamento di contributi, pur affidandone la responsabilità al datore anche per la quota del lavoratore, al fine di creare così una semplificazione e una solvibilità maggiore del debitore (67) nei confronti dell'ente previdenziale. La previsione dell'art. 2115 c. III esclude invece la possibilità di ogni tipo di lavoro 'in nero'.

L'art. 2116 (68) dà vita al concetto di tutela previdenziale necessaria, di automaticità delle prestazioni (69), prevedendo l'erogazione di servizi anche a fronte di un'assenza contributiva, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali. Da quest'ultimo articolo si può quindi dedurre che i contributi non sono in rapporto di corrispettività con le prestazioni erogate, ma costituiscono al massimo un elemento della fattispecie per il conseguimento delle stesse (70). La normativa che regola le assicurazioni sociali e previdenziali è formata da leggi speciali e solo in via residuale gli si applica la normativa propria delle assicurazioni (art. 1886 c.c.). I caratteri distintivi tra le due forme (assicurazione sociale e assicurazione di stampo privatistico) sono tali da differenziarle nettamente, basti al riguardo pensare all'impossibilità di applicazione del principio di automaticità, al quale abbiamo sopra accennato, ad una forma assicurativa non sociale. Qualora neppure il principio di automaticità possa garantire la fruizione della prestazione (71) a causa della mancata o irregolare contribuzione imputabile al datore, quest'ultimo sarà responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro (art. 2116 c. II).

Dopo una panoramica dei principi esposti dalla carta costituzionale e dal nostro codice civile ci soffermiamo appena un istante sulle leggi ordinarie in materia, rinviando una trattazione più approfondita ai paragrafi sulle singole tutele (72). Come abbiamo detto è la legislazione ordinaria ad occuparsi dell'an e del quomodo delle tutele sociali. Innegabilmente spesso questo avviene tramite un coacervo di norme stratificate tra di loro in maniera del tutto disorganica. Non ci si deve infatti meravigliare se a base dell'attuale sistema previdenziale si riscontrano norme, come il r.d. n. 1422 del 28 agosto 1924 sull'assicurazione obbligatoria contro l'invalidità e la vecchiaia, che annoverano ormai quasi un secolo di vita. La normativa sociale è inoltre afflitta da una sempre maggiore delegificazione che, come notava Maurizio Cinelli (73) e abbiamo del resto riscontrato anche nel corso della nostra ricerca, ha portato a dare sempre maggior voce ai regolamenti e a quella fonte materiale che è la prassi amministrativa, spesso testimoniata solo da 'secretatissime' circolari degli enti interessati. Indubbiamente, pur non volendo elencare le singole normative, si deve rilevare come in ambito sociale abbiano estrema importanza le varie leggi finanziarie approvate annualmente e la legge 'La Pergola' (legge n. 86 del 1989). Le prime di anno in anno stabiliscono i limiti da apporre alle singole tutele e gli importi delle stesse, rendendo note le risorse che vengono impiegate nella spesa sociale. È quindi proprio a queste leggi che si deve guardare per capire l'entità delle singole prestazioni e l'andamento economico delle varie tutele sociali.

La legge 'La Pergola' (74) invece ha stabilito che il Parlamento italiano approvi con cadenza annuale una apposita legge, detta 'Legge comunitaria', al fine di recepire le direttive europee. Nel fare ciò il Parlamento può dare attuazione diretta a queste previsioni tramite la Legge comunitaria stessa, abrogando o modificando le disposizioni della normativa italiana che con esse contrastino, può altresì conferire apposita delega legislativa al Governo o, qualora la materia non sia coperta da riserva di legge, autorizzarlo all'approvazione di regolamenti (75). Lo scopo è quindi quello di garantire, anche per quanto riguarda la normativa sociale, una corrispondenza tra le disposizioni comunitarie e quelle nazionali.

1.4 Le fonti sovrannazionali

Dal punto di vista sovrannazionale la tutela previdenziale e, più in generale, la sicurezza sociale risultano essere materie di estremo interesse. Questo avviene soprattutto grazie al fatto che elemento fondante della Comunità Europea è da sempre stata la libera circolazione dei lavoratori, che necessita per la sua realizzazione del coordinamento e dell'armonizzazione delle varie politiche sociali degli Stati membri. Proprio sotto quest'ultimo aspetto veniva considerata la sicurezza sociale, limitandone così enormemente la portata, nel Trattato di Roma del 1957 che istituiva la Comunità economica Europea. Tale impostazione è ben comprensibile se si pensa che l'intento era quello di costituire una comunità economica, ed il fulcro del sistema risultava quindi essere la possibilità di scambi commerciali e non la tutela dei cittadini in sé (se non in maniera incidentale come forza lavoro circolante). Nel 1961 nuovo impulso alla questione sociale fu dato dalla Carta sociale europea approvata a Torino, poi riveduta nel 1996, la quale, dopo una elencazione nella prima parte dei diritti e dei principi che gli Stati firmatari si impegnano a rispettare, fornisce una disamina delle modalità di tutela approntate (76).

Tra la fine degli anni '80 e gli inizi degli anni '90 furono approvate altre previsioni in tal senso. Con la Carta dei diritti sociali fondamentali del 1989 gli Stati membri (eccezion fatta per l'Inghilterra che la ratificò solo nel 1998) si assunsero quelli che vennero considerati degli "obblighi morali" volti a garantire il rispetto negli Stati aderenti di taluni diritti sociali. È interessante notare come il preambolo di tale atto annoveri fra gli obiettivi da realizzare "il progresso economico e sociale" degli Stati membri e "il miglioramento costante delle condizioni di vita e di occupazione dei loro popoli". Nel 1992 intervenne poi a sostegno della nuova presa di coscienza della Comunità l'Accordo sulla politica sociale. Anche l'evoluzione apportata dalle varie modifiche e integrazioni al Trattato che istituisce la Comunità europea del 1957 (77) ha segnato un continuo crescendo dell'interesse e delle tutele approntate in campo sociale dagli organi europei. Proprio tale Trattato prende in considerazione la materia in questione sotto due profili: quello del coordinamento e quello dell'armonizzazione (78). L'art. 42 (già art. 51) si propone infatti come obbiettivo quello del coordinamento delle varie discipline nazionali di sicurezza sociale, utilizzando a tale scopo i regolamenti. Gli artt. 136 e 137 (già artt. 117 e 118), richiamando come principi quelli della Carta sociale europea e della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali, perseguono invece l'armonizzazione delle normative nazionali tramite l'utilizzo di direttive. Previsione organizzativa di tutto il sistema risulta essere anche quella dell'art. 40 che sancisce la necessità di "una stretta collaborazione tra le amministrazioni nazionali del lavoro" (e ovviamente tra queste gli enti previdenziali) al fine di garantire la libera circolazione dei lavoratori.

Non si deve inoltre dimenticare che solo grazie al Trattato di Roma fu possibile creare il Comitato economico e sociale europeo (CESE), organo consultivo composto da 344 membri, rappresentanti gli interessi delle diverse categorie economiche e sociali. Infine l'istituzione del Fondo sociale europeo, grazie alla previsione dell'art. 146 (già 123), fu un altro celebre passo nell'evoluzione del sistema di tutela dell'occupazione e della libertà di movimento dei lavoratori. Di estrema importanza per la materia trattata e per il rilievo assunto risulta essere anche la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione proclamata nel dicembre 2000 a Nizza, la quale, sotto il titolo IV "Solidarietà ", riporta all'art. 34 "Sicurezza sociale e assistenza sociale" (79).

Come abbiamo visto imponente è l'utilizzo dei regolamenti comunitari per il coordinamento delle varie legislazioni nazionali. Tra i più importanti sicuramente si può riportare il regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati che si spostano all'interno della Comunità, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari. Tale regolamento, completato dal regolamento di applicazione (CEE) n. 574\72 che ne stabiliva nei dettagli l'applicazione pratica, si estendeva ai lavoratori cittadini di uno Stato membro e ai lavoratori cittadini di un paese terzo (80) (o apolidi/profughi) residenti nel territorio di uno degli Stati membri (soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri), nonché ai loro familiari e ai loro superstiti. La successiva approvazione del Reg. 883/2004 ha dato nuovo impulso alla materia stabilendo che quest'ultimo, dalla data di entrata in vigore del suo regolamento di applicazione, prevista per la fine dell'anno 2009 (81), sostituisca definitivamente il precedente Reg. 1408/71 (e con esso anche il regolamento CEE 574\72). Il nuovo nucleo di disposizioni del Reg. 883/2004 ha come scopo quello di semplificare e chiarire le regole comunitarie relative al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale degli Stati membri rendendo così più organica tutta la materia.

Le maggiori differenze rispetto al Reg. 1408/71 riguardano:

  • il miglioramento dei diritti degli assicurati mediante l'estensione degli ambiti di applicazione 'ratione personae' e 'ratione materiae';
  • l'estensione delle disposizioni a tutti i cittadini degli Stati membri soggetti alla legislazione di sicurezza sociale di uno Stato membro e non più soltanto alle persone appartenenti alla popolazione attiva;
  • l'aumento dei settori di sicurezza sociale soggetti al regime di coordinamento al fine di includervi le legislazioni concernenti il prepensionamento;
  • la modifica di alcune disposizioni concernenti la disoccupazione: mantenimento per un certo periodo (tre mesi aumentabili fino a un massimo di sei) del diritto alle prestazioni di disoccupazione per il disoccupato che si reca in un altro Stato membro per cercarvi un'occupazione;
  • il rafforzamento del principio generale della parità di trattamento, di speciale importanza per i lavoratori frontalieri, in particolare con l'inserimento di una disposizione che prevede il confronto diretto tra le tipologie di attività svolte;
  • il rafforzamento del principio di esportazione delle prestazioni;
  • l'introduzione del principio di buona amministrazione.

Il Regolamento n. 883/2004 dopo aver introdotto il principio di buona amministrazione ha previsto vari meccanismi tesi a garantire un buon funzionamento e una maggior collaborazione tra gli Stati membri e le loro istituzioni, quali: una commissione amministrativa incaricata di risolvere ogni questione interpretativa del regolamento, una commissione tecnica all'interno di essa con compiti di ricerca, una commissione di controllo dei conti, un comitato consultivo. La commissione amministrativa, inoltre, è composta da un rappresentante governativo di ciascuno degli Stati membri e da un rappresentante della Commissione europea, che partecipa alle riunioni con funzione consultiva. La novità più sostanziale, il vero punto di svolta rispetto al regolamento del 1971, si può scorgere nell'aver finalmente slegato il principio di parità di trattamento dal requisito della residenza nello Stato membro erogante la prestazione, completando così il circolo di tutele (82). In tal senso infatti l'art. 7 stabilisce che:

"Fatte salve disposizioni contrarie del presente regolamento, le prestazioni in denaro dovute a titolo della legislazione di uno o più Stati membri o del presente regolamento non sono soggette ad alcuna riduzione, modifica, sospensione, soppressione o confisca per il fatto che il beneficiario o i familiari risiedono in uno Stato membro diverso da quello in cui si trova l'istituzione debitrice".

Non si è comunque mancato di considerare le connessioni presenti tra sistemi di sicurezza e tradizioni e cultura nazionale. Si è cercato infatti di non incidere sulla capacità dello Stato di determinare i tipi di prestazioni e le modalità di erogazione, limitandosi a coordinare queste regole particolari affinché non ledano il diritto alla libera circolazione delle persone (83). Proprio al fine di perseguire tale scopo vengono previste specifiche disposizioni di coordinamento per ogni tipo di istituto di tutela sociale (84).

Non bisogna dimenticare inoltre che grazie ad un altro regolamento, il n. 859 del 2003 (85), i regimi di sicurezza sociale (previsti dai regolamenti C.E.E. n. 1408/71 e n. 574/72) si applicavano già, salvo alcune deroghe, anche ai lavoratori extracomunitari legalmente soggiornanti nei territori della comunità e ai lavoratori degli Stati che abbiano stipulato specifiche convenzioni internazionali (86).

Passando alle direttive bisogna ricordare come queste, pur avendo carattere vincolante circa i fini da raggiungere, lasciano liberi gli Stati di decidere circa i mezzi e le forme da utilizzare. Tali atti, come abbiamo già visto, e come risulta espressamente previsto dall'art. 94 (già 100) Trattato CE, sono spesso utilizzati in questa materia al fine di 'armonizzare' le discipline nazionali. Grazie al Trattato di Maastricht del 1992 le competenze comunitarie hanno assunto portata generale, conformandosi così al principio di sussidiarietà (art. 5, già 3b Trattato CE). Come giustamente considerato:

"L'ordinamento comunitario non prevede, dunque, una sua specifica disciplina previdenziale, ma soltanto regole comuni, dirette a far sì che l'applicazione delle singole legislazioni nazionali non provochi, in rapporto a quelle proprie di ciascun altro Stato membro, disincentivi o remore alla libera determinazione del lavoratore comunitario, il quale, per ragioni della sua attività, intenda spostarsi da un paese membro ad un altro" (87).

Un'importante attività in materia di sicurezza sociale, sempre a livello regionale, è realizzata anche dal Consiglio d'Europa, autore tra le altre della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (1950), della Carta sociale europea, di cui abbiamo più sopra parlato, della Convenzione europea di sicurezza sociale del 1972, del Codice europeo di sicurezza sociale (ratificato con legge n. 174 del 1976). Altro soggetto rilevante è l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), per la sua attività di tutela dei livelli occupazionali e della libertà di circolazione dei lavoratori. Si devono inoltre tenere di conto gli accordi bilaterali stipulati dall'Italia con altri paesi al fine di istituire rapporti di reciprocità o di parità di trattamento riguardo a specifiche tutele sociali (88).

Riguardo infine alle fonti internazionali che fuoriescono dall'ambito europeo possiamo riscontrare come già nello statuto dell'Organizzazione delle Nazioni Unite sia previsto tra gli obiettivi quello della cooperazione nella soluzione di problemi internazionali di carattere economico e sociale. Non si può dimenticare inoltre l'attività svolta dall'OIL, Organizzazione internazionale del lavoro, la quale, tramite risoluzioni, raccomandazioni e progetti di convenzioni tende alla creazione di una base giuridica di riferimento comune nell'analisi delle problematiche socio-lavorative.

Si deve considerare come le fonti di portata regionale, a differenza di quelle universali, dovendo gestire rapporti tra Stati accomunati dai caratteri peculiari propri di una certa 'comunità regionale' (si pensi ad esempio alla comunanza di valori propria degli Stati della Comunità europea) riescono generalmente a realizzare livelli di tutela maggiori.

In ambito sovrannazionale si è venuto quindi a creare un complesso sistema di relazioni dettate da organizzazioni internazionali, o direttamente da singoli Stati, nel quale non è sempre facile identificare quale sia il livello di tutela garantito ai lavoratori provenienti da, o emigranti verso, una certa regione. Utili elementi semplificativi di questo complesso intreccio di tutele risultano essere gli accordi di associazione e di cooperazione con l'Unione Europea stipulati da alcuni paesi extracomunitari (89) al fine di garantire la libera circolazione dei propri lavoratori fornendo loro adeguate tutele previdenziali.

2. Le tutele maggiormente rilevanti per la realtà carceraria

Mentre questo primo capitolo si occuperà di analizzare la disciplina comune delle tutele che abbiamo selezionato per la nostra ricerca, il secondo studierà il loro sviluppo nella realtà carceraria.

Le difficoltà di fruizione delle prestazioni assistenziali e previdenziali all'interno degli istituti penitenziari è spesso dovuta ad un'assenza di coordinamento tra le previsioni che regolano il sistema carcerario e quelle preposte a tutela delle varie prestazioni sociali. Si tratta di problematiche di natura tecnica che, talvolta, vengono risolte in maniera diversa da operatore a operatore o da istituto ad istituto. Purtroppo sono difficoltà che non raramente vengono alimentate dalla negligenza delle stesse direzioni degli istituti di pena.

Per condurre correttamente questo nostro studio abbiamo deciso di selezionare le tutele che sembravano essere di maggior interesse. Dal momento che lo scopo è quello di analizzare i punti in cui la realtà carceraria limita la fruizione di alcune prestazioni di natura assistenziale e previdenziale, risulta inutile occuparsi di quelle tutele che non presentano particolari differenze tra la loro applicazione alla popolazione libera e quella alla popolazione detenuta.

La nostra selezione ha tenuto conto infatti dell'influenza di due ordini di fattori: le peculiarità proprie del lavoro carcerario e le caratteristiche proprie della popolazione detenuta (si pensi in particolar modo ai risvolti di quest'ultime sulle prestazioni d'invalidità civile e dell'assegno sociale). Mentre dal punto di vista normativo spesso (90) non viene espressa alcuna riserva o particolarità riguardo all'applicazione delle tutele sociali alla popolazione detenuta, gran parte delle diversità rispetto alla popolazione libera sembrano derivare da questi due ordini di fattori strutturali.

Riguardo al lavoro carcerario vedremo nel secondo capitolo come questo, specie se condotto alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, sia soggetto a regole parzialmente diverse rispetto a quello comune. Otre a ciò la scarsa retribuzione offerta e tutta una serie di altri elementi contingenti (vedremo ad esempio l'influenza della turnazione lavorativa e dei trasferimenti), nonostante l'identità di base normativa rispetto al lavoratore libero, portano la tutela dei detenuti ad un livello estremamente diverso.

Dal punto di vista poi degli elementi di peculiarità riguardanti le qualità dei soggetti detenuti vedremo come vi siano dei fattori, connessi alla vita condotta prima della carcerazione, alle patologie riportate, allo stato di indigenza, che si sviluppano in maniera del tutto particolare rispetto all'esterno, o almeno, portano al massimo estremo elementi critici del sistema sociale che già nel mondo libero possono essere riscontrati.

In questo senso, ad esempio, grande importanza hanno le tutele contro l'invalidità e l'inabilità, in virtù dello svilupparsi tra la popolazione carceraria di patologie debilitanti, quali quelle connesse agli stati di tossicodipendenza e di sieropositività, con incidenza generalmente superiore rispetto alla società esterna. Attenzione sarà rivolta anche verso quegli istituti che normalmente definiamo residuali, spesso di carattere assistenziale (91), in virtù del forte stato di indigenza in cui spesso la popolazione reclusa si trova (92) e della generale assenza o scarsità di requisiti contributivi qualificati (93). La popolazione ristretta infatti usufruisce di questo tipo di prestazioni, come vedremo nell'ultimo capitolo, in maniera statisticamente superiore rispetto a quella libera.

La selezione da noi effettuata, pur incentrata su tutele di natura previdenziale, nel tentativo di seguire in maniera specifica l'incidenza delle prestazioni delle quali beneficia la popolazione detenuta, non ha tralasciato di esaminare alcuni istituti dal carattere assistenziale. Una netta scissione tra le due materie avrebbe reso infatti incompleta questa nostra ricerca e sarebbe stata del tutto ingiustificata agli occhi della moderna dottrina che vuole i due settori sempre più commisti tra di loro.

Mentre l'esame della disciplina generale delle varie tutele sociali verrà svolto in questo capitolo, alcuni appositi paragrafi (94) del cap. II saranno destinati alle misure straordinarie previste dall'attuale governo: Bonus famiglie e Carta acquisti. Si potrebbe dibattere circa la necessità o meno di una trattazione approfondita di misure dalla natura temporanea (il termine ultimo per la richiesta del Bonus famiglie era ad esempio il 30 giugno 2009), ma riteniamo utile analizzare quale tasso di incidenza e quali problematiche sollevano prestazioni di natura contingente e limitata come queste, perché essa completa la fotografia della situazione sociale della popolazione detenuta.

Oltre ai paragrafi sui temi finora illustrati ve ne saranno ovviamente altri (si pensi ad esempio a quello relativo alle prestazioni ai superstiti) che sono stati inseriti per dare maggior completezza alla trattazione che, altrimenti, sarebbe risultata eccessivamente frammentaria. D'altro canto una esposizione completa delle tutele previste in ambito sociale avrebbe portato, data la mole della materia, ad un'impossibilità di studio coerente e bilanciato della tematica, facendo perdere di vista il nucleo centrale dell'analisi.

È indubbio che alcuni passaggi relativi alle varie prestazioni sembrino talvolta indugiare eccessivamente su aspetti tecnici, quali quelli relativi alla modulistica, che prima facie appaiono privi di ogni interesse. Tali analisi risulteranno però utili nel corso del secondo capitolo per meglio comprendere come la difficoltà di garantire alcune tutele sociali all'interno del mondo carcerario sia dettata anche da aspetti di natura prettamente tecnica.

Sarebbe infatti del tutto inutile, nonché errato, trattare direttamente le peculiarità proprie delle tutele sociali 'carcerarie' senza aver prima esaminato quale sia il regime di quest'ultime all'esterno, qualora vengano offerte a cittadini liberi.

3. Le tutele per la disoccupazione

Un sistema che si proponga come obbiettivo la liberazione dal bisogno non può fare a meno di considerare la situazione di un soggetto che si trovi privo di un impiego, in stato cioè di disoccupazione. Si deve notare come il fenomeno della disoccupazione abbia subito nel corso degli ultimi decenni forti cambiamenti correlati alle nuove tipologie d'impiego adottate. Possiamo sostenere che se la disoccupazione un tempo rappresentava una patologia dell'attività lavorativa, il suo alter-ego, oggi viene ad essere sempre più considerata un elemento della strutturazione del lavoro. La disoccupazione è infatti divenuta un elemento strutturale, intimamente connesso alle moderne tipologie lavorative quali, ad esempio, quelle di tipo interinale. Il sistema sociale vedendo nella situazione di non impiego una assenza di guadagni e quindi l'insorgere di uno stato di bisogno (non solo per il singolo soggetto ma anche per la sua formazione familiare) ha teso sempre più a tutelare le condizioni connesse a quest'evento sociale. Una prima storica forma di tutela la si può ritrovare nell'introduzione di norme per l'assicurazione contro la disoccupazione involontaria (95) predisposta dal r.d.l. 2214 del 19 ottobre 1919. La lotta contro la disoccupazione non si è però limitata a forme assicurative che potessero fornire alla persona che aveva perso il proprio posto di lavoro un sostituto del proprio reddito. Molteplici sono infatti le tutele con le quali nel corso degli anni si è tentato di arginare questa vera e propria piaga in modo preventivo o ex post, a licenziamento già avvenuto. Utilizzando ed ampliando in parte la catalogazione proposta da Maurizio Cinelli (96) potremmo suddividere le tipologie di interventi del primo tipo, quelli cioè di natura preventiva, in "misure di promozione dell'occupazione" e "misure di conservazione dell'occupazione". Nella prima tipologia di interventi si possono senza dubbio ritrovare i servizi di collocamento, di formazione e addestramento al lavoro, le assunzioni privilegiate o obbligatorie (si vedano a titolo esemplificativo quelle inerenti a persone diversamente abili), il prepensionamento dei soggetti più anziani per poter favorire l'ingresso nel mondo lavorativo delle classi più giovani, l'istituzione di fondi finalizzati ad incentivare i livelli occupazionali di determinate aree o tipologie di soggetti (97). Tra le misure tese a supportare il mantenimento dell'impiego da parte del lavoratore si devono invece considerare tutele quali: la Cassa integrazione, i contratti di solidarietà, le misure di sostegno per le imprese in crisi, il collocamento in disponibilità per i pubblici impiegati.

Rientrano infine nella categoria delle misure 'ex post', atte a far fronte all'avvenuto licenziamento, varie tipologie di tutele: dalle misure per favorire la ricerca di un nuovo impiego alle prestazioni di sostegno economico al soggetto disoccupato e alla sua famiglia. Quest'ultimi interventi sono connessi tra di loro al punto che, nel moderno sistema di tutela contro la disoccupazione, ad esempio, per percepire l'indennità ordinaria di disoccupazione il soggetto dovrà necessariamente iscriversi nelle liste di collocamento.

Tra le varie forme di tutela finora elencate incentreremo il nostro discorso, per i motivi di scelta già illustrati nel paragrafo 2, sull'indennità ordinaria di disoccupazione. Tale tipo di prestazione a sostegno del reddito, finalizzata a sostituire il gettito reddituale del lavoratore disoccupato, è alimentata dall'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria gestita dall'Inps. Se una volta l'indennità di disoccupazione risultava avere carattere generale, la creazione di nuove tipologie di prestazioni di disoccupazione (quali ad esempio la Cassa Integrazione guadagni e la mobilità), basate sulle particolari esigenze di alcune tipologie di lavoratori e di attività lavorative, le ha lasciato una portata che ad oggi sembra residuale. All'interno dello stesso istituto dell'indennità di disoccupazione si sono, inoltre, sviluppate differenziazioni di tutela come quelle riguardanti i lavoratori agricoli. Si sta insomma assistendo ad una sempre maggior specificazione delle iniziative volte a contrastare il fenomeno sociale della disoccupazione e a far fronte allo stato di bisogno da esso derivante. Tale evoluzione trova indubbiamente origine, come abbiamo già accennato, anche nella consapevolezza del nuovo ruolo della disoccupazione nella moderna strutturazione delle attività lavorative.

L'indennità di disoccupazione è una prestazione previdenziale di carattere economico che viene erogata ai lavoratori a seguito dell'estinzione o della sospensione del loro rapporto di lavoro. Come altri istituti della previdenza sociale nel nostro paese anche questo sembra essere strettamente collegato alla figura del lavoratore subordinato (98). L'evento che dà luogo all'indennità di disoccupazione ordinaria è l'estinzione o l'interruzione del rapporto di lavoro. Ai fini di questa protezione infatti la disoccupazione non assume nessuna rilevanza se non deriva da tale accadimento (99). Non hanno diritto all'indennità quindi gli inoccupati in cerca di primo lavoro (100).

Caratteristica della condizione di disoccupazione deve inoltre essere l'involontarietà, anche se questa prescrizione è soggetta ad alcuni temperamenti. Fino al 1999 infatti la prassi prevedeva che si potesse avere accesso alla erogazione delle prestazioni in questione anche in caso di dimissioni. L'unica differenziazione tra una disoccupazione involontaria e una volontaria risultava consistere solo nella valutazione del 'periodo di carenza' (101). La legge n. 448 del 1998 col suo art. 34 ha sancito che in caso di dimissioni non si ha più diritto all'indennità. Come ha prontamente specificato la Corte costituzionale la suddetta esclusione non opera in caso di dimissioni per giusta causa, ex art. 2119 c.c., poiché in tali circostanze vige "il principio che le dimissioni per giusta causa non sono riconducibili alla libera scelta del lavoratore, in quanto indotte da comportamenti altrui idonei ad integrare la condizione di improseguibilità del rapporto di lavoro" (102). Nel recepire tale importante orientamento la circolare Inps n. 163 del 20 ottobre 2003 riepiloga quali motivi vengono intesi allo stato della giurisprudenza come giusta causa di dimissioni (103), ripromettendosi di seguire ogni ulteriore aggiornamento. Dall'ultima parte del documento si evince facilmente come l'esito del giudizio relativo alla presenza o meno della giusta causa si ponga in un rapporto di pregiudizialità rispetto all'erogazione delle prestazioni di disoccupazione, siano queste a requisiti normali, ridotti o agricole. Inoltre dal marzo 2005 grazie al d.l. 14 marzo 2005 n. 35 convertito in legge n. 80 del 14 maggio 2005 hanno diritto all'indennità non agricola (104), sia a requisiti normali che a requisiti ridotti, anche i lavoratori che sono stati sospesi da aziende colpite da eventi temporanei non causati né da datori né da lavoratori. È stata così creata una sorta di 'mini Cassa integrazione' (105) per le aziende che non possono accedere a quest'ultima tutela. Non si deve però dimenticare come questa nuova prestazione sia strettamente soggetta a dei limiti di spesa posti dalla legge stessa (106).

L'analisi circa la volontarietà o meno dello stato di disoccupazione ha portato ad una annosa querelle circa la possibilità di accesso all'indennità di disoccupazione da parte dei lavoratori agricoli stagionali e dei lavoratori con contratto a part-time verticale. I periodi di inattività connaturati a queste due tipologie di lavoro periodico sembrano, a prima vista, talmente similari da non giustificarne una differenziazione della disciplina. Ad una più attenta disamina della questione, grazie alla sentenza n. 160 del 6 giugno 1974 della Corte costituzionale, si è arrivati a comprendere come il carattere stagionale di alcune lavorazioni agricole non possa incidere sul requisito dell'involontarietà dello stato di disoccupazione. La Corte sostiene infatti che "il termine 'involontario' [...] non può ricollegarsi alla scelta di quel tipo di lavoro da parte del prestatore, ma deve riguardare il comportamento del lavoratore in occasione della fase di interruzione dell'attività [...], nel lavoro stagionale la prevedibilità del rischio di disoccupazione [...] non basta a rendere la disoccupazione volontaria" (107).

La prevedibilità da parte del lavoratore della natura periodica dell'attività agricola stagionale non configura quindi necessariamente una 'volontarietà ex ante' dell'interruzione dell'attività stessa. Questa volontarietà dovrà essere piuttosto analizzata nel momento esatto in cui la prestazione lavorativa venga interrotta. Da un'analisi della giurisprudenza circa i contratti a tempo parziale verticale invece si nota come gli orientamenti siano nettamente diversi. Già le Sezioni unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 1732 del 6 febbraio 2003 avevano sostenuto la non configurabilità di un diritto all'indennità di disoccupazione per il lavoratore a tempo parziale verticale. La Suprema Corte sostiene infatti l'impossibilità di un'estensione analogica della disciplina dei contratti stagionali "non tanto per il carattere eccezionale di questa disciplina (art. 14 delle preleggi) ma per la mancanza dell'eadem ratio", perché come viene illustrato poco sopra "La stipulazione di un contratto di lavoro a tempo parziale su base annua dipende dalla libera volontà del lavoratore contraente perciò non dà luogo a disoccupazione involontaria, ossia indennizzabile, nei periodi di pausa". Sarebbe la componente volitiva, che caratterizza o meno la scelta della modalità di lavoro, che condiziona la configurabilità della tutela dell'indennità di disoccupazione. Tale pronuncia, foriera di accese discussioni dottrinali (108), fu poi supportata dalle disposizioni della Corte costituzionale (109).

Sempre la sentenza n. 1732 del 2003 ribadiva inoltre come la disoccupazione non debba essere necessariamente assoluta ma possa avere anche natura parziale (110). Si ritiene comunemente che lo stato di bisogno del soggetto e il conseguente diritto alla prestazione si configurino anche se quest'ultimo, occupato contemporaneamente in due impieghi venga a perdere quello principale.

Volendo addentrarsi in un'analisi particolareggiata delle forme di tutela che afferiscono alla disoccupazione si deve subito portare all'attenzione la distinzione tra indennità di disoccupazione ordinaria non agricola a requisiti normali, indennità di disoccupazione ordinaria non agricola a requisiti ridotti, indennità ordinaria per gli operai agricoli, trattamenti speciali per gli operai agricoli. Ovviamente, come abbiamo già illustrato queste non sono le uniche tutele nell'ambito della disoccupazione (111), ma sono le tutele che abbiamo selezionato ai fini della nostra ricerca.

3.1 L'indennità ordinaria di disoccupazione a requisiti normali

L'indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti normali può essere ben considerata il 'modello base' della tutela contro la disoccupazione. Una forma di erogazione di beni che ha come scopo quello di sopperire alla carenza di risorse e quindi allo stato di bisogno del soggetto derivante da taluni, tassativi, eventi della sua vita lavorativa. Gli eventi protetti in questione hanno infatti come comun denominatore il repentino mutamento delle condizioni economico-reddituali del lavoratore. Oltre a questi limiti oggettivi relativi alle modalità con le quali il rapporto di lavoro è stato concluso o sospeso esistono poi dei limiti soggettivi inerenti all'attività lavorativa svolta dal soggetto, o meglio al suo inquadramento (112). A tal proposito credo sia più conveniente effettuare una analisi a contrariis che ci porti a notare come tra le più importanti fasce di lavoratori esclusi da questo tipo di tutela si trovino: lavoratori autonomi, lavoratori parasubordinati, lavoratori a part-time verticale per i periodi di pausa (come visto sopra, l'indennità spetta loro invece in caso di licenziamento, sospensione, 'giuste' dimissioni), apprendisti, lavoratori extracomunitari con permesso di lavoro stagionale (113), lavoratori con contratto di compartecipazione agli utili. È facile comprendere come questa forma di tutela abbia carattere generale e portata estremamente ampia, tale da farle assumere la funzione di modello di base dal quale poi le altre tutele da noi analizzate in questo paragrafo prenderanno le mosse.

Come si nota, tra le esclusioni di carattere soggettivo effettuate dalla normativa la più illustre risulta essere quella dei lavoratori autonomi. Questo tipo di esclusione, che ritroveremo tra l'altro anche negli assegni per il nucleo familiare e in altre tutele, deriva da una ratio di immediata comprensione. Il lavoratore autonomo infatti è un soggetto che si assume il rischio d'impresa a fronte di guadagni che, in linea di massima, si prospettano maggiori rispetto a quelli del lavoratore dipendente. A tale tipologia di lavoratore viene quindi lasciata la maggior libertà d'impresa possibile, anche in virtù del dettato dell'articolo 41 della Costituzione. Proprio da tale libertà deriva poi come conseguenza un'assenza o limitatezza delle tutele offerte. La maggior parte delle tutele previdenziali che abbiamo scelto di analizzare hanno come destinatario, per gli ovvi motivi illustrati nel par. 3, il soggetto lavoratore inteso come colui che dipende da scelte altrui, e proprio da tali scelte lo si deve spesso tutelare.

Tornando all'analisi dei requisiti richiesti dall'Inps per l'erogazione dell'indennità di disoccupazione ordinaria a requisiti normali ritroviamo:

  • lo stato di disoccupazione;
  • il rilascio al Centro dell'impiego della dichiarazione di immediata disponibilità a svolgere una nuova occupazione o a seguire un percorso di ricerca di una nuova occupazione (tale requisito, come si vedrà tra poco, dà luogo a forme di decadenza);
  • avere il cosiddetto requisito dell''anzianità' lavorativa, avere cioè almeno una settimana di contributi versati prima dei due anni precedenti alla data del licenziamento (114);
  • avere almeno un anno di contribuzione versata per l'assicurazione contro la disoccupazione involontaria (52 contributi settimanali) nei 2 anni precedenti il licenziamento (115);
  • essere abili al lavoro (in caso di temporanea inabilità al lavoro l'erogazione della prestazione riprenderà con la riacquisizione della capacità lavorativa).

La domanda di disoccupazione ordinaria a requisiti normali richiede quindi, per essere positivamente portata a termine, una molteplicità di requisiti, spesso connessi ad una serie di adempimenti a carico dell'ex datore di lavoro e dell'ex lavoratore. Più precisamente quest'ultimo avrà l'onere di presentare l'apposita domanda (modello ds 21) entro 68 giorni dal licenziamento, dalla sospensione connessa alla situazione aziendale, o entro 98 giorni in caso di licenziamento in tronco per giusta causa. Oltre all'apposita domanda opportunamente compilata il soggetto dovrà allegare anche la dichiarazione dell'ex datore di lavoro relativa ai periodi lavorati e alle retribuzioni percepite (modello ds 22). Proprio in virtù delle dinamiche che si vengono a creare in un momento come quello del licenziamento (che potrebbero indurre l'ex datore a non fornire la documentazione necessaria alla liquidazione della disoccupazione), è stato previsto che in alternativa al modello ds 22 possa essere presentata dal richiedente una autocertificazione sostitutiva. Entrambi questi modelli sono però, come mostra la Circolare Inps n. 115 del 31 dicembre 2008, destinati a scomparire (ed in verità quelli di cui abbiamo parlato dovrebbero già essere stati aboliti dall'emanazione della suddetta circolare) per essere sostituiti dalla trasmissione telematica della mensilizzazione delle denunce contributive denominata e-mens (116). A questi documenti vanno inoltre aggiunte la dichiarazione per le detrazioni di imposta e la dichiarazione con la quale il richiedente affermi di aver provveduto ad effettuare i previsti adempimenti presso il Centro per l'impiego. Qualora la persona abbia invece rimesso le proprie dimissioni per una delle cause che abbiamo sopra elencato (cosiddetta 'giusta causa'), alla domanda dovrà allegare la documentazione con la quale attesta la sua volontà ad adire il giudice competente avverso il datore di lavoro.

A seguito della corretta presentazione della domanda in capo al soggetto sorgerà il diritto all'erogazione della relativa prestazione a sostegno del reddito. Volendo quantificare l'entità di tale prestazione possiamo notare come dal 2008 il periodo massimo indennizzabile sia stato elevato ad otto mesi per i soggetti di età inferiore ai 50 anni e a 12 mesi per i soggetti con età superiore ad anni 50 (117). Per i lavoratori sospesi che hanno avuto accesso alla tutela il periodo massimo indennizzabile è invece molto più limitato poiché corrisponde a 65 giorni. I suddetti periodi vengono indennizzati in rapporto percentuale rispetto al reddito percepito durante il rapporto di lavoro concluso. Tale prestazione corrisponde infatti al 60% della retribuzione media lorda mensile per i primi 6 mesi, al 50% per i due mesi seguenti e al 40% per i restanti mesi erogati. Fanno eccezione, come già notato, i lavoratori sospesi per i quali l'importo sarà quello del 50% della retribuzione media lorda. Le erogazioni non possono comunque superare dei limiti massimi di importo mensile lordo stabiliti per l'anno 2009 in 1.065,26 euro per la disoccupazione ordinaria a requisiti interi e 1.031,93 per quella a requisiti ridotti (118).

Effettuando un'analisi storica si può considerare come in base alla legge n. 114 del 1974 l'indennità giornaliera corrisposta era di lire 800, per un periodo massimo di 180 giornate (elevate a 360 per talune categorie) (119). A seguito della continua ascesa del livello dei redditi che caratterizzò gli anni successivi alla suddetta legge, tale importo divenne ben presto del tutto inadeguato, tanto da portare nel 1988 alla pronuncia della Corte costituzionale (120) che dichiarò il contrasto di detta disciplina con le garanzie offerte dall'art. 38 Cost., creando così spazio ad una nuova modalità di commisurazione. Per ancorare definitivamente la prestazione di disoccupazione ad un reddito che risultasse 'attuale' si decise di commisurarla in percentuale al reddito percepito nei 3 mesi precedenti il licenziamento. Dagli inizi degli anni '90 fino ad oggi si è assistito ad un continuo aumento delle percentuali sulla base delle quali la prestazione viene calcolata e del numero di mensilità per le quali questa viene corrisposta (121). L'andamento decrescente, col passare dei mesi, delle prestazioni erogate ha tra gli altri lo scopo di stimolare il soggetto disoccupato nella ricerca di un nuovo impiego. Il pagamento della prestazione di disoccupazione può trovare la suo naturale conclusione alla fine del periodo massimo di erogazione oppure in conseguenza di alcuni accadimenti. Tra questi il caso in cui il destinatario venga avviato ad un nuovo impiego di durata superiore ai 5 giorni, venga cancellato per qualunque motivo dalle liste dei disoccupati, inizi un'attività autonoma, riceva pensioni dirette (122) o si trasferisca durante il periodo di godimento dell'indennità di disoccupazione in paesi extracomunitari non convenzionati (salvo per brevi periodi e per gravi e comprovati motivi di famiglia o di salute). L'erogazione dell'indennità verrà invece sospesa in caso di maternità e di malattia, in modo da non sovrapporsi con le apposite tutele previste per questi accadimenti.

Aspetto da non sottovalutare (men che meno, come si vedrà, in una realtà come quella carceraria) è la contribuzione figurativa che risulta connessa all'erogazione della prestazione dell'indennità di disoccupazione (123). Le settimane di contribuzione figurativa che verranno concesse si ricavano dividendo per sette il numero di giorni di calendario compresi tra il primo e l'ultimo giorno pagato. Tale tipologia di contribuzione potrà concorrere sia al raggiungimento del diritto che alla determinazione della misura della pensione di vecchiaia e dell'assegno ordinario di invalidità, per la pensione di anzianità concorrerà invece solo alla determinazione della misura, sarà inoltre utile ai fini del raggiungimento della maggior anzianità lavorativa in deroga all'età richiesta per la pensione di anzianità.

Se consideriamo l'efficacia di un sistema di tutele previdenziali notiamo come questo sia tanto più funzionante quanto più riesca a fornire al soggetto una serie di garanzie contro lo stato di bisogno non slegate e indipendenti l'una dall'altra. In quest'ottica ogni singolo istituto previdenziale può essere analizzato in una visione sistematica che lo rende un tassello del sistema previdenziale nella sua interezza. La commistione tra più tutele risulta essere quindi sostenuta dai singoli istituti previdenziali, nei limiti in cui ciò non crei sovrapposizioni di più tutele dettate da una stessa situazione di bisogno e destinate ai medesimi soggetti. Proprio per garantire questa completezza sistematica si può notare come gli attuali moduli utilizzati per le varie richieste di indennità di disoccupazione contengano al loro interno appositi campi destinati alla richiesta di assegni per il nucleo familiare (124). Così facendo si è riusciti a spostare l'ottica da una tutela 'per il soggetto' ad una tutela 'contro l'evento', si riesce a tutelare non solo il singolo, ma tutto il nucleo familiare di cui quest'ultimo fa parte grazie all'inoltro di una singola richiesta. Una previsione del genere, per così dire 'ad eventum', in un'ottica di semplificazione della disciplina potrebbe verosimilmente portare in futuro alla costituzione di un singolo modello di richiesta per ogni tipo di evento intercorso, modello che darà però vita ad una molteplicità di tutele.

3.2 L'indennità ordinaria di disoccupazione a requisiti ridotti

Come abbiamo visto la tutela della disoccupazione ordinaria a requisiti interi è informata ad una serie di parametri, sia di carattere soggettivo che di carattere oggettivo, che ne limitano l'accessibilità. Proprio per non lasciare privi di tutela i soggetti che non avevano i requisiti per accedere alla disoccupazione ordinaria a requisiti normali fu introdotta, con l'art. 7 della legge n. 160 del 1988, la disoccupazione ordinaria a requisiti ridotti. Tale nuova prestazione riusciva a tutelare categorie di lavoratori che altrimenti si sarebbero trovati privi di sostegno, soprattutto i lavoratori adibiti ad attività di tipo saltuario. I requisiti richiesti per questa forma di tutela fanno sì che essa sia accessibile da parte di quei soggetti che nel corso dell'anno hanno compiuto lavori brevi e discontinui, non riuscendo così a raggiungere le 52 settimane contributive richieste dai requisiti normali. La domanda in questione viene presentata improrogabilmente entro il 31 di marzo di ogni anno per i periodi lavorativi dell'annualità precedente. I requisiti richiesti sono:

  • avere una anzianità contributiva che annoveri almeno una settimana di contributi contro la disoccupazione involontaria prima del 31 dicembre dei due anni precedenti a quello della domanda (se la domanda viene effettuata nell'anno 2009 relativamente all'anno 2008 l'anzianità da far valere sarà da ricercare nei periodi di lavoro precedenti al 31 dicembre 2006);
  • avere svolto almeno 78 giorni di attività lavorativa nell'anno precedente a quello della domanda (125).

Come già visto per la disoccupazione ordinaria a requisiti normali, anche in questo caso la tutela si estenderà principalmente ai lavoratori dipendenti e la disoccupazione in questione dovrà essere di tipo involontario, non risultando possibile neppure in questo caso indennizzare una disoccupazione derivata da dimissioni che non siano per 'giusta causa'. Più precisamente non potranno accedere a tale forma di tutela i lavoratori parasubordinati, mentre lo potranno fare gli artigiani allegando l'apposita documentazione. Alla domanda di disoccupazione presentata sull'apposito modello 'ds 21 req. rid.' entro il termine perentorio di cui sopra va allegato il modello dl 86\88 bis per ogni lavoro svolto per l'anno solare di riferimento. Quest'ultimo modello riporta all'interno di una apposita tabella le giornate lavorate nel corso dell'anno dal soggetto richiedente ed alle quali andrà commisurata l'indennità erogata. Come abbiamo già visto nel caso della domanda di disoccupazione a requisiti interi la nuova forma di trasmissione della posizione contributivo- lavorativa dei propri dipendenti per via telematica da parte dei datori (e-mens) potrà con tutta probabilità, a breve, sostituire anche il modello dl 86\88 bis (126). La domanda di richiesta dovrà essere poi completata con il modulo per le detrazioni Irpef. Nel caso il soggetto richiedente sia in una delle situazioni previste per l'erogazione degli assegni per il nucleo familiare potrà farne richiesta, come già accennato, direttamente sul modulo ds 21 req. rid. (127) allegando la documentazione di volta in volta necessaria.

La portata dell'indennità erogata a fronte di questa tipologia di richiesta è inferiore rispetto a quella a requisiti interi, inferiorità correlata alla richiesta di requisiti meno stringenti. L'indennità viene erogata in misura pari al 35% della retribuzione per i primi 120 giorni di disoccupazione e al 40% per i successivi giorni, e non può coprire più di 180 giornate (128). Rimangono ovviamente validi i limiti di importo dei quali abbiamo sopra detto.

Tale modalità di erogazione 'ascendente' sembra contrastare con la ratio da noi illustrata a proposito dell'erogazione 'discendente' propria della disoccupazione ordinaria a requisiti normali, che dovrebbe garantire un incentivo alla reintroduzione nel mondo del lavoro. In verità l'impostazione delle due tutele è talmente diversa da giustificare anche un diverso andamento percentuale delle relative erogazioni. La disoccupazione ordinaria a requisiti normali si trova infatti a dover arginare uno stato di bisogno 'attuale' perché viene erogata contestualmente allo stato di disoccupazione e, quindi, anche la sua politica di incentivo al reinserimento tramite una progressiva diminuzione dell'erogazione deve essere vista in questa prospettiva. D'altro canto la disoccupazione ordinaria a requisiti ridotti presenta una funzionalità 'differita'. Viene cioè erogata sulla base di un periodo ormai non più attuale, senza analizzare l'odierno stato di occupazione o disoccupazione della persona. Da questo punto di vista potremmo definire quest'ultima tipologia di prestazione a sostegno del reddito come un rimborso ex post per la situazione di indigenza, di assenza di reddito, vissuta in alcuni periodi dell'anno precedente. Come tutti i rimborsi anche questo dovrà essere quindi connesso al disagio affrontato e quindi avrà un andamento crescente in rapporto alla durata di questa situazione sfavorevole.

Tornando all'analisi della relativa disciplina possiamo notare come anche a fronte di quest'indennità sia riconosciuta una contribuzione figurativa come prestazione accessoria. Tale contribuzione settimanale viene calcolata dividendo per sei le giornate indennizzate e arrotondando per eccesso. Ovviamente, proprio in virtù della natura differita di questa tutela, anche la contribuzione andrà imputata e conteggiata nell'anno che abbiamo preso come riferimento, quindi quello precedente alla domanda (129). La diversa natura della tutela a requisiti normali rispetto a quella a requisiti ridotti la si può riscontrare anche nelle modalità di erogazione che nel primo caso hanno carattere mensile mentre nel secondo vengono effettuate in un'unica soluzione. Il pagamento verrà eseguito direttamente dall'Inps in base alla modalità indicata dall'utente sulla domanda.

I motivi che danno luogo alla cessazione dell'erogazione nel caso della disoccupazione a requisiti normali, qualora vengano in essere nel corso dell'anno di riferimento per quella a requisiti ridotti danno luogo, compatibilmente alla differenza dei requisiti richiesti, all'assenza di diritto all'indennità. Così ad esempio la disoccupazione a requisiti ridotti non verrà erogata per il periodo in cui vi è stato trasferimento del soggetto in un paese extracomunitario non convenzionato e sarà inoltre incompatibile con pensioni dirette, assegno ordinario di invalidità, indennità di maternità, indennità antitubercolare o di malattia.

3.3 L'indennità di disoccupazione per gli operai agricoli

Tra le altre tutele per la disoccupazione che abbiamo deciso di analizzare ai fini della nostra ricerca rientra l'indennità ordinaria per gli operai agricoli. Tale previsione deriva da una particolare attenzione prestata dal sistema previdenziale italiano al lavoro agricolo, proprio in virtù delle caratteristiche peculiari che questo presenta. La disoccupazione agricola risulta infatti, per le percentuali adottate e le giornate coperte, una tutela privilegiata rispetto a quella normale. I trattamenti speciali legati ad una disoccupazione 'titolata' sarebbero dovuti scomparire a seguito dell'approvazione della riforma del 1991 (legge n. 223 del 1991) che cercava di creare un istituto unificato per tutti i lavoratori che si trovassero in stato di disoccupazione (130). In verità tale abolizione, a causa delle proteste delle varie categorie 'privilegiate', non è mai avvenuta. Una serie di successive modifiche ha però cercato di ridurre la differenza tra queste discipline speciali e quelle comuni.

Tra le tutele riguardanti i lavoratori agricoli analizziamo adesso l'indennità ordinaria di disoccupazione per gli operai agricoli e il trattamento speciale di disoccupazione, facendo fin da subito presente che questa materia è stata oggetto di molte e importanti revisioni delle quali parleremo di seguito.

L'indennità di disoccupazione ordinaria per gli operai agricoli spetta sia ai lavoratori agricoli iscritti negli appositi elenchi nominativi che a coloro che hanno lavorato come operai agricoli a tempo indeterminato per un periodo dell'anno (131). Anche questa forma di indennità, come le altre ordinarie sopra analizzate non può essere più riconosciuta nei confronti di chi si dimette, se non per ragioni di giusta causa (132). Tra i requisiti richiesti per poter accedere a questo beneficio ritroviamo:

  • l'iscrizione negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli nell'anno solare per il quale si richiede l'indennità (requisito non necessario per gli operai agricoli a tempo indeterminato);
  • un'anzianità contributiva risalente ad almeno un biennio prima della domanda (requisito che abbiamo già riscontrato anche nelle altre tutele);
  • almeno 102 contributi giornalieri nel biennio precedente la domanda (se vi fosse assenza di tale requisito il lavoratore potrebbe far comunque valere le 78 giornate della disoccupazione 'comune').

Il modulo di richiesta di tale tipo di indennità va presentato tassativamente entro il 31 marzo dell'anno successivo a quello al quale l'indennità si riferisce, esattamente come accade per la disoccupazione ordinaria a requisiti ridotti. Le modalità di calcolo dell'importo risultano invece differenti rispetto a quelle finora viste perché l'indennità in questo caso viene corrisposta, indicativamente per un numero di giornate pari a quelle lavorate, ma comunque non superiore a 180, nella misura del 30% della retribuzione convenzionale congelata all'annualità 1996, di quella provinciale se superiore o, infine, di quella realmente percepita nel caso di lavoratori a tempo indeterminato. Ai trattamenti di disoccupazione agricola non vengono applicati gli incrementi di importo e di durata che abbiamo visto essere stati introdotti dal 1º gennaio 2008 (133).

3.4 Trattamento speciale di disoccupazione per gli operai agricoli

Altro tipo di tutela a carattere speciale in campo agricolo risulta essere il trattamento speciale di disoccupazione per gli operai agricoli. In assenza di una espressa abolizione infatti le previsioni delle leggi n. 457 del 1972 e n. 37 del 1977 continuano ad esplicare i loro effetti supportate da successive modifiche normative. I requisiti richiesti da questo tipo di tutela risultano essere gli stessi appena visti per la richiesta della disoccupazione agricola ordinaria, con l'aggiunta della necessità di aver lavorato a tempo determinato nell'anno di riferimento e aver prestato almeno 151 giornate come lavoratore dipendente, o, in alternativa, risultare iscritto nell'anno di riferimento negli elenchi nominativi dei lavoratori agricoli per un periodo compreso tra le 101 e le 150 giornate lavorative. Il soggetto in possesso di tali requisiti entro il 31 marzo di ogni anno può fare domanda con l'apposito modello, prendendo come riferimento l'annualità precedente. Se la domanda viene accolta il richiedente si vedrà erogato un trattamento pari al 66% della retribuzione media convenzionale congelata al 1996 (o del salario contrattuale se superiore) qualora abbia lavorato almeno 151 giornate. Il trattamento corrisponderà invece al 40% degli importi sopra considerati qualora il lavoratore sia stato iscritto nell'elenco nominativo dei lavoratori agricoli per un periodo compreso tra le 101 e le 150 giornate. In entrambi i casi l'erogazione avverrà fino ad un massimo di 90 giornate.

Con le novità introdotte dal legge n. 247 del 24 dicembre 2007 le due tipologie di prestazioni agricole di cui stiamo trattando hanno subito una sorta di armonizzazione delle rispettive discipline. In base all'art. 1 c. 55 della suddetta legge infatti vengono apportati tutta una serie di mutamenti ai "trattamenti aventi decorrenza dal 1º gennaio 2008 che andranno in pagamento nel 2009" (134). Da tale data l'importo giornaliero per l'indennità ordinaria di disoccupazione agricola e per i relativi trattamenti speciali verrà corrisposto nella misura del 40% del reddito di riferimento. In questo modo la disoccupazione ordinaria agricola viene ad essere incrementata dal 30% al 40%, mentre il trattamento speciale di disoccupazione riesce a slegarsi definitivamente dal preesistente parametro annuale di 270 giornate lavorative e dalle 90 giornate come massimo indennizzabile. Le giornate indennizzabili verranno calcolate in riferimento alle giornate di iscrizione negli elenchi nominativi dei lavoratori agricoli a tempo determinato, detraendo dal limite annuo delle 365 giornate le giornate indennizzate ad altro titolo e quelle di lavoro agricolo e non agricolo. Saranno anche conteggiate, ai fini dell'erogazione della suddetta prestazione, le giornate lavorate a tempo determinato in campo non agricolo nell'anno o biennio di riferimento, purché il lavoro agricolo svolto nel periodo in analisi risulti prevalente (135). Qualora il lavoro svolto prevalentemente sia quello di natura agricola allora l'indennità potrà essere calcolata in base all'apposito regime, altrimenti si ricadrà nel trattamento comune. Vi è inoltre un'altra innovazione, introdotta dal c. 57 dell'art. 1, che prevede un reindirizzamento in senso mutualistico di tutta la tutela in discussione. Tale dettato normativo decreta infatti che il 9% dell'indennità giornaliera erogata, per un periodo massimo di 150 giornate, venga detratta dall'Inps quale contributo di solidarietà. Questa trattenuta dovrebbe poi essere utilizzata per garantire la copertura contributiva annua di 270 giornate, per la pensione di vecchiaia, a quei lavoratori a tempo determinato che altrimenti non vi avrebbero accesso per carenza di giornate lavorate. Come le altre tutele contro la disoccupazione anche quelle agricole sono soggette a contribuzione figurativa (136).

3.5 Trattamento speciale per l'edilizia

Oltre ai lavoratori agricoli una espressa attenzione è riservata anche ai lavoratori impiegati in campo edile (137). Nonostante il tentativo di costituire una tutela pregnante ed esaustiva tramite l'istituto dell'indennità di mobilità (legge n. 223 del 1991) la tutela di disoccupazione a favore dei lavoratori del campo edile è stata mantenuta. Questo tipo di prestazione riguarda infatti i lavoratori edili che siano stati licenziati in occasione di:

  • cessazione di attività o di aziende;
  • ultimazione del cantiere o delle singole fasi lavorative;
  • riduzione di personale (138).

Anche in questo caso la prestazione non spetta più a chi si dimetta volontariamente senza far valere una giusta causa.

Il lavoratore edile deve poter vantare appositi requisiti per accedere a questo tipo di prestazione e più precisamente:

  • deve avere almeno 10 contributi mensili o 43 contributi settimanali per lavoro prestato nel settore edile;
  • deve essere iscritto nelle liste dei disoccupati.

Al soggetto che possa far valere la presenza di questi requisiti spetta la totalità del trattamento di Cassa integrazione straordinaria percepito, o che sarebbe stato percepito, o che sarebbe spettato nel periodo immediatamente anteriore al licenziamento, nei limiti di un importo massimo mensile stabilito annualmente dalla legge finanziaria (139). Per i periodi successivi rispetto a quello coperto dal trattamento di Cassa integrazione spetta l'80% di tale importo e la prestazione è erogata dall'Inps per un periodo massimo di 90 giorni. In presenza dei particolari requisiti previsti dall'art. 11 c. II legge n. 223 del 1991 (140) il trattamento può essere prorogato fino a 18 o 27 mesi. Ai fini fiscali questa tipologia di prestazione è equiparata al reddito da lavoro dipendente (141). In un'ottica contributiva possiamo notare inoltre come tale forma di trattamento speciale, così come determinato dall'art. 78, comma 22 della legge 23 dicembre 2000 n. 388, risulti utile, dal 1º gennaio 2001, sia ai fini del conseguimento del diritto che della determinazione della misura "del trattamento pensionistico, compreso quello di anzianità" (142).

Riguardo ai trattamenti speciali di disoccupazione importanti considerazioni ci sono fornite dalla Corte costituzionale (143) la quale, dopo aver analizzato la natura dell'importo erogato ai lavoratori agricoli come trattamento speciale di disoccupazione, ha stabilito che l'eccedenza di questo rispetto al trattamento ordinario sia da ritenersi non più prestazione previdenziale ma "intervento assistenziale a carico dello Stato". Non si avrebbe più una prestazione di natura esclusivamente previdenziale ma di natura composita: previdenziale per la parte corrispondente al trattamento che viene erogato ad ogni lavoratore, qualunque sia il suo impiego; assistenziale, e quindi sganciata dal criterio dell'adeguatezza alle esigenze di vita dei beneficiari (144), per la parte che eccede la prestazione comune.

Come abbiamo già illustrato quelli da noi analizzati non sono gli unici interventi messi in atto dalle istituzioni statali al fine di fronteggiare lo stato di disoccupazione. Potremmo aggiungere che non tutti gli interventi in materia hanno natura previdenziale ma, come abbiamo sopra riportato, alcuni possono avere natura composita o addirittura natura assistenziale. Rientrano in quest'ultima tipologia i vari sussidi istituiti per fronteggiare le carenze del sistema previdenziale. I limiti posti dai requisiti degli istituti previdenziali fanno sì che l'accesso a tali tutele sia escluso per i soggetti che non ne sono in possesso (si pensi, a titolo esemplificativo, ai 78 giorni richiesti per la disoccupazione ordinaria a requisiti ridotti) o che hanno già superato i 'limiti di copertura' di quella specifica tutela (si pensi alle mensilità massime di prestazione erogabile con riguardo ad una procedura di mobilità). A fronte di tali esclusioni o in altri casi particolari (145) vengono ad operare degli istituti di natura prettamente assistenziali, talvolta con erogazioni a carico della stessa assicurazione generale obbligatoria, al fine di 'moderare' i termini perentori, posti a pena di decadenza, delle tutele previdenziali, fornendo una tutela a quei soggetti che altrimenti ne rimarrebbero privi. Potremmo vedere alcuni di questi benefici come 'prestazioni di introduzione', atte cioè ad introdurre, o reintrodurre, il soggetto all'interno del circolo virtuoso protetto dagli istituti di natura previdenziale che abbiamo sopra analizzato. In quest'ottica sono nati gli istituti degli assegni in favore del lavoratore disoccupato che frequenti corsi di qualificazione e le borse di lavoro per giovani disoccupati. In sostanza si è andata creando una vera e propria complementarità, funzionalità strutturale, tra gli istituti afferenti al modello dell'assistenza (146) e della previdenza sociale, spesso purtroppo per sopperire alla carenza di mezzi da parte di quest'ultima.

3.6 Prestazioni di disoccupazione e libera circolazione dei lavoratori

Questo paragrafo è dedicato all'applicazione delle tutele relative alla disoccupazione ai lavoratori provenienti da o diretti a Stati esteri (147). In questi casi la tutela della libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità europea, così come sancita dalle relative norme sulla sicurezza sociale, è garantita attraverso il coordinamento e l'armonizzazione degli istituti di previdenza sociale interni ad ogni paese. Come vedremo anche nell'analisi degli assegni per il nucleo familiare, la sicurezza sociale in caso di spostamenti fuori dai confini europei è garantita tramite apposite convenzioni e accordi bilaterali che portano a complicati percorsi esegetici per poter ricostruire la presenza o meno di patti circa talune tutele. All'interno della Comunità invece il coordinamento delle tutele sociali, e di conseguenza anche della previdenza, si è sviluppato in virtù dell'imperativo categorico della libertà di circolazione dei lavoratori. In questa maniera sono stati elaborati una serie di sistemi che garantiscono non solo di sorpassare le differenze legislative in materia, ma anche quelle linguistiche (148). Il soggetto che si trovi disoccupato potrà quindi fare domanda per la relativa indennità anche se ha svolto attività lavorativa in un altro Stato nel periodo di riferimento, fatto salvo che: "non è possibile far domanda di indennità di disoccupazione in un paese in cui il soggetto non risultasse assicurato immediatamente prima della sopravvenuta disoccupazione, eccettuato il caso dei lavoratori frontalieri ai quali si applicano norme specifiche" (149). Ovviamente la persona che lavora e risiede in un certo Stato avrà diritto alle prestazioni di disoccupazione alla stregua dei cittadini di quel paese. Più complessa la situazione di chi deve far valere una situazione lavorativa composta da rapporti assicurativi intercorsi in Stati diversi. In questi casi il mezzo di raccordo che è stato trovato sono degli appositi formulari che il lavoratore si deve far rilasciare, dall'istituto previdenziale competente dello Stato in cui lavora, prima della partenza per un altro paese. In base alla tipologia di prestazione che il soggetto richiede esiste un apposito modello da procurarsi presso l'ente competente dello Stato di precedente impiego. Qualora il soggetto non avesse richiesto tale modulistica prima di partire sarà l'ente del paese di destinazione, presso il quale il soggetto sta richiedendo la prestazione, a chiedere direttamente al suo corrispettivo straniero questi documenti (150).

Situazione diversa rispetto a quella appena illustrata è invece quella in cui il soggetto, già beneficiario di una prestazione di disoccupazione a carico di un certo paese, decida di recarsi in un altro. Abbiamo già accennato alle problematiche relative al recarsi in stati extracomunitari durante il periodo di disoccupazione e di come questo comportamento possa essere motivo di decadenza dalla tutela. Le prestazioni per la disoccupazione infatti, a differenza di altre tutele come ad esempio le pensioni di invalidità e di vecchiaia, hanno bisogno di un continuo accertamento della presenza dei requisiti dai quali prendono vita e, quindi, non possono svolgersi indipendentemente dal paese in cui si risiede o soggiorna. Per questo motivo la persona che voglia recarsi all'estero alla ricerca di lavoro o per altri motivi, in pendenza del trattamento di disoccupazione, dovrà attenersi ad una serie di prescrizioni anche qualora si muova all'interno dell'Unione Europea, pena la decadenza dalla tutela. Più precisamente il soggetto dovrà:

  • rimanere a disposizione dell'ufficio di collocamento dello Stato che gli eroga l'indennità di disoccupazione per almeno 4 settimane dalla cessazione del rapporto di lavoro (salva la possibilità di abbreviare tale periodo da parte dell'ufficio stesso);
  • entro 7 giorni dalla partenza il disoccupato dovrà iscriversi presso le liste di collocamento del paese nel quale si è recato;
  • dovrà sottostare alle procedure di controllo dettate dall'ufficio di collocamento del nuovo paese;
  • il soggetto, adempiute le prescrizioni di cui sopra, potrà continuare a beneficiare dell'erogazione della prestazione per un periodo non superiore a tre mesi. Se farà ritorno nel paese di erogazione della prestazione scaduti i 3 mesi, senza che l'ufficio di collocamento di origine l'abbia espressamente autorizzato a ciò, perderà il diritto a tale prestazione.

Nell'adempiere alla procedura di cui sopra il lavoratore, presso l'ufficio di collocamento di origine, dovrà fornirsi degli appositi modelli della serie E 303.

Dopo aver mostrato la situazione propria dei cittadini dell'Unione Europea dobbiamo precisare come, grazie al regolamento CE 859/2003 del Consiglio, che è entrato in vigore dal 1º giugno 2003, ai cittadini di paesi terzi che risiedano legalmente in uno degli stati membri dell'Unione Europea si applicano le disposizioni del regolamento CEE 1408/71 e, quindi, sia loro che i loro familiari potranno invocare le disposizioni europee sul coordinamento dei regimi di sicurezza sociale (151). A seguito di tali disposizioni si è resa effettiva la libertà di movimento all'interno della Comunità europea, grazie alla copertura della sicurezza sociale, anche per i lavoratori provenienti da paesi terzi.

3.7 Diniego e tempistiche delle prestazioni di disoccupazione

Qualora la domanda di richiesta di indennità di disoccupazione venga respinta o accolta parzialmente l'interessato avrà 90 giorni, dalla data di ricezione della lettera con la quale si comunica il rifiuto, per proporre ricorso. Tale ricorso dovrà essere indirizzato al Comitato provinciale dell'Inps, il quale deciderà entro i successivi 90 giorni. Si potrà presentare il ricorso direttamente alla sede Inps che ha effettuato il rigetto o tramite uno degli enti di patronato riconosciuti dalla legge. Contro la decisione presa dal Comitato provinciale, o in caso di silenzio protratto per più di 90 giorni, sarà possibile promuovere azione giudiziaria. Il giudizio dovrà essere proposto, a pena di decadenza, entro un anno dal 181º giorno (152) successivo al rigetto o parziale accoglimento della domanda.

Quanto alle somme riscosse invece queste si prescrivono in 60 giorni dalla data di appresa notizia della loro disponibilità da parte del beneficiario. In mancanza di un provvedimento espresso dell'Inps inoltre il diritto alla prestazione o all'esatto importo si prescrive nel termine ordinario di 10 anni.

Non dobbiamo nemmeno dimenticare che, per regolamentazione interna, l'Inps si è imposta delle tempistiche per l'emanazione delle varie tipologie di provvedimenti. Tali tempi variano in base alla complessità di istruzione della pratica e alla necessità di integrazione della stessa con altra documentazione proveniente dall'esterno (ad esempio dal datore di lavoro del richiedente, dall'ufficio di collocamento, da altri uffici pubblici). Nel caso di disoccupazione ordinaria a requisiti normali il tempo di emanazione del relativo provvedimento dovrebbe essere di 30 giorni (153), mentre per la disoccupazione a requisiti ridotti dovrebbe essere di 60 giorni, per arrivare infine ai 120 giorni di lavorazione della pratica nel caso di disoccupazione agricola (comunque non oltre i 45 giorni dalla pubblicazione dell'elenco dei lavoratori agricoli). Le direzioni regionali inoltre, in situazioni particolari inerenti alle realtà socio-ambientali o di carichi di lavoro, sentite le parti sociali potranno "proporre tempi, per l'emanazione del provvedimento, diversi da quelli prospettati in tabella ma, in ogni caso, sempre inferiori a quelli stabiliti dalla legge e a quelli fissati dal Regolamento di attuazione della Legge 241/1990" (154).

4. L'assegno per il nucleo familiare

Se volessimo ricercare il fondamento costituzionale dell'istituto dell'assegno per il nucleo familiare lo potremmo senza dubbio ritrovare nel fruttuoso connubio degli art. 36 e 38 Cost. Nonostante infatti l'art. 38 non faccia menzione della famiglia come nucleo degno di tutela, tale lettura può essere facilmente ricostruita accostando alle sue previsioni quella di una retribuzione "in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa". Si riscontra quindi anche in ambito previdenziale il compito assunto dallo Stato di tutelare la famiglia come prima delle formazioni sociali (155). Sarebbe stato infatti del tutto inutile prevedere tutele a favore dei singoli senza considerare le formazioni sociali nelle quali questi si trovano ad esplicare il loro essere, prima fra tutte appunto la famiglia.

Accanto alle tutele poste dallo Stato esistono poi tutta una serie di 'compiti di autoprotezione' (156) della formazione familiare quali: quelli previsti riguardo all'educazione dei figli (art. 30 c. I Cost., artt. 147, 148, 279 c.c.), gli obblighi di assistenza (artt. 143 e 315 c.c.) e di alimenti (art. 433 c.c.). Il sistema previdenziale, nel momento in cui prende ad oggetto della sua tutela la famiglia, riconosce la sua implicita funzione di primordiale assicurazione e le offre tutela anche in virtù di questo, preferendo incentivarne l'autoprotezione (magari fornendole adeguati mezzi) piuttosto che intervenire in maniera invasiva nelle sue dinamiche interne. Nel campo delle tutele sociali la formazione familiare viene infatti in rilievo sotto vari aspetti e prospettive. Si può ritrovare una sua tutela in vari istituti, da quelli a favore dei superstiti alle agevolazioni per imprese a conduzione familiare, alla contribuzione figurativa dei congedi per malattia del figlio, alla figura assistenziale degli assegni ai nuclei familiari sprovvisti di reddito, all'assegno di maternità, al reddito di ultima istanza e in molte altre ipotesi. Il concetto di famiglia utilizzato da queste tutele ha creato però spesso incomprensioni ed errori, non corrispondendo esattamente né al concetto di famiglia nucleare proprio della nostra Costituzione, né quello di famiglia patriarcale o estesa al quale si riferiscono ad esempio gli articoli del codice civile in materia di alimenti. Si viene così a delineare un concetto estremamente variabile, a seconda che si assumano ad esempio quali indici di tale rapporto la 'vivenza a carico', come era nel caso dell'assegno familiare, la convivenza, la composizione e il livello di reddito o l'appartenenza alla famiglia nucleare (157). Nell'operare in questo campo si deve prestare quindi estrema attenzione a quale accezione del concetto viene richiamata dalla tutela che stiamo analizzando (158).

L'istituto dell'assegno per il nucleo familiare trova la sua origine in quello degli assegni familiari (o aggiunta di famiglia), nato grazie alla contrattazione collettiva, e più precisamente grazie all'accordo interconfederale dell'11 ottobre 1934, poi recepito nel r.d.l. n. 1632 del 1936. L'intento inizialmente perseguito da tale forma di tutela era quello di integrare i salari degli operai dell'industria per compensare la riduzione degli orari di lavoro. Per poter istituzionalizzare tale forma di integrazione fu istituita, in seno all'Inps (allora Infps (159)) un'apposita cassa, denominata Cassa unica assegni familiari. Tali assegni assolvevano durante il periodo corporativistico la duplice funzione di mezzo di garanzia di una politica demografica di regime e di compensazione dell'esiguità dei salari propria dell'epoca. In verità esisteva già un'analoga prestazione in ambito di impiego statale e presso enti locali grazie, rispettivamente, alla legge n. 1047 del 1929 e n. 1161 del 1942, con la denominazione di aggiunta di famiglia. Infine sempre risultanti della medesima tutela erano le quote di maggiorazione, le quali andavano ad aggiungersi alle varie prestazioni previdenziali come pensioni o indennità temporanee. Con d.p.r. 30 maggio 1955 n. 797 venne approvato il testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari, il quale, nonostante le svariate modificazioni apportate dalla successiva normativa che autorizzò sempre maggiori categorie a usufruire della tutela (160), risulta tutt'oggi essere il testo base di riferimento in materia.

Gran parte della disciplina oggi in uso deriva in verità anche dalla legge 13 maggio 1988 n. 153 (di conversione e parzialmente modificativa del d.l. 13 marzo 1988 n. 69), la quale ha provveduto a riordinare la materia oltre che a sancire il definitivo passaggio terminologico da 'assegni familiari' ad 'assegni per il nucleo familiare' (da ora Anf). Non possiamo però dimenticare come proprio l'articolo 2 c. III della suddetta previsione normativa si preoccupi di precisare come, per gli aspetti non disciplinati direttamente dalle nuove disposizioni, restino in vigore le norme del T.U. Si discusse a lungo in dottrina circa la natura retributiva o previdenziale degli assegni familiari, anche se quest'ultima risultava essere la soluzione preferibile in virtù delle modalità di finanziamento (a carico di tutti i datori di lavoro) e di erogazione di questa tutela (161).

Non possiamo dire comunque che la disciplina così come strutturata non presenti elementi di criticità. Come avremo modo di vedere tanto in questo paragrafo quanto in quelli dedicati alle tutele sociali dei detenuti infatti ancora problematici risultano elementi quali: la convivenza dei soggetti, l'esiguità dei redditi massimi imposti, la difficoltà di reperimento della documentazione necessaria da parte dei soggetti stranieri, lo scarso coordinamento tra gli istituti dei vari Stati, ed altri fattori ancora.

Il criterio di attribuzione degli assegni familiari si basava in origine sul principio della 'vivenza a carico', se ne aveva cioè diritto per tutti quei familiari che, in base alla loro età, salute o reddito, trovavano il loro mezzo principale di sostentamento nel reddito del richiedente. La riforma del 1988 segnò un decisivo passaggio nell'evoluzione dell'istituto conferendogli un'impronta più spiccatamente previdenziale grazie all'assunzione a parametro determinante del reddito familiare (162). Le modalità contributive e di erogazione rimasero infatti pressoché immutate rispetto alla precedente normativa, ma adesso si riusciva ad effettuare una più efficace redistribuzione del reddito grazie alla maggior importanza conferita al numero dei componenti del nucleo familiare e al reddito complessivo del nucleo stesso. Tale riforma riuscì inoltre a raccogliere sotto la dicitura di 'assegni per il nucleo familiare' quelli che prima erano gli istituti degli assegni familiari e delle quote di maggiorazione per i pensionati, lasciando sotto la denominazione assegni familiari solo una tutela limitata a specifiche categorie di lavoratori autonomi (163).

L'utilizzo del requisito del reddito del nucleo familiare unitamente al numero dei componenti, in luogo di quello della vivenza a carico, fa capire come oggetto d'analisi sia lo stato di bisogno del nucleo nel suo complesso che diviene quindi anche il destinatario della tutela. Se infatti si mettono in correlazione i due nuovi parametri si riesce facilmente a calcolare quale sia il reddito pro capite all'interno del nucleo familiare e quindi ad accorgersi rapidamente (in base alle apposite tabelle che su questo tipo di dissertazione sono strutturate) della situazione economica familiare nel suo complesso.

Nel vecchio sistema la convivenza dei vari soggetti veniva in rilievo in quanto formava la presunzione della vivenza a carico del capofamiglia. Tale vivenza a carico poteva essere però fornita anche da atto notorio ex art. 5 c. II T.U. assegni familiari (164). La corte di Cassazione con sentenza n. 4419 del 7 aprile 2000 ha però stabilito che la convivenza non fosse richiesta per il sorgere del diritto a percepire l'assegno per il nucleo familiare, essendo a ciò sufficiente che il genitore cui spetta l'assegno provveda abitualmente al mantenimento dei figli (165). Si è riusciti così a superare del tutto il legame tra convivenza e carico che era già stato 'allentato' dal T.U., il quale lo considerava solo un rapporto presuntivo, e dalla legge n. 153 del 1988.

Il nuovo modello nato dalla riforma del 1988 oltre ad aver definitivamente superato i concetti di convivenza e di vivenza a carico ha stabilito che il destinatario della tutela non sia più individuato nel capofamiglia (166) ma in tutto il gruppo familiare e, proprio in virtù di questo, le uniche titolarità rimaste in capo al soggetto richiedente sono quelle riguardo alle azioni amministrative o giudiziarie eventuali (in base all'art. 57 T.U.), essendogli stata sottratta dal 1 gennaio 2005 anche la riscossione dell'assegno che viene adesso corrisposto direttamente al coniuge (167). A riprova di quanto appena esposto si potrebbe notare anche come nella nuova disciplina viene erogata un'unica prestazione per tutto il nucleo nel suo complesso e non più una prestazione per ogni componente a carico.

L'istituto degl'Anf risulta privilegiare il lavoro dipendente, sia qualora questo sia ancora in corso, sia qualora abbia determinato una pensione. Se si guarda infatti all'ambito di applicazione è facile notare come siano esclusi da questo tipo di prestazione quei lavori che afferiscono alla fascia del lavoro autonomo o agricolo mentre, solo a far data dal 1º gennaio 1998, spetta anche ai lavoratori parasubordinati (collaboratori coordinati e continuativi e liberi professionisti iscritti alla gestione separata dell'Inps) a particolari condizioni (168). Il requisito del lavoro subordinato è inoltre ribadito dalla necessità che almeno il 70% del reddito del nucleo familiare derivi da lavoro dipendente, sia esso reddito da lavoro, da pensioni o da altre prestazioni derivate da lavoro dipendente (integrazioni salariali, disoccupazioni e mobilità, malattia e maternità, indennità per tubercolosi, ecc.).

L'importo dell'assegno è stabilito in base al numero di persone che compongono il nucleo familiare (ricordando che oltre i 7 componenti l'importo non muta) e in base al reddito di tale nucleo. Quest'ultimo requisito economico viene considerato sulla base dei redditi assoggettabili Irpef conseguiti dai componenti facenti parte del nucleo nell'anno solare precedente il 1º luglio di ciascun anno (169). I limiti di reddito familiare, contenuti in apposite tabelle, suddivise in base alla composizione del nucleo (170), sono stabiliti dalla legge e rivalutati ogni anno in base alla variazione percentuale dell'indice medio annuo dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati calcolato dall'Istat (171).

La fruizione della tutela degli Assegni per il nucleo familiare, in base all'art. 2 c. 8 bis della legge n. 153 del 1988, risulta essere incompatibile con qualsiasi altro trattamento a tutela della famiglia (172). Risulta così d'altro canto essere ben chiaro, a maiore ad minus, che per quello stesso nucleo familiare non potrà comunque essere erogato più di un assegno, neppure a fronte di una diversa composizione di quegli stessi membri che lo formano.

Riguardo poi alla composizione del nucleo familiare ne fanno parte (173):

  • chi richiede l'assegno;
  • il coniuge;
  • i figli legittimi o legittimati e quelli ad essi equiparati (adottivi, affiliati, naturali, legalmente riconosciuti o giudizialmente dichiarati, nati da precedente matrimonio dell'altro coniuge, affidati a norma di legge) aventi età inferiore ai 18 anni (dall'1º gennaio 2007, anche i figli fino ai 21 anni, a particolari condizioni (174));
  • i figli ed equiparati, maggiorenni inabili che si trovano per difetto fisico o mentale nell'assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un lavoro proficuo;
  • i fratelli, le sorelle e i nipoti del richiedente minori di età, o maggiori inabili, a condizione che siano orfani di entrambi i genitori e non abbiano diritto alla pensione ai superstiti (175).

Come le stesse guide dell'Inps si adoperano a precisare i soggetti di cui sopra fanno parte del nucleo familiare anche se:

  • non sono conviventi con il richiedente (176);
  • non sono a carico del richiedente;
  • non sono residenti in Italia.

Riguardo a quest'ultimo punto occorre però effettuare una serie di precisazioni.

I componenti di cui sopra possono anche non essere residenti in Italia ma far parte lo stesso del nucleo familiare, e quindi concorrere al diritto all'assegno, qualora il richiedente sia cittadino italiano, di uno Stato membro dell'Unione Europea o di uno Stato estero col quale esista apposita convenzione (177). Più precisamente se il richiedente è cittadino italiano il familiare farà parte del nucleo sia che risieda in Italia, sia che risieda all'estero. Se il richiedente non è cittadino italiano il familiare farà parte del suo nucleo familiare se risiede in Italia ma non se risiede all'estero. Il familiare farà invece parte del nucleo e potrà quindi usufruire dell'assegno se il richiedente (178), pur non essendo cittadino italiano: sia cittadino di uno Stato dell'Unione Europea, sia cittadino di uno Stato che riconosce le prestazioni di famiglia agli italiani residenti sul suo territorio ('condizione di reciprocità'), sia cittadino di uno Stato estero che ha stipulato una convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia (179).

La normativa riguardo alla concessione degli assegni per il nucleo familiare agli stranieri, specie se extracomunitari, risulta quindi piuttosto variegata e complessa. Se l'art. 32 della legge n. 155 del 1981 conferma il poco sopra espresso principio di reciprocità nei rapporti tra Stati, l'art. 25 del d. lgs. n. 286 del 25 luglio 1998 prevede che ai cittadini di Stati non facenti parte dell'Unione Europea e agli apolidi con permesso di soggiorno stagionale si applicano solo le forme di tutela riguardanti "l'assicurazione per l'invalidità (180), la vecchiaia e i superstiti, l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, le malattie e l'assicurazione di maternità"; sarebbero quindi escluse da tale previsione le tutele a sostegno della famiglia. Prontamente la Circolare dell'Inps n. 123 del 3 giugno 1999 ha ribadito come le limitazione delle tutele previste dal suddetto testo normativo siano da applicarsi solo agli stranieri con permesso di soggiorno stagionale mentre agli stranieri con permesso di soggiorno di altri tipi, ancorché abbiano mantenuto la residenza nel loro paese di origine, debbano essere garantite le prestazioni di disoccupazione e le tutele a favore della famiglia alle stesse condizioni dei cittadini italiani (181) (salvi ovviamente i diversi requisiti nel caso di familiari residenti all'estero). La Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiati (così come ratificata in Italia dalla legge n. 722 del 24 luglio 1954) estende inoltre la prestazione degli assegni per il nucleo familiare ai rifugiati politici considerandoli totalmente equiparati agli italiani in materia di tutele sociali, quindi anche con riguardo ai loro familiari seppur residenti all'estero (182). Per le tutele previdenziali risulta di estremo interesse inoltre la sentenza della Corte di Cassazione sezione lavoro n. 16795 del 9 giugno-25 agosto 2004 che tenta di non porre a carico dello straniero extracomunitario i tempi burocratici delle proprie istituzioni comunali. Visto infatti che spesso i Comuni versavano in un cronico ritardo nell'aggiornamento dello stato di famiglia dello straniero al momento dell'arrivo dei familiari in Italia, e ciò impediva al soggetto di richiedere gli assegni familiari (si pensi al caso di uno straniero cittadino di uno Stato non in rapporti di reciprocità con l'Italia né firmatario di apposite convenzioni di sicurezza sociale), la Corte ha deciso di mutare le precedenti prassi. A far data dal caso Hyseni (183) (dal nome del ricorrente) ai fini della richiesta dell'assegno per il nucleo familiare non si considera più il giorno dell'iscrizione della residenza anagrafica ma quello dell'arrivo dei familiari in Italia (184), in maniera che il lavoratore straniero non veda diminuita la propria tutela nelle more delle tempistiche istituzionali.

Tornando all'analisi dei soggetti che possono far parte del nucleo familiare si deve analizzare anche quali ne restino esclusi. Tra questi sicuramente: il coniuge legalmente ed effettivamente separato, il coniuge che ha abbandonato la famiglia, i figli affidati all'altro coniuge o ex coniuge (in caso di separazione legale o divorzio), i familiari di cittadino straniero non residenti in Italia (nei limiti di quanto sopra esposto), i figli naturali riconosciuti da entrambi i genitori che non convivono con il richiedente (ma si ricordi l'innovazione apportata dalla circolare Inps n. 36 del 19 marzo 2008), i figli naturali del richiedente coniugato che non siano inseriti nella sua famiglia legittima, i figli ed equiparati maggiorenni (185), non inabili, anche se studenti o apprendisti, i figli minorenni o maggiorenni inabili che sono coniugati, i fratelli, le sorelle e i nipoti (ad eccezione dei nipoti viventi a carico dell'ascendente)- anche se minori o inabili- che sono orfani di un solo genitore o titolari di pensione ai superstiti o sposati, i genitori e equiparati, gli altri ascendenti.

Anche la tutela previdenziale degli Anf finora analizzata è soggetta, come tutte le prestazioni previdenziali a determinate modalità di finanziamento, di richiesta e di erogazione. Per ciò che attiene al finanziamento si deve ricordare come il sistema degli assegni familiari ante-riforma fosse visto come una vera e propria integrazione salariale (186) e quindi tutto il sistema era strutturato a carico del datore di lavoro. Con l'apertura però di tali tutele a classi di lavoratori che non afferivano più al solo lavoro dipendente (come ad esempio l'estensione dell'istituto a coltivatori diretti, mezzadri, coloni e compartecipanti familiari in base alla legge n. 585 del 1967) si è venuto a mutare anche il carattere della tutela stessa che acquista così di una veste sempre più solidaristica e sociale. A questo mutamento di finalità non poteva non corrispondere un'assunzione di oneri da parte dello Stato, gradualmente tradotta in un suo concorso finanziario. La riconduzione, con la riforma del 1988, tramite la ripartizione tra assegno per i nucleo familiare e assegni familiari, della prima delle due prestazioni al campo del solo lavoro dipendente non ha fatto venir meno l'opportunità del finanziamento statale, in virtù stavolta del nuovo carattere sociale dettato dalla sostituzione del requisito della vivenza a carico con il sistema più sopra illustrato. L'onere finanziario dello Stato viene assunto dalla Gestione degli interventi assistenziali dell'Inps (art. 37 c. III lett. d) legge n. 88 del 1989), la quale, in virtù del suo andamento attivo, ha potuto intervenire a sostenere la posizione, invece passiva, del Fondo pensioni lavoratori dipendenti grazie alla mutualità tra gestioni (187). La quota contributiva che rimane a carico del datore di lavoro è commisurata alla retribuzione lorda del lavoratore ed è versata in base al sistema del conguaglio, cioè sottraendo dal credito che si viene a creare a favore del datore nei confronti dell'istituto previdenziale, a seguito dell'anticipazione delle prestazioni di famiglia, i contributi dovuti. Da considerare inoltre il fatto che il diritto dell'Istituto previdenziale al pagamento dei contributi da parte del datore si prescrive in 5 anni, termine nel quale si prescrivono anche gli inversi rapporti di credito del datore nei confronti dell'Inps (188). A fronte di ciò si deve ricordare, come anche gli assegni per il nucleo familiare siano sottoposti al regime dell'automaticità delle prestazioni di cui si è parlato nel paragrafo 1.2.

Per quanto riguarda l'erogazione degli Anf, calcolati come più sopra illustrato, vengono seguite due modalità diverse a seconda delle circostanze (art. 39 T.U.). Nel caso di lavoratori attivi dipendenti non agricoli tali assegni sono richiesti ed erogati tramite il datore di lavoro contestualmente alla retribuzione utilizzando il metodo del conguaglio tra datore e Inps. Per alcune tipologie di beneficiari invece gli Anf sono richiesti e vengono erogati direttamente da enti pubblici quali Inps, Inail, Inpdap o altri enti ancora (189). Nel caso che il soggetto erogatore sia il datore di lavoro questo, in talune circostanze, può essere tenuto a dover effettuare il pagamento solo previa autorizzazione dell'Inps (190).

Il diritto del richiedente alla prestazione decorre dal primo giorno del periodo di paga durante il quale si verificano le condizioni richieste e cessa alla fine del periodo di paga nel quale le condizioni richieste sono venute meno. Quanto alla prescrizione, stavolta del diritto all'assegno e non dei contributi, questa intercorre dopo 5 anni decorrenti dal primo giorno del mese successivo a quello in cui è stato maturato il diritto alla prestazione (art. 23 T.U.) e può essere interrotta, oltre che da apposita richiesta all'Inps, anche da richiesta fatta al datore di lavoro (191). Dal 2005 inoltre, come avevamo accennato in precedenza (192), l'Anf può essere pagato direttamente al coniuge del richiedente previa sua richiesta al datore o all'Inps (a seconda del soggetto erogatore), in base all'art. 1 c. 559 della legge n. 11 del 2004. Perché sussista un diritto del coniuge a vedersi versato direttamente l'Anf tale soggetto non deve percepire a sua volta assegni per il nucleo familiare, non deve essere lavoratore dipendente né titolare di pensione o prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente (193).

5. Le tutele per la vecchiaia

La tutela per la vecchiaia risulta essere il cardine di ogni sistema previdenziale nonché spesso la sua chiave di lettura. Volendo adottare una visione ampia della questione possiamo dire che le tutele offerte a fronte dello stato di bisogno indotto dall'invecchiamento del soggetto lavoratore offrano non solo uno spaccato sistema previdenziale ma anche della società stessa. Il ruolo centrale di queste prestazioni, che ne fa assieme alle varie forme di garanzia contro gli infortuni e per i superstiti le più risalenti nel tempo, sicuramente deriva in gran parte dal carattere dell'evento cui si trovano a far capo. Come abbiamo già visto infatti (194) ogni forma di assicurazione sociale è destinata a fronteggiare un particolare stato di bisogno dettato da taluni eventi. Mentre alcuni eventi hanno però natura del tutto eventuale (195) l'invecchiamento del soggetto lavoratore non lo è affatto ed ha natura necessaria. Lo stato di bisogno che ci si trova a fronteggiare consiste infatti in quella diminuzione delle energie lavorative naturalmente connessa all'avanzamento dell'età. Si deve subito dire che spesso alla diminuzione di cui sopra, propria del periodo lavorativo antecedente al pensionamento, fa fronte una notevole esperienza lavorativa acquisita che rende il lavoratore ancora 'produttivo' (196).

L'importanza delle assicurazioni contro la vecchiaia è testimoniata da una loro precoce affermazione nel panorama storico rispetto alle altre tutele sociali, oltre che dalla stratificazione normativa (con conseguente complessità esegetica che caratterizza tutta la materia) (197).

Volendo risalire alle radici di questa forma di assicurazione sociale potremmo riscontrarne la pietra fondante nell'istituzione della Cassa nazionale di previdenza nel 1898 (198). Tale forma di mutualità forniva copertura sia per una eventuale inabilità sopravvenuta nel corso dell'attività lavorativa, che per un invecchiamento del lavoratore. Il modello mutualistico connesso a quello della capitalizzazione dei fondi portò però a quelle disfunzioni alle quali già nel primo paragrafo abbiamo fatto cenno. A seguito della crisi di questo modello, e in virtù di sempre più pressanti spinte innovatrici, nel 1919 (199) la previdenza, che in precedenza era affidata alla volontarietà del lavoratore, divenne obbligatoria e con tale passaggio anche la contribuzione fu ripartita tra prestatore d'opera e datore di lavoro. Successivamente interessi particolari di stampo corporativo hanno portato alla creazione di un sistema pensionistico alquanto frammentario e foriero di scompensi sociali ed economici.

Vi sono da sempre stati infatti, nel sistema pensionistico italiano, interessi propri di alcune tipologie di lavoratori che tendevano ad auto-organizzarsi o, comunque, a non voler aderire a regimi generali che avrebbero diminuito la loro posizione di privilegio. Oltre a queste istanze ciò che ha influito maggiormente nella creazione di gestioni diverse da quella generale amministrata dall'Inps sono state le differenze temporali con cui le varie tipologie di lavoratori hanno trovato copertura pensionistica. La tutela per la vecchiaia infatti non è venuta in essere contemporaneamente per tutti i lavoratori ma, nata per tutelare gli operai, venne estesa agli impiegati solo con la succitata riforma del 1919 e, solo nel dopoguerra, alle varie categorie di lavoratori autonomi. Talvolta furono le stesse esigenze di assicurazione, dettate dal tipo di impiego lavorativo, a richiedere tutele particolari. Spesso infatti ad esigenze diverse in tema di invalidità e malattia corrispondevano altrettanto singolari strutturazioni del modello pensionistico. Accennando solo brevemente a queste 'tipologie alternative' potremmo notare come vengano catalogate dalla dottrina in base al rapporto che hanno con la gestione generale.

Si hanno così tre diversi modelli nei quali inquadrare queste gestioni separate da quella generale: 'regimi esclusivi', 'regimi sostitutivi o esonerativi', 'regimi integrativi o complementari' (200). Più precisamente vengono denominati (201) 'esclusivi' i regimi che presentino un carattere di 'indipendenza' rispetto al regime generale, tra questi si può pensare al regime INPDAP (202) dei dipendenti civili e militari dello Stato, degli enti locali e degli enti di diritto pubblico. Tale gestione, seguendo sorte analoga, come vedremo, ad altre gestioni previdenziali alternative, in base al d. lgs. 30 aprile 1997 n. 165 (203) ha subito, e sta subendo tuttora, un processo di armonizzazione rispetto al regime generale. Nonostante ciò, la differenza più palese che riscontriamo negli impiegati del settore pubblico rispetto a quello privato riguarda l'automatica risoluzione del rapporto, salvo specifiche eccezioni, al compimento da parte del lavoratore dell'età pensionabile.

Le forme afferenti al modello di regime previdenziale 'sostitutivo o esonerativo' permettevano a talune aziende, in presenza di specifici requisiti quali una comprovata stabilità finanziaria, di istituire veri e propri fondi previdenziali che sostituivano quello Inps. Questa tipologia di 'gestione previdenziale aziendale', che trovava la giustificazione del suo essere nella legge 20 febbraio 1958 n. 55, divenuta ormai anacronistica in un programma di armonizzazione e di generalizzazione delle gestioni, è stata definitivamente abolita e trasformata in corrispettivi regimi integrativi di quello pubblico (204). Tra le strutture previdenziali sostitutive sono rimaste operative quelle che, anziché riguardare singole aziende, afferiscono a tipologie di lavoratori quali i dazieri, il personale di volo, gli elettrici.

Infine i regimi cosiddetti 'integrativi' o 'complementari', capaci di coadiuvare l'azione del sistema generale senza sottrarsi ad esso, offrendo così contemporaneamente un duplice beneficio. Se infatti si analizza la composizione di una tutela previdenziale di questo genere si riscontrerà in essa una base formata dalla tutela offerta dal regime generale, che permette di coordinarla ed armonizzarla con le tutele offerte agli altri lavoratori, e una parte 'speciale' che garantisce le tutele specifiche delle quali la singola tipologia di lavoratori ha bisogno. Secondo l'orientamento dottrinale maggioritario le prestazioni derivanti da tali regimi costituiscono "retribuzione differita in funzione previdenziale" (205).

Si deve considerare come tanto i regimi sostitutivi che quelli integrativi non devono essere necessariamente gestiti da enti diversi dall'Inps, ma possono anche rimanere di competenza di quest'ultima (206). Dal 2001 inoltre è subentrata un'ulteriore complicazione connessa a tali regimi, dettata dalla ripartizione di competenze tra lo Stato, che detiene ancora quella legislativa esclusiva in materia di previdenza sociale, e le Regioni che, in base al nuovo testo dell'art. 117 Cost. hanno competenza legislativa concorrente in materia di previdenza complementare e integrativa.

Come è facilmente comprensibile un sistema così frammentario crea non pochi problemi di gestione, atteso soprattutto che molti soggetti effettuano, nel corso della loro vita, cambi di attività lavorativa e quindi spesso di relativa gestione previdenziale. Problematiche di questo genere, connesse ad un tentativo di riaffermazione di una solidarietà generalizzata e non settoriale, hanno portato a quelle recenti riforme di armonizzazione cui prima accennavamo.

Oltre a quanto appena detto un'ulteriore difficoltà deriva dalla particolarità del sistema pensionistico italiano rispetto a quelli degli altri Stati europei. L'Italia infatti, unicum a livello europeo, informa le sue prestazioni pensionistiche a due parametri diversi: l'anzianità anagrafica e l'anzianità contributiva. Mentre le pensioni basate sul primo dei due principi suddetti trovano la loro motivazione in quella decadenza, della quale abbiamo precedentemente parlato, propria della senilità, quelle informate al parametro contributivo sembrano avere, e alcuni dei loro aspetti lo dimostrano, natura meritocratica (207). In verità, come prevedibile, tale distinzione è stata moderata, o per così dire 'condannata a morte' dalla riforma dettata dalla legge n. 335 del 1995, che ha sancito la gestione ad esaurimento del regime di pensione di anzianità. Vedremo infatti in maniera più specifica nel corso degli appositi paragrafi seguenti come le due originarie prestazioni pensionistiche siano state ricondotte ad una unica denominata 'pensione di vecchiaia' (208).

Mentre la succitata riforma stabiliva però un'età flessibile di pensionamento, tra i 57 ed i 65 anni, la successiva riforma intercorsa nel 2004 (209) tramite il sistema delle 'quote' ha reintrodotto la rigidità del requisito dell'età, anche se a decorrere dal gennaio 2008 e con un'instaurazione graduale del nuovo regime.

Ulteriore forma di complessità del sistema alla quale accennare prima del passaggio all'illustrazione sintetica delle tipologie pensionistiche è quella inerente alle modalità di calcolo della pensione stessa. Il calcolo della prestazione spettante infatti, mutato svariate volte nel corso degli ultimi decenni, non è soltanto foriero di maggiori o minori benefici per i soggetti destinatari, ma è anche una ottima chiave di lettura della concezione che sta alla base dell'intero sistema pensionistico e, talvolta, un intuitivo indicatore della condizione delle finanze previdenziali. Dal punto di vista storico infatti vi è stata una alternanza pressoché continua tra il sistema contributivo e quello retributivo. Mentre il primo dei due sistemi di computo si basa sulle contribuzioni versate, il sistema retributivo raccorda la prestazione pensionistica alle retribuzioni percepite dal soggetto nel periodo finale (periodo che il legislatore può determinare come di maggiore o minore estensione) della sua vita lavorativa.

In origine il sistema pensionistico adottava il modello contributivo, in seguito, alla fine degli anni '60, vi fu il passaggio al sistema retributivo (210). In verità i due sistemi hanno continuato a coesistere fino al 1º agosto 1976, data dalla quale, grazie al d.p.r. del 31 dicembre 1991 avente portata retroattiva, è stato esteso definitivamente il nuovo sistema. Ulteriore svolta è poi giunta il 1º gennaio 1996 (211), data dalla quale si è nuovamente passati al calcolo contributivo. A differenza del sistema precedente al 1968 questo nuovo sistema contributivo tiene però conto non soltanto dei versamenti effettuati ma anche della speranza di vita media residua in base alle statistiche Istat. Quest'ultima riforma, come quella relativa alla nuova pensione di vecchiaia ha trovato applicazione graduale, tale da vedere ancora per lungo tempo operativi calcoli di tipo retributivo. È stato infatti stabilito, dai vari commi dell'art. 1 della legge n. 335 del 1995 che il sistema retributivo rimarrà totalmente operativo per il calcolo delle pensioni di quei soggetti che alla data del 31 dicembre 1995 avevano già maturato una anzianità contributiva pari o superiore a 18 anni. Verrà invece utilizzato il nuovo sistema di computo per coloro che hanno iniziato la loro vita lavorativa solo successivamente al 1º gennaio 1996 e per coloro che abbiano espresso apposita opzione pur avendo talune annualità contributive precedenti al 1996 e almeno 5 'post-1996' (212). Infine il sistema di conteggio avverrà in pro-quota per tutti quei lavoratori che al 31 dicembre 1995 avevano un'anzianità contributiva inferiore ai 18 anni e non abbiano effettuato l'opzione di cui sopra.

L'altalenante scelta del legislatore a favore dell'uno piuttosto che dell'altro sistema di conteggio deriva anche dalle concezioni che questi portano con sé. Nel sistema contributivo il lavoratore infatti avrà una prestazione pensionistica connessa alla quantità e qualità dei contributi versati. Si tratta quindi di un modello nel quale si vedono ancora chiari i rimandi ad un'impostazione di stampo mutualistico e di capitalizzazione contributiva. Il sistema retributivo invece calcola la prestazione da erogare sulla base dei salari percepiti nell'ultimo periodo dell'attività lavorativa. In questo caso lo scopo è quello di ridurre al minimo la differenza tra i redditi percepiti dal soggetto tramite il lavoro e le successive erogazioni pensionistiche, al fine di garantirgli il mantenimento di un certo livello di vita. In questo secondo caso scompensi finanziari possono derivare dall'effettuazione del calcolo pensionistico sulla base dei soli ultimi anni di lavoro, anni nei quali il soggetto è all'apice del suo potenziale reddituale (213).

Entrambi i modelli di calcolo rischierebbero però di essere inutili se la prestazione pensionistica non fosse ancorata in una qualche maniera ai parametri di costo della vita. Si pensi ad esempio ad una pensione rapportata allo stipendio o alla contribuzione di un lavoratore risalente a 30 anni prima; avrebbe una capacità di acquisto veramente bassa, col solo risultato di fallire in quell'intento proprio delle prestazioni previdenziali che è la liberazione dal bisogno. Proprio per ovviare a scompensi di questo tipo già nel 1969, per alcune prestazioni pensionistiche (214), fu introdotto il sistema della perequazione automatica, al fine di evitare l'approvazione di continui provvedimenti legislativi tesi a garantire l'attualità degl'importi. Il sistema fu successivamente esteso nel corso degli anni a tutte le prestazioni pensionistiche, portando ad aggiornamenti semestrali o annuali delle erogazioni effettuate. Attualmente la perequazione viene effettuata sulla base del mutamento dell'indice medio del valore Istat dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati (215). Esiste anche una sorta di 'progressività della perequazione' dettata dalla riduzione percentuale di tale variazione per le pensioni di importo superiore a due volte il trattamento minimo (216).

Se scopo della tutela pensionistica rimane la liberazione dal bisogno la prestazione offerta deve rispondere a canoni adeguati a garantire tale condizione. In quest'ottica a fronte di sistemi di calcolo di tipo retributivo era stata istituita la cosiddetta 'pensione minima' (217). Ai soggetti che rispondessero ai requisiti richiesti per l'accesso alle prestazioni pensionistiche era garantita una prestazione 'di base'. Tale prestazione, come riporta correttamente Persiani (218), avendo come scopo quello della sopravvivenza del soggetto beneficiario, non poteva aver luogo quando quest'ultimo fosse titolare da solo o assieme al coniuge di redditi superiori ad una certa soglia. La riforma del 1995 ha sancito la fine di tale istituto (219) relativamente alle pensioni liquidate con sistema contributivo. In questi casi la funzione che era svolta dalla pensione minima, o per meglio dire dalla pensione sociale (220) integrata al minimo, dovrebbe essere totalmente assorbita dall'assegno sociale e dalla possibilità di accedere alla pensione, a talune condizioni, con un requisito di anzianità contributiva di soli 5 anni.

5.1 La salvaguardia della posizione contributiva: totalizzazione, ricongiunzione e automaticità delle prestazioni pensionistiche

Lo sviluppo del mercato europeo ed internazionale ha posto al legislatore nuovi interrogativi circa le modalità di tutela da poter offrire ai lavoratori migranti. Sempre più comunemente infatti un singolo soggetto si trova a svolgere attività lavorativa, e quindi a vedersi attribuite le relative posizioni contribuite, in Stati diversi o, ancorché in uno stesso Stato, presso gestioni previdenziali differenti. Questa frammentazione contributiva rischierebbe quindi di ledere il lavoratore, vanificando ogni tentativo di raggiungimento della contribuzione minima pensionabile, e lasciando a sua disposizione solo istituti 'residuali' quali l'assegno sociale. Proprio per evitare la perdita di questi periodi contributivi è stata sviluppata una sorta di rete di coordinamento basata su accordi bilaterali internazionali, legislazione europea (221) e normativa interna (222), che desse vita all'istituto della totalizzazione. È stata proprio la libertà di movimento dei lavoratori sancita dal Trattato di Roma che ha dato impulso allo sviluppo di questa tutela.

Il lavoratore che abbia svolto attività in vari paesi della Comunità europea infatti può:

  • sommare tutti i periodi di assicurazione maturati negli stati membri allo scopo di raggiungere il diritto a pensione (totalizzazione dei periodi assicurativi);
  • ottenere il pagamento della pensione nel paese di residenza, anche se essa è a carico di un altro Stato;
  • beneficiare della parità di trattamento con i cittadini del paese in cui esercita la propria attività (223).

La domanda può quindi essere presentata all'istituzione competente per territorio dello Stato in cui il lavoratore migrante risiede, anche se quest'ultimo non vi ha mai lavorato. Tale istituzione dà pronta comunicazione ai rispettivi 'colleghi' degli Stati presso i quali l'attività lavorativa è stata svolta. Di regola sarà l'ente di cui sopra ad erogare la pensione, salva la successiva rivalsa pro rata sulle corrispettive istituzioni degli altri stati.

Nel caso invece l'attività lavorativa sia stata svolta in paesi non facenti parte della Comunità europea verranno in gioco le apposite convenzioni internazionali alle quali abbiamo accennato sopra e che hanno come scopi gli stessi dei tre punti citati. La domanda dovrà essere comunque rivolta agl'istituti competenti del paese di residenza. L'importo della pensione anche in questo caso verrà determinato da ciascun paese in base al proprio sistema di calcolo dei contributi e in proporzione ai periodi assicurativi maturati, secondo il sistema del pro-rata.

La totalizzazione a differenza della ricongiunzione, della quale parleremo tra poco, non comporta un materiale trasferimento dei contributi e un loro successivo accorpamento in un'unica soluzione, ma solo un computo degli stessi al fine del raggiungimento del diritto alla pensione. Il lavoratore deve poter vantare un periodo minimo di assicurazione e contribuzione nello Stato che concede la pensione, altrimenti i contributi vengono utilizzati dallo Stato che risponde a tali requisiti. Tale periodo minimo corrisponde a 52 settimane per i paesi comunitari e da quanto stabilito dai singoli accordi internazionali per i paesi extracomunitari (224). Nel caso in cui il periodo lavorativo non raggiunga tale durata e quindi il relativo Stato non possa calcolare la relativa 'rata' di pensione, sarà lo Stato presso il quale la pensione è stata richiesta a prendersi carico della contribuzione relativa a quel periodo. Nel caso di totalizzazione multipla, che riguardi cioè un numero superiore a due paesi, quando almeno due di tali paesi non facciano parte dell'Unione Europea, sarà necessario non solo un accordo bilaterale tra paese erogante e gli Stati in cui l'attività è stata svolta, ma anche tra quest'ultimi. Dal 1º settembre 1995 esiste una sorta di trattamento minimo anche per le pensioni comunitarie e internazionali. Se infatti l'importo della rata di pensione italiana sommato a quello derivante da pensioni estere è inferiore, per ogni anno di contribuzione effettuata in Italia, ad un quarantesimo del trattamento minimo in vigore alla data di decorrenza della pensione stessa, la prestazione, in presenza di determinati requisiti di reddito e contributivi, viene integrata al minimo (225). Essendo l'integrazione al trattamento minimo una prestazione sociale a carattere non contributivo non viene erogata ai titolari di pensione che risiedano in uno Stato diverso dall'Italia, poiché le prestazioni di tale genere sono considerate 'prestazioni di residenza' (226).

Dal punto di vista organizzativo per i richiedenti residenti all'estero sono stati attivati sul territorio italiano una serie di 'Poli territoriali' ciascuno con una propria competenza relativa ad un paese straniero. Così facendo ogni Stato, e di conseguenza ogni cittadino straniero, si trova ad avere un referente qualificato per le sue richieste.

Come detto in precedenza la totalizzazione non riguarda solo i lavoratori migranti, ma anche quei lavoratori, che pur avendo lavorato sempre all'interno di uno stesso Stato hanno posizioni contributive afferenti a gestioni previdenziali diverse. Lo scopo è quello di "conseguire (attraverso un computo unitario dei vari 'spezzoni' assicurativi) un trattamento pensionistico frazionato (o pro rata)" (227). In base alle ultime riforme apportate dalla legge 24 dicembre 2007 n. 247 i vari periodi contributivi possono essere utili ai fini della realizzazione di un unico trattamento pensionistico, per mezzo della totalizzazione, se di durata non inferiore ai 3 anni. Per poter accedere a tale tipo di totalizzazione inoltre il soggetto deve aver compiuto 65 anni di età e averne almeno 20 di contribuzione o, in alternativa, qualsiasi età anagrafica a fronte di 40 anni di contribuzione.

Altra misura tesa a tutelare la possibilità di accesso alle prestazioni di vecchiaia risulta essere la ricongiunzione (228). A differenza della totalizzazione questa operazione non consente solo un computo generale dei vari spezzoni assicurativi i quali vanno successivamente valutati secondo le normative proprie del regime o della gestione di appartenenza, ma effettua un vero e proprio 'trasferimento' della posizione contributiva, che passa così da una gestione ad un'altra, mutando anche le rispettive modalità di calcolo. Il soggetto riesce in questa maniera a trarre un vantaggio dalle nuove modalità di analisi della sua posizione contributiva. Proprio a fronte di tale vantaggio, forse in virtù di reminescenze mutualistiche o per una sorta di riconduzione ad equità sociale, il richiedente tale trasferimento è spesso tenuto a sostenere dei costi per questa operazione. Di regola solo il trasferimento delle proprie contribuzioni da un regime speciale al regime generale dell'Inps non comporta alcun costo, causa, e in ciò si riconfermerebbe la tesi della riconduzione ad equità sociale, la minore tutela offerta dal regime generale.

Com'è facilmente comprensibile infine quella che possiamo considerare la più estesa forma di tutela della posizione contributiva dei lavoratori, e quindi del connesso diritto alla pensione, deriva dal principio di automaticità delle prestazioni, così come stabilito in via generale dall'art. 2116 c.c. e confermato dall'art. 27 c. II r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636 e successive modificazioni riguardo all'assicurazione generale obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti (229). In questo campo infatti, più ancora che in altri, tale principio riesce a tutelare il soggetto a fronte delle varie disfunzioni del sistema che ne potrebbero 'intaccare' la storia contributiva. I requisiti contributivi richiesti per invalidità, vecchiaia e superstiti devono quindi ritenersi rispettati anche qualora non vi sia stato un effettivo versamento degli stessi ma quest'ultimi risultino ancora esigibili in base ai termini di prescrizione. Tale prescrizione, secondo l'art. 41 della legge n. 153 del 1969, risultava avere portata decennale, è poi divenuta quinquennale con la riforma del 1995 (230) (salvo intercorsa denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti che riattivi i termini decennali). L'ente previdenziale è infatti obbligato ad interrompere la prescrizione qualora vi sia stata denuncia dell'omissione contributiva da parte del lavoratore. Quest'ultima ipotesi è resa possibile dall'obbligo imposto all'Inps di inviare periodicamente al lavoratore estratto conto della retribuzione denunciata dal datore di lavoro, attuando così una sorta di auto-controllo del lavoratore nei confronti della sua posizione previdenziale. La pericolosità insita nella perdita di periodi contributivi diviene ancora più pressante se si considera che la legge (231) stabilisce l'impossibilità di versare i contributi prescritti, distaccandosi così dall'impostazione generale fornita dall'art. 2937 del Cod. Civ. che permette invece la rinunzia agli effetti della prescrizione (232). Dobbiamo ricordare che a tutt'oggi il principio di automaticità non è applicato al lavoro autonomo.

Il datore di lavoro che ometta o effettui irregolare contribuzione andrà incontro a responsabilità penale qualora l'evasione sia rilevante e sia stata effettuata con dolo specifico (233), a responsabilità civile e amministrativa nei confronti dell'ente previdenziale creditore ed infine a responsabilità civile nei confronti del lavoratore per il danno da lui subito ai sensi dell'art. 2116 c. II Cod. civ., qualora non possa operare il principio di automaticità delle prestazioni. Quest'ultimo tipo di responsabilità deriva dalla violazione del diritto soggettivo alla posizione contributiva, configurata dalla giurisprudenza e da parte della dottrina (234) come entità patrimoniale. La liquidazione di tale danno avviene in forma specifica, tramite la costituzione di una rendita vitalizia pari alla pensione o quota di pensione che spetterebbe in base ai contributi omessi, anche qualora quest'ultimi siano caduti in prescrizione (235). La costituzione di questa rendita viene effettuata tramite il versamento all'ente previdenziale della somma corrispondente alla riserva matematica necessaria per l'erogazione di tale prestazione.

5.2 Prestazioni ai superstiti

Le tutele previdenziali delle quali stiamo trattando raramente si occupano del singolo soggetto senza guardare al contesto, quantomeno familiare, nel quale la vita di quest'ultimo si svolge. Tale interessamento è spesso effettuato affiancando a tutele per situazioni specifiche la possibilità di richiedere prestazioni per il proprio nucleo familiare; altre volte si realizza invece tramite istituti che conferiscono importanza più o meno diretta ai carichi familiari della persona. Le prestazioni per la vecchiaia non possono certo derogare a questa impostazione generale ed infatti presentano, ad esempio, la possibilità di detrazioni per familiari a carico e, come vedremo nell'apposito paragrafo, la possibilità di richiedere l'assegno per il nucleo familiare (Anf) quando la prestazione pensionistica derivi da lavoro dipendente. La possibilità di queste maggiorazioni però sarebbe una tutela del tutto inutile se, contestualmente alla morte del soggetto lavoratore o pensionato, le prestazioni a lui erogate e le contribuzioni da lui effettuate non potessero tutelare (236) la famiglia superstite da quello stato di bisogno del quale si è tanto parlato. La morte infatti risulta essere uno degli eventi protetti dall'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti. Proprio in virtù di tale assicurazione i familiari acquistano, al momento della scomparsa del soggetto, iure proprio (e non iure successionis) (237) il diritto a determinate tutele. Queste possono essere suddivise in: pensione di reversibilità (238), qualora il soggetto deceduto fosse già titolare di pensione di vecchiaia, anzianità o inabilità al momento della sua morte; pensione indiretta se il de cuius aveva almeno 15 anni di contributi oppure (riguardo alla tutela contro l'invalidità) era assicurato da almeno 5 anni dei quali almeno 3 versati nel quinquennio precedente; pensione supplementare, indennità una tantum e restituzione dei contributi qualora il soggetto deceduto non avesse raggiunto i parametri, di cui sopra, di accesso ad una prestazione pensionistica.

I beneficiari di tali trattamenti possono essere:

  • il coniuge anche se separato, in caso di 'separazione per colpa' solo se il Tribunale ha stabilito un suo diritto agli alimenti. Il coniuge divorziato, purché il lavoratore deceduto fosse iscritto all'Inps da prima della sentenza di scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio e purché abbia diritto all'assegno di divorzio e non si sia risposato. In caso di nuove nozze infatti al beneficiario viene revocata la pensione di reversibilità e fornita una liquidazione pari a 26 mensilità. L'ex coniuge superstite ne avrà diritto anche se il de cuius si era successivamente risposato; in questo caso potrà pretendere solo una quota di prestazione connessa alla durata del matrimonio, alle condizioni economiche e all'eventuale periodo di convivenza prima del matrimonio;
  • i figli, come per gli assegni per il nucleo familiare sono presi in considerazione quelli: legittimi, legittimati, adottivi, affiliati, naturali, legalmente riconosciuti o giudizialmente dichiarati, nati da precedente matrimonio dell'altro coniuge. Tali figli alla morte del genitore devono essere:
    • minori di 18 anni;
    • di età compresa tra i 18 e i 21 anni, studenti di scuola media superiore che siano a carico del genitore e non svolgano alcuna attività lavorativa;
    • studenti universitari per tutta la durata del corso di laurea e comunque non oltre i 26 anni, che siano a carico del genitore e non svolgano alcuna attività lavorativa;
    • inabili di qualunque età, a carico del genitore;
  • i nipoti minori purché siano a carico della nonna o del nonno deceduti, la presenza in vita dei genitori, in base alla sentenza della Corte costituzionale n. 180 del 1999, non è di nessuno ostacolo ai fini di tale tutela a patto che quest'ultimi non svolgano alcuna attività lavorativa e non abbiano fonti di reddito;
  • i genitori (239) limitatamente ai casi di assenza del coniuge, dei figli, dei nipoti. Alla data della morte del figlio il genitore deve: avere almeno 65 anni, non essere titolare di pensione, risultare a carico del figlio con un reddito non superiore all'importo del trattamento minimo maggiorato del 30%, cioè per l'anno 2009 pari a 595,66 euro;
  • I fratelli e le sorelle possono accedere ai trattamenti ai superstiti solo in assenza dei soggetti sopra elencati e solo qualora siano nubili/celibi, inabili al lavoro al momento della morte dell'assicurato, non siano titolari di pensione e risultino a carico del fratello/sorella deceduto con un reddito non superiore all'importo del trattamento minimo maggiorato del 30%, cioè per l'anno 2009 pari a 595,66 euro (240).

Si nota come esclusi da tale tipologia di beneficio risultino essere i conviventi more uxorio. La Corte costituzionale (241) ha ritenuto legittima tale esclusione per inesistenza di quel preesistente rapporto giuridico, riscontrabile nel vincolo matrimoniale, che giustifica la prestazione in questione.

La vivenza a carico richiesta per i figli, i nipoti e gli equiparati maggiorenni studenti o inabili superstiti, come anche per i genitori, è dettata da precisi limiti, che nel caso degli ascendenti abbiamo già sopra visto, e che corrispondono:

  • ad un reddito di euro 595,66 per il 2009 (trattamento minimo maggiorato del 30%) per i figli ed equiparati studenti maggiorenni;
  • ad un reddito non superiore a quello posto a limite della richiesta per il diritto alla pensione di invalido civile totale (1240,52 euro per il 2009) per i figli maggiorenni inabili;
  • ad un reddito calcolato sulla base di quello richiesto dalla legge per il diritto alla pensione di invalido civile totale aumentato dell'importo dell'indennità di accompagnamento (per l'anno 2009 quindi euro 1.712,56) per i figli maggiorenni inabili titolari di indennità di accompagnamento.

Come abbiamo già visto per gli Anf la convivenza dei soggetti in questione con il soggetto assicurato non influisce sulla possibilità o meno della vivenza a carico (242).

La 'distribuzione' della pensione di reversibilità tra i vari beneficiari avviene sulla base di quote prestabilite che considerano l'eventualità della presenza di coniugi o della sola presenza di figli, nipoti, fratelli, sorelle, genitori, con quell'ordine di sussidiarietà al quale abbiamo sopra accennato. In base alla sentenza della Corte costituzionale n. 495 del 1993 inoltre le quote dovute ai superstiti dell'assicurato vengono calcolate sulla base della pensione che sarebbe spettata al soggetto al momento del decesso, compresa l'eventuale integrazione al minimo. La somma delle quote spettanti ai vari soggetti non può comunque superare il 100% della pensione che sarebbe spettata all'assicurato (243).

In base ai temperamenti alla possibilità di cumulo che vedremo subito dopo l'analisi delle singole tutele, il superstite potrà vedere ridotta la pensione a lui erogata del 25%, 40% o 50% qualora possa vantare un reddito annuo superiore rispettivamente a tre, quattro o cinque volte il trattamento minimo. Tale regola non viene applicata in caso di figli minori, inabili o studenti. È bene chiarire che non soltanto le prestazioni di vecchiaia possono dar luogo a pensione di reversibilità, ma anche la pensione di invalidità, di inabilità, la pensione supplementare. Non danno luogo invece a tale prestazione l'assegno ordinario di invalidità e l'assegno sociale.

Come già detto all'inizio di questo paragrafo le prestazioni ai superstiti non sempre corrispondono alla pensione di reversibilità. Qualora infatti il soggetto deceduto non avesse i requisiti richiesti per accedere ad una prestazione pensionistica i suoi 'eredi' potranno ricevere, in base a vari fattori: una indennità una tantum, la restituzione dei contributi o la pensione supplementare. L'indennità del primo tipo verrà calcolata in maniera differente a seconda che afferisca al modello retributivo o contributivo (244).

La restituzione dei contributi, retaggio di una concezione di natura prettamente mutualistica era, e in alcuni casi è tuttora nonostante la progressiva eliminazione, prevista dai regimi di previdenza dei liberi professionisti, dei lavoratori autonomi iscritti alla cosiddetta 'quarta gestione' Inps e a favore dei lavoratori extracomunitari (245).

L'ultima tipologia di prestazione (pensione supplementare (246)) riguarda poi il caso in cui i superstiti pur non potendo accedere alla pensione di reversibilità o a quella indiretta per assenza di requisiti, sono comunque titolari di una pensione ai superstiti a carico di un fondo di previdenza sostitutivo, esclusivo o esonerativo di quello generale Inps. In tal caso avranno diritto ad una pensione supplementare erogata dal fondo generale Inps sulla base della contribuzione presso di esso effettuata.

5.3 La pensione di anzianità

La pensione di anzianità, istituita con l'art. 13 della legge 21 luglio 1965 n. 903, subì successivamente alterne vicende che ne videro l'abolizione nel 1968 e il successivo ripristino per mano della legge n. 153 del 1969. Già l'intervento del 1968 trovava le sue ragioni nell'eccessiva onerosità derivante da questa tutela per le casse dello Stato e nel fatto che questa era una previsione unica in ambito europeo. Interessante è altresì vedere come la stessa Corte di cassazione concepisse tale prestazione come una sorta di "premio al lavoro" (247) o di pensione di vecchiaia anticipata (benché la Corte costituzionale abbia più volte precisato prontamente la totale diversità dei requisiti richiesti). L'art. 1 c. IXX della legge 335 del 1995, in seguito, ha sostanzialmente sancito, anche se in maniera differita e graduale, la fine dell'istituto 'pensione di anzianità' prescrivendo che: "Per i lavoratori i cui trattamenti pensionistici sono liquidati esclusivamente secondo il sistema contributivo, le pensioni di vecchiaia, di vecchiaia anticipata, di anzianità sono sostituite da un'unica prestazione denominata 'pensione di vecchiaia'". La tutela che ad oggi porta la dicitura di pensione di anzianità presenta oramai caratteri tali da farne una prestazione non più basata esclusivamente sull'anzianità contributiva del soggetto ma sul connubio, tramite il sistema delle quote, di quest'ultima con l'età anagrafica. Così come questo tipo di prestazione non può più limitarsi a considerare la contribuzione effettuata dal soggetto, corrispettivamente la pensione di vecchiaia viene sempre più a considerare il connubio tra i due fattori di età e contribuzione. Da questo punto di vista, come vedremo meglio anche parlando della pensione di vecchiaia il senso della distinzione tra le due prestazioni pensionistiche viene del tutto a sparire e verrà del tutto abolito al momento della conclusione della possibilità di adozione del metodo di calcolo retributivo. Quindi la prestazione che porterà progressivamente alla 'pensione di vecchiaia unificata' è attualmente denominata 'pensione di anzianità'. È questa tutela infatti che grazie al sistema delle quote sta introducendo gradualmente il nuovo modello.

La tipologia di pensione della quale stiamo trattando, che come abbiamo già detto rappresenta una peculiarità tutta italiana, si basava originariamente sulla sola anzianità contributiva vantata dal richiedente, che doveva essere pari a 35 anni, e sulla cessazione, al momento della richiesta, di ogni attività lavorativa. Le prestazioni così erogate però rappresentarono ben presto una nota dolente nella gestione finanziaria del sistema previdenziale a causa di un progressivo invecchiamento della popolazione e di un pressoché costante aumento della vita media. Proprio per ovviare a tali inconvenienti furono apposte alla normativa in materia successive modifiche, soprattutto da parte della riforma pensionistica del 1995. In base alla legge n. 335 fu infatti instaurato un regime che prendeva gradualmente in considerazione il requisito dell'età del soggetto. Si è in tal modo instaurata una 'fase transitoria' che avrebbe dovuto innalzare l'età minima pensionabile gradualmente dai 52 anni di età e 36 di contribuzione fino ad arrivare alla fase 'di regime' che, a decorrere dal 2008, vede la possibilità di pensionamento connessa al raggiungimento dei 58 anni di età e 35 di contribuzione.

La riforma pensionistica del 2004-2007 (248) ha in seguito messo definitivamente a tacere il regime di età pensionabile 'flessibile' instaurato dalla riforma del 1995 istituendo, a decorrere dal gennaio 2008, l'applicazione di un regime 'a quota', cioè basato sulla sommatoria dell'età anagrafica e dell'anzianità contributiva. Durante il periodo dal 1º gennaio 2008 al 30 giugno 2009 è stato infatti possibile andare in pensione con 35 anni di contributi e 58 anni di età, successivamente è entrato in vigore il sistema a quote progressive, in base a quanto previsto dalla legge n. 247 del 2007. In virtù di tale sistema di calcolo parte della dottrina, come già accennato, considera la pensione di anzianità come "una pensione di vecchiaia anticipata, stante la rilevanza che ormai la legge assegna all'età del lavoratore" (249).

Dobbiamo inoltre ricordare l'eccezione sancita dalla possibilità di andare in pensione a qualunque età anagrafica in caso di presenza di almeno 40 anni di anzianità contributiva (250). Forse questa è l'unica vera opzione di pensione di anzianità rimasta in vigore nel nostro ordinamento.

Notando l'innalzamento continuo dell'età richiesta per la pensione di anzianità si riesce bene a ricostruire l'intento del legislatore di progressiva unificazione delle due prestazioni in modo da riportare la possibilità di pensionamento al limite minimo dei 60 anni per le donne e 65 per gli uomini (251). In verità anche questa differenza tra le età pensionabili dei due sessi sono destinate a scomparire dal momento che la Corte di Giustizia con la sentenza del 13 novembre 2008 (252) ha aperto la strada all'innalzamento dell'età pensionabile delle donne a 65 anni. Tale pronuncia ha infatti condannato lo Stato italiano per la la disparità di trattamento pensionistico applicato tra i due sessi nel pubblico impiego, in quanto tale situazione violerebbe l'art. 141 (ex art. 119) del Trattato CE costituendo una discriminazione in ambito lavorativo. L'Italia sarà quindi tenuta a riallineare le età di pensionamento di tutti i dipendenti pubblici. Anche se la pronuncia riguarda per il momento solamente il settore del pubblico impiego non si può dubitare che vi saranno in seguito analoghi risvolti anche per i lavoratori alle dipendenze dei datori privati.

Volendo analizzare in maniera specifica la disciplina possiamo notare come il sistema delle quote per i lavoratori dipendenti, del quale prima trattavamo, sia attualmente strutturato come segue:

I requisiti
Anno Somma di età anagrafica e anzianità contributiva Età anagrafica minima
2008 - 58
Dal 1.01.2009 al 30.06.2009 - 58
Dal 1.07.2009 al 31.12.2009 95 59
2010 95 59
2011 96 60
2012 96 60
Dal 2013 97 61

Per i lavoratori autonomi possiamo considerare una analoga tabella innalzata di un punto in ciascun parametro. La previsione di un'età minima di uscita dal mondo lavorativo, anche all'interno di una tutela che in origine si basava esclusivamente sulle contribuzioni versate, rende ancora più evidente la sempre minor differenza presente tra le due prestazioni pensionistiche in discussione. Ulteriore mezzo di riduzione della spesa pubblica tramite contingentamento delle uscite dal mondo del lavoro sembra essere il sistema delle 'finestre' (253). Tale sistema, già previsto dalla legge n. 438 del 1992 e dalla riforma del 1995, è stato successivamente 'inasprito' dalle dalla riforma del 2004. Si è infatti passati dalla possibilità di andare in pensione, a seconda del periodo di raggiungimento dei requisiti richiesti, secondo quattro scaglioni a quella che prevede due sole uscite l'anno. Con questo metodo l'organizzazione previdenziale, oltre avvalersi delle mensilità di prestazione non erogate intercorrenti tra la data di raggiungimento dei parametri richiesti e l'effettiva 'uscita' del soggetto, può organizzare le proprie risorse in base alle cadenze con le quali sa che avverranno i pensionamenti.

5.4 La pensione di vecchiaia

La pensione di vecchiaia connette la possibilità di fruizione della relativa prestazione al raggiungimento di una certa età anagrafica, senza tener conto della presenza o meno nel soggetto richiedente di una residua capacità lavorativa. Purtroppo le continue riforme che hanno influenzato negli ultimi anni il sistema pensionistico italiano hanno delineato anche in questo campo una serie di complesse varianti delle quali adesso dobbiamo rendere conto. Elemento comune a tutte le tipologie di calcolo è la necessità, ai fini del conseguimento della pensione di vecchiaia, della cessazione dell'attività lavorativa in corso, salva possibilità di poterla successivamente riprendere con possibilità o meno di cumulo (totale o parziale) con la pensione (254). Originariamente l'età pensionabile era fissata in 60 anni per gli uomini e 55 per le donne (255); la riforma del 1992 (256), per far fronte a quelle esigenze finanziarie che abbiamo visto spesso dettare norma in questa materia, ha stabilito un progressivo aumento della stessa fino al raggiungimento, nel 2000, dei 65 anni per gli uomini e dei 60 per le donne (257). Salva la parentesi di flessibilità dell'età pensionabile, dettata dalla riforma del 1995, che consentiva l'erogazione della prestazione in un'età compresa tra i 57 ed i 65 anni, con l'innovazione del 2004 siamo tornati a tali limiti. Si deve inoltre ricordare come la differenziazione tra pensione di anzianità e pensione di vecchiaia possa dirsi ancora esistente, benché destinata ad estinguersi, solo in caso di liquidazione della pensione in base a calcolo retributivo o misto e di come, in caso di utilizzo del metodo di calcolo contributivo, la pensione sia quella di 'vecchiaia unificata' (258). Consci di tale complicazione non ci resta che effettuare una disamina della materia in base al criterio di calcolo adottato.

Nel sistema contributivo:

Sono richiesti 65 anni per gli uomini e 60 per le donne, con almeno 5 anni di contribuzione effettiva. I soggetti che non abbiano raggiunto tale età potranno avvalersi dei parametri già visti per la pensione di anzianità (adesso in base alle modifiche apportate spesso definita 'contributiva') o, qualora abbiano raggiunto i 40 anni di contribuzione, potranno andare in pensione qualunque sia l'età anagrafica. Nel caso il soggetto voglia andare in pensione prima del raggiungimento dei 60-65 anni lo potrà fare solo qualora l'importo della pensione sia di almeno 1,2 volte la misura dell'assegno sociale, stabilito per il 2009 in euro 490,86.

Nel sistema retributivo (259):

L'età pensionabile è sempre di 65 anni per gli uomini e 60 per le donne, la contribuzione deve invece essere di almeno 20 o 15 anni (260).

Per i portatori di un'invalidità superiore all'80% l'età prescritta per l'accesso alla pensione è di 60 anni per gli uomini e 55 per le donne.

Anche per la pensione di vecchiaia è in vigore il sistema di contingentamento dei pensionamenti tramite il modello delle 'finestre'.

Vale la pena ricordare come nel pubblico impiego, a differenza del lavoro presso privati, il raggiungimento dell'età pensionabile comporta, di norma, l'automatica risoluzione del rapporto (261).

5.5 L'assegno sociale

L'ultima tutela pensionistica relativa alla vecchiaia che analizziamo è l'assegno sociale, prestazione che, a differenza delle pensioni sopra analizzate, ha una natura spiccatamente assistenziale (262). La nascita di questa prestazione, pur sotto la diversa denominazione di 'pensione sociale', si deve all'art. 26 della legge n. 153 del 1969. L'attuale nome di 'assegno sociale' gli deriva invece dall'art. 3 c. VI e VII della legge di riforma del 1995. Con la trasformazione effettuata da quest'ultima normativa l'importo erogato per ogni beneficiario è diventato più cospicuo ma sono diventati anche più rigorosi i requisiti richiesti (263). Per coloro che avevano effettuato la propria domanda precedentemente al 31 dicembre 1995 la prestazione erogata si continuerà a chiamare pensione sociale.

Non è affatto difficile intuire la portata di una forma di sostegno a carattere universale che sia capace di prendersi cura di quei soggetti che, trovandosi in età avanzata, non hanno però raggiunto quei requisiti minimi per accedere alle tutele di tipo previdenziale. Immaginarsi una sistema sociale dove una tale forma di tutela sia assente vuol dire prospettare una società nella quale un soggetto, ormai non più nel pieno delle proprie forze lavorative, si debba attivare alla ricerca di una fonte di sostentamento, si trovi a gravare su istituzioni di carattere assistenziale o sul proprio nucleo familiare, ingenerando così un circolo vizioso di impoverimento. Da questo punto di vista l'assegno sociale riesce ad essere un fattore di riordino, di controllo e di sostegno (diretto e indiretto), del tessuto sociale. L'estensione, la portata e l'utilità di questa prestazione sono divenuti tali, nel corso del tempo, da renderla elemento complementare e necessario, nonostante la differenza ontologica, del progetto previdenziale. Solo dall'integrazione e dal coordinamento tra le varie tipologie di interventi, sia previdenziali che assistenziali, si può infatti realizzare un sistema di sicurezza sociale completo e funzionante.

Dal punto di vista finanziario l'erogazione di questo assegno risulta essere a carico, come già nella pensione sociale, della Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno delle gestioni previdenziali dell'Inps (264).

I requisiti richiesti per poter accedere alla prestazione in discussione sono essenzialmente riconducibili a tre categorie: cittadinanza (complesso è il connesso tema della residenza) (265), età e limiti di reddito (266).

Il primo requisito per poter beneficiare dell'assegno sociale è infatti la cittadinanza italiana. Sono equiparati ai cittadini italiani: gli abitanti di San Marino, i rifugiati politici, i cittadini europei residenti in Italia e i cittadini extracomunitari in possesso del Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (267). La necessità per i cittadini non appartenenti alla Comunità Europea di essere titolari di questo tipo di permesso di soggiorno (invece che del solo permesso di soggiorno di durata non inferiore all'anno) è stata introdotta dall'art. 80 c. IXX legge finanziaria del 2001 (legge n. 388 del 2000) suscitando, come vedremo nel par. 7, non pochi dubbi di legittimità.

Per quanto invece riguarda i cittadini comunitari una modifica importante è derivata dall'art. 37 c. II del d.l. n. 112 del 25 giugno 2008 così come convertito dalla legge n. 133 del 6 agosto 2008. Tale articolo prevede infatti che a questi soggetti non venga più estesa l'applicazione del d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998 (T.U. sull'immigrazione). Ai cittadini comunitari saranno quindi applicati gli stessi requisiti richiesti ai cittadini italiani e non le disposizioni del T.U. immigrazione.

Sempre la legge n. 133 ha poi apportato un'altra innovazione prevedendo, al suo articolo 20 c. X, che: "A decorrere dal 1º gennaio 2009, l'assegno sociale di cui all'articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, è corrisposto agli aventi diritto a condizione che abbiano soggiornato legalmente, in via continuativa, per almeno dieci anni nel territorio nazionale" (268). Le modalità di 'prova' della residenza sono stabilite in maniera diversa a seconda delle qualità del soggetto richiedente. L'instaurazione di questa nuova previsione ha ridato nuova vita alla querelle circa la legittimità, date le disposizioni comunitarie in materia, di limitare l'erogazione di una prestazione monetaria in base ad un requisito di residenza. Il regolamento CE richiamato da alcuni deputati in sede di approvazione della legge di conversione è infatti quello stesso (n. 1408 del 1971) del quale si è già lungamente discusso con riguardo all'esportabilità della prestazione.

Qualora il beneficiario dell'assegno sociale permanga all'estero per un periodo superiore ad un mese l'assegno sociale viene sospeso per essere poi revocato definitivamente se la permanenza si protrae fino a raggiungere un anno di sospensione (269). Tale disciplina, che non permette l'esportabilità dell'assegno, sembrava dover cedere il passo davanti all'art. 10 del regolamento citato che enunciava il principio di revoca delle clausole di residenza. In base a questo principio nel 1983 la Corte di giustizia CE dichiarò la revoca della clausola di residenza anche per le prestazioni monetarie di natura assistenziale, quindi anche per la pensione sociale. Il successivo regolamento CE n. 1274 del 1992 ha confermato la possibilità di erogazione all'estero delle prestazioni sociali a carattere non contributivo, salvo quelle previste per ogni Stato in un apposito allegato (270). Di questo allegato, per quanto concerne l'Italia fanno parte la pensione sociale (ora assegno sociale) e le prestazioni economiche a favore di invalidi civili, sordomuti e ciechi civili (271). La possibilità di fruizione dell'assegno sociale è quindi tornata ad essere strettamente connessa alla residenza del beneficiario.

Tornando all'analisi dei requisiti dobbiamo vedere come, oltre a quelli relativi alla cittadinanza e alla residenza, la normativa richieda un'età di almeno 65 anni (senza distinzione di sesso) e dei limiti reddituali. Quest'ultimi limiti corrispondono, per l'anno 2009 a 5.317,65 euro nel caso il richiedente non sia coniugato e a 10.635,30 euro nel caso sia coniugato. La misura della prestazione, pari al limite di reddito previsto, è stabilita per il 2009 in 5.317,65 euro annui, corrispondenti a 409,05 euro mensili (272). Se il richiedente l'assegno sociale percepisce redditi l'assegno viene erogato in misura ridotta, fino a raggiungere il tetto massimo stabilito. Nel caso il richiedente sia coniugato, a fronte dell'innalzamento dei redditi massimi percepibili, si avrà il computo anche delle entrate del coniuge (273).

L'assegno subisce inoltre una riduzione qualora il titolare sia ricoverato in istituti o comunità con rette a carico dello Stato. La riduzione è del 50% nel caso la retta sia a totale carico degli enti pubblici e del 25% qualora sia a carico degli interessati e dei suoi familiari per un importo non inferiore alla metà dell'assegno sociale stesso. La prestazione in discussione inoltre non può essere soggetta a reversibilità in caso di morte del beneficiario (274).

Bisogna poi ricordare come l'assegno ordinario di invalidità civile, tutela che analizzeremo tra poco, al raggiungimento del 65º anno di età del beneficiario si converta automaticamente in assegno sociale. Tutto ciò a riprova del carattere prettamente assistenziale della tutela finora illustrata.

Da un'analisi attenta si nota come la funzione assunta dall'assegno sociale non è solo quella di tutela di ultima istanza, della quale abbiamo parlato all'inizio di questo paragrafo, ma anche quella di vero e proprio 'parametro' di riferimento per svariati interventi, soprattutto in campo previdenziale e migratorio. Con riguardo a quest'ultimo settore l'importo dell'assegno sociale è da parametro per: l'autorizzazione all'ingresso per ricongiungimento familiare, il rilascio del permesso CE per soggiornanti di lungo periodo (art. 9 T.U.) (275), l'iscrizione anagrafica dei cittadini comunitari (art. 9 c. 3 lett. B d. lgs. n. 30 del 6 febbraio 2007), l'analisi delle condizioni economiche minime garantite al lavoratore di cui si prevede l'assunzione tramite domanda di nulla osta (attraverso le procedure previste dal decreto flussi).

5.6 I regimi di cumulo

L'universo delle tutele sociali è generalmente strutturato in modo da evitare una duplicazione di tutela in capo ad un solo beneficiario a seguito di uno stesso evento. Altre limitazioni dal punto di vista storico hanno riguardato non solo il rapporto tra varie prestazioni ma anche tra quest'ultime ed i redditi da lavoro. Dovremo quindi analizzare un duplice aspetto, quello della possibilità di cumulo tra diverse prestazioni e tra prestazioni, nel caso di specie pensionistiche, e redditi da lavoro (276). La disciplina in materia è da sempre risultata estremamente altalenante; una normativa sulla conciliabilità tra redditi da lavoro e da pensione fu adottata per la prima volta nel 1952 (277) per essere successivamente abolita nel 1965 e ripristinata nel 1968 (278). Tralasciando le successive, e continue, variazioni vediamo come risulta essere regolata la questione in data odierna. In base all'articolo 19 del decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008, convertito in legge 6 agosto 2008 n. 133, dal 1º gennaio 2009 vige un regime di generale cumulabilità tra redditi e prestazioni pensionistiche, siano quest'ultime di anzianità, di vecchiaia o appartenenti al nuovo regime 'unificato di vecchiaia' creato, come visto, dall'art. 1 c. IXX della legge 8 agosto 1995 n. 135 (279).

Le pensioni di anzianità, siano queste a carico dell'assicurazione generale obbligatoria o di forme sostitutive o esclusive di assicurazione, dalla data sopra illustrata risultano totalmente cumulabili con i redditi da lavoro autonomo e dipendente. Ciò avviene sia qualora siano state liquidate in base al sistema contributivo che quando sia stato utilizzato il modello retributivo. Nel caso di pensioni liquidate anteriormente al 1º gennaio 2009 le rate spettanti da tale termine saranno totalmente cumulabili. Le pensioni di vecchiaia risultavano interamente cumulabili con il reddito da lavoro dipendente e autonomo già dal 1º gennaio 2001.

Le nuove pensioni liquidate con sistema contributivo (280), invece, saranno totalmente cumulabili:

  • qualora il soggetto possa far valere un'anzianità contributiva di 40 anni;
  • qualora il soggetto abbia un età pari o superiore ai 60 anni se donna e 65 se uomo;
  • qualora il soggetto, pur non raggiungendo i limiti di età di cui al punto precedente, abbia maturato i requisiti di cui all'articolo 1, commi 6 e 7 della legge 23 agosto 2004, n. 243 e successive modificazioni.

La nuova disciplina di cumulo stabilita dal d.l. n.112 del 2008 non si applica: ai titolari di pensione ai superstiti, di assegno di invalidità, ai lavoratori che trasformano il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, ai lavoratori socialmente utili per i trattamenti liquidati provvisoriamente, ai titolari di assegni straordinari per il sostegno del reddito (281).

Mentre sussiste una generale incompatibilità tra i redditi da lavoro e le prestazioni per inabilità, fattispecie ben comprensibile se si pensa che presupposto di questa tutela è l'assenza di capacità lavorativa, vedremo nei prossimi paragrafi il rapporto tra questi e le prestazioni di invalidità.

Riguardo poi al cumulo tra pensioni e prestazioni previdenziali in genere possiamo notare come non vi sia una regola generale che lo vieti. Sicuramente possiamo ritrovare un divieto di concorso di più integrazioni al minimo nel caso di soggetto titolare di più pensioni (282). Vige inoltre un regime di incompatibilità tra i trattamenti di disoccupazione e mobilità e quelli riguardanti il pensionamento anticipato. Altrettanto si può dire circa il cumulo delle pensioni di invalidità, di reversibilità e dell'assegno ordinario di invalidità a carico dell'Inps (283) con la rendita vitalizia a carico dell'Inail per lo stesso evento.

Oltre alla normativa nazionale anche alcuni atti comunitari di indirizzo e coordinamento hanno influito sulla disciplina generale dei regimi di cumulo (284).

6. Le prestazioni a favore dei disabili

Le tutele offerte dal sistema sociale italiano alle persone diversamente abili sono molteplici. In questo paragrafo ci occuperemo in maniera specifica di quelle derivanti dall'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti.

La disabilità di un soggetto risulta infatti tra quegli elementi generatori dello stato di bisogno che le tutele sociali si prefiggono di superare. Tale condizione di bisogno può venire in gioco secondo diversi fattori e sotto molteplici angolature. Avrà quindi rilievo la gravità dell'invalidità presentata dalla persona, l'età della stessa, l'origine dalla quale tale condizione è derivata, la rimanente capacità lavorativa, ma anche fattori esterni alla sfera prettamente medico-fisiologica quali la situazione contributiva, i carichi familiari e molti altri ancora. Solo dall'analisi di tutti questi elementi può derivare un quadro completo del soggetto e, quindi, del suo stato di bisogno.

In base alla gravità dell'invalidità presentata si potrà vedere ad esempio a quali tipologie di aiuti potrà accedere la persona, ma anche quali garanzie saranno prestate ai familiari che le offrano assistenza. La stima della residua capacità lavorativa potrà essere funzionale al reimpiego, mentre l'età sarà determinante della tipologia e denominazione della prestazione offerta. Per quanto riguarda l'origine della situazione di inabilità questa può derivare da una molteplicità pressoché infinita di eventi. Solo analizzando, secondo le regole proprie della materia, le circostanze e le cause mediche che a questa situazione hanno dato luogo si potrà poi impostarne correttamente il relativo 'regime'. Un incidente automobilistico che comporti una qualche menomazione del soggetto sarà, ad esempio, generalmente coperto dall'assicurazione RC-auto. Quando però tale evento si sviluppi nel percorso casa-lavoro potrà ricadere, in forza di apposite regole, nella fattispecie dell'infortunio sul lavoro.

La tipologia di disabilità che qui vogliamo analizzare è quella derivante da un evento o una patologia non connessa all'ambiente lavorativo, derivante cioè da rischi comuni, che abbia portato il soggetto alla perdita di parte delle sue normali funzionalità. Questo tipo di tutela si distingue nettamente da quella offerta a fronte di eventi generati dal rischio professionale (285).

La tutela generale per l'invalidità e l'inabilità da rischi comuni infatti ha come scopo quello di difendere i soggetti colpiti da tali eventi dallo stato di bisogno che ne può derivare, anche in rapporto alla diminuita capacità lavorativa. In questo caso le prestazioni saranno solitamente finanziate dall'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, gestita per i lavoratori subordinati dall'Inps, o da previsioni di prestazioni di tipo assistenziale. Esistono poi allo stesso scopo fondi speciali ed autonomi comunque informati al modello generale.

Nel caso invece di disabilità derivante da rischio professionale sarà cura dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali offrire le relative prestazioni. Mentre la prima delle due tutele ha carattere generale e solidaristico, la tutela contro gli infortuni ha carattere prettamente assicurativo e riguarda solo alcune tipologie di lavorazioni, di ambienti o di soggetti esposti ad un rischio particolare (286).

Tornando all'assicurazione generale obbligatoria contro l'invalidità possiamo riscontrare la base di questa tutela nell'art. 10 del r.d.l. n. 636 del 1939 (287), non ignorando però il punto di svolta determinato dalla riforma del 1984. Prima della legge n. 222 del 1984 infatti la pensione di invalidità (esisteva una sola prestazione in materia) spettava a "l'assicurato la cui capacità di guadagno, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o di difetto fisico o mentale, a meno di un terzo del suo guadagno normale ". Essendo la capacità di guadagno il canone di riferimento, ai fini della pensione di invalidità non venivano considerate solamente le condizioni fisiche o mentali del soggetto ma, anche, come l'ambiente lavorativo esterno reagiva a queste, garantendogli o meno la possibilità di impiego. In questo modo la tutela per l'invalidità era divenuta, in alcune zone economicamente depresse, una vera forma alternativa all'indennità di disoccupazione (288). La legge n. 222 mutò notevolmente la situazione introducendo, in luogo della capacità di guadagno, il nuovo parametro della capacità di lavoro ed escludendo dunque dalla valutazione le condizioni ambientali e socio-economiche (289). Ovviamente, come già nelle previsioni del 1939, anche in questo caso le valutazioni andranno effettuate tenendo conto delle specifiche attitudini lavorative del soggetto.

Già con la suddetta previsione la riforma del 1984 aveva compiuto un mutamento di grande portata, ma non si limitò a questo e decretò anche la scissione dell'unico evento invalidante in due eventi diversi, generatori di distinte tutele: invalidità e inabilità (290).

L'art. 1 c. I della legge 222 del 1984 definisce come invalido il soggetto "la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo". Definisce altresì come inabile il soggetto che "a causa di infermità o difetto fisico o mentale si trovi nell'assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa" (291). Si tratta nel primo caso di una riduzione della capacità di lavoro del soggetto mentre, nel secondo, di una totale perdita. Le prestazioni a carico dell'assicurazione generale contro le invalidità che ne conseguono hanno caratteristiche e requisiti peculiari. Tutele dalle particolari previsioni, anche riguardo alle possibilità di impiego, sono state approntate per i soggetti ciechi e sordomuti (292).

6.1 L'assegno ordinario di invalidità

L'assegno ordinario è una prestazione monetaria a cadenza mensile che viene erogata ai soggetti invalidi parziali in presenza di taluni requisiti. Una volta inoltrata dal soggetto apposita domanda corredata da certificazione del proprio medico circa la sua menomazione fisica o mentale, la commissione medica dell'Inps lo chiamerà a visita e ne certificherà il grado di invalidità così come sopra illustrato. Qualora tale grado raggiunga il 67%, e quindi la capacità lavorativa residua sia ridotta a meno di un terzo, si potranno analizzare i requisiti contributivi per determinare la possibilità di erogare la prestazione. Tra questi requisiti ne riscontriamo uno relativo all'anzianità contributiva e l'altro inerente all'attualità contributiva. È infatti richiesto che il soggetto sia iscritto all'Inps (293) da almeno 5 anni e abbia versato almeno 3 anni di contributi, pari a 156 settimane, nel quinquennio precedente (294).

Poiché il grado di invalidità è connesso alla capacità di lavoro e questa può variare con il trascorrere del tempo (anche in positivo con una graduale assuefazione alla menomazione), l'assegno ordinario di invalidità ha una durata di 3 anni, alla fine dei quali può essere rinnovato previa sottoposizione a nuova visita medica (295). Dopo il terzo rinnovo consecutivo la prestazione viene però ad assumere carattere definitivo (296). In caso di morte del beneficiario questa prestazione non risulta reversibile ai superstiti (297). Al raggiungimento dei 65 anni per gli uomini e dei 60 per le donne l'assegno di invalidità si può trasformare, in presenza del requisito contributivo minimo di 20 anni, in pensione di vecchiaia (298). Non è possibile invece la trasformazione in pensione di anzianità (299). Al fine dell'anzianità contributiva va notato come i periodi nei quali si è riscosso l'assegno in questione senza effettuare lavori risultano comunque utili. L'importo dell'assegno di invalidità è connesso alla contribuzione versata, salva la possibilità di integrazione al minimo (300). Nel caso in cui il beneficiario svolga contestualmente attività lavorativa retribuita l'Inps può effettuare una trattenuta sull'importo dell'assegno che potrà essere del 25% o del 50%, a seconda che il reddito del soggetto superi il quadruplo o il quintuplo del trattamento minimo.

6.2 La pensione di inabilità

Come abbiamo già visto la differenza principale tra la tutela sopra illustrata e quella per l'inabilità consiste nella totale perdita della capacità lavorativa propria della seconda fattispecie. Requisito per la pensione di inabilità è, infatti, che l'infermità fisica o mentale impedisca qualsiasi attività lavorativa. Sono altresì richiesti gli stessi requisiti contributivi già visti per l'assegno d'invalidità (301). L'iter da seguire è analogo a quello prima illustrato e comporta, previa richiesta dell'interessato avallata da certificazione medica, la sottoposizione a visita dei medici Inps. Una volta ottenuto il beneficio questo risulterà, dati i presupposti, del tutto incompatibile con lo svolgimento di qualunque attività lavorativa, tanto dipendente che autonoma. Nel caso di attività professionali che richiedano iscrizione in appositi albi od elenchi deve essere effettuata la cancellazione da quest'ultimi. A differenza di quella per l'invalidità questa prestazione risulta essere reversibile ai superstiti in caso di morte del beneficiario. Anche le modalità di determinazione risultano diverse poiché l'ammontare della pensione viene calcolato aggiungendo ai periodi di contribuzione versati un 'bonus contributivo' pari agli anni mancanti al lavoratore per raggiungere l'età pensionabile (302) (che nel caso di lavoratori invalidi è stabilita in 60 anni per gli uomini e 55 per le donne).

Problemi di legittimità costituzionale erano sorti con riguardo all'art. 3 della legge 222 del 1984 che prevedeva l'impossibilità di liquidare tanto la pensione di inabilità che l'assegno di invalidità a quei soggetti che avessero fatto domanda di tali prestazioni dopo il raggiungimento dell'età pensionabile (303). Con sentenza del 25 marzo 1988 n. 436 la Corte costituzionale ha dichiarato il contrasto di tale previsione con gli articoli 2 e 38 Costituzione basandosi sia sulla constatazione che il raggiungimento dell'età pensionabile non comporta il necessario ritiro da ogni attività lavorativa, sia sulla possibilità per la pensione di inabilità di comportare l'erogazione di un'ulteriore prestazione: l'assegno mensile per l'assistenza personale e continuativa (304). In base all'art. 5 della già citata legge n. 222 oggi "Ai pensionati per inabilità, che si trovano nella impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di una assistenza continua, spetta [...] un assegno mensile non reversibile nella stessa misura prevista nell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali". La norma continua specificando che tale assegno non è dovuto in caso di ricovero in istituti di cura ed assistenza a carico della pubblica amministrazione, non è compatibile con la corrispettiva prestazione erogata dall'Inail in caso di invalidità derivante da infortunio sul lavoro e, infine, viene ridotto nel caso venga erogata una prestazione analoga "da altre forme di previdenza obbligatoria e di assistenza sociale, in misura corrispondente all'importo della prestazione stessa".

6.3 Le prestazioni per invalidità civile

Le tutele di invalidità e inabilità sinora illustrate sono applicabili solo a soggetti che possono far valere requisiti di tipo contributivo. L'assenza di tali requisiti lascia esposti allo stato di bisogno tutta una serie di soggetti spesso addirittura appartenenti alle tipologie mediche più gravi (305). Per ovviare a questa situazione è stata creata una apposita tutela per questa categoria di persone definite invalidi e inabili civili. Il termine invalidi civili, secondo la normativa (306), sta ad indicare:

"I cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età ".

In questo modo si è riusciti a creare una tutela universale e dal carattere sussidiario rispetto alle tutele prima illustrate, al fine di fornire un definitivo mezzo di sostegno a quei soggetti che vedono grandemente diminuita o del tutto eliminata la propria capacità lavorativa (307). L'illustrazione di questo tipo di prestazione risulta più semplice se la si immagina come il corrispettivo in campo di invalidità di quello che l'assegno sociale rappresenta in campo pensionistico. Le analogie tra le due tutele sono infatti varie e, come vedremo, portano al confluire dell'una nell'altra. Anche le problematiche al riguardo, che analizzeremo nel prossimo paragrafo, hanno carattere similare.

Requisiti per le prestazioni di invalidità civile sono quindi: l'accertamento di un punteggio di invalidità superiore ad alcune percentuali che illustreremo, taluni requisiti di reddito (ed in ciò trova ancora più conferma il carattere assistenziale e la somiglianza con l'assegno sociale), taluni requisiti anagrafici. La percentuale di invalidità richiesta a fronte dell'erogazione della pensione di invalidità civile è il 74%, a differenza di quanto visto precedentemente però in questo caso si considera la capacità lavorativa generica del soggetto e non quella particolare delle 'occupazioni confacenti alle sue abitudini'. A fronte di una generalizzazione della tutela si ha quindi anche una corrispettiva generalizzazione dei parametri di riferimento.

Per i soggetti che non raggiungano la percentuale di invalidità sopra illustrata esistono tutta una serie di benefici connessi a vari gradi inferiori di invalidità. Così nel caso il soggetto presenti una riduzione della capacità lavorativa pari o superiore al 33,33% avrà diritto ad ottenere gratuitamente protesi ed ausili ortopedici, qualora raggiunga il 46% avrà diritto all'iscrizione nelle liste speciali per l'assunzione agevolata, e a fronte del 67% potrà fruire dell'esenzione totale o parziale dal pagamento di ticket sanitari.

Visto il concetto generico di 'perdita di capacità lavorativa'utilizzato in questo caso è possibile analizzare i vari gradi di invalidità per mezzo di apposite tabelle (308), passaggio che risultava invece irrealizzabile per le altre prestazioni connesse ad un concetto di capacità lavorativa 'attitudinale' (309).

Per quanto concerne invece i requisiti economici si può vedere nella tabella riportata qui sotto che non tutte le tipologie di disabilità comportano per la loro erogazione dei limiti di reddito. Talune, specie a fronte di una particolare gravità della patologia, sono del tutto sconnesse dal reddito percepito dal beneficiario.

Importi 2009
Provvidenza Importo 2008 Importo 2009 Limite reddito 2008 Limite reddito 2009
Lavoratori con drepanocitosi o talassemia major 443,56 458,20 Nessuno Nessuno
Pensione ciechi civili assoluti 267,09 275,91 14.480,81 14.886,28
Pensione ciechi civili assoluti (se ricoverati) 246,97 255,13 14.480,81 14.886,28
Pensione ciechi civili parziali 246,97 255,13 14.480,81 14.886,28
Pensione invalidi civili totali 246,97 255,13 14.480,81 14.886,28
Assegno mensile invalidi civili parziali 246,97 255,13 4.242,42 4.382,43
Pensione sordomuti 246,97 255,13 14.480,81 14.886,28
Indennità accompagnamento ciechi civili assoluti 733,41 755,71 Nessuno Nessuno
Indennità speciale ciechi ventesimisti 176,00 180,11 Nessuno Nessuno
Indennità accompagnamento invalidi civili totali 465,09 472,04 Nessuno Nessuno
Indennità di frequenza minorenni 246,97 255,13 4.242,42 4.382,43
Indennità comunicazione sordomuti 233,00 236,15 Nessuno Nessuno (310)

Per quanto riguarda i requisiti anagrafici del soggetto richiedente vediamo qui solo quelli relativi all'età rimandando al prossimo paragrafo la discussione circa la necessità, per gli stranieri extracomunitari, di particolari tipologie di permesso di soggiorno. Mentre infatti i cittadini italiani possono fruire senza particolari problemi di queste prestazioni per i cittadini stranieri la situazione non è altrettanto pacifica. Come si può notare dalla tabella di seguito riportata esiste un limite anagrafico di 65 anni con portata generale, tale limite viene superato solo da quelle prestazioni che comportano un costante accompagnamento e una costante cura del soggetto.

Invalidità/ minorazione accertata Età (requisito dei richiedenti ai fini della durata delle prestazioni) Prestazioni economiche possibili (in relazione all'età, all'invalidità accertata e agli eventuali redditi)
Da 74% a 99% (invalidità parziale) Dalla nascita (311) al 65.mo anno di età Pensione per invalidi civili parziali
100% (invalidità totale) Dal 18.mo al 65.mo anno di età Pensione per invalidi civili assoluti
100% (invalidità con necessità di assistenza continua - accompagnamento) Non sussiste limite di età Indennità di accompagnamento per invalidi assoluti
Sordomutismo Dalla nascita Indennità di comunicazione
Dopo il 18.mo anno di età Pensione per sordomuti
Cecità assoluta Dalla nascita Pensione per ciechi civili assoluti - Indennità di accompagnamento per ciechi assoluti - Assegno integrativo per ciechi assoluti
Cecità parziale (residuo visivo non superiore a 1/20, in entrambi gli occhi, con correzione visiva) Dalla nascita Pensione per ciechi civili parziali - Indennità speciale per ciechi parziali - Assegno integrativo per ciechi parziali

Si riscontrano quindi logiche diverse di tutela a seconda dell'età del soggetto. Tra i 18 e i 65 anni si offre un sostegno ad una persona che ha visto grandemente menomata, se non addirittura eliminata, la sua capacità di lavoro. Sotto i 18 anni si offre tutela al beneficiario non come soggetto non del tutto abile al lavoro, ma in quanto incapace di adoperarsi in quelli che sono i normali attendimenti quotidiani connessi all'età. Infine, una volta superati i 65 anni il sistema sociale non si prende più cura del soggetto sulla base della sua compromessa capacità di lavoro, ma offrendo lui le prestazioni, connesse all'età e alla carenza di redditi, proprie dell'assegno sociale. Quindi al compimento del 65º anno di età la prestazione propria dell'invalidità civile viene sostituita da quella dell'assegno sociale (312). Rimane però il problema che quest'ultima prestazione è strutturata per far fronte (e già tale scopo risulta talvolta utopistico) alla situazione di una persona di età avanzata in stato di indigenza. Qualora il soggetto oltre alle problematiche inerenti alla capacità lavorativa presenti situazioni tali da impedirgli di attendere costantemente a se stesso (problematiche simili a quelle che giustificano l'indennità di frequenza per i minori) allora avrà diritto a vedersi erogata una prestazione tale da sopperire a questa condizione, come ad esempio l'indennità di accompagnamento (313).

Come si può facilmente dedurre dalle tabelle di cui sopra le prestazioni afferenti alla tipologia dell'invalidità civile sono di vari tipi a seconda dell'età (si pensi ad esempio alle prestazioni per i minori), e della patologia mostrata (si pensi ad esempio ai ciechi civili, sordomuti e invalidi generici).

Ovviamente ciò che più interessa ai fini della nostra ricerca è l'analisi del 'modello base', quello cioè proprio dell'invalidità civile generica.

Il soggetto avrà diritto ad un assegno mensile di invalidità (o assegno mensile di assistenza) qualora, sulla base di quanto sinora illustrato, si trovi in una situazione di riduzione della capacità lavorativa superiore al 74% e sia in possesso di alcuni requisiti socio-economici. Tale prestazione viene infatti erogata a coloro "che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione sussiste" (314) e a coloro che comunque, pur svolgendola, non superano il tetto massimo di reddito stabilito. Il soggetto infatti è tenuto a rendere annualmente all'Inps una dichiarazione sostitutiva nella quale certifica di non svolgere attività lavorativa o dichiara, qualora la svolga, l'ammontare dei suoi redditi (315).

Qualora il soggetto risulti invece del tutto inabile al lavoro gli sarà riconosciuta la pensione di inabilità (civile), da non confondersi con l'omonima prestazione di carattere previdenziale. Tale pensione viene corrisposta anche qualora la persona sia ricoverata in un istituto pubblico che provvede al suo sostentamento (316). Alle persone che non siano in grado di deambulare o di svolgere autonomamente gli atti quotidiani della vita tipici dell'età può essere accordata l'indennità di accompagnamento (317). Tale indennità viene sospesa qualora la persona disabile sia ricoverata gratuitamente in strutture per lunga degenza con pagamento delle retta a carico dello Stato o di ente pubblico. Continua, invece, a essere pagata durante i periodi di ricovero per terapie (318).

Per i minori, come già accennato, è prevista una indennità di frequenza a fronte di taluni requisiti socio-reddituali (319). Questa indennità spetta a quei giovani che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti propri della loro età (320). Altra tutela posta a favore dei minori è l'indennità di accompagnamento, prestazione speculare rispetto all'omonima prevista per gli adulti.

La procedura di accertamento di ogni tipo di invalidità o inabilità civile consta di una parte sanitaria ed una amministrativa. A fronte di requisiti di natura anagrafico- socio- reddituale è necessario uno specifico accertamento che deve essere compiuto da organi appositamente preposti (321).

Il quadro è inoltre stato reso ancor più complesso dall'art. 130 c. II del d.l. 31 marzo 1998 n. 112 emanato in attuazione della legge n. 59 del 1997, che ha trasferito alle Regioni la funzione di concessione delle prestazioni per invalidi, ciechi e sordomuti civili, affidando contestualmente all'Inps l'erogazione delle stesse (322). Essendo stata effettuata delega alle Regioni della procedura di accertamento, è possibile che questa muti leggermente da una all'altra, se non addirittura tra un Comune e l'altro. Talvolta infatti si riscontra che l'Inps è stata incaricata solo dell'erogazione della prestazione mentre, talaltra, è delegata, al posto del Comune, a gestire tutta la fase amministrativa del procedimento (323).

Illustriamo quindi in questa sede la procedura-tipo che abbiamo generalmente riscontrato.

La prima fase dell'iter di accertamento è quella propria del riconoscimento sanitario della percentuale di invalidità. L'attivazione della stessa spetta al cittadino tramite presentazione di apposita domanda di accertamento/aggravamento alla Commissione invalidi civili della Asl del Comune di residenza (324). Il modulo di domanda (ap42-ss3) si può trovare presso le sedi Asl, i patronati e le associazioni dei disabili. Questo deve essere compilato dal medico il quale effettua un check-up completo del proprio paziente, così come richiesto dagli appositi campi del formulario. Una volta completo il modulo deve essere inviato presso la Commissione invalidi civili della Asl di residenza la quale provvede a fissare una visita al soggetto richiedente entro 3 mesi dalla richiesta. Qualora quest'ultimo si trovi impossibilitato a muoversi è possibile l'effettuazione della visita a domicilio. La competenza dell'accertamento sanitario è oggi delle Commissioni mediche costituite presso le aziende sanitarie locali e non più, grazie alla legge n. 295 del 1990, delle poco efficienti Commissioni sanitarie provinciali. Il verbale redatto dalla Commissione viene successivamente sottoposto ai controlli della Commissione medica di verifica del Ministero dell'economia e delle finanze (325), la quale ha un termine perentorio di 60 giorni per disporre ulteriori accertamenti. A seguito di questo controllo il verbale viene inviato in copia conforme al Comune di residenza e in originale all'interessato. Quest'ultimo in base all'art. 42 del d.l. n. 269 del 2003 può effettuare ricorso avverso l'accertamento sanitario. Qualora invece l'accertamento abbia esito utile l'invalido riceverà anche la comunicazione del Comune di avvio del procedimento, e la contestuale richiesta di compilazione di una certificazione sostitutiva di atto di notorietà. Tale documento richiede al soggetto informazioni circa la propria situazione anagrafica, sociale, reddituale, cercando di creare così un quadro completo utile alla decisione sul diritto o meno alla prestazione richiesta e sulla misura della stessa (326).

Una volta compilata e restituita la certificazione sostitutiva al competente ufficio comunale prende il via la seconda fase dell'iter di accertamento, quella gestita dal Comune di residenza e diretta alla verifica dei requisiti amministrativi e alla seguente decisione al riguardo. Il Comune crea infatti una pratica amministrativa per ogni verbale della Asl recante punteggio sufficiente e controlla la presenza dei requisiti così come dichiarati nel modulo di cui sopra. Si ricorda che nel caso d'invalidità civile non è più richiesto l'ulteriore requisito dell'iscrizione del soggetto nelle liste di collocamento speciali (com'era previsto dalla legge n. 68 del 1999) poiché tale adempimento è stato abolito dall'art. 1 c. XXIV della legge n. 247 del 2007 (327). La suddetta iscrizione, quindi, non è più un onere finalizzato all'ottenimento della prestazione monetaria, ma rimane oggi un diritto per quei soggetti che vogliano usufruire delle agevolazioni che ne derivano (328). Concluso l'accertamento il Comune adotta l'atto finale di riconoscimento o di diniego dei benefici economici. La decisione viene trasmessa per via telematica all'Inps. Contro tale atto è possibile effettuare ricorso in carta semplice al Comitato Provinciale dell'Inps entro 90 giorni (329). In caso di decisione negativa o di silenzio protratto per più di 90 giorni dalla presentazione del ricorso l'interessato può esperire ricorso giurisdizionale di fronte al giudice ordinario (330).

La terza ed ultima fase è poi quella relativa all'erogazione delle prestazioni economiche da parte dell'Inps tramite l'apposito fondo gestione istituito con l'art. 130 del d.lgs. n. 112 del 1998. L'Istituto, infatti, a fronte di una decisione positiva del Comune (o del giudice del lavoro nel caso di ricorso) eroga le relative prestazioni con decorrenza dal primo giorno del mese successivo a quello di presentazione della domanda (331), salva diversa statuizione della competente commissione sanitaria.

Nel caso in cui successivamente ad un primo accertamento la situazione sanitaria del soggetto richiedente sia peggiorata, rendendo presumibile una maggiore percentuale di invalidità la persona, tramite lo stesso modulo di richiesta di cui sopra e seguendo il medesimo iter può fare domanda di aggravamento.

Quando il beneficiario raggiunge i 65 anni la pensione e l'assegno di invalidità civile si convertono automaticamente in assegno sociale (332). La conversione però ha presentato nel corso degli anni varie difficoltà. Mentre infatti in una prima fase i requisiti di reddito per le prestazioni ai disabili e per l'assegno sociale erano identici in seguito per quest'ultimo sono stati inaspriti. Ciò ha determinato un dirottamento dell'interesse di un gran numero di soggetti sulla più accessibile pensione di invalidità. Si è avuta così una fase in cui un gran numero di soggetti, pur avendo già compiuto i 65 anni, chiedevano prestazioni di invalidità per godere dei requisiti reddituali più favorevoli (333). L'intervento della legge n. 412 del 1991 è riuscita a porre fine a questa situazione dispendiosa per le casse dello Stato restringendo il regime ad esaurimento dei soggetti over-65 che potevano accedere alle prestazioni di invalidità e riavvicinando i parametri reddituali richiesti da queste tutele con quelli propri dell'assegno sociale.

Le prestazioni a favore dei soggetti disabili sono da sempre viste come il 'buco nero' del sistema sociale italiano, nel quale si perdono gran parte delle risorse disponibili. Per far fronte al rischio di indebiti riconoscimenti di invalidità e inabilità, con cadenza che potremmo definire 'governativa', vengono approvate misure di controllo sulle varie prestazioni. Tra le più recenti giova ricordare quella prevista dall'art. 80 della legge n. 133 del 6 agosto 2008 di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 112 del 2008 (334). Tale disposizione normativa, come ci illustra la Circolare Inps n. 26 del 23 febbraio 2009, prevede per il 2009 un piano straordinario di verifica dei requisiti sanitari e reddituali di circa 200.000 beneficiari di prestazioni (335). Costante accertamento viene comunque effettuato anche dall'Inps che richiede ai beneficiari d'invalidità civile, entro il 31 marzo di ogni anno, certificazione del loro stato di iscrizione ai centri dell'impiego (336). In caso di avviamento al lavoro del soggetto invalido viene invece richiesta la dichiarazione dei redditi percepiti per poter controllare che questi non superino il tetto massimo stabilito. Se la dichiarazione non viene fornita l'Inps provvede al controllo sospendendo temporaneamente l'erogazione della prestazione.

7. L'estensione delle prestazioni di assistenza sociale al cittadino non comunitario

La normativa circa l'estensione delle tutele assistenziali e previdenziali ai cittadini comunitari, come abbiamo già visto nel primo paragrafo di questo capitolo, prende le mosse dalla volontà di garantire la libera circolazione dei lavoratori, così come stabilita dal diritto comunitario. Ugualmente non si può dubitare circa la possibilità di estendere ai cittadini di paesi terzi le tutele proprie della previdenza sociale qualora questi lavorino regolarmente in uno Stato membro. Più complessa sembra invece essere la questione nel caso di applicazione di tutele prettamente assistenziali a quest'ultima categoria di soggetti (337). Proprio in virtù di ciò abbiamo preferito rinviare la discussione sui requisiti anagrafici dell'assegno sociale e delle prestazioni di invalidità civile (quest'ultima intesa in senso generale) a questo paragrafo.

I riferimenti che possiamo trovare riguardo all'argomento rimandano a vari livelli normativi. A livello interno sicuramente possiamo incentrare la discussione sulle norme della nostra Costituzione sulla sicurezza sociale, la tutela della salute e il divieto di discriminazione, ma anche sul testo unico sull'immigrazione del 1998 e sulle successive modifiche apportate dall'art. 80 della legge n. 388 del 2000.

In una prospettiva comunitaria invece risulta di grande importanza quanto sancito dal regolamento n. 859 del 2003, i principi della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, e quanto stabilito dagli accordi di associazione e cooperazione della Comunità con alcuni paesi terzi.

Infine sul piano internazionale utili indicazioni possono derivare dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Possiamo dire subito che ciascuno di questi ambiti normativi presenta problematiche a sé e, contemporaneamente, questioni relative al raccordarsi con gli altri gruppi di normativi.

Elemento centrale del panorama italiano in materia è il già citato art. 80 della legge n. 388. L'accesso dei soggetti non appartenenti alla Comunità europea alle prestazioni sociali infatti risultava, fino al 2000, regolato dall'art. 41 del testo unico sull'immigrazione (338) che equiparava al riguardo i soggetti titolari di carta di soggiorno, o di permesso di soggiorno non inferiore ad un anno, ai cittadini italiani. La suddetta previsione che, per inciso, come vedremo, era la più conforme al dettato costituzionale e comunitario in materia, fu ritenuta però eccessivamente onerosa per le casse dello Stato. Proprio in virtù di tale onerosità, o per meglio dire, solo a causa di tale onerosità, la legge n. 388 del 2000 decise di mutare orientamento con il suo art. 80 c. IXX. La nuova previsione dispone infatti che l'accesso alle prestazioni assistenziali sia possibile solo per i cittadini extracomunitari dotati di carta di soggiorno (339) e non anche per i titolari di permesso di soggiorno superiore all'anno (340). Dal disposto dell'art. 80 sembra inoltre che riguardo alle prestazioni proprie del Sistema integrato di servizi e assistenza sociale previsti a livello regionale e locale sia ancora applicabile la normativa propria del T.U., e sia quindi sufficiente il possesso del permesso di soggiorno di durata non inferiore all'anno.

Questa differenziazione sulla base dei diversi titoli di permesso introduce una discriminazione che oltre a contrastare palesemente con i principi dell'art. 2 c. V dello stesso T.U. non sembra trovare altra giustificazione se non quella economica (341). Come avevamo già notato riguardo all'assegno sociale si innesca poi un circolo vizioso dato che uno dei requisiti per il rilascio del permesso CE è il possesso di un certo reddito, quello stesso reddito che potrebbe essere adatto ad escludere il soggetto dal beneficio di talune prestazioni assistenziali (342). Viene così creata una sorta di logica dell'assurdo secondo la quale si garantisce l'accesso alle prestazioni previdenziali a quelle persone che hanno dimostrato, almeno al momento del rilascio del permesso, di averne meno bisogno. Si deve considerare inoltre che se una delle differenze tra il permesso di soggiorno e il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo è la presenza di requisiti reddituali si rischia di applicare una discriminazione di accesso ad una prestazione assistenziale sulla base delle entrate di un soggetto, elemento che sembra confliggere con non poche disposizioni costituzionali e comunitarie.

Vari giudici di merito hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale sull'articolo in discussione rispetto ai principi sanciti dagli articoli 2, 3, 32, 38 e riguardo agli artt. 10 c. II, 35 c. III e art. 117 c. I della Costituzione, per la non conformazione del diritto interno rispetto ai dettati comunitari e internazionali dei quali diremo in seguito. Interessante tra le altre risulta essere la Sentenza della Corte cost. n. 432 del 2 dicembre 2005 nella quale si analizza, riguardo ad un caso sollevato dal Tar Lombardia, il concetto di ragionevolezza delle previsioni normative riguardanti l'assistenza sociale (343). Nel caso di specie si trattava dell'esclusione di un cittadino di un paese terzo, disabile, residente in Lombardia, dalla possibilità di usufruire gratuitamente del trasporto pubblico a causa della mancanza del requisito della cittadinanza. La Corte ha riconosciuto la necessità di porre dei parametri che limitino l'accesso a date tutele assistenziali per taluni soggetti, ma questo deve rispondere a dei criteri di ragionevolezza come può essere quello relativo alla residenza nella regione organizzatrice del servizio. L'imposto requisito della cittadinanza per la fruizione gratuita del trasporto pubblico sembrava non avere nessun riscontro normativo e di ragionevolezza, decretando così una scissione del tutto arbitraria all'interno del bacino dei possibili fruitori.

I giudici si sono trovati a doversi pronunciare sulla legittimità dell'art. 80, anche successivamente al caso lombardo, con due sentenze di estrema importanza. Con Sentenza n. 306 del 30 Luglio 2008 la Corte ha infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 80 c. IXX della legge n. 388 del 2000 e dell'art. 9 c. I del d.lgs. 286 del 25 luglio 1998 (344) "nella parte in cui escludono che l'indennità di accompagnamento, di cui all'art. l della legge 11 febbraio 1980, n. 18, possa essere attribuita agli stranieri extracomunitari soltanto perché essi non risultano in possesso dei requisiti di reddito già stabiliti per la carta di soggiorno ed ora previsti, per effetto del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 per il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo" (345).

La relativa questione era stata sollevata dal Tribunale di Brescia riguardo al ricorso di una cittadina albanese, in coma vegetativo da 6 anni, contro l'Inps e il Ministero delle finanze per il diniego dell'indennità di accompagnamento (346). In sede amministrativa le era stata negata l'erogazione della prestazione assistenziale dell'indennità di accompagnamento a causa dell'assenza del requisito stabilito dall'art. 80, il possesso cioè della carta di soggiorno. Tale titolo di soggiorno non era ottenibile dalla signora per assenza dei requisiti reddituali, data la sua condizione vegetativa. Il tribunale di Brescia aveva quindi mostrato i propri dubbi relativamente alle norme sopra indicate in rapporto con gli artt. 2, 3, 32, 35, 38 della Costituzione e per contrasto con gli artt. 10, 11, 117 Cost. in riferimento alle Convenzioni OIL n. 97 del 1949 (ratificata e resa esecutiva dalla legge 2 agosto 1952, n. 1305) e n. 143 del 1975 (ratificata e resa esecutiva con legge 10 aprile 1981, n. 158) tese a garantire ai lavoratori migranti parità di condizioni rispetto ai cittadini in materia di sicurezza sociale. L'Inps dal canto suo indicava come legittima la possibilità per il legislatore di intervenire in materia di sicurezza sociale con norme peggiorative, come stabilito dalla sentenza della Corte cost. n. 324 del 2006 (347). L'avvocatura dello Stato interveniva nel giudizio in qualità di rappresentate del Presidente del Consiglio dei ministri eccependo l'inammissibilità e l'infondatezza della questione.

La Corte ha sostenuto subito la non applicabilità del regolamento CE n. 859/2003 del Consiglio poiché la fattispecie da questo indicata presuppone, come vedremo in seguito, una pluralità di Stati coinvolti nella questione (348). Non hanno potuto trovare altresì applicazione neppure le Convenzioni OIL poiché presuppongono che il soggetto protetto sia un lavoratore. Non si è potuta infine invocare la diretta applicazione della CEDU e delle sue disposizioni contro la discriminazione poiché tale testo non fa parte del diritto comunitario (349) e non può quindi essere suscettibile di diretta applicazione.

La Corte ha sancito in definitiva il contrasto delle norme in analisi con gli articoli 2, 3, 10 c. I (350), 32, 38 della Costituzione, causa l'irragionevolezza della previsione che esige "ai fini dell'attribuzione dell'indennità di accompagnamento, anche requisiti reddituali, ivi compresa la disponibilità di un alloggio, avente le caratteristiche indicate dal nuovo testo dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998."

Successivamente è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 11 del 23 gennaio 2009. In un giudizio essenzialmente analogo rispetto a quello visto sopra il Tribunale di Prato aveva proposto controllo di costituzionalità (351). La questione era sorta a seguito del diniego nei confronti di un cittadino albanese della pensione di inabilità civile e dell'indennità di accompagnamento. Il ricorrente chiedeva la disapplicazione dell'art. 80 c. IXX della legge n. 388 del 2000 per contrasto con i regolamenti CE n. 1408 del 1971, n. 574 del 1972, n. 859 del 2003 e n. 647 del 2005, nonché con gli artt. 6 e 8 della Convenzione OIL n. 97 del 1949, con l'art. 10 della Convenzione OIL n. 143 del 1975, con l'art. 14 della CEDU e con l'art. 1 del primo protocollo addizionale della stessa (352). Il giudice di merito aveva illustrato l'impossibilità di adoperare i dettati dei regolamenti C.E. in quanto anche in questo caso, come in quello della sentenza precedente, era in gioco solo uno Stato dell'U.E. e un paese terzo. Inoltre la violazione delle succitate convenzioni OIL e della CEDU non poteva portare a disapplicazione diretta della normativa interna. Il giudice, considerata inoltre l'impossibilità di risolvere la questione in via interpretativa, proponeva questione di legittimità costituzionale. Ovviamente la linea di difesa dell'Inps davanti al Giudice delle leggi, identica rispetto a quella già fallita a Brescia, si basava sulla possibilità di modificare i requisiti di accesso alle prestazioni sociali in modo meno favorevole, così come precisato anche dalla sentenza n. 324 del 2006. L'Istituto aveva riportato inoltre come tra cittadini comunitari e di paesi terzi sussista una totale equiparazione in materia di previdenza sociale, ma non sia stato disposto altrettanto, tramite la differenziazione introdotta dall'art. 80, rispetto alle prestazioni assistenziali per evitare il fenomeno del 'turismo sociale' e contenere così la spesa sociale. Sarebbe inoltre sempre questo il motivo alla base del requisito della decennale residenza in Italia al fine della fruizione dell'assegno sociale, requisito introdotto dall'art. 20 comma X del d.l. 25 giugno 2008 n. 112 (così come modificato dalla legge di conversione n. 133 del 6 agosto 2008).

Il Tribunale di Prato prospettava quindi il contrasto della normativa riguardante la concessione di benefici assistenziali ai cittadini di paesi terzi con gli artt. 2, 3 e 117 c. I in relazione all'Art. 14 della Cedu (353).

Il giudice costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione relativa all'indennità di accompagnamento perché già risolta in senso positivo dalla sentenza n. 306 del 2008 che abbiamo visto sopra. Riguardo alla pensione di invalidità civile ha dichiarato:

"l'illegittimità costituzionale dell'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), e dell'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) - come modificato dall'art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189, e poi sostituito dall'art. 1, comma 1, del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo) - nella parte in cui escludono che la pensione di inabilità, di cui all'art. 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del d.l. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili), possa essere attribuita agli stranieri extracomunitari soltanto perché essi non risultano in possesso dei requisiti di reddito già stabiliti per la carta di soggiorno ed ora previsti, per effetto del d.lgs. n. 3 del 2007, per il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo".

Rispetto alla questione sollevata nella sentenza n. 306 il giudice rileva un ulteriore elemento di irragionevolezza dato dal fatto che requisito per fruire delle tutele assistenziali è sia la presenza di un reddito di una certa entità (per ottenere il permesso di soggiorno CE), sia la presenza di requisiti reddituali al di sotto di una certa soglia (per ottenere le prestazioni assistenziali sulla base della normativa interna) (354).

Vista quindi l'uniformità della giurisprudenza costituzionale in materia possiamo ritenere per niente inverosimile una futura serie di pronunce che, concordemente con quanto finora sancito, riescano a superare le limitazioni dell'art. 80 anche in campo di assegno sociale (355) e di assegno di invalidità, nonché relativamente alle altre prestazioni di natura assistenziale. La posizione dell'Inps e del Governo in materia sembra essere quella di un vero e proprio arroccamento che potrà essere rimosso solo da una serie di pronunce omogenee al riguardo (356).

Problematiche di non poca portata sono inoltre sorte anche con riguardo al carattere retroattivo o meno dell'articolo 80 (357). L'Inps di concerto col Ministero del lavoro ha sostenuto ovviamente, per gli stessi motivi di cassa che sembrano alla base di tutta la questione in esame, la tesi del valore retroattivo della disposizione che avrebbe quindi portato, nelle ipotesi più estreme, alla restituzione delle prestazioni ricevute per una sorta di 'indebito sopravvenuto'. Per poter avere portata retroattiva però una norma deve espressamente prevederlo o avere carattere di interpretazione autentica. L'articolo 80 non sembrava rimandare né all'uno né all'altro caso. Così dopo una serie di pronunce di vari tribunali di merito la Corte di Cassazione ha specificato con due sentenze (358) che la norma in questione non può disporre che per il futuro. La Corte costituzionale inoltre con la sentenza n. 324 del 6 ottobre 2006 configura i rapporti nascenti da tutele assistenziali come rapporti di durata e consente ai destinatari di queste prestazioni, erogate sotto la normativa 'pre-388', di continuare a fruire di tali benefici sulla scorta del requisito del permesso di soggiorno di durata superiore all'anno (359).

Viste le implicazioni di carattere interno che la questione dell'assistenza sociale ai cittadini di paesi terzi comporta si deve anche considerare quali siano i risvolti in campo sovrannazionale e se si possa prospettare in quest'ambito una soluzione di sorta.

A livello comunitario, come abbiamo già accennato, possiamo ritrovare il combinato disposto tra il regolamento n. 859 del 2003 e i regolamenti di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale n. 1408 del 1971 e n. 574 del 1972. La funzione importantissima assolta dal regolamento n. 859 consiste nell'estensione del principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, così come previsto dall'art. 3 del Reg. n. 1408, anche ai cittadini di paesi terzi legalmente residenti ed occupati nella Comunità. Nonostante l'interpretazione disattenta di alcuni giudici di merito (360) la connessione tra i regolamenti di cui sopra non può però essere considerata la risoluzione finale di tutta la querelle. Sia il Regolamento n. 1408 che il n. 859, al suo dodicesimo 'considerando', prevedono infatti per la loro applicazione che il soggetto abbia circolato all'interno dell'Unione Europea (361), non potendo quindi estendersi alle questioni riguardanti solo il paese terzo e uno Stato membro (362). Una possibile soluzione, come alcuni autori hanno prospettato (363), poteva essere fornita dell'interpretazione costituzionalmente orientata, secondo l'art. 3 Cost., delle suddette previsioni comunitarie, eliminando così ogni illogica differenziazione tra coloro che hanno circolato nell'Unione e coloro che non l'hanno fatto.

Per i cittadini tunisini, algerini, turchi e marocchini speciali accordi tra le loro nazioni e la Comunità europea dovevano garantire l'estensione dei regimi di sicurezza sociale offerti ai cittadini della Comunità dal regolamento n. 1408. Dubbi sulla portata di questi accordi sono però giunti dal Tribunale di Marsala e dalla Corte d'Appello di Palermo (364) che hanno sostenuto, contrariamente ad ogni indicazione comunitaria, che le prestazioni aventi carattere assistenziale non rientrano all'interno del principio di non discriminazione in materia di sicurezza sociale così come stabilito dagli accordi (365).

Altra base normativa comunitaria utile per la difesa dei diritti dei cittadini dei paesi terzi potrebbe essere data dalle disposizioni della Carta di Nizza del 2000, ed in particolare dal suo art. 34. Pur non volendo considerare la portata e l'influenza di tali previsioni sul diritto interno si dovrebbe però, quantomeno, notare il rischio che queste siano sottoposte, in base all'art. 51 della stessa Carta, agli stessi limiti che abbiamo già visto operare per il Regolamento n. 859 (366).

A livello poi di normativa internazionale importanti riferimenti si ricavano dal connubio degli artt. 1 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Il tribunale di Pistoia, con sentenza del 4 maggio 2007 (367) aveva infatti disapplicato l'art. 80 della legge n. 388 del 2000, riguardo alla prestazione di assegno sociale, per contrasto con la normativa internazionale di cui all'art. 14 della CEDU. Tale impostazione aveva trovato successiva conferma nella pronuncia della Corte d'Appello di Firenze (368) che richiamava, a giustificazione della disapplicazione dell'art. 80 in materia di assegno sociale, sia le disposizioni della CEDU che della Carta di Nizza. Sulla possibilità di disapplicazione della normativa interna sulla base di previsioni della CEDU si è pronunciata la Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e 349 del 2007. Entrambe queste pronunce hanno sancito l'impossibilità di disapplicare una norma interna, in base alla violazione dell'art. 10 c. I della Cost., per contrasto con la CEDU (369). Non si può neppure configurare una limitazione della sovranità nazionale così come prevista dall'art. 11. Sarà invece possibile un giudizio di costituzionalità di tali norme interne dato dalla violazione dell'art. 117 c. I Cost.

In conclusione possiamo notare come nel corso del tempo la necessità di una soluzione alla questione della fruibilità delle prestazioni di assistenza sociale da parte di cittadini di paesi terzi sia divenuta sempre più pressante. A fronte di un diritto comunitario che si trovava irretito in disquisizioni, spesso eccessivamente formalistiche, circa la circolazione o meno del soggetto tra più Stati, una svolta è intervenuta da parte della Corte costituzionale italiana. Il giudice delle leggi è ricorso infatti ai principi delle previsioni costituzionali per giudicare il tanto discusso art. 80. Potrà tornare utile in un prossimo futuro, in tema di coordinamento della sicurezza sociale europea a favore dei cittadini terzi, la possibilità di effettuare giudizio di costituzionalità rispetto all'art. 117 Cost. sulla base dei principi generali propri dell'ordinamento comunitario ed internazionale in materia, principi in gran parte coincidenti con quelli della nostra Costituzione. Le pronunce di incostituzionalità hanno quindi dimostrato la possibilità di abbattere quella legiferazione, tesa a limitare l'ingresso e la fruizione dell'assistenza sociale da parte dei cittadini di paesi terzi, che aveva dato vita ad una sorta di escalation dell'esclusione sociale nel susseguirsi delle previsioni del T.U. del 1998, dell'art. 80 della legge n. 388 del 2000, della legge n. 189 del 2002 (legge Bossi-Fini), fino ad arrivare alla previsione, da noi analizzata, dell'art. 37 c. 2 del d.l. 112 del 25 giugno 2008 (così come convertito dalla legge n. 133 del 6 agosto 2008) riguardo all'assegno sociale.

Note

1. "Pochi oggetti di analisi sono però così difficili da dominare [...] come il vasto campo che identifichiamo con l'ellittica espressione 'diritti sociali'" (M. Luciani, Sui diritti sociali, in R. Romboli (a cura di), La tutela dei diritti fondamentali davanti alle Corti costituzionali, Giappichelli, Torino, 1994, p. 80).

2. T.H. Marshall, Citizenship and social class, in T.H. Marshall, Class, Citizenship and Social Development, The University of Chicago Press, Chicago, 1964 (trad. it. Cittadinanza e classe sociale, Utet, Torino, 1976).

3. Per T.H. Marshall, op. cit., p. 92 la cittadinanza è "uno status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno diritto di una determinata comunità ".

4. Così D. Zolo, La strategia della cittadinanza, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza, appartenenza, identità, diritti, Laterza, Bari, 1994, p. 6.

5. In tal senso A. Baldassare, "Diritti sociali", in Enciclopedia giuridica, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, Vol. XI, p. 29.

6. In tal senso L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza, appartenenza, identità, diritti, cit., p. 266.

7. Critico rispetto alla generale discendenza dei diritti dalla cittadinanza, L. Ferrajoli, op. cit., p. 266. La distinzione tra diritti delle persone e diritti dei cittadini risale infatti alla Déclaration des droits de l'homme et du citoyen del 26 agosto 1789.

8. Sempre L. Ferrajoli, op. cit., p. 266 nota come anche Il Code civil di Napoleone rispecchiasse la natura di quelli civili come diritti della persona, sancendo al suo art. 7: "l'exercice des droits civils est indépendant de la de la qualité de citoyen". L'autore nota correttamente, inoltre, come non tutti i diritti sociali riguardino la qualità di cittadino, essendo alcuni di essi estensibili a qualunque persona.

9. J. M. Barbalet, Citizenship, Open University Press, Milton Keynes, 1988 (trad. it. Cittadinanza, Liviana, Padova, 1992).

10. Ivi, p. 50-51.

11. D. Zolo, op. cit., p. 11.

12. D. Zolo, ibid.

13. Così D. Zolo, op. cit., p. 33. Si deve ricordare come Barbalet, proprio in virtù di questo problema proponesse di distinguere tra 'diritto sociale' inteso come la pretesa ad una prestazione pubblica capace di essere azionata per via giudiziale e 'servizio sociale' intesa come prestazione discrezionalmente offerta dal sistema politico in base ad esigenze di tipo sociale, politiche e di ordine pubblico, non tutelabile per via giudiziale.

14. Concorde con questa posizione D. Zolo, op. cit.

15. Di questo parere E. Santoro, Le antinomie della cittadinanza: libertà negativa, diritti sociali e autonomia individuale, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza, appartenenza, identità, diritti, cit., p. 106 citando G. Zincone, Due vie alla cittadinanza: il modello societario e il modello statalista, "Rivista italiana di scienza politica", 19, 1989, 2, p. 227.

16. Così E. Santoro, ibid.

17. Secondo la classificazione di Georg Jellinek infatti i diritti di libertà civile esprimerebbero lo status negativus sive libertatis e i diritti di libertà politica lo status civitatis activae, mentre quelli sociali lo status positivus (oggi in gran parte status socialis positivus).

18. A. Pace, Diritti di libertà e diritti sociali nel pensiero di Piero Calamandrei, in P. Barile (a cura di), Piero Calamandrei. Ventidue saggi su un grande maestro, Giuffrè, Milano, 1990, pp. 695 ss.

19. E. Santoro, op. cit., p. 125.

20. H.H. Klein, Die Grundrechte in demokratischen Staat, Stuttgart, 1972, p. 65.

21. Così G. Leibholz, Der Strukturwandel der modernen Demokratie (1952), ora in Strkturprobleme der modernen Demokratie, III ed., Karlsruhe, 1967 pp. 130 ss., citato da A. Baldassarre, op. cit., p. 4.

22. In tal senso A. Baldassarre, op. cit., p. 6. Dello stato di bisogno ritorneremo a parlare nel corso del prossimo paragrafo sulla previdenza sociale.

23. In tal senso E. Santoro, op. cit., p. 116.

24. M. Mazziotti, "Diritti sociali", in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Varese, Vol. XII, pp. 805 ss. Nella stessa direzione anche il saggio di G. Pontara, Interdipendenza e indivisibilità dei diritti economici, sociali, culturali, civili e politici, in AA.VV., I diritti umani a 40 anni dalla Dichiarazione Universale, Cedam, Padova, 1989, pp. 75 ss.

25. A. Baldassarre, op. cit., p. 29.

26. Tra questi, secondo l'autore, rientrerebbero: la libertà di scelta di una professione (art. 4 Cost.), i diritti di famiglia limitatamente ai diritti di contrarre matrimonio e di procreazione (art. 29), il diritto dei genitori di scegliere l'educazione da impartire ai propri figli (art. 30), la libertà di insegnamento (art. 33), la libertà di istituire e gestire scuole (art. 33 c. III), la libertà di scelta della scuola (art. 34), la libertà di emigrazione (art. 35), la libertà sindacale (art. 39), il diritto allo sciopero (art. 40) e con tutta probabilità, sempre secondo l'autore, anche il diritto alla salute (art. 32).

27. I primi si riferirebbero a "rapporti giuridici che si istituiscono spontaneamente, cioè su libera iniziativa delle parti, accedendovi per qualificare il tipo o la quantità di talune prestazioni dovute (es. diritto alla retribuzione sufficiente, al riposo, all'assistenza familiare, diritto dei figli all'educazione, diritto a ricevere cure mediche)". I secondi invece, quelli condizionati, sono "diritti il cui godimento dipende dall'esistenza di un presupposto di fatto, vale a dire la presenza di un'organizzazione erogatrice delle prestazioni oggetto dei diritti stessi, o comunque, necessaria per rendere possibili i comportamenti o le condotte formanti il contenuto di quei diritti (es. diritto all'assistenza e alla previdenza, diritto dei lavoratori alla collaborazione nella gestione di aziende)". Sarebbero, quest'ultimi, diritti posti sotto la 'riserva del possibile o del ragionevole'.

28. In tal senso anche E. Santoro, op. cit., p. 106.

29. La citazione è di T.H. Marshall, op. cit., p. 29 da noi ripresa in maniera parzialmente impropria in quanto l'autore si riferiva alla cittadinanza e non ai diritti sociali.

30. "Diritti sociali", Nuovo dizionario giuridico, Simone, Napoli, 1996, p. 605.

31. Così M. Mazziotti, op. cit., p. 804 traendo spunto a sua volta da G. Ripert, Le regime démocratique et le droit civil moderne, Parigi, 1936.

32. L. Fassari, Previdenza sociale, in F. Del Giudice (a cura di), Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Varese, Vol. XXXV, p. 396. In Nuovo dizionario enciclopedico del diritto, Simone, Napoli, 1998, p. 1104 la previdenza sociale viene invece definita come "Branca della legislazione sociale che ha come fine la tutela del lavoratore (e dei familiari a suo carico) dai rischi della menomazione o della perdita della sua capacità lavorativa in conseguenza di eventi predeterminati (naturali o connessi al lavoro prestato)".

33. M. Persiani, Diritto della previdenza sociale, Cedam, Padova, 2007, p. 7.

34. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Giappichelli, Torino, 2008, p. 29.

35. M. Cinelli, "Previdenza sociale", in Enciclopedia giuridica, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, Vol. XXIV, p. 2. Il modello mutualistico-assicurativo, con le società di mutuo soccorso, risultava infatti più congeniale ad una realtà come quella propria dello Stato liberale propenso a lasciare il più possibile all'iniziativa privata la protezione dei lavoratori.

36. In questo modo si riesce a non far ricadere il rischio proprio di una cattiva gestione contributiva sul soggetto più debole, il lavoratore. Avremo modo di riparlare di questo istituto sia con riguardo all'art. 2116 c.c. (norma fondante del principio di automaticità) che all'interno della trattazione sulle pensioni. Si deve considerare infatti che questo tipo di tutela risulta ancora più utile nelle prestazioni previdenziali di 'lungo periodo '.

37. Si pensi, ad esempio, a quelle per i lavoratori autonomi, per i lavoratori dipendenti, per quegli agricoli, una volta funzionanti a compartimenti stagni ed oggi capaci di interagire tra di loro, spesso spostando dall'una all'altra ingenti quantità di fondi a seconda delle esigenze.

38. Tra questi sicuramente, come vedremo, il passaggio dal sistema contributivo a quello retributivo nell'erogazione delle pensioni, i regimi di cumulo tra le varie prestazioni sociali o tra quest'ultime e i redditi da lavoro. In tal senso anche M. Cinelli, Previdenza sociale, cit., p. 7.

39. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 5. Se si accetta questo tipo di definizione della liberazione dal bisogno viene a cadere ogni teoria della separazione netta tra i diritti di libertà e i diritti sociali, instaurandosi invece un'interdipendenza funzionale, alla quale avevamo già accennato, degli uni rispetto agli altri.

40. Si noti come un'ancestrale forma di tutela dallo stato di bisogno sarebbe, secondo molti autori (M. Cinelli, op. ult. cit.; M. Persiani, op. cit.), quella derivante dalla formazione familiare. Prima ancora di ogni tipo di auto-organizzazione corporativista e di ogni intervento statale in senso sociale, il soggetto ritroverebbe tutela dalle situazioni di necessità nella prima formazione sociale alla quale appartiene, quella familiare.

41. Basandosi sul modello assicurativo infatti lo schema delle assicurazioni sociali può concorrere alla liberazione dal bisogno solo dei soggetti che a quella assicurazione hanno aderito, si tratta quindi di una solidarietà limitata.

42. Sul tema M. Persiani, op. cit., pp. 26 ss.; M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 19, 80, 94; A. Baldassarre, op. cit., p. 19; M. Cinelli, Previdenza sociale, cit., pp. 3-4.

43. In tal senso M. Persiani, op. cit., p. 27.

44. Vengono spesso elencati come caratteri distintivi del modello assistenziale l'universalità e la gratuità dei suoi interventi.

45. Risulta in questo modo quanto meno 'attempata' la visione della ripartizione che i giudici costituzionali davano nella sentenza n. 31 del 1986 e che in seguito analizzeremo in dettaglio.

46. Si pensi all'istituzione, all'interno dell'Inps, della Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali, effettuata in base all'art. 37 della legge n. 88 del 1989.

47. Come sostiene infatti lo stesso M. Cinelli, Previdenza sociale, cit., p. 4 è "sempre più difficile, non solo nella pratica, ma anche nella teoria, 'separare l'assistenza dalla previdenza' [...]. Peraltro va tenuto conto che, nella sostanza, non si tratta tanto (o soltanto) di soddisfare esigenze di rigore scientifico, per la corretta ricognizione o ricomposizione dei territori di competenza, quanto, piuttosto, di confortare opzioni di ordine politico-ideologico circa i compiti dei pubblici poteri in materia sociale, e l'intensità e i caratteri del loro intervento in settori di particolare importanza e delicatezza, quali quelli qui in considerazione ".

48. In verità secondo A. Baldassarre, op. cit., p. 13 le uniche due carte costituzionali da poter raffrontare in tema di diritti sociali sarebbero quella italiana e quella spagnola, poiché tutte le altre, pur prevedendo diritti di questo tipo, lo farebbero con enunciati di scarsa significatività, soffrendo di quello che Schmidt ha definito un "deficit giuridico e social-psicologico" (W. Schmidt, I diritti fondamentali sociali nella Repubblica federale tedesca, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1981, p. 789). Baldassare continua infatti sostenendo che nella nostra carta fondamentale "tutti i 'diritti sociali' riconosciuti nella legislazione o nella giurisprudenza hanno avuto fino ad ora una precisa base costituzionale, la quale consta quasi sempre di una esplicita norma ad hoc, o in casi eccezionali (diritto all'ambiente), di un complesso di disposizioni dalle quali si può agevolmente desumerne la garanzia".

49. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., pp. 4-5.

50. Così Piero Calamandrei. In tal senso A. Giovannelli, Assemblea costituente, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988, III, p. 9.

51. Delle singole norme riguardanti previdenza ed assistenza sociale parleremo più avanti, è qui il caso di citare, tra le previsioni costituzionali riguardanti i diritti sociali: il diritto al lavoro di cui all'art. 4, il connesso diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all'art. 36 c. I, il diritto all'istruzione di cui all'art. 34, il diritto alla salute di cui all'art. 32.

52. Così A. Baldassare, op. cit., p. 6.

53. Ivi, p. 12.

54. Ivi, p. 10.

55. Corte cost. 5 febbraio 1986, n. 31, in "Foro it.", 1986, I, p. 1770.

56. In tal senso M. Persiani, op. cit., p. 15.

57. In questo senso basti pensare, ad esempio, al fatto che, pur esistendo prestazioni per persone anziane in stato di indigenza (assegno sociale), per persone disabili (prestazioni di invalidità e inabilità civile), per famiglie numerose e per persone che abbiamo perso l'impiego (prestazioni di disoccupazione), niente viene generalmente previsto per chi del tutto abile al lavoro e in età lavorativa non si attivi nella ricerca di un impiego e nel raggiungimento di un reddito sufficiente. È richiesta a questi soggetti un'attivazione, un contributo a quella solidarietà di cui parla l'art. 2 Cost.

58. L'art. 35 c. I Cost. recita infatti "La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni" mentre l'art. 2060 c.c. "il lavoro è tutelato in tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali".

59. In tal senso M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 80.

60. Art. 38 c. IV Cost.: "Ai compiti previsti da questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato".

61. L'art. 36 Cost. è il fondamento del diritto ad un'equa retribuzione, alla durata massima della giornata lavorativa, al riposo settimanale e alle ferie da parte del lavoratore. Quello che qui ci interessa nel rapporto con l'art. 38 è il c. I il quale stabilisce che: "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa".

62. In tal senso M. Persiani, op. cit., p. 17.

63. Se consideriamo però la crescente crisi del sistema previdenziale e la continua tendenza di questo a garantire prestazioni sempre inferiori o comunque standardizzate, delegando all'autonomia privata, con la previdenza complementare, la garanzia del mantenimento del tenore di vita, vediamo come tale interpretazione tenda a perdere la propria veridicità.

64. Si noti che in questo caso il termine 'assistenza' viene comunemente interpretato come il connubio degli elementi di previdenza e assistenza sociale, non avendo significato prettamente tecnico. In questo senso la dottrina tutta (si ricorda a titolo indicativo M. Persiani, op. cit., p. 17). Fondamento dello stesso principio sarebbe inoltre da riscontrarsi nel c. IV dell'art. 38 il quale prevedendo la possibilità dello Stato non solo di predisporre ma anche di integrare organi e istituti destinati a tutelare i lavoratori ammette implicitamente (col termine 'integrare') la possibilità di una attivazione dei privati in tal senso.

65. Che appartengono appunto al § III (della previdenza e assistenza) della sez. III (del rapporto di lavoro) del capo I (dell'impresa in generale) del quale parlavamo sopra.

66. L'articolo in questione recita:

"Salvo diverse disposizioni della legge, l'imprenditore e il prestatore di lavoro contribuiscono in parti eguali alle istituzioni di previdenza e assistenza.
L'imprenditore è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali.
È nullo qualsiasi patto diretto ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza o all'assistenza
".

67. Si presuppone la maggior solvibilità del datore di lavoro rispetto al lavoratore.

68. "Le prestazioni indicate nell'art. 2114 sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l'imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali (o delle norme corporative).

Nei casi in cui, secondo tali disposizioni, le istituzioni di previdenza e di assistenza, per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute, l'imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro".

69. Il sistema di automaticità delle prestazioni riesce a tutelare il soggetto lavoratore in casi di mancata o errata contribuzione da parte del datore di lavoro. In questo modo si riesce a non far ricadere il rischio proprio di una cattiva gestione contributiva sul soggetto più debole, il lavoratore. Avremo modo di riparlare di questo istituto all'interno della trattazione sulle pensioni. Si deve considerare infatti che questo tipo di tutela risulta ancora più utile nelle prestazioni previdenziali di 'lungo periodo '.

70. Nella disoccupazione ordinaria a requisiti ridotti, ad esempio, l'anzianità contributiva risalente oltre i due anni precedenti risulta essere elemento della fattispecie che porta all'erogazione dell'indennità.

71. Si tratta dei casi speciali in cui nemmeno il principio di automaticità riesce a garantire la prestazione.

72. Tra queste è appena il caso di citare le fonti normative di maggior rilievo che poi ritroveremo nel corso dei singoli paragrafi: il T.U. sugli assegni familiari n. 797 del 1955; per l'assicurazione contro l'invalidità, la vecchiaia e la disoccupazione involontaria il r.d.l. n. 1827 del 1935, il r.d.l. 636 del 1952, il d.p.r. n. 818 del 1957, la l. 222 del 1984 e la l. 335 del 1995; per l'assistenza sociale la legge n. 328 del 2000.

73. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 103.

74. Così come modificata dalla legge n. 11 del 4 febbraio 2005 (Legge Buttiglione).

75. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 97.

76. Si vedano per tutte: Carta sociale europea parte I, art. 12 (diritto alla sicurezza sociale), 16, 19 (dei lavoratori migranti e delle loro famiglie alla protezione ed all'assistenza), 24 (diritto ad una tutela in caso di licenziamento).

77. Si ricordino tra le altre quelle apportate da: l'Atto unico europeo del 1986, il Trattato di Maastricht del 1992, il Trattato di Amsterdam del 1997 (o Trattato dell'Unione europea), Trattato di Nizza del 2001, Trattato di Atene del 2003 e Trattato di Lisbona del dicembre 2007.

78. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 38.

79. Art. 34 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea:

"c. 1. L'Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto dell'Unione e le legislazioni e prassi nazionali.
c.2. Ogni persona che risieda o si sposti legalmente all'interno dell'Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali.
c.3. Al fine di lottare contro l'esclusione sociale e la povertà, l'Unione riconosce e rispetta il diritto all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa volte a garantire un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell'Unione e le legislazioni e prassi nazionali
".

80. Grazie all'estensione, che vedremo tra poco, effettuata dal regolamento n. 859 del 2003.

81. Ricordiamo anche come sulla scia dell'approvazione di questa disciplina sistematica in materia sociale, che sembra aver preso il via dal Consiglio di Edimburgo del 1992, la Commissione europea occupazione e affari sociali diede alla stampa anche un'utile guida intitolata "I diritti di coloro che si spostano nell'Unione Europea" alla quale i cittadini possono attingere per la comprensione delle tutele offertegli.

82. Si veda al riguardo il n. 7 dei considerando nel prologo del suddetto regolamento: "In ragione delle importanti differenze esistenti fra le legislazioni nazionali riguardo al loro ambito d'applicazione ratione personae, è preferibile stabilire il principio secondo cui il presente regolamento si applica ai cittadini di uno Stato membro, agli apolidi e ai rifugiati residenti nel territorio di uno Stato membro che sono o sono stati soggetti alla legislazione di sicurezza sociale di uno o più Stati membri, nonché ai loro familiari e superstiti".

83. Al riguardo n. 4 e 5 dei considerando nel prologo del citato regolamento:

"(4) È necessario rispettare le caratteristiche proprie delle legislazioni nazionali di sicurezza sociale ed elaborare unicamente un sistema di coordinamento.
(5) È necessario, nell'ambito di un tale coordinamento, garantire all'interno della Comunità alle persone interessate la parità di trattamento rispetto alle diverse legislazioni nazionali
".

84. Si veda il Titolo III del regolamento 883\2004 titolato "Disposizioni specifiche riguardanti le varie categorie di prestazioni".

85. Si veda al riguardo anche Circolare Inps n. 118 del 1º luglio 2003 "Estensione del campo di applicazione soggettivo della regolamentazione comunitaria di sicurezza sociale".

86. Art. 1 regolamento 859 del 2003: "Fatte salve le disposizioni di cui all'allegato del presente regolamento, le disposizioni del regolamento (CEE) n. 1408/71 e del regolamento (CEE) n. 574/72 si applicano ai cittadini di paesi

terzi cui tali disposizioni non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità, nonché ai loro familiari e superstiti, purché siano in situazione di soggiorno legale nel territorio di uno Stato membro e si trovino in una situazione in cui non tutti gli elementi si collochino all'interno di un solo Stato membro". Per questa norma è necessario quindi che gli elementi della prestazione riguardino almeno 2 o più Stati membri, cioè che il soggetto extracomunitario abbia circolato all'interno dell'U.E. non limitandosi a svolgere attività in un solo Stato.

87. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 39.

88. Si pensi ad esempio ai vari accordi in materia di sicurezza sociale che analizzeremo in maniera approfondita nei paragrafi riguardanti le pensioni e l'assegno per il nucleo familiare.

89. Si vedano ad esempio Algeria, Marocco, Tunisia come porta giustamente a cognizione M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 84.

90. Si noti che non abbiamo sostenuto la totale assenza di previsioni che escludano o limitino l'accesso alle prestazioni sociali sulla base dello stato di detenzione dl soggetto, in tal senso vedremo infatti quanto stabilito dall'istituto della Carta acquisti.

91. Si pensi ad esempio all'assegno sociale o all'invalidità civile.

92. Spesso, infatti, i limiti di reddito messi a sbarramento della fruizione delle tutele di stampo assistenziale non costituiscono alcun ostacolo per la popolazione detenuta, vuoi per la situazione di indigenza precedente alla carcerazione, vuoi per la scarsità dei salari carcerari.

93. Mediamente la popolazione carceraria mostra posizioni contributive alquanto disastrate. Ragioni di questa condizione potrebbero essere riscontrate in molteplici fattori, tra i quali: lo stato di emarginazione che ha condotto il soggetto in limine societatis prima della carcerazione (non lasciandogli modo di effettuare alcuna attività lavorativa), la conduzione di una vera e propria 'carriera criminale' ben lontana da ogni aspetto lavorativo, lo svolgimento di attività lavorativa al 'nero', l'irregolarità del soggiorno sul territorio dello Stato. Quest'ultimo elemento dà luogo, come vedremo, ad una serie di peculiarità dal momento che lo stato di detenzione costituisce per il soggetto clandestino elemento di temporanea regolarizzazione. Quello svolto durante la detenzione sarà quindi per questi soggetti il primo lavoro regolare in cui si trovino occupati (sulla particolarità di questa situazione ritorneremo abbondantemente nel capitolo II par. 1.1.8).

94. Parr. 3.5 e ss.

95. Del requisito della involontarietà dello stato di disoccupazione ci occuperemo in seguito in maniera approfondita.

96. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., pp. 288 ss.

97. Al riguardo si ricordino a livello europeo i Fondi strutturali della Comunità europea e la Banca europea per gli investimenti, in ambito nazionale invece il Fondo per il rientro dalla disoccupazione, il Fondo per le politiche sociali, il Fondo per lo sviluppo e il Fondo per l'occupazione.

98. Si vedano al riguardo i requisiti relativi alla composizione del reddito per l'assegno per il nucleo familiare.

99. Si consideri, come si vedrà più avanti, che in tempi recenti la qualifica di evento protetto, capace di far scattare l'operatività della suddetta tutela è stata estesa anche alla sospensione del rapporto di lavoro.

100. Come infatti ha stabilito Cass. 6 febbraio 2003, n.1732 in "Riv.giur.lav.", 2003, II, pp. 436-437: "L'evento che dà luogo alla tutela previdenziale non è la disoccupazione in genere ma solo l'inattività derivante dall'estinzione o dall'interruzione di un rapporto di lavoro, rimanendo perciò esclusi i soggetti in cerca di prima occupazione".

101. Mentre nel primo caso tale periodo, nel quale dovrebbe convenzionalmente realizzarsi lo stato di bisogno che dà vita alla prestazione, era computato in 8 giorni nel secondo veniva ad essere di 30 giorni. In caso di disoccupazione volontaria quindi la prestazione di disoccupazione sarebbe decorsa a partire dal trentesimo giorno.

102. Corte cost. 24 giugno 2002, n. 269 in "Dir. Prat. lav.", 2002, p. 2148. La questione era stata sollevata circa la disposizione dell'art. 34 c. V della legge finanziaria del 1999 (legge 23 dicembre 1998 n. 448) che, nell'escludere il diritto all'indennità di disoccupazione, non distingue tra dimissioni per giusta causa e altre forme di recesso dal contratto di lavoro.

103. "Sulla base di quanto finora indicato dalla giurisprudenza, si considerano 'per giusta causa' le dimissioni determinate:

  1. dal mancato pagamento della retribuzione;
  2. dall'aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro;
  3. dalle modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;
  4. dal c.d. mobbing, ossia di crollo dell'equilibrio psico-fisico del lavoratore a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi (spesso, tra l'altro, tali comportamenti consistono in molestie sessuali o 'demansionamento', già previsti come giusta causa di dimissioni). Il mobbing è una figura ormai accettata dalla giurisprudenza (per tutte, Corte di Cassazione, sentenza n.143/2000);
  5. dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell'azienda (anche Corte di Giustizia Europea, sentenza del 24 gennaio 2002);
  6. dallo spostamento del lavoratore da una sede ad un'altra, senza che sussistano le 'comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive' previste dall'art. 2103 codice civile (Corte di Cassazione, sentenza n. 1074/1999);
  7. dal comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente (Corte di Cassazione, sentenza n.5977/1985)".

104. Originariamente fino ad un limite massimo di 65 giornate, limite adesso derogabile grazie all'art. 1 c. 84 della legge n. 247 del 2007.

105. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 339.

106. Al riguardo si veda anche messaggio Inps del 8 maggio 2006, n. 13536.

107. F. Miani Canevari, Costituzione e protezione sociale. Il sistema previdenziale nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in "Quaderni della rivista del diritto della sicurezza sociale", 2007, pp. 143-144.

108. Si pensi alla nota alla suddetta sentenza di A. Andreoni, Part-time verticale e indennità di disoccupazione: chi ha paura della Corte costituzionale?, in "Riv. giur.lav.", 2003, II, p. 436.

109. Corte cost. 24 marzo 2006, n. 121, in "Riv.dir.soc.", 2006, p. 559. In verità la Corte si limitò a dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, ma così facendo avallò la decisione delle Sezioni unite.

110. "Non è necessario che la disoccupazione sia assoluta, essendo sufficiente la perdita dell'attività lavorativa principale. Nel settore agricolo, in particolare, occorre un'occupazione inferiore ad un determinato numero di giornate all'anno".

111. Si ricordino quantomeno le tutele afferenti al modello della Cassa integrazione, della mobilità e dei trattamenti speciali per l'edilizia.

112. Si veda al riguardo anche Guida Inps alle prestazioni di disoccupazione, pag. 7, dal sito INPS.

113. Si stia bene attenti a come, mentre il lavoratore extracomunitario con permesso di soggiorno stagionale non può accedere a questa tutela, i lavoratori stagionali che non si trovino in suddette condizioni possono fruirne regolarmente. Ciò deriva dal fatto che i lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno per lavoro stagionale, in base al d. lgs. n. 286 del 1998, art. 25, commi 1 e 2, non sono assicurati per la disoccupazione e per i trattamenti di famiglia. Analoga situazione la riscontreremo infatti anche trattando degli assegni per il nucleo familiare.

114. Si vedrà poi come tale requisito sia presente, per continuità di disciplina, anche nella disoccupazione ordinaria a requisiti ridotti, con lo scopo, in entrambi le sedi, di mettere fine a periodi lavorativi preordinati al solo conseguimento dell'indennità di disoccupazione.

115. Art. 19, legge n. 1272 del 1939.

116. Il modello e-mens è stato introdotto dall'art. 44, comma 9, della legge del 24 novembre 2003, n. 326, a far data dal 1º gennaio 2005. Mentre in un primo momento tale metodo di denuncia contributiva era utilizzato solo per le prestazioni pensionistiche con la circolare di cui sopra si è deciso di utilizzarlo anche per le indennità di disoccupazione non agricola. Per la problematica relativa alla trasmissione e-mens dagli istituti penitenziari si veda il par. 4 del cap. II.

117. Art. 1 c. XXV legge n. 247 del 2007.

118. Circolare Inps n. 11 del 27 gennaio 2009.

119. Così M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 342.

120. Sentenze Corte cost. 24 aprile 1988 n. 497 e 13 luglio 1994 n. 288.

121. La misura dell'indennità di disoccupazione era stabilità nell'anno 1990 nel 15% del reddito mensile percepito con l'attività lavorativa, nel 1991 (legge n. 169 del 1991) tale percentuale venne poi elevata al 20% per giungere infine al 50% nel 2005 (art. 13 c. II legge n. 80 del 2005).

122. Pensione di anzianità, di vecchiaia, di inabilità, pensionamento anticipato, assegno di invalidità. L'indennità di disoccupazione risulta invece interamente cumulabile con pensioni indirette o di guerra quali pensioni di invalidità civile, assegno sociale, rendite da infortuni, ecc.

123. Come vedremo, la contribuzione figurativa risulta connessa anche ad altre tutele per la disoccupazione quali l'indennità ordinaria a requisiti ridotti, la mobilità e la Cassa integrazione. Tale prestazione accessoria risulta quanto mai utile in una società che fa sempre più ricorso a queste forme di tutela, al fine di garantire la popolazione lavorante contro il rischio di un impoverimento di lungo periodo, derivante cioè dall'impossibilità di accesso agli istituti pensionistici per assenza di contribuzioni. Si deve far presente, senza approfondire ulteriormente, che per ogni istituto di tutela contro la disoccupazione i contributi figurativi hanno valenza diversa in rapporto al diritto e alla misura delle prestazioni pensionistiche. Per ogni forma di tutela si deve però analizzare in maniera specifica la capacità della relativa contribuzione figurativa a concorrere per il diritto, per la misura, o per entrambi i fattori di talune prestazioni pensionistiche.

124. Per precisione: in caso di richiesta di disoccupazione ordinaria a requisiti normali, qualora si vogliano richiedere gli assegni per il nucleo familiare, dovrà essere allegato alla domanda il modello anf\prest. Nel modulo ds 21 req. rid. (disoccupazione ordinaria a requisiti ridotti) invece si dovrà solamente compilare gli appositi campi e fornire la documentazione richiesta. Come vedremo nel prossimo capitolo l'essere destinatario di indennità di disoccupazione dà diritto all'accesso alla tutela degli assegni per il nucleo familiare.

125. Legge n. 160 del 1988 art. 7; legge n. 169 del 1991 art. 1. Si ricorda che al fine del conteggio dei giorni lavorati vengono computate anche le giornate non lavorate ma indennizzate quali quelle in malattia, maternità, ecc. Risulta inoltre molto utile ai fini della nostra analisi ricordare anche che il computo della giornata come lavorativa è indipendente dalle ore di lavoro effettuate e dalla retribuzione percepita, e che qualora l'orario settimanale sia articolato su 5 giorni il 6º si considera come lavorato.

126. Tale previsione, come vedremo nei prossimi capitoli, non è affatto priva di rilievo dal punto di vista tecnico, specie all'interno degli istituti penitenziari.

127. Si noti infatti come i campi 'n' e 'o' dell'attuale modello ds 21 req. rid. corrispondano perfettamente ai campi 'c', 'd' ed 'f' del vecchio modulo per la richiesta di assegni per il nucleo familiare (nel paragone utilizziamo il vecchio modulo solo per l'assenza della ripartizione in campi del nuovo).

128. Tale nuova quantificazione dell'indennità erogata è in vigore dal 1º gennaio 2008, grazie all'art. 1 c. XXV della legge n. 247 del 2007, in precedenza l'indennità corrispondeva al 30% della retribuzione di riferimento. Al riguardo si veda anche Circolare Inps n. 24 del 20 febbraio 2009.

129. Circa l'utilità di questa contribuzione figurativa ai fini del raggiungimento del diritto o alla composizione della misura di alcune prestazioni pensionistiche o previdenziali in generale vale quanto detto a proposito della disoccupazione ordinaria a requisiti normali.

130. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., pp. 344 ss.

131. D.p.r. n. 1049 del 3 dicembre 1970.

132. Art. 34 c. V legge n. 448 del 1998.

133. Art. 1 c. XXV legge n. 247 del 2007.

134. Circolare Inps n. 24 del 20 febbraio 2009.

135. Art. 1 c. 56 della legge n. 247 del 24 dicembre 2007.

136. Come recita la stessa Circolare Inps n. 24 del 20 febbraio 2009: "agli operai agricoli a tempo determinato iscritti negli elenchi per più di 100 giornate ed a quelli che, cumulando l'attività agricola e non agricola, superano le 150 giornate, verrà riconosciuto il diritto all'accredito figurativo valido ai fini della pensione di anzianità per un numero di giornate non superiore a 90. Le eventuali giornate residue indennizzate saranno utili soltanto ai fini della pensione di vecchiaia".

137. Art. 9 legge n. 427 del 1975; art. 11 legge n. 223 del 1991.

138. Si ricordi al riguardo che in base alla sentenza della Cassazione n. 1888 del 18 febbraio 2000, in "Foro it.", 2000, I, p. 2478 tale trattamento spetta anche ai soci lavoratori di società cooperative edili.

139. Stabilito per l'anno 2009 in "euro 579,49 che, al netto della riduzione del 5,84 %, è pari a euro 545,65". Come previsto dalla Circolare Inps n. 11 del 27 Gennaio 2009.

140. Art. 11 c. II legge n. 223 del 1991: "Nelle aree nelle quali il CIPI, su proposta del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, accerta la sussistenza di uno stato di grave crisi dell'occupazione conseguente al previsto completamento di impianti industriali o di opere pubbliche di grandi dimensioni, ai lavoratori edili che siano stati impegnati, in tali aree e nelle predette attività, per un periodo di lavoro effettivo non inferiore a diciotto mesi e siano stati licenziati dopo che l'avanzamento dei lavori edili abbia superato il settanta per cento, il trattamento speciale di disoccupazione è corrisposto nella misura prevista dall'articolo 7 e per un periodo non superiore a diciotto mesi, elevabile a ventisette nelle aree di cui al testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 1978, n. 218. I trattamenti di cui al presente articolo rientrano nella sfera di applicazione dell'articolo 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88".

141. Corte cost. 22 luglio 1996, n. 287, in "Giust. civ.", 1996, I, p. 2802.

142. Circolare Inps n. 128 del 21 Giugno 2001.

143. Corte cost. 2 luglio 1992 n. 337.

144. F. Miani Canevari, op. cit., p. 148.

145. Assegni per lavoratori disoccupati che prestino la propria opera come volontari nei cantieri di lavoro, che frequentino corsi di qualificazione professionale; assegni di incollocamento a favore dei lavoratori disoccupati mutilati o invalidi civili erogati dall'Inail, sussidio straordinario di disoccupazione e indennità per lavoratori migranti o frontalieri (quest'ultima tutela sembra avere natura assistenziale nonostante gravi dal punto di vista finanziario sull'assicurazione obbligatoria, si veda al riguardo M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 346.), la borsa lavoro destinata ai giovani disoccupati delle zone del mezzogiorno.

146. Riguardo all'importantissimo tema dell'accesso alle prestazioni di natura assistenziale da parte di cittadini di paesi terzi si veda l'apposito paragrafo n. 7.

147. Nel capitolo II vedremo l'importanza che tutta questa tutela ha per le persone recluse.

148. Si veda al riguardo: Disposizioni comunitarie sulla sicurezza sociale, I diritti di coloro che si spostano nell'Unione europea, redatto a cura della Commissione europea, Direzione generale dell'Occupazione, degli affari sociali e delle pari opportunità, Unità E.3, pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, 2005.

149. Disposizioni comunitarie sulla sicurezza sociale, cit., p. 33.

150. Nel caso di richiesta di prestazioni di disoccupazione, i moduli, denominati serie E 300, certificano il periodo lavorativo svolto da quel soggetto in quel determinato Stato e possono essere presentati all'istituto previdenziale del nuovo Stato in cui si svolgerà il nuovo lavoro, al fine di poter accedere alle prestazioni di disoccupazione previste. Se prendiamo in analisi uno di questi moduli ci rendiamo conto di come il problema linguistico sia superato dall'utilizzo di modelli a campi fissi. Le prime due caselle in alto a destra servono infatti all'operatore per individuare facilmente quale sia lo Stato di provenienza di quella modulistica, e quindi dell'ente che certifica quei periodi lavorativi. Ogni altra casella richiede gli stessi dati nei moduli di ogni nazione. L'operatore quindi pur non conoscendo la lingua del documento che si trova ad analizzare, potrà trarne informazioni paragonandolo al modello riportante lo stesso codice (ad esempio E 301) redatto nella sua lingua. In questa maniera si ha un estremo snellimento delle procedure che, coadiuvato da una continua armonizzazione e coordinamento delle discipline dei vari stati, sta portando ad una progressiva unificazione del sistema di sicurezza sociale di tutta la Comunità europea. Esiste infatti tutta una serie di formulari che prendono origine da tale numerazione: E 301 attestato relativo ai periodi da prendere in considerazione per la concessione delle prestazioni di disoccupazione; E302 Attestato periodi utili per la disoccupazione per i familiari del lavoratore disoccupato; E 303/0 Attestato conservazione diritto alle prestazioni di disoccupazione (per il lavoratore); E 303/1 Attestato conservazione diritto alle prestazioni di disoccupazione (per l'Istituzione del luogo di ricerca di lavoro, base per l'erogazione della prestazione); E 303/2 Attestato conservazione diritto alle prestazioni di disoccupazione (per l'Istituzione competente per comunicare l'inizio prestazioni); E 303/3 Attestato conservazione diritto alle prestazioni di disoccupazione (per l'Istituzione di assicurazione malattia); E 303/4 Attestato conservazione diritto alle prestazioni di disoccupazione (per l'Istituzione competente per il rimborso delle prestazioni erogate a carico del lavoratore).

151. Vedremo nell'apposito paragrafo n. 7 la difficoltà di applicazione di analoga estensione alle prestazioni a carattere assistenziale.

152. Si veda al riguardo art. 443 c.p.c.

153. Come viene immediatamente precisato: "I tempi indicati nelle tabelle che seguono decorrono dalla data di presentazione in INPS della domanda/istanza o dalla data di decorrenza, se successiva, e si riferiscono a domande/ istanze correttamente compilate e complete della documentazione necessaria".

154. Bilancio sociale Inps per l'anno 2006 pp. 353-354, dal sito INPS.

155. Si ricordino al riguardo gli artt. 29, 30 c. II, 31, 37 Cost.

156. Così M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 540.

157. Vedremo in seguito nel paragrafo 3.5 del cap. II quale concetto di famiglia venga in gioco nel caso del nuovo Bonus famiglie.

158. A conferma della presenza di varie accezioni del termine famiglia in campo giuridico e delle conseguenze che questo comporta si consideri come la ripartizione dell'indennità in caso di morte del lavoratore, in base all'art. 2122 c.c., avvenga in maniera del tutto diverso dal principio della legittima usato nelle normali successioni, poiché in questo caso ci si basa sul criterio del 'bisogno di ciascuno'.

159. Nel 1933 era stato infatti fondato l'Istituto nazionale fascista della previdenza sociale.

160. Quali i soci delle società cooperative, i titolari di trattamenti pensionistici dell'assicurazione generale obbligatoria (v. l.114\1974) e determinate categorie di lavoratori autonomi e disoccupati (si vedano inoltre l. n. 1038\1961, l. n. 36\1967, l. n. 161\1975).

161. Vedremo nel Capitolo II, parlando degli Anf per i lavoratori detenuti, a quali differenze e problemi possa portare la configurazione di queste prestazioni come elemento retributivo piuttosto che come prestazioni previdenziali.

162. In tal senso M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 551.

163. Hanno tuttora diritto a questa prestazione infatti:

  • i coltivatori diretti, mezzadri e coloni, piccoli coltivatori diretti;
  • i pensionati delle Gestioni Speciali per i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, coloni e mezzadri).

164. Così come introdotto dall'art. 2 della legge 17 ottobre 1961 n. 1038 che recitava: "In mancanza di convivenza, la prova della vivenza a carico può essere fornita anche con atto notorio".

165. Si confronti al riguardo par. 3.2 del cap. II sulla prassi instaurata per la richiesta di assegni familiari all'interno degli istituti penitenziari per i lavoratori reclusi alle dipendenze dell'amm.ne penitenziaria.

166. Si ricordi riguardo al concetto di "capofamiglia" la decisione della Corte cost. del 7 Luglio 1980 n. 105, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli art. 3 c. I e VI, nella parte in cui escludevano la possibilità di erogazione degli assegni familiari alla donna lavoratrice per i figli e il marito a carico, superando così finalmente ogni ingiusta disparità tra i due coniugi. Sul tema era già intervenuto l'art. 9 della legge n. 903 del 1977.

167. Art. 1 c. 559 Legge n. 311 del 2004: "Fermi restando i requisiti di cui all'articolo 2 del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 153, a decorrere dal periodo di paga in corso al 1º gennaio 2005, l'assegno per il nucleo familiare viene erogato al coniuge dell'avente diritto". Si confronti inoltre capitolo II par. 3.2 e la relativa disciplina dell'art. 23 o.p.

168. Art. 80 c. 12 legge n. 388 del 2000: "La disposizione di cui al comma 16, quarto periodo, dell'articolo 59 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, si interpreta nel senso che l'estensione ivi prevista della tutela relativa alla maternità e agli assegni al nucleo familiare avviene nelle forme e con le modalità previste per il lavoro dipendente".

169. Art. 2 c. IX legge n. 153 del 1988. Si ricordi che al riguardo non vengono considerati: le pensioni tabellari ai militari di leva vittime di infortunio, le pensioni di guerra, le rendite Inail, le indennità di accompagnamento agli inabili civili, ai ciechi civili assoluti, ai minori invalidi non deambulanti, le indennità ai ciechi parziali e ai sordi perlinguali, le indennità di frequenza ai minori mutilati e agli invalidi civili, gli assegni di superinvalidità sulle pensioni privilegiate dello Stato, le indennità di accompagnamento ai pensionati di inabilità Inps, le indennità di trasferta per la parte esclusa da Irpef, i trattamenti di famiglia, i trattamenti di fine rapporto o loro anticipazioni, gli arretrati delle integrazioni salariali.

170. A titolo di esempio:

Tabella 11 - Nuclei familiari con entrambi i genitori e almeno un figlio minore, in cui non siano presenti componenti inabili.
Tabella 12 - Nuclei familiari con un solo genitore e almeno un figlio minore, in cui non siano presenti componenti inabili.
Tabella 13 - Nuclei familiari orfanili composti solo da minori non inabili.
Tabella 14 - Nuclei familiari con entrambi i genitori e almeno un figlio minore, in cui sia presente almeno un componente inabile e nuclei familiari con entrambi i genitori senza figli minori e con almeno un figlio maggiorenne inabile.
Tabella 15 - Nuclei familiari con un solo genitore e almeno un figlio minore, in cui sia presente almeno un componente inabile e nuclei familiari con un solo genitore, senza figli minori e con almeno un figlio maggiorenne inabile.
Tabella 16 - Nuclei familiari orfanili composti da almeno un minore, in cui sia presente almeno un componente inabile.
Tabella 19 - Nuclei familiari orfanili composti solo da maggiorenni inabili.
Tabella 20/A - Nuclei familiari con entrambi i coniugi e senza figli in cui sia presente almeno un fratello, sorella o nipote inabile.

171. Per i parametri da applicarsi nell'annualità 2009 si consulti Circolare Inps n. 2 del 7 gennaio 2009.

172. Ciò lo si comprende anche dai quadri 'E' (dichiarazione di responsabilità del richiedente) ed 'F' (dichiarazione di responsabilità del coniuge del richiedente) dell'apposito modulo di richiesta Anf\Dip.

173. Art. 6 legge n. 153 del 1988. Ogni mutamento della composizione del nucleo familiare deve essere prontamente portato all'attenzione dell'Inps o del datore di lavoro (a seconda di quale sia il soggetto erogante) tramite l'apposito modulo Anf\Var.

174. Si veda al riguardo nota 190.

175. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 552.

176. Tale esclusione risulterà a noi di estremo conforto nell'analisi degli assegni per il nucleo familiare richiesti da soggetti reclusi. Si ricordi che la convivenza risultava richiesta per i figli naturali legalmente riconosciuti da entrambi i genitori. In questo caso i figli avevano diritto all'assegno familiare se erano conviventi col genitore che aveva un reddito da lavoro dipendente. Se il genitore-convivente era invece privo di reddito non vi potevano accedere. Questa disciplina, che dava luogo ad una vera e propria carenza di tutela, è stata modificata dalla Sent. Cass. 7 aprile 2000, n. 4419 e dalla Circolare inps n. 36 del 19 marzo 2008 che sostituisce definitivamente la disciplina della Circ. Inps n. 48 del 1992. La suddetta circolare ha fatto in modo che in tali circostanze il genitore non convivente potesse richiedere ugualmente l'assegno familiare che viene così erogato direttamente al genitore convivente. In tali condizioni il reddito considerato sarà però quello del genitore convivente (che dovrà compilare l'apposito modulo anf\fn) e non quello del genitore richiedente (che dovrà invece compilare il normale modulo anf\dip senza però indicare i propri redditi.).

177. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 552.

178. Così come previsto dall'articolo 6 bis del dl. 13 marzo 1988, n. 69 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento delle pensioni degli enti portuali ed altre disposizioni urgenti) convertito in legge n. 153 del 1988 che recita: "Non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia".

179. Quali: Liechtenstein, Norvegia, Islanda, Confederazione Elvetica, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Quebec, Capoverde, Croazia, Repubbliche ex Jugoslavia, Monaco, San Marino, Stati Uniti, Tunisia, Uruguay, Vaticano, Venezuela.

180. Si veda riguardo alle limitazioni poste alla richiesta di invalidità civile del cittadino straniero il paragrafo n. 7.

181. Circolare Inps n. 123 del 1999: "Si ritiene utile sottolineare che l'esclusione di cui all'articolo 25 del decreto legislativo n. 286/1998 riguarda soltanto gli stranieri con permesso di soggiorno stagionale e non quelli titolari di permesso di soggiorno di altro tipo ai quali competono le prestazioni di disoccupazione ed i trattamenti di famiglia stabiliti per i settori di appartenenza, alle stesse condizioni dei cittadini italiani, anche ove i medesimi abbiano conservato la residenza nel paese di origine". In verità l'art. 25 della l. 286 del 1998 (T.U. Immigazione) era già stato recepito con la circolare n. 214 del 9 ottobre 1998. Si vedano però riguardo all'accesso alla tutela dell'Anf le difficoltà pratiche incontrate da cittadini stranieri nel fornire alcuni dei documenti richiesti, difficoltà che talvolta divengono una vera e propria limitazione della tutela (capitolo II par. 3.2).

182. Come espone la circolare Inps n. 62 del 6 aprile 2004 infatti: "È necessario però distinguere nell'ambito dei lavoratori stranieri coloro che hanno lo status di rifugiati politici, in virtù del particolare regime di favore introdotto dall'apposita Convenzione relativa allo status di rifugiato, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 e ratificata con legge 24 luglio 1954, n. 722. Più in particolare, gli artt. 23 e 24 della citata Convenzione equiparano in toto i rifugiati politici ai cittadini italiani in merito al trattamento riservato negli Stati aderenti in materia di assistenza pubblica, legislazione del lavoro nonché assicurazioni sociali [...]. Questo porta a ritenere che per i familiari residenti all'estero dei lavoratori stranieri rifugiati politici possa essere corrisposto l'assegno per il nucleo familiare, poiché, nella stessa ipotesi, tale assegno può essere riconosciuto ai lavoratori cittadini italiani.".

183. Nel caso di specie il signor Hyseni, di nazionalità albanese, dopo essersi visto riconoscere gli assegni per il nucleo familiare solo dal momento dell'iscrizione nell'anagrafe del comune di Vaiano (Po) della moglie e del figlio dal Giudice del lavoro di Prato e dalla Corte d'Appello di Firenze che risultavano concordanti con la disciplina dell'Inps sulla questione, vide riformata la suddetta decisione in Cassazione. In maniera quasi preveggente rispetto alla pronuncia della Suprema Corte l'Inps con Circolare n. 61 del 6 aprile 2004 aveva dichiarato che "Nel caso in cui, a causa dei tempi tecnici necessari per la concessione della residenza, manchi tale requisito, si ritiene che lo stesso possa essere soddisfatto in presenza di una documentazione certa, volta ad attestare che i familiari si trovavano stabilmente in Italia anche prima del rilascio della certificazione anagrafica: ad esempio, le buste paga, il certificato di frequenza di asili o scuole, eccetera".

184. Secondo la Corte infatti il giorno d'arrivo dei familiari in Italia è facilmente deducibile da una serie di adempimenti obbligatori ai quali essi sono tenuti. Ha ritenuto inoltre, avverso una rigida interpretazione dell'art. 43 c.c., che il requisito della residenza non deve essere interpretato in termini formali ma deve avere riguardo al luogo in cui i familiari hanno il centro dei loro legami affettivi derivanti dallo svolgersi, in detta località, della vita quotidiana di relazione, quindi la residenza potrebbe anche non coincidere con la residenza anagrafica (tale interpretazione potrebbe creare non pochi sconvolgimenti circa la tutela del 'bonus straordinario famiglie' di cui parleremo nel paragrafo 3.5 del cap. II).

185. Si noti però come in base all'art. 1 c. XI della legge n. 296 del 2006 (finanziaria 2007): "Nel caso di nuclei familiari con più di tre figli o equiparati di età inferiore a 26 anni compiuti, ai fini della determinazione dell'assegno rilevano al pari dei figli minori anche i figli di età superiore a 18 anni compiuti e inferiore a 21 anni compiuti purché studenti o apprendisti".

186. Almeno fino alla decisione della Corte costituzionale n. 851 del 21 Luglio 1988 la quale sostenne, con una coraggiosa interpretazione innovativa, che gli assegni familiari e l'aggiunta di famiglia rappresentavano non una quota dello stipendio o del salario ma un'erogazione di carattere assistenziale e sociale connessa alla valutazione discrezionale da parte del legislatore del sulla adeguatezza dei redditi familiari alla soddisfazione dei rispettivi carichi.

187. Si veda al riguardo M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 555. L'intervento finanziario statale potrebbe essere riprova, come osserva giustamente M. Persiani, della tesi "secondo la quale anche l'assegno per il nucleo familiare è funzionalizzato al perseguimento di un interesse di tutta la collettività ed avente ad oggetto la liberazione dal bisogno conseguente all'esistenza di un carico familiare" (M. Persiani, op. cit., p. 331).

188. T.U. assegni familiari (d.p.r. 30 maggio 1955 n. 797), art. 32 e 44.

189. La domanda andrà ad esempio presentata all'Inps nel caso di operai agricoli, pensionati, disoccupati, addetti ai servizi domestici e familiari, i lavoratori stranieri in Italia; la competenza sarà infine dell'Inail in caso di titolari di rendite da infortunio o malattia professionale, dell'Inpdap nel caso di dipendenti a riposo di enti locali e relative aziende e di quest'ultimi nel caso di personale in attività. Le amministrazioni centrali dello Stato si occupano infine dei propri dipendenti sia in quiescenza che a riposo.

190. Tra questi casi quelli riguardanti figli di genitori legalmente separati o divorziati o del coniuge già divorziato, figli naturali riconosciuti da entrambi i genitori, fratelli, sorelle e nipoti, familiari residenti all'estero, figli ed equiparati per i quali non sia stata sottoscritta l'apposita dichiarazione del coniuge del richiedente ed altri ancora.

191. Come stabilito dalla Sent. Cass. n. 7427 del 20 luglio 1990.

192. Si veda nota n. 172.

193. Come prevede la legge n. 11 del 2004 e recita anche l'apposito quadro 'G' del modello Anf\dip che in questo caso il coniuge dovrà compilare.

194. Cfr par. I.

195. Spesso alcuni fattori delle tutele previdenziali sono informati alla possibilità che l'evento rischioso si verifichi, si pensi ad esempio all'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro o a tutele poste solamente a fronte di lavorazioni particolari.

196. In tale ottica tutte le riforme inerenti alla possibilità di proseguimento del rapporto lavorativo anche successivamente al raggiungimento dei requisiti per la pensione.

197. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 475.

198. Legge 18 Luglio 1898 n. 350.

199. D. lgs. 21 Aprile 1919 n. 603, "Istituzione della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali".

200. M. Persiani, op. cit., pp. 343 ss.

201. Forse sarebbe più opportuno utilizzare il tempo passato in virtù delle attuali riforme tese all'attrazione di tali forme di organizzazione all'interno di quella generale.

202. Istituto nazionale della previdenza per i dipendenti dell'amministrazione pubblica.

203. Ma sulla stessa linea anche legge n. 355 del 1995 e d. lgs. n. 503 del 1992.

204. Art. 3 legge n. 218 del 1990 e d. lgs. n. 357 del 1990.

205. M. Persiani, op. cit., p. 347.

206. Così ad esempio tra i regimi sostitutivi quelli sopra citati sono di competenza dell'Inps, come anche regimi speciali per i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, lavoratori parasubordinati), con esclusione di quelli inerenti ai liberi professionisti, tutelati da casse previdenziali di categoria. Tra i regimi sostitutivi gestiti invece da enti diversi dall'Inps si può elencare l'Ente di previdenza assistenza pluricategoriale (per i liberi professionisti privi di un apposito regime), l'Inpgi per quanto riguarda i giornalisti e l'Enpals per i lavoratori dello spettacolo. Analoga duplicità di struttura esiste per i regimi integrativi.

207. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 475.

208. Per correttezza esegetica si noti la presenza di un'impasse linguistica. Le attuali forme transitorie, basate sul sistema delle quote, che daranno vita, a conclusione del percorso di riforma, a quella pensione unica denominata 'di vecchiaia', vengono denominate oggi, dagli operatori e dagli stessi testi tecnici, come 'pensioni di anzianità ', forse ad indicare le forme che sono andate a sostituire. Certo ne è che, concluso il percorso di riforma nel 2013, queste nuove forme di pensione assumeranno la denominazione unica di 'vecchiaia'. Le attuali 'pensioni di vecchiaia' quindi altro non sono che un regime destinato anch'esso ad assumere gradualmente i parametri dettati dall'innovazione.

209. Legge n. 243 del 2004, poi modificata dalla legge n. 247 del 2007.

210. D.p.r. n. 488 del 1968 e legge n. 153 del 1969.

211. Legge n. 335 dell'8 agosto 1995.

212. I requisiti di accesso all''opzione' in discussione sono stati resi più restrittivi, a seguito dell'eccessiva onerosità per la gestione pensionistica che derivava dalla massiva scelta in questa direzione, dalla legge n. 248 del 2 Luglio 2001.

213. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 177.

214. Art. 19 legge n. 153 del 1969.

215. Per i parametri relativi al pagamento delle pensioni per l'anno 2009 si veda Circolare Inps 2 Gennaio 2009 n. 1.

216. Art. 11 d. lgs. n. 503 del 1992 così come modificato dalla legge n. 335 dell'8 agosto 1995.

217. Istituita per la prima volta con legge n. 218 del 1952.

218. M. Persiani, op. cit., pag. 226.

219. Art. 1 comma 16 legge n. 335 del 1995.

220. Prestazione garantita a tutti pensionati dell'assicurazione generale obbligatoria, da non confondere con l'omonima prestazione di natura assistenziale poi sfociata nell'assegno sociale.

221. Art. 42 (ex art. 51) Trattato CE; art. 15, regolamento CE n. 574 del 1972.

222. Si pensi alla legge delega 23 agosto 2004 n. 243, al d. lgs. 2 febbraio 2006 n. 42 e alle istruzioni amministrative derivate dalla direttiva del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 2 marzo 2006 e dalla circolare Inps del 9 maggio 2006 n. 69 recante "Decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 42. Nuova disciplina in materia di totalizzazione dei periodi assicurativi".

223. Dalla sezione 'Tuttoinps' del sito INPS.

224. Di seguito le settimane di contribuzione minime richieste ai fini della totalizzazione: Paesi UE, SEE, Svizzera: 52; Argentina: 52; Australia: 52; Bosnia-Erzegovina: 1; Brasile: 1; Canada - Quebec: 53; Capoverde: 52; Croazia: 52; Jersey, Is.del Canale: 1; Macedonia: 1; Montenegro: 1; Principato di Monaco: 53; Rep. di S. Marino: 52; Santa Sede: 52; Serbia: 1; Tunisia: 52;Turchia: 52; Uruguay: 1; USA: 52; Venezuela: 52.

225. Al fine dell'integrazione al minimo della pensione in regime internazionale il soggetto richiedente deve vantare dei redditi che da soli, o congiuntamente a quelli del coniuge, non superano i limiti previsti dalla legge e deve avere inoltre almeno 10 anni di contribuzione per attività svolta in Italia dal 1º febbraio 1995, 5 anni se la pensione ha decorrenza da ottobre 1992 a gennaio 1995 e un solo anno per le pensioni con decorrenza da febbraio 1991 a settembre 1992. Ne hanno comunque diritto i titolari di pensioni comunitarie e i titolari di pensioni derivanti da accordi bilaterali con i seguenti stati: Argentina, Australia, Bosnia-Erzegovina, Brasile, Croazia, Macedonia, Montenegro, Principato di Monaco, Repubblica di Capoverde, Repubblica di San Marino, Santa Sede, Serbia, Stati Uniti d'America, Tunisia, Uruguay.

226. Si ricordi che egualmente avviene anche per pensione sociale, assegno sociale, pensioni, assegni e indennità a invalidi civili, ciechi civili e sordomuti ma anche per il nuovo istituto del Bonus famiglie e altre tutele ancora.

227. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 194.

228. Legge n. 29 del 1979, legge n. 45 del 1990, legge n. 274 del 1991.

229. Corte cost. 5 dicembre 1997 n. 374, in "Riv. giur. lav.", 1998, II, p. 390.

230. Art. 3 c. IX e X legge 8 agosto 1995 n. 335.

231. Art. 55 r.d.l. 4 ottobre 1935 n. 1827; art. 3 c. IX legge n. 335 del 1995.

232. Si noti infatti come la Suprema Corte con decisione 24 marzo 2005 n. 6340, riprendendo in parte quanto già stabilito da Cassazione 10 dicembre 2004 n. 23116 reciti nella sua massima: "Nella materia previdenziale, a differenza che in quella civile, il regime della prescrizione già maturata è sottratto alla disponibilità delle parti [...]. Ne consegue che una volta esaurito il termine, la prescrizione ha efficacia estintiva (non già preclusiva)- poiché l'ente previdenziale creditore non può rinunziarvi-, opera di diritto ed è rilevabile d'ufficio".

233. In base alle depenalizzazioni effettuate dalla legge n. 689 del 1981 e dalle leggi n. 499 e n. 561 del 1993 solo la fattispecie di cui sopra, comportante un'evasione superiore a 2.582,00 euro al mese, è tuttora fonte di responsabilità penale (come previsto dall'art. 37 della legge n. 689 del 1981 così come modificato dall'art. 116 c. IXX della legge n. 388 del 2000).

234. Così M. Persiani, op. cit., p. 111; M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 255, 184 ss.; F.P. Rossi, Il diritto del lavoratore alla posizione assicurativa, in "Riv. It. Prev. Soc.", 1967, pp. 269 ss.

235. Art. 13 legge 12 agosto 1962 n. 1338 e Corte cost. 19 Gennaio 1995 n. 18.

236. La Corte costituzionale nella sentenza del 30 gennaio 1980 n. 6 analizzava come scopo delle prestazioni ai superstiti fosse la prevenzione dello stato di bisogno e non la liberazione da un tale stato già in atto. Ciò si poteva dedurre dall'assenza di requisiti tesi a dimostrare lo stato di bisogno dei beneficiari.

237. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 507.

238. I fondamenti di questa forma di tutela si possono ritrovare nella legge 14 febbraio 1861 n. 173 e nel successivo testo unico dettato con r.d. 21 febbraio 1895 n. 70 per quanto concerne i dipendenti pubblici; nella legge n. 636 del 1939 per quanto concerne i dipendenti privati.

239. Ad essi sono equiparati gli adottanti, gli affiliati, il patrigno e la matrigna, le persone alle quali l'assicurato fu affidato come esposto.

240. M. Persiani, op. cit., pp. 258 ss.

241. Corte costituzionale 3 novembre 2000 n. 461, in "Giust. Civile", 2001, I, p. 296.

242. Sul concetto di vivenza a carico si veda Corte cost. 28 luglio 1987 n. 286, in "Foro it.", 1988, I, p. 3516.

243. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, p. 564.

244. In base al modello retributivo tale indennità corrisponde infatti ad una porzione dei contributi versati purché, nel quinquennio precedente la data della morte, risulti versato almeno un anno di contributi. Nel sistema contributivo risulta essere invece pari all'importo mensile dell'assegno sociale moltiplicato per gli anni di contribuzione effettuati.

245. Salvi successivi accordi bilaterali in materia lo straniero che rientri in patria, data l'abrogazione effettuata dall'art. 22 c. XIII del d. lgs. n. 286 del 1998 (come novellato dall'art. 18 della legge n. 189 del 2002), non ha più facoltà di chiedere la liquidazione dei contributi versati.

246. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, p. 568.

247. Cass. 11 ottobre 1979, n. 5310 in "Giust. Civile", 1980, I, pp. 392-394.

248. Legge n. 243 del 2004 così come modificata dalla legge n. 247 del 2007.

249. M. Persiani, op. cit., p. 266.

250. Art. 1 c. XX legge n. 335 del 1995. Al riguardo M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 507.

251. Si veda al riguardo come M. Persiani, op. cit., pag. 267 parli di "pensione di anzianità liquidata secondo il sistema contributivo", pensione che quindi, per quanto da noi prima detto, corrisponderebbe alla 'nuova pensione di vecchiaia unificata'. A riprova di ciò il fatto che i requisiti descritti sono: 40 anni di contribuzione oppure un'età di 60 anni per le donne e 65 per gli uomini connessa a 35 anni di contribuzione (in pratica le stesse età richieste per la pensione di vecchiaia).

252. Sentenza relativa alla causa n. 46/07.

253. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 506. Sono previste possibilità diverse a seconda che il soggetto abbia maturato meno di 40 anni di contribuzione o più di 40 anni di contribuzione. Con meno di 40 anni il lavoratore dipendente che matura i requisiti entro il 30 giugno potrà andare in pensione a decorrere dal 1º gennaio successivo, chi invece li matura entro il 31 dicembre lo potrà fare dal 1º luglio successivo. Qualora l'anzianità contributiva sia superiore ai 40 anni il soggetto potrà andare in pensione il 1º luglio o il 1º ottobre quando abbia raggiunto rispettivamente i requisiti entro il 31 marzo o il 30 giugno ed abbia altresì raggiunto i 57 anni di età al 30 giugno o 30 settembre. Potrà invece andare in pensione il 1º gennaio e il 1º aprile successivo, senza imposizioni dettate dall'età anagrafica, quando abbia raggiunto i 40 anni di contribuzione entro il 30 settembre o il 31 dicembre. Finestre diverse sono in uso per le pensioni ai lavoratori autonomi.

254. Della possibilità di cumulo tra prestazioni previdenziali e tra prestazioni pensionistiche e redditi da lavoro parleremo nel par. 5.6.

255. Art. 9 r.d.l. n. 636 del 1939 come modificato dalla legge n. 218 del 1952.

256. D. lgs. n. 503 del 1992.

257. M. Persiani, op. cit., p. 256.

258. Si ricordi la complicazione, di cui abbiamo già riferito, che vede definita come di 'vecchiaia unificata' la pensione che in questo momento viene introdotta gradualmente tramite il modello della pensione di anzianità e il relativo sistema di quote.

259. Al riguardo M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 497.

260. Il limite dei 15 anni di contribuzione continua a valere solo per coloro che: al 31 dicembre 1992 aveva già 15 anni di contributi, al 31 dicembre 1992 avevano già compiuto l'età pensionabile, erano stati autorizzati a versamenti volontari prima di tale data, con almeno 25 anni di assicurazione siano stati occupati per almeno 10 anni per periodi inferiori alle 52 settimane nell'anno solare.

261. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., pp. 514 ss.

262. Ivi, p. 529.

263. L'importo della pensione sociale per l'anno 2009 è di 337,11 euro mensili, contro i 409,05 dell'assegno sociale.

264. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 530.

265. Vedremo nel corso del par. 7 le problematiche, anche di natura costituzionale, connesse alle limitazioni nella fruizione delle tutele di natura assistenziale per i soggetti provenienti da paesi terzi.

266. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 531.

267. Per esaustività si riporta il testo così come contenuto nella Circolare Inps 105 del 2 dicembre 2008:

"Sono equiparati ai cittadini italiani, nella fruizione dell'assegno sociale, gli stranieri che si trovino nelle condizioni che di seguito si riepilogano:

  • stranieri o apolidi ai quali è stata riconosciuta la qualifica di 'rifugiato politico' e lo 'status di protezione sussidiaria' ed i rispettivi coniugi ricongiunti (circolare n. 175 del 24.8.1983, artt. 2 e 22 d.lgs. 251/2007, messaggio n. 4090 del 18.2.2008);
  • stranieri extracomunitari o apolidi titolari di 'carta di soggiorno' (circolare n. 82 del 21.4.2000, messaggio n. 47 del 2.2.2001) o del 'permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo', permesso che ha sostituito la 'carta di soggiorno' stessa come disposto dal decreto legislativo n. 3 dell'8.1.2007, che ha recepito la direttiva comunitaria 109/CE /2003 (messaggio n. 7742 del 23.3.2007);
  • cittadini comunitari e i loro familiari a carico, che soggiornano in Italia per un periodo superiore ai tre mesi, oltre il quale hanno l'obbligo di iscrizione all'anagrafe del Comune di residenza, ai sensi del decreto n. 30/2007 (messaggio n. 4602 del 25.2.2008);
  • cittadini della Repubblica di S. Marino residenti in Italia."

268. Si ricordi come il governo avesse in un primo momento legato la fruizione dell'assegno in questione da parte dei cittadini comunitari, non alla residenza sul territorio italiano per un periodo minimo di 10 anni, ma all'aver svolto attività lavorativa sul territorio italiano per tale periodo. Tale emendamento non ha poi trovato conferma in sede di approvazione del testo normativo.

269. Questa limitazione risultava già prevista dall'art. 26 c. I della legge n. 153 del 1969 ed è stata ribadita dalla Circolare Inps n. 12889 del 4 giugno 2008.

270. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 532.

271. Fanno sempre parte del suddetto allegato anche l'integrazione al trattamento minimo, l'integrazione dell'assegno di invalidità, l'assegno mensile per l'assistenza personale e continua.

272. Dal sito sito INPS.

273. Per informazioni circa i redditi da considerare ai fini del diritto alla prestazione si veda il sito INPS.

274. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 535.

275. Si noti come si possa riscontrare un vero e proprio corto circuito legislativo nel momento in cui la prestazione dell'assegno sociale richiede la presenza di un permesso CE per soggiornanti di lungo periodo e tale permesso richiede, a sua volta, un reddito almeno pari a quello dell'assegno sociale. Si crea così un sistema nel quale il raggiungimento di uno dei requisiti richiesti diventa contemporaneamente anche elemento ostativo per la fruizione del beneficio. In tal senso, come vedremo nel par. 7, anche W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, in "Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali", vol. XXX, n. 117, 2008, pp. 101-145.

276. M. Persiani, op. cit., pp. 236-237.

277. Art. 12 legge n. 218 del 1952.

278. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 508.

279. Al riguardo si veda Circolare Inps n. 108 del 9 dicembre 2008.

280. Si ricordi che si sta in questo caso parlando del nuovo modello pensionistico unificato, della nuova 'pensione unificata di vecchiaia' destinata a sostituire tutte le altre ai sensi dell'articolo 1, comma 19, della legge 8 agosto 1995, n. 335.

281. Dal sito INPS.

282. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 512.

283. Divieto poi limitato dall'art. 73 della legge n. 388 del 2000.

284. Si vedano al riguardo gli artt. 7-10 del regolamento CE 574 del 1972 e l'art. 12 del regolamento CE n. 1408 del 1971. Riguardo al coordinamento: regolamento CE n. 1248 del 1992.

285. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 401.

286. Si ricorda come, secondo l'Inail, negli Istituti e stabilimenti di prevenzione e pena si debba stipulare l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro "nei confronti dei detenuti che, per servizio interno o per attività occupazionale, svolgono una attività ritenuta rischiosa". Da INAIL. Si veda in materia anche circolare Inail n. 10 del 28/2/1980 titolata "Convenzione per l'affidamento all'INAIL della gestione dell'assicurazione dei detenuti e degli internati per misure di sicurezza e dei minori sottoposti a misure rieducative".

287. Così come riformato dall'art. 24 della legge n. 160 del 3 giugno 1975, norma seguita alla pronuncia della Corte cost. n.160 del 6 luglio 1971, che abolì la differenziazione tra la riduzione a meno di 1/3 e di 1/2 della capacità di guadagno rispettivamente per operai e impiegati, portandola a meno di 1/3 per entrambi.

288. M. Persiani, op. cit., p. 242.

289. Si ricordi come contestualmente il diritto comunitario, pur dichiarandosi del tutto favorevole al sistema di bipartizione dell'invalidità che vedremo tra poco, ha continuato a sostenere la necessità di connettere le prestazioni di invalidità al criterio della capacità di guadagno, così come adottato dalla maggior parte dei paesi della Comunità.

290. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 406.

291. Art. 1 c. II legge n. 222 del 12 giugno 1984.

292. Si pensi per tutte alla possibilità per i ciechi di impiego come centralinisti telefonici o alla possibilità per i sordomuti di percepire un'indennità di comunicazione.

293. Oppure alla gestione alternativa competente. Per motivi di semplificazione illustriamo qui il modello generale.

294. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 411.

295. M. Persiani, op. cit., p. 245.

296. Art. 9 legge n. 222 del 1984.

297. Art. 1 legge n. 222 del 1984.

298. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 411.

299. Così come affermato dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 9492 del 2004 dalla quale discende il messaggio Inps n. 23276 del 20 luglio 2004.

300. L'integrazione al minimo dell'assegno di invalidità è esclusa nel caso la persona invalida, da sola o assieme al coniuge, superi i limiti massimi di reddito stabiliti per l'annualità 2009 rispettivamente in euro 10.635,30 e euro 15.952,95. L'integrazione di cui sopra, a cura della Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali, potrà essere pari al massimo all'importo dell'assegno sociale. Al riguardo si veda Allegato n. 1 alla Circolare Inps n. 1 del 2 gennaio 2009.

301. M. Persiani, op. cit., p. 247.

302. Guida Inps "I diritti delle persone con disabilità" dal sito INPS, art. 2 c. III legge 222 del 1984.

303. M. Persiani, op. cit., p. 248.

304. In questo modo la prestazione in questione metterebbe a disposizione del beneficiario un ulteriore elemento di garanzia che le prestazioni pensionistiche non possono offrire.

305. Si pensi ad un soggetto che a causa della propria patologia non ha mai potuto intraprendere alcuna attività lavorativa e quindi non può far valere alcuna posizione contributiva.

306. Art. 2 legge n. 118 del 1971.

307. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 421.

308. Così come stabilite dalla stessa legge n. 118.

309. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 422.

310. Da SuperAbile INAIL, così come stabilito dall'allegato n. 1 tabella "M" e ss., alla circolare Inps n. 1 del 2 gennaio 2009.

311. Si noti che riguardo alle prestazioni a favore dei minori, non potendo essere utilizzato il parametro della minor capacità lavorativa viene utilizzato quello delle difficoltà permanenti a svolgere le funzioni proprie dell'età che dà vita all'indennità mensile di frequenza.

312. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 428.

313. M. Cinelli, ivi, p. 426.

314. Art. 13 legge n. 188 del 1971.

315. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 423.

316. art. 14-septies, comma 2, della legge n. 33 del 1980, che ha modificato l'art. 12, comma 3 della legge n. 118 del 1971.

317. Artt. 1-2 legge n. 18 dell'11 febbraio 1980. Si consideri come la Suprema Corte di Cassazione (Sez. Civile Sentenza n. 8060 del 27 aprile 2004) abbia analizzato i parametri di autosufficienza propri dell'indennità di accompagnamento, ritenendo che questi siano soddisfatti anche in presenza della possibilità di svolgere gli atti quotidiani della propria vita ma senza essere in grado di uscire, camminare da sola, fuori dalla propria abitazione.

318. M. Persiani, op. cit., p. 249.

319. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 426.

320. Legge n. 289 del 1990.

321. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 424.

322. Il trasferimento per la Toscana è avvenuto grazie all'art. 1 DPCM del 22 dicembre 2000, con decorrenza dal 21 febbraio 2001. Il Comune di Firenze ha inoltre funzione sovra-comunale rispetto ai comuni posti alle sue periferie.

323. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 425.

324. Si veda la possibilità di accertamento sanitario delegato ad altra Asl rispetto a quella di residenza, come illustreremo a proposito dei soggetti reclusi.

325. In verità anche tale funzione risulta adesso trasferita sotto le competenze Inps.

326. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 425.

327. Si veda al riguardo il Messaggio Inps n. 3043 del 6 febbraio 2008. Già prima dell'avvento di questa riforma, in base alla Sentenza della Corte costituzionale n. 329 del 2002, non era comunque richiesta iscrizione alle liste di collocamento per gli invalidi civili parziali che frequentavano regolarmente corsi di studio.

328. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 429.

329. Legge n. 88 del 1989.

330. Art. 42 c. III legge n. 326 del 2003.

331. In ciò, riflettendo, si può notare il carattere meramente dichiarativo, e non costitutivo, dell'iter certificativo finora descritto.

332. Art. 19 legge n. 118 del 1971.

333. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 428.

334. Si veda riguardo alle problematiche generate da tale testo normativo il prossimo paragrafo.

335. Dal sito INPS.

336. O comunque dichiarazione sostitutiva dello stato di disoccupazione.

337. Si veda al riguardo l'articolo dal quale questo paragrafo prende le mosse: W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, cit., pp. 101-145.

338. D. lgs. n. 286 del 25 luglio 1998, 'Legge Turco-Napolitano'.

339. Ormai, a seguito del d.l. 8 gennaio 2007 n. 3, "Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo".

340. Recita infatti: "Ai sensi dell'articolo 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, l'assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concesse alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno; per le altre prestazioni e servizi sociali l'equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno".

341. P. Bonetti, L'assistenza e integrazione sociale, in Nascimbene B. (a cura di), Diritto degli stranieri, Cedam, Padova, p. 1036.

342. In tal senso M. Vrenna, Le prestazioni economico assistenziali e gli immigrati extracomunitari, in "Gli stranieri", 2004, p. 6.

343. Al riguardo W. Chiaromonte, op. cit., p. 113.

344. Come modificato dall'art. 9, comma I, della legge 30 luglio 2002 n. 189 e poi sostituito dall'art. 1, comma I, del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3.

345. Come avevamo già accennato la Corte in questo caso ha riscontrato che, date le condizioni socio-familiari del richiedente, l'unico elemento ostativo rispetto alla concessione del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (allora Carta di soggiorno) fosse quello reddituale. L'assenza del suddetto permesso impediva la fruizione della prestazione di carattere assistenziale denominata 'indennità di accompagnamento'. Vi era quindi una discriminazione basata su elementi prettamente reddituali nell'accesso a questo tipo di prestazione. Per di più la persona in questione, date le sue condizioni cliniche, non avrebbe mai potuto raggiungere i redditi richiesti ed ottenere il conseguente permesso e la connessa tutela assistenziale.

346. W. Chiaromonte, op. cit., p. 115.

347. Tale sentenza stabilisce infatti che al legislatore ordinario "è consentito modificare il regime di un rapporto di durata, quale quello in oggetto (N.d.a. ci si riferisce qui ai rapporti propri delle prestazioni assistenziali e previdenziali), con misure che incidano negativamente- sia riguardo all'an, sia riguardo al quantum - sulla posizione del destinatario delle prestazioni, purché esse non siano in contrasto con i principi costituzionali e, quindi, non ledano posizioni aventi fondamento costituzionale".

348. Sul tema W. Chiaromonte, op. cit., p. 129.

349. La CEDU è infatti un trattato elaborato dal Consiglio d'Europa.

350. Riguardo alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che "nel garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall'appartenenza a determinate entità politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri, legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato".

351. Al riguardo si veda anche Melting Pot e Stranieri in Italia.

352. Riguardo al valore di questi atti si veda W. Chiaromonte, op. cit., pp. 101 ss. e M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., pp. 74 ss.

353. L'art. 14 della Cedu, rubricato "Divieto di discriminazione" recita infatti: "Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l'origine nazionale o sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione".

354. Come abbiamo già accennato nei paragrafi scorsi, i redditi richiesti per il permesso di soggiorno CE vengono annualmente conformati sulla base dell'importo dell'assegno sociale, tale importo è però spesso anche limite massimo reddituale per i soggetti che richiedano prestazioni assistenziali. In questo modo i soggetti provenienti da paesi terzi potranno raramente accedere a prestazioni di questo tipo.

355. Ricordiamo infatti come, riguardo all'assegno sociale, il Tribunale di Pistoia (pronuncia del 4 maggio 2005, in "DIC", 2007, 2, pp. 172 ss.) ha sancito la disapplicazione dell'art. 80 per contrasto con le norme della CEDU. Tale impostazione minoritaria (che vede la possibilità per le norme della CEDU di portare alla diretta disapplicazione della normativa interna) ha trovato successivamente conferma nella pronuncia della Corte di Appello di Firenze (del 9 giugno 2007 n. 702, in "DIC", 2007, 3, pp. 160 ss.). Sarebbe quindi opportuna e auspicabile una pronuncia della Corte costituzionale che faccia definitiva chiarezza sull'applicazione dell'art. 80 all'istituto dell'assegno sociale (sul tema si veda W. Chiaromonte, op. cit., p. 130; W. Chiaromonte, Il diritto fondamentale dei non comunitari alla sicurezza sociale tra CEDU e Carta di Nizza, in "Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa", 2007).

356. In tal senso anche W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione, cit., p. 140.

357. W. Citti, Parità di trattamento tra stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini in materia di prestazioni di assistenza sociale. La Corte costituzionale delude le attese. Un caso di cattiva strategic litigation?, "RCDL", 4, p. 993; W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione, cit., pp. 103, 107.

358. Cassazione 20 gennaio 2005 n. 1117 e Cass. 4 agosto 2005 n. 16145.

359. W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione, cit., pp. 112 ss.

360. Tribunale di Trento, 29 ottobre 2004, "DIC", 2004, 4, pp. 164 ss.

361. Al riguardo si veda W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione, cit., p. 138.

362. Si veda al riguardo anche la Circolare Inps n. 118 del 1º luglio 2003.

363. E. Favè, I cittadini non comunitari e le provvidenze di assistenza sociale: portata e limiti del principio di non discriminazione, "RCDL", 3, 2006, pp. 968 ss.; W. Citti, op. cit., pp. 999 ss.

364. Tribunale di Marsala 17 aprile 2002, Corte d'Appello di Palermo 17 gennaio 2005.

365. Sul tema si veda W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione, cit., p. 120.

366. Riguardo al valore delle previsioni della Carta di Nizza si veda S. Sciarra, La costituzionalizzazione dell'Europa sociale. Diritti fondamentali e procedure di 'soft law', in "Quaderni Costituzionali", p. 300.

367. Tribunale Pistoia, 4 maggio 2007, "DIC", 2007, 2, p. 172 ss.

368. Corte d'Appello di Firenze 9 giugno 2007 n. 702.

369. Cfr. W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione, cit., pp. 132-133.