ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

1: Controllo sociale e criminologia critica

Giuseppe Campesi, 2009

1.1: Il concetto di controllo sociale

"Controllo sociale" è una locuzione generica che necessita di un tentativo di precisazione. Affermare, infatti, di volere studiare i processi di controllo sociale, equivale a voler concentrare l'attenzione su tutto un insieme di meccanismi idonei a produrre nell'individuo conformità ad una norma: dal divieto esplicito/implicito cui si ricollega una sanzione, a tutta una serie di discorsi tesi ad indurre la desiderabilità di un comportamento, tutto può essere un valido strumento di controllo sociale, tutto può servire alla prevenzione delle deviazioni rispetto ad un dato modello comportamentale.

Concetto classico delle scienze sociali, il cui primo approfondimento (anche se non la prima utilizzazione) è dovuto a E. A. Ross (1), in linea di massima è identificabile con "tutti i fenomeni ed i processi che contribuiscono a regolare il comportamento umano e ad organizzarlo" (2). In quest'accezione il controllo sociale s'identifica con "la morale, la religione, il diritto, i costumi, l'educazione, le rappresentazioni collettive, i valori, gli ideali, i modelli di cultura, l'opinione pubblica, le forme di suggestione e convinzione...ecc." (3).

Una tale definizione di controllo sociale è indubbiamente vasta. Essa abbraccia meccanismi dal funzionamento alquanto diverso, più o meno formalizzati ed evidenti. Tuttavia, il suo nocciolo fondamentale: l'idea che tali meccanismi riescano a produrre un dato, auspicabile, comportamento nell'individuo su cui agiscono, riconduce le diverse forme con cui si esercita il controllo all'unica matrice.

L'insieme di questi meccanismi ha indubbiamente a che fare con il problema dell'ordine, il problema di dare coerenza ai comportamenti di una moltitudine, alle loro interazioni. In quest'ottica ogni organizzazione di uomini che pretenda di definirsi tale necessita di un meccanismo di controllo sociale teso ad assicurarne il mantenimento ed, in concreto, ogni comunità più o meno vasta di uomini si è sempre dotata di un qualche meccanismo che in tale ha maniera funzionato. Alla stessa stregua: tanto più rilevante è considerata la materia o l'aspetto della vita dell'organizzazione da regolare, tanto più formalizzato e penetrante sarà il meccanismo di controllo.

La forma più complessa di organizzazione sociale in cui viviamo (esclusi gli organismi internazionali), lo Stato Nazione, può essere guardato come nient'altro che un meccanismo per giungere alla formalizzazione di norme di comportamento per la regolazione dei settori più importanti della vita sociale.

Il Diritto (espressione di quest'attività di regolazione praticata dallo stato) è, secondo la definizione sopra riportata, uno degli strumenti attraverso cui si svolge il controllo sociale, ma certamente non l'unico. Esso interviene nei settori più importanti della nostra vita e, indubbiamente, il meccanismo della rappresentanza politica, gli fornisce l'immagine di strumento attraverso cui tutti i membri della società auto-regolano gli aspetti più rilevanti della propria esistenza.

Il diritto, quindi, come uno, ma non il solo, strumento di controllo sociale; il diritto come strumento maggiormente formalizzato e, in linea di principio, nei regimi democratici, basato su un meccanismo che dovrebbe assicurare a tutti, almeno indirettamente, la partecipazione alla scelta normativa.

Ora queste affermazioni potranno sembrare alquanto banali ed ovvie, in certa misura indubbiamente lo sono, ma sono dovute al fatto che esiste la tendenza, nella maggior parte delle analisi a riguardo a considerare il potere (4) un attributo esclusivo dello Stato. Secondo questo schema interpretativo, solitamente adottato dalle dottrine filosofiche e giuridiche, il potere è esercitato per mezzo dello strumento dell'interdizione, cioè l'imposizione di un divieto o un obbligo (il precetto) e la reazione alla trasgressione (la sanzione).

La definizione di controllo sociale, su cui ci siamo brevemente soffermati, sembra dirci tuttavia esattamente il contrario: il diritto è semplicemente uno degli strumenti di controllo sociale, non l'unico; è pur vero, come si diceva sopra, che esso interviene nei settori più importanti della vita associata, ma questo non implica in linea di principio che sia effettivamente il precetto, con la relativa sanzione, posto per legge, ad assicurare la conformità alla norma nei soggetti cui questa si rivolge.

Si pone in sostanza un doppio problema: da un lato il diritto non è l'unico agente del controllo sociale, cui, al contrario, paiono funzionali anche meccanismi "persuasivi" oltre che "coercitivi"; dall'altro lato il diritto stesso, la sua nascita ed il suo funzionamento concreto, sono calati nel contesto socio-culturale in cui un precetto assume vigore, cosicché è possibile arrivare a distinguere tra la sfera della validità di una norma giuridica e la sfera della sua effettività (5).

Dunque se da una parte le dimensioni ipertrofiche raggiunte dal nostro ordinamento giuridico dovrebbero indurci a pensare che la nostra esistenza sia regolata in ogni suo aspetto più minuto, dall'altra è di tutta evidenza che il semplice porre una norma non ne assicura, di per sé, l'efficacia regolativa.

Il tema dell'efficacia delle norme giuridiche, del loro funzionamento effettivo, è tema classico della sociologia giuridica, disciplina autonoma e distinta tanto dalle scienze sociali quanto dalle scienze giuridiche. Essa, in particolare, studierebbe "la società nel diritto" (6) cioè la realtà concreta del fenomeno normativo, quella sorta di diritto libero che è il comportamento umano, più o meno difforme rispetto alle norme giuridiche, sempre pronto, nella prassi di tutti i giorni, a ricodificarle. La realtà giuridica effettuale in sostanza, nei suoi rapporti con altri fattori "strutturali o culturali" (7), che in una misura o in un altra ne determinano l'esistenza effettiva.

Secondo un'altra definizione (8) la sociologia giuridica, al pari della sociologia generale, avrebbe quale oggetto di studio tutti i comportamenti posti in essere da una data collettività, descrivendoli nel loro manifestarsi, con le loro regolarità o irregolarità. Tuttavia, in quanto è presente la qualificazione "giuridica", questa disciplina avrà necessariamente riguardo ad un ambito più specifico rispetto alla realtà presa in considerazione dalla sociologia generale: tale ambito riguarda "l'esperienza giuridica intesa come sistema di comportamenti" (9).

Più precisamente, la sociologia giuridica così intesa andrà ad occuparsi di tutto quell'insieme di comportamenti che "1) hanno per effetto norme giuridiche. 2) sono considerati come effetto di norme giuridiche. 3) sono considerati in relazione funzionale con comportamenti che hanno effetto norme giuridiche o che sono effetto di norme giuridiche" (10). Com'è evidente, tale definizione allarga di molto lo spettro di fenomeni sociali oggetto di interesse del sociologo del diritto in quanto afferenti, in linea di massima, all'universo normativo e, più specificamente, ai processi di controllo sociale che su di esso poggiano.

Attraverso la sociologia giuridica si riesce quindi a porre maggiormente in luce come il diritto, quale strumento di controllo sociale, interagisca con tutti gli aspetti che riguardano una data collettività; i quali, a loro volta, non vanno visti come fattori secondari nel funzionamento dei meccanismi di potere, ma come la base sociale in cui nasce e funziona in concreto il diritto.

Lo Stato, con le sue leggi ed i suoi giudici, non è titolare esclusivo del potere di esercitare il controllo sociale. Quest'idea, "basata su una sorta di ipostatizzazione del termine-concetto Stato, visto come persona unitaria, separata dalla società" (11), distoglie la mente dal fatto che le norme, nella loro creazione, applicazione, interpretazione, nel loro esistere concretamente, non sono indipendenti dagli uomini che le fanno vivere (12).

L'idea che vi sia una separazione netta fra i governanti ed i governati, che gli uni, titolari della funzione di controllo sociale, la esercitino sugli altri, è una visione che ha resistito parecchio nella cultura filosofico politica europea (13), che tuttavia non rende assolutamente conto dei meccanismi di controllo sociale praticati nelle moderne democrazie di massa, né della loro dislocazione lungo l'intero corpo sociale, soggetto/oggetto del controllo.

Parlando di controllo sociale, infatti, siamo partiti utilizzando un concetto che non trova le sue radici nella cultura europea, ma nasce, a partire dall'opera di A. Ross poi sviluppata dalla scuola sociologica di Chicago, nell'alveo delle nascenti scienze sociali americane tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo (14); nel contesto, quindi, della prima vera democrazia di massa - a prescindere, ovviamente, dal caso degli afro-americani e dei nativi-americani, il cui status giuridico non è stato per lungo tempo assimilabile ad una condizione di piena cittadinanza - che la storia abbia conosciuto. E non mancarono, peraltro, i toni polemici da parte degli scienziati sociali americani nel contrapporsi alla filosofia politica europea, ancora legata a quello che si considerava un obsoleto strumento concettuale: lo "Stato", percepito com'era quale entità a sé stante, contrapposto ai singoli individui "soggetti" di situazioni giuridiche attive (diritti) e passive (obblighi).

Questa visione - bollata come riduttiva nella sua pretesa di spiegare la costruzione o il mantenimento di un dato ordine sociale nei soli termini di una codificazione giuridica degli spazi di azione concessi agli individui (15) - venne sostituita dal riferimento al concetto di controllo sociale che, come abbiamo visto, attribuisce maggiore rilevanza a fattori di controllo che potremmo definire, solo approssimativamente, extragiuridici (16).

Ma sarà il caso di osservare più da vicino queste due tradizioni di pensiero.

1.1.1: Teorie dello Stato

Se si vuole lo Stato, questa figura astratta, nasce nella cultura europea con Machiavelli, il quale, nella sua opera più celebre, parla dello "stato" del principe indicando al contempo una sua condizione personale e la somma dei suoi poteri (17). Da quest'incertezza semantica si iniziano ad isolare concettualmente una serie di attribuzioniche assumono un'esistenza propria e svincolata da colui che in concreto le esercita, si enuclea il concetto di sovranità.

A lungo però una simile immagine non rispose ad alcuna realtà concreta. Lunga e tortuosa sarà la strada che porterà, dal crollo dell'impero romano, alla formazione dei moderni Stati nazione. Tale processo, che ha portato alla creazione delle monarchie assolute, è consistito in una progressiva avocazione, da parte di un unico centro, della prerogativa di porre delle leggi e farle rispettare. Tutto il processo si è svolto a scapito di quei centri di potere sparsi, periferici, che si sovrapponevano caoticamente l'uno all'altro, spesso in contrasto fra loro (18). Il potere monarchico assoluto s'impone come potere dominante sulle istanze minori nel momento in cui riesce, con il suo intervento, a risolvere le singole controversie fra quelle, rappresentandosi quale fattore di armonizzazione ed unica fonte legittima di giustizia: centro a partire dal quale promana il diritto. Alla stessa stregua il "Principe" di Machiavelli è tratteggiato come un sovrano che riesce ad accentrare nelle sue mani quel potere che in Italia restava ancora parcellizzato fra istanze diverse. Tale visione sintetizza il potere nella capacità di imporre la propria volontà da parte del sovrano: esso è la capacità di "dettar legge" e di usare la forza per farla rispettare.

In una lezione al Collège de France nel febbraio 1978 M. Foucault (19) sarebbe tornato, da una prospettiva leggermente diversa, sullo stesso argomento: il problema cioè del concetto si sovranità e del modo corretto di esercitarla da parte del Principe, che ne è titolare.

Nel tentativo di rintracciare la genealogia di una nuova ragion di stato, filosofo francese inizia a svolgere la sua analisi dall'esame di alcuni testi inquadrabili in un filone di letteratura definita «anti-machiavellica» che, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, riscoprirono Il principe nel quadro di un tentativo di enucleare le basi per una nuova concezione dell'arte di governare. Ciò che questi autori rifiutavano era una visione del potere centrata sulla metafora di un Principe che "riceve il suo principato, per eredità o per acquisizione o per conquista e che in ogni caso non ne fa parte, è esterno ad esso" (20); la cui unica e costante preoccupazione è quella di mantenerne il dominio, tanto proteggendosi dagli attacchi provenienti dall'esterno, quanto da quelli provenienti dall'interno, posto che "non c'è ragione a priori che i sudditi accettino il principato del Principe" (21).

Si trattava di prendere le distanze da questa concezione dell'arte di governo tutta concentrata sulla figura del principe e sulla capacità di conservare la sua sovranità su di un dato territorio: "essere abile nel conservare il principato non è affatto possedere l'arte di governare" (22). L'arte di governo si sarebbe dovuta informare ad un nuovo e diverso criterio di razionalità.

Invero una simile visione del concetto di sovranità appariva conforme al modo diffuso d'intenderla presso la dottrina giuridica, almeno dal medioevo in poi: sovranità è il potere su di un dato territorio e sui sudditi che lo abitano, è un rapporto in cui esistono un lato passivo ed un lato attivo (23). Essa ha resistito anche nei testi di filosofi o giuristi successivi e se pure, a partire dall'illuminismo, la sovranità sarà attributo del popolo intero e conferita, attraverso la metafora del contratto, a quello che Hobbes chiamava "uomo artificiale" o Leviatano - il quale la eserciterà secondo l'interesse di tutti - resterà ferma l'idea che essa sia un potere che agisce dall'esterno sugli individui, un potere che questi subiscono.

La polemica settecentesca nei confronti della monarchia, descritta quale istanza di potere arbitraria ed irrazionale, non era diretta, infatti, contro il concetto di sovranità e la correlativa rappresentazione "giuridica" del potere, bensì contro gli eccessi e le irregolarità che connotavano l'utilizzo della sovranità da parte del monarca. L'attività dei riformatori fu infatti diretta ad una rifondazione più razionale della sovranità, a favore della costruzione di un centro di potere senza scarti o irregolarità: l'importante snodo storico fra XVIII e XIX secolo "non ha messo in dubbio il principio che il diritto debba essere la forma stessa del potere e che il potere debba sempre esercitarsi nella forma del diritto" (24).

Peraltro la finalità che si è a questa autorità - quella pensata dal "contrattualismo" moderno - attribuita, l'utilità di tutti, appare meno lontana dal machiavellico fine di pura conservazione del principato, la sovranità, infatti, rimanda a se stessa, l'utilità di tutti che essa è votata a perseguire si risolve nella mera pretesa del rispetto delle norme poste (25). Non è qui il caso di condurre un'analisi su tutte le teorie del contratto (Locke, Hobbes, Rousseau), è sufficiente evidenziare come il loro nucleo centrale consista nella creazione di un'autorità sovrana (Leviatano o volontà generale, adesso non importa) alla quale è attribuito il compito di evitare i conflitti fra gli individui, regolandone la condotta. È evidente che un'autorità descritta come superamento di uno stato di natura in cui ogni singolo era esposto alla violenza ed alla prevaricazione, rappresenta, con le leggi che pone, un principio d'ordine che è di per sé un valore; su tale nodo concettuale si avvierà la deriva conservatrice della cultura liberale.

Qui non è in questione la validità assiologia di queste teorie, che peraltro hanno al loro interno il germe da cui sorgeranno le democrazie che ancora abitiamo, adesso si tratta di evidenziare come la metafora del contratto ponga ancora il problema del controllo e dell'ordine in termini di sovranità e legge.

Volontà divina (sulla quale si era tradizionalmente fondato il potere monarchico) o Volontà generale (su cui si fonderà a partire dall'evo moderno), il modo di pensare agli strumenti di esercizio del potere quali meccanismi di soluzione dei conflitti e di regolazione del comportamento umano attraverso la legge, la quale agirà sanzionando, cioè simbolicamente escludendo, il comportamento vietato, non è sostanzialmente cambiato. Tuttavia la nuova, laica, legittimazione del potere appare molto più fragile: esso si basa pur sempre su di una convenzione, la quale, almeno in teoria, lascerebbe aperta la via di una rescissione, cioè la possibilità di opporsi, legittimamente, al potere qualora i patti originari venissero violati. Come è stato giustamente notato, infatti, fondare l'autorità sociale sulla metafora di un accordo prepolitico fondamentale (solitamente sancito nei moderni stati di diritto per mezzo delle Carte Costituzionali) implica il un diritto/dovere alla disobbedienza civile da parte dei cittadini in caso di lesione da parte dell'autorità statale dei precetti fondamentali su cui si basa il patto sociale (26). Recitava a riguardo l'art. 29 della Costituzione francese del 1793: "in ogni governo libero, gli uomini devono avere un mezzo legale per resistere all'oppressione, e, quando questo mezzo è impotente, l'insurrezione è il più santo dei doveri".

La svolta fondamentale dovuta al pensiero illuminista, cioè una nuova, democratica, legittimazione del potere, non sembrerebbe avere indotto grossi cambiamenti nel modo di rappresentarsi da parte della teoria politica il funzionamento dei meccanismi di controllo sociale. La sovranità ha, ancora, il mero obbiettivo di esercitarsi mediante l'imposizione di obblighi o divieti e la pretesa del rispetto degli stessi. Essa resta in sostanza un potere che pesa sui suoi bersagli inermi.

Molto resistente si è mostrata la metafora dello Stato titolare di un potere autonomo, la sovranità: il potere di porre delle regole ed esigerne il rispetto grazie al monopolio legittimo dell'uso della forza nei confronti di un insieme di individui stanziati su di un territorio. Stato da un lato, individuo dall'altro, non vi è spazio in questa visione, per "l'esistenza di una dimensione intermedia tra individuo e stato" (27).

Peccando forse di eccessiva approssimazione, si potrebbe dire che c'è un modo di esercitare il controllo sociale (ma soprattutto di descriverlo) in cui lo stato si rivolge direttamente, con i suoi comandi generali ed astratti, ad ogni singolo individuo soggetto alla sua sovranità ed, in questi termini, il problema della legittimità del potere che dirige il processo di controllo - perlomeno nel pensiero illuminista e liberale - è il problema del rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo, di quella che I. Berlin ha descritto con il nome di "liberta negativa" (28).

Molta della cultura filosofico-politica europea non si è ancora liberata di questa figura del sovrano, con il suo potere di vietare, di dire no, non si è ancora, come scrisse provocatoriamente Michel Foucault, "tagliata la testa al re" (29).

1.1.2: Teorie del controllo sociale ed analitica del potere

Secondo la tradizionale concettualizzazione del potere tipica di quelle che per comodità abbiamo chiamato teorie dello stato, l'interlocutore, colui cui si rivolge il potere con i suoi comandi, è dunque il singolo, il singolo individuo inteso quale soggetto di diritto (ciò che nelle teorie liberali si pone anche quale frontiera di legittimità del potere sovrano).

Questa visione del potere e dei suoi meccanismi di funzionamento, in termini di mera interdizione/repressione praticata attraverso lo strumento del diritto, era già stata oggetto degli strali scagliati dalla nascente "comunità" di scienziati sociali americani ed, in questo, le critiche mosse ai concetti di stato e sovranità da Michel Foucault nella seconda metà degli anni settanta appaiono molto simili (30).

Nelle pagine scritte dai primi esponenti delle nascenti scienze sociali americane, come nell'opera del filosofo francese, da un lato è contenuta un'aspra critica del concetto di stato, visto come entità egemonica ed accentratrice di tutti i processi di controllo sociale, dall'altro lato, invece, si sottolinea come il potere si dislochi attraverso tutto il corpo sociale, protagonista attivo del continuo processo di creazione di un linguaggio ed una coscienza comune, base principale su cui poggia ogni ordine sociale. Ma, come avremo modo di sottolineare, intuizioni analoghe ebbe Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere, allorché si interessò all'analisi delle forme di esercizio del potere nelle moderne società di massa.

Se la tradizione sociologica americana - inquadrabile sotto l'etichetta di tradizione dello "stato debole" - già si era rifiutata di sovrapporre la "forma stato alle vicende della compagine sociale, valutando e rileggendo i problemi di governo di quella secondo lo schema del controllo sociale" (31). Michel Foucault con la sua analitica del potere e le sue ricerche sull'origine di una nuova "ragione di governo" porta un analogo attacco, dall'interno della tradizione culturale che ne è stata la culla, alla concezione del potere basata sul concetto di sovranità.

Come detto il filosofo francese ha tentato una sommaria ricostruzione genealogica dell'emergere di una nuova concettalizzazione del potere e, sorprendentemente, uno dei testi di quella letteratura «antimachiavellica» (32) presa in considerazione a riguardo, afferma già esplicitamente che l'arte di governo non coinvolge semplicemente il principe (e i suoi interessi) ma si svolge a partire da diversi centri (con i relativi punti di vista): "ci sono (...) molti governi rispetto ai quali quello del principe nei confronti del suo stato non è che una delle modalità" (33).

Similmente a come il problema del controllo sociale sarà affrontato nel continente americano, gli autori europei che, a partire dal XVI secolo, andavano enucleando una nuova "ragione di governo" avevano ben chiaro che "le pratiche di governo sono (...) delle pratiche molteplici che coinvolgono molta gente: il padre di famiglia, il superiore del convento, il pedagogo e il maestro rispetto al bambino o al discepolo" (34). Così come era già abbastanza chiaro a questi stessi autori che le pratiche di governo fossero interamente calate nel complesso delle relazioni sociali. Molteplici ed immanenti, svolte a partire da diversi punti non esterni al consesso sociale stesso, protagonista attivo dei processi di controllo sociale, le pratiche di governo hanno in queste caratteristiche ciò "che le oppone radicalmente alla singolarità trascendente del principe di Machiavelli" (35).

La questione era, dunque, di individuare quale, fra queste diverse modalità di governo si sarebbe potuta applicare allo stato interamente inteso.

Continuando nella sua analisi Foucault evidenzia come solo un secolo dopo un altro testo (36) arrivi a distinguere diverse modalità di governo, ricollegando a ciascuna forme di scienza o riflessioni particolari. Si può infatti distinguere fra: il governo di se stessi (cui si ricollega la morale); l'arte di governare una famiglia (cui si ricollega l'economia); la scienza di ben governare lo stato (cui si ricollega la politica); "colui che vuole governare lo stato deve prima saper governare se stesso, poi, ad un altro livello, la sua famiglia, i suoi beni, il suo patrimonio, e alla fine riuscirà a governare lo stato" (37). Viceversa, in uno stato ben governato, anche i padri di famiglia ed i singoli come tali sapranno governare sé stessi ed il piccolo universo sociale che li circonda.

Ciò che questi testi ci indicano è come già a partire dal XVI secolo si cercasse di far rientrare un principio, una razionalità economica, nell'esercizio politico; come il potere cominciasse a non esser visto nei termini riduttivi della sovranità, ma come insieme di meccanismi sparsi, in cui è coinvolto l'intero corpo sociale, da armonizzare secondo un principio di razionalità. Il potere non potrebbe reggersi con l'ausilio del semplice strumento interdittivo, esso necessita di una produzione di discorsi, di saperi, che si spargono attraverso l'intero corpo sociale, assoggettandolo a sé in un modo più economico, efficiente e meno suscettibile di resistenza (38).

È così che alle pratiche di potere viene restituito un carattere "creativo" (non più meramente repressivo), che, attraverso la produzione di una morale condivisa e di un'insieme di strutture simboliche e di saperi molteplici, coinvolge tutto il complesso della produzione intellettuale in un meccanismo persuasivo che trasforma gli individui, da meri bersagli, in ingranaggi del potere.

Esso agisce oltre che con l'interdizione anche, e forse soprattutto, tramite la produzione di una morale (predicando il giusto/sbagliato) e di un sapere (predicando il vero/falso). Ma i processi di creazione di una morale o di un sapere condivisi socialmente (tutto quel materiale simbolico funzionale alla costruzione di un sistema di governo che si fondi sul consenso degli stessi governati) non avvengono su un terreno diverso rispetto al consesso sociale, non vengono imposti interamente dall'esterno ai membri di una società (e questo è soprattutto vero per le società di massa in cui abitiamo).

In questo senso asserire che il potere non si applichi agli individui, ma che transiti attraverso questi, costituendoli quale raccordo in cui esso si esplica concretamente in micro-relazioni, non vuol dire che il potere sia democraticamente distribuito attraverso un movimento discendente che, dall'alto, lo ridislocherebbe fino alle cellule infinitesimali del corpo sociale. Il potere nasce a partire da quelle stesse micro-relazioni, che, considerate nel complesso, costituiscono un enorme processo d'interazione attraverso il quale le nostre società (in maniera più o meno conflittuale, con maggiori o minori resistenze) costruiscono dei significati condivisi in grado di orientarne l'azione sociale.

Una visione simile del potere era già stata offerta da Antonio Gramsci (39), nel momento in cui sottolineava la necessità di comprendere i meccanismi di potere moderni a partire da una riconsiderazione del concetto di diritto. A parere del filosofo italiano, infatti, esso andrebbe esteso fino a comprendere quelle attività che solitamente cadono sotto la formula di indifferente giuridico e ritenute comunemente "dominio" della società civile, non dello Stato.

Simili considerazioni partono dal presupposto dell'identità fra società civile e società politica, da cui discende la necessità di allargare l'analisi dei meccanismi di potere ben oltre lo specifico ambito dell'attività statale (esercitata per mezzo dello strumento giuridico): "per stato deve intendersi oltre all'apparato governativo anche l'apparato privato di egemonia o società civile" (40).

Quest'ultima, pur senza possibilità di imporre obbligazioni tassative, col baluardo delle relative sanzioni, è in grado di esercitare una pressione sugli individui, ottenendo "risultati obbiettivi di elaborazione nei costumi, nei modi di pensare e di operare, nella moralità ecc." (41).

Più in generale, il concetto stesso di stato che Gramsci enuclea è composto da un misto di forza e consenso, coercizione - autorità - e capacità di creare consensi mobilitando le forze sociali - egemonia (42). Stato e società civile si identificano proprio sul terreno dell'egemonia, all'esercizio della quale concorrono in eguale misura organismi pubblici e privati.

Se, secondo l'intuizione gramsciana, esiste "un compito educativo e formativo dello stato, che ha sempre il fine di creare nuovi e più alti tipi di civiltà, di adeguare la civiltà e la moralità delle più vaste masse popolari alla necessità del continuo sviluppo dell'apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei nuovi tipi di umanità" (43); la creazione di siffatte umanità passerà attraverso la capacità di creare un certo "conformismo sociale", in grado di far "diventare libertà la necessità e la coercizione" (44) ed a tale scopo sarà più funzionale l'utilizzo di strumenti non meramente giuridico negativi.

La funzione educatrice non si appoggia infatti sugli strumenti della repressione, sui tribunali, essa, al contrario, è esercitata prevalentemente in senso positivo dalle istituzioni in cui gli individui si formano, partendo dalle scuole o dagli altri organismi pubblici con funzioni analoghe (45) ed arrivando sino alle organizzazioni - più o meno complesse - della società civile.

In sostanza l'unità, nello stato moderno, di società civile e società politica, fanno di questo una sorta di "egemonia corazzata di coercizione" (46), dove alla "punizione" in senso stretto è concesso un ruolo residuale: "il diritto infatti è l'aspetto repressivo e negativo di tutta l'attività positiva di incivilimento svolta dallo stato" (47). Man mano che l'elemento del consenso, dell'egemonia culturale e morale si fa strada, omogeneizzando gli individui sottoposti al potere statale, quest'ultimo avrà sempre meno bisogno di esercitare la coercizione: il governo si sarà trasformato in auto-governo.

Questa è la profonda novità apportata dall'avvento della forma statale della società borghese matura, rispetto alle precedenti: la capacità di inglobare, assimilare, i governati in un tutto organico, educandoli al livello di razionalità e moralità necessario al rispetto delle istituzioni sociali date (48). Tale rispetto è sempre in misura minore ottenuto con un intervento negativo, piuttosto che positivo, di creazione del consenso; e sempre in misura maggiore affidato anche ad organizzazioni private (i moderni partiti o sindacati sono solo un esempio) che agiscono sul terreno della società civile.

In Gramsci la descrizione dei moderni meccanismi di potere si salda con la concettualizzazione del partito politico quale "principe moderno" e con l'idea della necessità - ai fini della possibilità di assumere la guida di una nazione - di tracciare un percorso che, partendo dall'assunzione di un ruolo di egemonia politico-culturale, portasse fino alla conquista anche del potere statale. Da qui la fortunata metafora "militare" in cui è trasposta la questione del conflitto politico, espressa nella dicotomia guerra di posizione-guerra di movimento e la profonda consapevolezza del fatto che per sconfiggere o contrastare un potere "molecolarizzato" lungo tutta la società civile, in tante istanze diverse, sia necessario recuperare "posizioni" sul terreno dell'egemonia, allargando alla frazione più estesa possibile di società civile la propria influenza culturale e morale. Solo a questo punto si avrebbe il presupposto indispensabile affinché l'egemonia si possa estendere dalla società civile alla società politica, divenendo concreta attività di governo: non più solo "persuasione" ma anche effettiva "coercizione".

Analoga intuizione ebbero gli scienziati sociali americani. Anche se, con tutta probabilità, più che di vera e propria intuizione si trattò di una mera constatazione: l'assenza negli Stati Uniti tra XIX e XX secolo, di un fondo di coscienza comune, di un consenso sociale di base su cui costruire un nuovo ordine sociale e giuridico.

Le pagine che Michel Foucault dedica all'analisi dei meccanismi di potere, tuttavia, non si limitano ad innestare nella cultura europea la tematica del controllo sociale così come è stata articolata sull'altra sponda dell'Atlantico (49). Né, tanto meno, sono in esse esplicitamente riprese le analisi gramsciane sullo stato moderno, anche se, come vedremo, l'opera di Foucault, pare per certi versi essere uno sviluppo ulteriore delle pagine dei Quaderni sul ruolo degli intellettuali nei processi egemonici (50).

Foucault, infatti, non si limita a sottolineare quale ruolo abbiano i processi di costruzione di una morale condivisa nell'economia complessiva del controllo sociale, egli pone al centro della questione la relazione sapere-potere, denunciando il volto oppressivo del razionalismo e delle scienze umane, viste nei loro complessi intrecci con i meccanismi di potere.

Su questo punto egli si pone chiaramente sulla scia dei lavori effettuati dalla "scuola di Francoforte", ma, pur apprezzandone il contributo, se ne discosta (51) nel momento in cui afferma di rifiutare di considerare il razionalismo come un tutto, ma piuttosto di volerne isolare ed analizzare campi specifici, quali quelli presidiati dalle scienze umane (dotate di uno statuto epistemologico più "debole" rispetto alle scienze naturali) le quali appaiono strettamente legate ad istituzioni ed esigenze economico-politiche immediate (52) e di ritenere che le razionalizzazioni attualmente più implicate nei processi di controllo sociale trovano le loro radici molto prima dell'avvento dei "lumi" (53).

Se la razionalità delle nostre società è rimessa in questione non è per la suggestione esercitata dalla deriva irrazionalistica (54), ma per la consapevolezza, ricavata dalla lezione di Nietzche, secondo cui la conoscenza non è adeguamento all'oggetto, comprensione, riduzione a sé di questo da parte di un presunto soggetto di conoscenza neutrale; bensì una relazione di lotta, espressione della volontà di dominarsi che informa tanto le relazioni uomo-natura che uomo-uomo. Pertanto, se si vuole sapere cosa sia la conoscenza, bisogna rivolgersi non ai filosofi ma ai politici.

Dati questi presupposti è possibile un ripensamento della razionalità specifica delle nostre società, un ripensamento che sappia individuare limiti e pericoli insiti ad essa e che colga la conoscenza a partire dalle relazioni di forza e nelle lotte politiche da cui scaturisce; "d'altronde se è estremamente pericoloso dire che la ragione è il nemico che dobbiamo eliminare, è altrettanto pericoloso che ogni descrizione critica di questa razionalità ci esponga al rischio di scivolare nell'irrazionalità. Non bisogna dimenticare (...) che il razzismo fu formulato sulla base della razionalità sfavillante del darwinismo sociale, divenendo così uno degli ingredienti più duraturi e persistenti del nazismo. Si trattava di un'irrazionalità, certo, ma di un'irrazionalità che, al tempo stesso, costruiva una certa forma di razionalità..." (55).

Dall'immagine di un potere che opera con semplici prelevamenti sui beni giuridici degli individui allorché trasgrediscano una norma, si passa all'idea di un potere in grado di articolare un discorso che investe gli stessi individui in tutta la loro esistenza, che agisce con l'ausilio e il supporto dei saperi, delle tecnologie, che esso stesso è in grado di elaborare (56). In questo quadro la verità non è un "di fuori" che si affianca al potere nella sua azione, né, di per sé, può essere considerata priva di effetti di potere, poiché questi ultimi le sono naturalmente immanenti. Essa, fondandosi sull'opposizione vero/falso, è la "più forte, ma proprio per questo anche meno avvertita procedura di esclusione e di controllo che delimita gli spazi della nostra esperienza" (57).

Tuttavia "non si tratta di affrancare la verità da ogni sistema di potere - sarebbe una chimera dal momento che la verità è essa stessa il potere - ma di staccare il potere della verità dalle forme di egemonia all'interno delle quali per il memento funziona" (58).

La verità, la conoscenza, lungi dall'essere scaturigine di una propensione umana alla felicità è sottesa da "un gioco di istinti, di impulsi, di desideri, di paura, di volontà di appropriazione". Né di essa è possibile asserire la neutralità poiché "è sempre schiava, dipendente, interessata" (59).

Le tematiche foucaultiane non aprono quindi prospettive irrazionaliste, bensì riportano i saperi al centro dell'intreccio di relazioni a partire dalle quali si produce un ordine sociale, al centro dei processi di controllo sociale.

In questa prospettiva ecco quelli che appaiono alcuni tratti caratteristici di ciò che nelle nostre società si definisce verità: il suo centrarsi sulla forma del discorso scientifico e delle istituzioni che lo producono; l'essere sottoposta ad una costante sollecitazione economico-politica stante l'elevatissimo bisogno di verità che caratterizza le nostre società; l'essere oggetto di un consumo e di una diffusione immensi; il fatto di essere prodotta sotto il controllo, non esclusivo, ma dominante di pochi grandi apparati politici o economici; l'essere, in fine, la posta in gioco di tutto un dibattito politico e uno scontro sociale (60).

La verità, così come concettualizzata, fonda un potere che non è quello implicato nella filosofia politica classica, cui non basta opporre diritti inalienabili. Essa pone le basi per il sorgere di un insieme di meccanismi di potere che rappresentano forse la vera svolta della modernità:"se il decollo economico dell'Occidente è cominciato con i processi che hanno permesso l'accumulazione di capitale, possiamo dire, forse, che i metodi per gestire l'accumulazione degli uomini hanno permesso un decollo politico in rapporto a forme di potere tradizionali, rituali, costose, violente che, ben presto cadute in desuetudine, sono state sostituite da tutta una tecnologia sottile e calcolata di assoggettamento" (61).

1.1.3: Ragione "governamentale" e scienze sociali

Quanto detto ci ha portato più volte a sottolineare l'inadeguatezza, la riduttività, di una certa visione del potere: quella che lo vuole, come dicevamo, funzionante solo attraverso un meccanismo di imposizione di regole di comportamento, cui segue, quale reazione alla trasgressione, un prelievo sui beni giuridici dei singoli (fino al sommo bene della vita). La nuova razionalità politica che emerge in Europa già a partire dal XVI secolo (al pari del concetto di controllo sociale enucleato dalle scienze sociali americane) implica un potere per il quale, invece, "il prelievo tende a non essere più la forma principale di esercizio, ma solo un elemento fra gli altri che hanno funzioni d'incitazione, di rafforzamento, di controllo, di sorveglianza, di maggiorazione e di organizzazione delle forze che sottomette". Il potere in questa visione tende ad essere "destinato a produrre delle forze, a farle crescere e ad ordinarle piuttosto che a bloccarle, a piegarle o a distruggerle" (62).

Come detto l'emergere di questa nuova nozione di governo, che Foucault chiamò, con un neologismo, governamentalità (63), si colloca nell'ambito di in un lungo periodo che inizia nel XVI secolo e giunge a compimento nel XIX secolo. In questo lungo arco di tempo si compie il passaggio che porta dalle grandi monarchie amministrative, al sorgere dello stato costituzionale moderno.

Tuttavia, come sottolineato, la svolta non segnò un radicale mutamento nelle concettualizzazioni più diffuse del potere. Resteranno a lungo egemonici, infatti, il discorso della filosofia politica classica ed i suoi strumenti concettuali: stato, sovranità, diritti soggettivi.

L'avvento di uno stato costituzionale (o "di diritto"), inteso come formazione politica legittimata nei limiti in cui riconosce e garantisce i diritti individuali, è visto come "la" svolta della modernità, il terreno su cui si sarebbe fondata, definitivamente, l'uguaglianza degli uomini. La mistificazione che si nasconde dietro alla formula dell'eguaglianza di fronte alla legge fu, come avremo modo di sottolineare, oggetto degli strali marxisti, tuttavia in proposito l'analisi foucaultiana sposta oltre la critica alle forme di dominazione moderne e contemporanee. Essa è in grado di evidenziare come il potere lentamente inizi, già molto prima dell'evo moderno - in epoca classica - ad atteggiarsi diversamente, mutando i suoi bersagli: non più gli uomini quali soggetti di diritto, bensì gli uomini - sia come singoli che considerati quali membri di un corpo più ampio, la popolazione - in quanto esseri viventi. Ed è così che, con una provocazione nei confronti della storiografia tradizionale, il filosofo francese può arrivare ad affermare che, a cavallo tra XVIII e XIX secolo: non si è passati da uno «stato amministrativo» ad uno «stato di diritto», bensì da uno «stato amministrativo» ad uno «stato di governo» (64).

Lo snodo tra XVIII e XIX secolo porta a compiuta maturazione - proprio in contemporanea con il processo di codificazione - ciò che, come visto, sin dal XVI secolo si andava incubando in alcuni pensatori. Tuttavia ampi segni (e sono forse i più significativi) della lenta maturazione di una nuova ragione politica si davano già nell'esperienza pratica: inequivocabili in tal senso sono l'enorme sviluppo dell'amministrazione pubblica, la nascita di una scienza dello stato e le politiche mercantiliste (65).

Tra XVI e XVII secolo l'arte di governo cominciava già ad essere concettualizzata in maniera radicalmente nuova: essa non poteva più consistere nel semplice mantenimento della sovranità su di un dato territorio, doveva iniziare a trasformarsi nella capacità di gestire un insieme complesso di elementi "costituito dagli uomini e dalle cose" (66). Non più il puro interesse del principe, né, tanto meno, il bene di tutti - cui i pensatori liberali finalizzano l'autorità istituita dal contratto sociale - che, come sottolineato, rischia di risolversi nell'obbedienza generalizzata alla legge. Non sono questi gli obbiettivi della nuova ragione politica, "non si tratta di imporre agli uomini una legge, ma di disporre le cose" (67). Il singolo individuo inizia a non porsi più come bersaglio esclusivo del potere, il quale volge adesso il suo sguardo verso una nuova entità che pare essere tra XVI e XVII secolo l'indice della forza dello stato: la sua popolazione.

Il potere governamentale emerge nel momento in cui - in una fase storica segnata da ampie possibilità di espansione manifatturiera e commerciale, oltre che da sanguinose guerre ed una stagnazione demografica complessiva - il problema di armonizzare, regolare e potenziare le forze sociali viene percepito come strettamente legato alla potenza degli stati. A partire da questo periodo "la popolazione sarà l'oggetto di cui il governo dovrà tenere conto nelle sue osservazioni, nel suo sapere; per arrivare effettivamente a governare in modo razionale e consapevole" (68).

Il potenziamento delle risorse dello stato, il perseguimento del benessere e della sicurezza degli stati, sono le finalità che la nuova "ratio" di governo si pone e si comincia a provvedervi non più nei meri termini di un accumulo di risorse materiali (processo in cui vi è l'alba del moderno capitalismo), ma anche nei termini di una tecnologia in grado di accumulare e ordinare produttivamente risorse umane e di regolarne la distribuzione in relazione alle risorse materiali disponibili.

La nuova razionalità dell'arte di governo implica una conoscenza precisa delle risorse dello stato e delle tecniche per gestirle ed amplificarle, come dicevamo, un governo razionale è in grado di gestire quel complesso di entità costituito dagli uomini e dalle cose: "le cose di cui deve occuparsi il governo sono gli uomini, nei loro rapporti, legami, imbricazioni con queste altre cose che sono le ricchezze, le risorse, i mezzi di sussistenza, il territorio, certo, nelle sue frontiere, con le sue qualità, il suo clima, la sua siccità, la sua fertilità; sono gli uomini nei loro rapporti con queste altre cose che sono gli usi, le abitudini, i modi di fare o di pensare ecc., e infine gli uomini nei loro rapporti con queste altre cose ancora che possono essere gli incidenti o le disgrazie come la carestia, l'epidemia, la morte, ecc" (69). Ed a riguardo la legge non si pone di certo quale elemento centrale di controllo, la dicotomia sovrano-popolo viene ormai ad essere sostituita dalla dicotomia autorità (governo)-popolazione (70).

La nuova razionalità politica porterà allo sviluppo di tutto un campo di conoscenza che investirà la popolazione da diversi punti di vista: l'economia politica, che guarderà ai rapporti fra popolazione e risorse materiali disponibili; le scienze umane e sociali, che avranno riguardo al comportamento umano sia come singolo che quale membro di una comunità più ampia o della società complessivamente intesa; il sapere medico-biologico, in grado di prendersi carico della salute della popolazione.

L'emergere di uno stato governalmentale è insomma strettamente connesso allo sviluppo "tutto un insieme di saperi e di pratiche (...) che si riferiscono al corpo sociale in quanto popolazione e che lentamente lo costituiscono e lo modellano" (71). Questi saperi, come vedremo, nascono nella pratica di governo concreta, in particolare si tratta di ciò che potrebbe essere definito con il termine di «polizia»: quell'insieme di funzioni che tra XVII e XVIII verranno a costituire l'oggetto di una vera e propria scienza (la "cameralistica") ed in cui si riteneva di avere un fondamentale strumento per la realizzazione del benessere e della felicità all'interno dello stato, nonché il potenziamento delle sue forze (72).

La popolazione non ha, tuttavia, sostituito completamente l'individuo nelle attenzioni del potere, l'insieme di saperi che l'ha investita, assoggettandola nei meccanismi di controllo, passa anche attraverso le comunità più ristrette, come le famiglie, fino ad arrivare ai singoli individui. È la vita nel suo complesso che il potere arriva ad investire, modellandola secondo le esigenze che gli sono più consone: la vita di una popolazione, la sua consistenza numerica, la sua distribuzione su di un territorio, la sua salute complessiva, i suoi modi di fare; la vita dei singoli, modellata da un insieme d'istituzioni all'interno delle quali ogni singolo individuo si forma (iniziando dall'istituzione familiare).

Inizia così ad articolarsi un insieme di meccanismi di governo che, distribuiti su più piani e legati da razionalizzazioni comuni, tendono a costituire una popolazione armonica (in rapporto con le risorse materiali), in salute e, per inclinazione morale, convinzione o abitudine acquisita, rispettosa dell'ordine costituito. Si gettano su tutto il terreno sociale, passando anche attraverso (e forse soprattutto) le istituzioni della società civile, le premesse per la costruzione di una solida egemonia politico-culturale, per la partecipazione consensuale di ogni singolo all'ordine sociale in cui viene ad esistere, percepito come ordine "naturale", ineluttabile...per la produzione di un'umanità che si riconosce nell'ordine sociale che vive, senza avere possibilità di concepirne altri possibili.

Questo "potere sulla vita" (73) agisce, quindi, secondo una doppia polarità: da un lato si pone quale "anatomo-politica del corpo umano" attraverso l'utilizzo di meccanismi disciplinari in grado di estrarre il massimo delle forze dal corpo del singolo e di renderlo docile ed integrato all'ordine sociale (ed è ciò che M. Foucault chiama: potere normalizzatore (74)); dall'altro si atteggia quale "bio-politica della popolazione" (75) cioè come un insieme di tecniche capaci di investirla sotto il profilo della sua salute complessiva (76) e del rapporto "popolazione-ricchezza (nei suoi differenti aspetti concreti: fiscalità, carestia, spopolamento, ozio-mendicità-vagabondaggio)" (77).

"Sviluppo rapido nell'età classica delle varie discipline - scuole, collegi, caserme, ateliers; emergenza anche, nel campo delle pratiche politiche e delle osservazioni economiche, dei problemi di natalità, di longevità, di salute pubblica, di habitat, di migrazione" (78), da un lato si fa presa sui singoli individui, dall'altro si agisce a livello di popolazione, il «potere governamentale» modella la vita, la investe per armonizzare l'ordine sociale e sviluppare la forza e la ricchezza complessiva dello Stato.

In questo le discipline, anche se si presentano quali meccanismi idonei a far presa sul singolo individuo, si troveranno valorizzate nel loro ruolo poiché, nel governo complessivo della popolazione, si pongono quali mezzi in grado di scendere nei dettagli più minuti del corpo sociale, fino al singolo individuo (79).

Così, come vedremo, lo stesso carcere, punta di diamante del complesso disciplinare, saprà con estrema duttilità prestarsi tanto quale strumento per aumentare le forze produttive e per consentire l'immediata disponibilità di una forza lavoro a bassissimo costo, in momenti di carenza di mano d'opera; che quale calmiere delle conseguenze sociali più dannose derivanti dagli sconvolgimenti che la nascita di un sistema di produzione capitalistico comportava. Cioè: saprà assumere di volta in volta un ruolo di integrazione (anche forzosa) dei singoli all'interno dell'ordine economico e sociale, attraverso il disciplinamento di un numero (variabile a seconda delle esigenze effettive) di individui; o di neutralizzazione degli individui ritenuti più pericolosi e meno integrati (integrabili) (80), secondo una doppia polarità insita allo stesso meccanismo disciplinare, sempre oscillante, nel governo della popolazione, tra integrazione e neutralizzazione.

Lo sviluppo di questi meccanismi di potere (con i correlativi campi di sapere) è un passaggio chiave nel processo che ha portato al sorgere di una società capitalistica matura: "questo bio-potere, infatti, è stato senza dubbio, uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo; questo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell'inserimento controllato dei corpi nell'apparato di produzione, e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione a processi economici" (81).

Lo sblocco definitivo del potere "governamentale" cade in coincidenza con il processo di codificazione del diritto, ma avviene anche in parallelo con una serie di fenomeni sociali che, genericamente, si riconducono alla nascita del capitale moderno: l'accelerazione complessiva dei processi di accumulazione originaria (e correlativi fenomeni di pauperizzazione, proletarizzazione e inurbamento di una massa crescente di individui); e la nascita dei processi di produzione industriali (alla manifattura si sostituisce la fabbrica).

Furono probabilmente i grandi conflitti che lo sviluppo industriale andava accentuando a porre con assoluta urgenza il problema di un migliore governo delle evoluzioni in corso, soprattutto dei cambiamenti che investivano le sempre più affollate città; era questo, in sostanza, il problema della popolazione che si poneva al passaggio fra XVIII e XIX secolo: il problema di un suo efficiente e razionale accumulo.

Problema che cominciava ad assillare le elite dominanti e la cui soluzione passava attraverso la capacità di elaborare meccanismi di governo in grado di intervenire sulle, spesso tumultuose, masse urbane e rurali, armonizzandole alle nuove esigenze della produzione.

L. Chevalier (82), in un opera che è ormai un classico della storiografia, ha descritto la Parigi della prima metà del XIX secolo offrendoci un incredibile affresco di una città in pieno terremoto sociale. La capitale francese - non meno di altre città europee - era al centro di un lungo, quanto complesso, processo di industrializzazione, la sua popolazione era fluttuante ed in continua espansione demografica (incrementata soprattutto da imponenti flussi migratori interni alla stessa Francia), i rapporti sociali percorsi da una conflittualità latente, che spesso si tramutava in aperta (basti, per la prima metà del XIX secolo, l'esempio del 1848), le condizioni di vita dei suoi cittadini erano per larga parte al limite della sussistenza e le violente ondate di colera che l'investirono (1832 - 1849) non furono altro che le punte di emergenza e di aggravamento della situazione generale del periodo, in cui le differenze socio economiche si tramutavano immediatamente in differenze biologiche, in una radicale diversità nell'aspettativa di vita.

Nei grandi agglomerati urbani esplose immediatamente quella che avevamo descritto come un'aporia logica delle teorie del contrattualismo: nelle quali non è contemplata la possibilità che il contratto sociale possa essere avvenuto a partire da una profonda stratificazione sociale. Da quest'assunto discende un paradosso, che poi - se si vuole - è il frutto dell'estrema astrazione che connota queste teorie politiche: l'impossibilità logica che l'ordine fissato da un'autorità così costituita non sia pensato per il bene ed a vantaggio di tutti.

Il prescindere dalle stratificazioni sociali, dalla marcata diversificazione nell'allocazione dei beni materiali (soprattutto i mezzi di produzione), rendeva assolutamente vana la pretesa di descrivere quest'autorità come la prima sanzione del principio d'eguaglianza. La esponeva, piuttosto, al rischio (concretizzatosi) di rappresentare uno strumento di certificazione giuridica dello stato di sfruttamento della maggior parte (83). Ma le vesti della legge e del diritto (se pur smascherate nella loro funzione occultatrice) non furono di certo l'unico abito del potere, esso, come abbiamo più volte sottolineato, già da tempo si andava dotando di una nuova razionalità operativa.

Lo sblocco del potere governamentale coincide pertanto con l'esplodere della questione sociale e dei problemi di governo degli agglomerati urbani, ad esso si accompagna lo sviluppo di un insieme di saperi che hanno ad oggetto l'uomo come singolo e come membro di una popolazione: una scienza del comportamento individuale e collettivo.

Le scienze umane e sociali nascono, quindi, a partire da esigenze pratiche di governo: dall'esigenza di governare i grandi cambiamenti imposti dall'industrializzazione, "dall'esigenza di liberarsi del terrore, e quindi non solo dalla violenza in quanto tale, ma dalla pretesa delle masse urbane di irrompere sulla scena politica, dalla pretesa degli sradicati di ogni classe di partecipare alla festa politica" (84).

L'incubo del popolo in rivolta, che l'esperienza di fine XVIII aveva concretizzato, rese ancora più impellente la necessità di conoscere, prevedere e governare i fenomeni collettivi, le città (85), vere e proprie polveriere, andavano governate secondo una razionalità in grado di gestire, possibilmente in maniera indolore, fenomeni quali gli imponenti spostamenti di popolazione che le colpivano. Questa esigenza di conoscere, questa volontà di sapere come l'avrebbe chiamata M. Foucault, si sarebbe a breve dotata di uno strumento fondamentale: le statistiche, prezioso strumento conoscitivo per le neonate scienze sociali, fino ad allora confinate su di un terreno prevalentemente teorico.

In particolare la "scoperta" di questa realtà nuova, la realtà sociale - su cui le scienze sociali vanteranno la loro assoluta giurisdizione (86) - sposta di molto il baricentro nell'esercizio del potere, oltre a ridurre, come segnala N. Bobbio (87), il ruolo tradizionalmente attribuito allo stato nella riflessione filosofica. Il paradigma sociale (88) - cioè il modo di leggere la realtà attraverso la lente delle scienze sociali - assimila lo stato al suo interno e le sue leggi saranno sempre in misura minore necessarie, tanto più la società sarà organizzata secondo principi che ne assicurino l'armonia. Così, coloro che in tal maniera dirigeranno la società, "faranno a meno d'ora innanzi della spada di Cesare" (89).

In questo senso si capisce come il paradigma sociale - il quale vantava uno statuto epistemologico pari, nella capacità esplicativa della realtà che si pone quale oggetto di studio, a quello tradizionalmente attribuito alle scienze naturali - potesse apparire quale strumento razionale d'intervento sulle questioni aperte dalle nascenti società industriali, sui loro conflitti e sulle loro contraddizioni.

Claude Henri de Saint-Simon (ma anche Comte - cui peraltro si deve la creazione del neologismo, ibrido greco latino: socio-logia (90) - ed H. Spencer) è il primo esplicito esempio di un tentativo di formalizzare una nuova razionalità per l'agire politico: "la politica diverrà una scienza positiva quando coloro che coltivano questa branca importante della conoscenza umana avranno appreso la fisiologia nel corso della loro educazione, non considerando più i problemi da risolvere che come problemi di igiene" (91).

Il governo della realtà si sarebbe dovuto informare ai dettami provenienti dai nuovi saperi, che, in grado di individuare le disfunzioni nella compagine sociale, avrebbero realizzato l'armonia all'interno della società, eliminando i conflitti. Lo stato, quindi, come omeostato, cioè regolatore dell'organismo società, garante dell'armonia del tutto con le sue parti, avrebbe agito seguendo i dettami di questa filosofia positiva o fisica sociale (che solo successivamente sarebbe diventata sociologia).

Come qualcuno ha sottolineato (92), l'intero programma della sociologia non si sarebbe potuto dare senza l'ossessione per il controllo dei conflitti ed il preservamento dell'ordine sociale che caratterizzò il passaggio tra XVIII e XIX secolo. In questo senso si è parlato della impossibilità di asserire la neutralità delle scienze sociali e umane: esse, più che affiancarsi ai processi di governo della realtà, nascono a partire da esigenze connesse a questi.

Così, tutto il discorso che le scienze sociali articoleranno sull'ordine sociale, sin dalla loro nascita, più che un discorso "descrittivo" di una realtà data, esterna al soggetto di conoscenza, pare essere un discorso "prescrittivo". Più che analizzare i fattori funzionali al mantenimento di un ordine armonico - quasi ci fossero in natura criteri per stabilire quali movimenti collettivi fossero più o meno consoni alle esigenze dell'ordine sociale - ne creava uno, individuando i comportamenti che, rispetto ad un ordine naturale e razionale delle cose, appaiono quali manifestazioni di una "patologia" in quanto controproducenti, votati al disordine.

La pretesa di articolare un discorso intorno ai problemi sociali in termini di normalità/patologia - trasponendo a livello dell'"organismo società" le dinamiche dei fenomeni patologici che attentano all'esistenza degli organismi viventi comuni - e la correlativa pretesa di rintracciare così linee per un razionale governo della realtà, appare come una strategia che progressivamente ammanta l'ordine sociale in una sorta di "datità". Una simile reificazione dell'universo sociale fa perdere di vista ciò che, forse, il pensiero illuminista metteva maggiormente in evidenza: il suo carattere politico, contingente, mai dato per scontato, ma, anzi, discutibile e criticabile. Dietro le scienze sociali ed il loro lavoro pretenziosamente definito "avalutativo", si intravede un'aspirazione interamente politico morale.

Tale vocazione moralistica delle scienze sociali traspare nel momento in cui accampano la pretesa d'interessarsi ai problemi posti dall'evoluzione dell'organismo società, ai suoi sviluppi "anormali", "patologici", eludendo la preliminare definizione di ciò che è normale nella vita delle formazioni sociali (che, ovviamente, è un problema che attiene alla filosofia morale) (93). Del resto già A. Gramsci aveva intuito come la sociologia più che descrivere eziologicamente le evoluzioni naturali nella vita delle formazioni sociali, ricavandone le leggi invariabili di funzionamento, tendesse a "descrivere e classificare schematicamente fatti storici e politici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali" (94).

"Si tratta allora di considerare gli apparati teorici che legittimano i diversi sistemi di terapia sociale non come manifestazioni o sistemi di esplicitazione della verità, ma come espressioni di una lunga e contraddittoria impresa di disciplinamento della realtà" (95); cui non bastavano più le costruzioni filosofico morali d'impronta liberale: l'ordine sociale si manifestava, infatti, in aperta contraddizione con la mistica dell'eguaglianza ed i conflitti che permeavano la vita sociale del tempo ne erano il segno tangibile.

Più in generale si potrebbe dire che è l'artifizio del contratto a non reggere di fronte alla realtà delle società uscite dalla rivoluzione francese: un potere fondato sulla volontà (96) - come era nella metafora del contratto - informato al principio "non veritas, sed auctoritas facit legem" non avrebbe resistito all'impatto dei grandi cambiamenti. La distruzione delle vecchie strutture dell'ancien regime poneva il problema della costruzione di un ordine nuovo, in cui integrare ed armonizzare anche l'enorme quantità di individui che si andava ammassando nelle città, un ordine che sapesse, al di fuori dell'astratto concetto del contratto fra eguali, che non risolveva il problema, ispirarsi ad un principio di razionalità scientifica, rintracciando così un nuovo e più forte principio di autorità (97) in base al quale fondare il nuovo ordinamento.

In breve, l'avvento delle scienze sociali e umane stava per abbracciare l'ordine sociale in una nuova totalità significativa, calandolo in un nuovo "universo simbolico" (98), cioè in una costruzione cognitiva in grado di offrire una legittimazione migliore all'ordine dato delle cose.

Nel passaggio all'evo moderno, le costruzioni teoretiche di stampo filosofico che condussero l'attacco, sconfiggendoli, agli universi simbolici di stampo teologico su cui si fondava l'ancien regime, si videro doppiate da nuove costruzioni teoretiche maggiormente resistenti rispetto al fondamento dato all'ordine sociale dalla teoria politica, in quanto fondate su un'opposizione più forte rispetto alla dicotomia giusto/sbagliato: l'opposizione vero/falso. Il processo storico è sintetizzabile nella definitiva diffusione del positivismo, che, come segnala A. Gramsci (99), avrebbe, per estrema reazione all'idealismo hegeliano e dietro la spinta di un certo "materialismo volgare", riportato in auge l'idea dell'oggettività della realtà sociale esterna, costruendo ciò che l'italiano avrebbe chiamato "metafisica della materia".

Avremo modo di sottolineare come tale processo culturale sia stato causato da una mancata comprensione del valore gnoseologico della distinzione fra struttura e soprastruttura e dell'importanza che i due concetti marxiani assumono in relazione alla questione dell'egemonia nelle società moderne. Adesso preme piuttosto sottolineare come la "scienza positiva" con la sua pretesa di rintracciare la realtà del mondo esterno, abbia dimenticato il suo carattere storicamente determinato, il suo essere neint'altro che una "categoria storica". Al contrario la pretesa positivista non fa altro che riconfermare su di un terreno nuovo e diverso, il senso comune che oggettivava il mondo degli uomini come un dato di natura su cui è impossibile incidere.

Il problema è dato dal fatto che dal XIX secolo in poi si è posta "la scienza a base della vita, facendo della scienza la concezione del mondo per eccellenza, quella che snebbia gli occhi da ogni illusione ideologica" (100), mentre essa stessa può essere considerata una superstruttura, un'ideologia, poiché nasce sempre a partire da un punto di vista interessato: "tutta la scienza è legata ai bisogni, alla vita, all'attività dell'uomo" (101).

Così, se tra XIX e XX secolo, il senso comune popolare era ancora intriso di forti elementi religiosi, che presentando il mondo quale opus alienum, lo dotavano di una sorta di immodificabile "fattualità", nelle società contemporanee la diffusione di un paradigma scientifico di lettura della realtà ha costituito il nuovo sfondo simbolico dei discorsi di senso comune sul mondo in cui viviamo.

1.2: Controllo penale e «criminologia critica»

Fra le prerogative più importanti assegnate all'autorità statale vi è la potestà punitiva, fra tutte quella che mette più in questione il rapporto fra individuo e potere pubblico. Oltre ad essere per la sua capacità d'incidere sulla sfera giuridica del singolo il più invasivo strumento di controllo in dotazione agli stati moderni.

Nel nostro lavoro ci interesseremo prevalentemente dei processi di controllo sociale praticati attraverso il settore dell'ordinamento giuridico in cui si esplica tale importante funzione pubblica - il diritto penale sostanziale e processuale - e, nel farlo, utilizzeremo ampiamente, come già accennato, lo strumentario concettuale della sociologia giuridica.

A partire dalla fine del XVIII secolo tale settore dell'ordinamento giuridico ha vissuto (al pari del diritto costituzionale e del diritto civile - sostanziale e processuale) un intenso processo di formalizzazione e razionalizzazione, all'esito del quale parve alle coscienze dell'epoca (e tale percezione è tuttora parecchio radicata) di essere usciti definitivamente dalla barbarie e di vivere finalmente in società la cui costituzione civile assicura pari dignità di fronte alla legge a tutti gli individui. La percezione involge principalmente il diritto penale, al quale molte energie cerebrali furono dedicate dai riformatori, da subito impegnati a denunziare le iniquità dei sistemi ancen regime.

Se si volesse provare ad analizzare più da vicino questo vero e proprio "mito" dell'uguaglianza della legge penale, si potrebbero enucleare due postulati, che, insieme, costituiscono i cardini fondamentali di quella che è stata chiamata l'ideologia della difesa sociale (102):

  1. "Il diritto penale protegge egualmente tutti i cittadini nei confronti di offese recate ai beni essenziali ai quali sono interessati tutti i cittadini.
  2. La legge penale è uguale per tutti, cioè tutti gli autori di comportamenti antisociali e violatori di norme penalmente sanzionate hanno uguale chances di divenire soggetti, e con le stesse conseguenze, del processo di criminalizzazione" (103).

La costruzione giuridica borghese offre, insomma, l'immagine di un sistema penale attraverso il quale vengono tutelati valori cui ogni membro della società aderisce, alla preservazione dei quali siamo tutti egualmente interessati. Un sistema in grado, grazie all'estremo livello di formalizzazione raggiunto, di assicurare che la selezione dei "clienti" delle autorità penali avvenga in maniera assolutamente egualitaria.

Tanto a livello di criminalizzazione primaria (nella selezione dei beni tutelati dalle leggi penali) che a livello di criminalizzazione secondaria (104) (nella selezione degli individui in concreto perseguiti come criminali), quindi, il nostro sistema penale realizzerebbe in pieno il principio dell'eguaglianza di tutti gli individui di fronte alla legge penale.

l'analisi del potere punitivo e l'eventuale denunzia dei suoi eccessi o difetti, secondo la classica prospettiva della filosofia politica, si sostanzia nella valutazione del rispetto effettivo dei principi che formalmente ne dovrebbero sottendere l'agire, in particolare delle garanzie poste a tutela dei diritti individuali.

Un discorso del genere, seppur di fondamentale importanza è bene non dimenticarlo, presenta due ordini di inconvenienti: in primo luogo limita l'analisi al settore della criminalizzazione secondaria, cioè al momento dell'applicazione concreta delle norme penali (l'attività giurisdizionale) ed alle deviazioni dai principi che in questa fase potrebbero verificarsi (siano esse errori giudiziari o abusi, atti illegittimi veri e propri), eludendo la questione relativa alla selezione dei beni tutelati penalmente - cioè la possibilità che nelle nostre società la penalità sia allocata in maniera diseguale già a partire dai processi di criminalizzazione primaria. In secondo luogo individua il potere punitivo con la mera potestà di "imporre comandi", offrendone un'immagine, come detto, estremamente riduttiva e dimentica della capacità da parte di questo di "oggettivare" i suoi bersagli attraverso il ricorso a saperi che legittimino una selezione ed un trattamento diseguale degli individui.

Un approccio socio-giuridico, viceversa, è in grado di arricchire lo studio del potere punitivo sotto diversi profili, integrando, con il riferimento ai fattori strutturali e culturali su cui s'inserisce il funzionamento concreto del sistema giuridico, l'analisi del controllo penale nelle società moderne e contemporanee. Ed in particolare due fattori ci pare di poter rintracciare il vantaggio teorico che un approccio socio-giuridico presenta rispetto alle canoniche analisi del potere statale nelle società moderne.

In primo luogo nella maggiore attenzione per l'elemento strutturale (la stratificazione economica ed il sistema di produzione caratteristici di una data società) data dal ricorso a strumenti concettuali che il marxismo ha prevalentemente utilizzato nella critica del diritto civile borghese. Prospettiva che consente di evidenziare come i comportamenti sanzionati penalmente rispondano alle esigenze di valorizzazione e di accumulazione capitalistica e come, correlativamente, si immunizzino comportamenti dannosi per alcune categorie sociali, ma funzionali alle esigenze del sistema di produzione capitalistico (sotto questo profilo vengono in questione tanto i processi di criminalizzazione primaria che di criminalizzazione secondaria) (105).

In secondo luogo nella possibilità di evidenziare gli elementi culturali (incluso ciò che in un dato momento storico passa per sapere scientifico) in grado di legittimare l'attività di controllo penale supportandola con le dovute razionalizzazioni, quali fattori centrali nel funzionamento effettivo e nella giustificazione di un sistema penale che, in concreto, si è sempre mostrato tutt'altro che egualitario.

Un tale approccio è ricollegabile in linea di massima con la prospettiva di una criminologia critica (106). Essa rifiuta la concezione "naturalistica" del crimine sottesa all'ideologia della difesa sociale per rimettere in questione i meccanismi di interazione sociale (con i relativi rapporti di forza e di potere) all'interno dei quali avviene il processo di definizione della devianza criminale.

Grazie ad un simile approccio teorico il concetto di criminalità, ciò che in una determinata formazione sociale viene identificato come criminale e come tale perseguito, è calato nel contesto economico-sociale in cui tale definizione emerge e valutato in rapporto alla struttura sociale. Mentre la stessa criminologia classica, con la sua pretesa di individuare le "cause" del comportamento criminale, è messa radicalmente in questione quale elemento centrale nel processo di definizione della devianza e di legittimazione dell'attività dei sistemi penali.

La contrapposizione fra un approccio "classico" ed un approccio "critico" nello studio del crimine potrebbe essere, con estrema approssimazione, delineata attraverso il riferimento alle rispettive implicite rappresentazioni della devianza criminale (107).

Una prima, riferibile alla criminologia classica, definita monista (implicata nel primo dei due postulati su cui abbiamo visto fondarsi l'ideologia della difesa sociale), che vede crimine e criminale come elementi profondamente dannosi per la società intera, nei cui confronti l'intervento penale si giustifica quale reazione difensiva di una maggioranza "normale" di fronte ad una minoranza di "diversi", di "pericolosi" (a livello scientifico tale rappresentazione della devianza si è espressa nella classica criminologia positivista d'impronta eziologica, intenta a rintracciare le cause della radicale diversità dei soggetti individuati come devianti, ontologizzando il concetto di criminalità quale realtà oggettiva spiegabile nei termini di una patologia sociale o individuale).

Una seconda, riferibile ad un approccio critico, definita pluralista (in grado, al contrario della prima, di demistificare il primo postulato dell'ideologia della difesa sociale), per la quale la devianza non è una qualità intrinseca degli atti criminalizzati, bensì, come accennato, una qualificazione cui si perviene attraverso un processo d'interazione che coinvolge l'intero corpo sociale. In questa visione la criminologia classica, accettando acriticamente le definizioni di devianza che provengono dalle istanze ufficiali, sovrappone un giudizio di "diversità" pretestuosamente scientifico, all'identificazione ufficiale della criminalità, occultandone il carattere contingente, mai dato per scontato...in ultima analisi: politico.

"Dal punto di vista epistemologico, una teoria delle cause o condizioni delle criminalità è assai problematica, perché rispetto ad oggetti definiti da norme e valutazioni sociali non può essere realizzata una ricerca eziologica, ma devono essere innanzi tutto analizzate le norme e le valutazioni sociali che condizionano la definizione di tali oggetti" (108).

Rispetto ad una criminologia d'impronta classica (eziologica) la criminologia critica si pone, quindi, quale radicale rovesciamento di prospettiva: se l'oggetto criminalità non è un dato ontologico, esistente in natura a prescindere dalla definizione che una determinata formazione sociale ne ha dato, una sua reale comprensione è possibile solo concentrando l'analisi sui processi sociali attraverso cui si perviene ad identificare in concreto la devianza.

È così che l'oggetto criminalità risulta incomprensibile se si prescinde da quei processi - fra cui un ruolo di spicco assumono i meccanismi di controllo penale - attraverso cui una data formazione sociale definisce e reagisce alla devianza (109). D'altra parte, appare evidente il problema gnoseologico - di sociologia della conoscenza - implicato nella visione critica del crimine, la quale rimanda costantemente a concetti propri della sociologia fenomenologica ed al lavoro di P. L. Berger, T. Luckmann (110) sulla costruzione degli oggetti su cui la scienza sociale accampa le sue pretese.

Certo la definizione "criminologia critica" è relativamente recente rispetto ai primi esempi di un approccio pluralistico nella rappresentazione e nello studio della devianza, oltre a comprendere al suo interno singoli autori o scuole di pensiero spesso apparentemente inconciliabili. Vi è tuttavia un minimo comune denominatore in grado di accomunare le diversità di prospettiva: il fatto che, in un modo o in un altro, tutti questi approcci differenti arrivino a rifiutare ogni eziologia criminale. Ciò porta tutte le correnti in questione ad orientare programmaticamente la loro attenzione sui processi di controllo sociale attraverso cui viene in concreto definito ciò che è deviante.

La maggiore attenzione riposta nello studio degli agenti del controllo sociale, piuttosto che sui bersagli di tale processo, accomuna le varie correnti "pluraliste" nella prospettiva di uno studio della social reaction quale fattore di costruzione della devianza. Tuttavia, aldilà di questo dato comune, è solo la maturazione di un pensiero criminologico critico che ha consentito di sintetizzare in una prospettiva dotata di maggiore coerenza la diversità - e la ricchezza di spunti - che caratterizza i vari lavori in cui è stata offerta una visione pluralista del concetto di devianza.

1.2.1: Sviluppo di un approccio «critico»: i precursori

Se si volessero sommariamente rintracciare le influenze ed i vari orientamenti che hanno contribuito, in una maniera o in un'altra, all'elaborazione degli apporti teorici che attualmente è possibile riunire sotto l'etichetta di "criminologia critica", si potrebbe cominciare col segnalare come già la filosofia giuridico-penale classica, tra XVIII e XIX secolo, avesse lucidamente indicato la sostanza normativa e convenzionale del crimine, esprimendo, nel reagire alle commistioni fra universo giuridico ed universo teologico, il rifiuto di una concezione naturalistica del reato quale male in sé, o quia peccatum (111).

Per il ruolo critico che assunsero tali elaborazioni filosofiche rispetto agli ordinamenti penali ancien regime, ma, soprattutto, per la concezione convenzionalista della devianza da cui sono sottese, esse paiono sviluppare argomentazioni simili ad alcuni, più recenti, sviluppi dell'approccio della social reaction (112).

L'aver offerto un'immagine convenzionalista della devianza - vista non quale manifestazione terrena di una legge universale, divina; bensì come espressione dei valori di cui una data formazione sociale si rende portatrice - è sicuramente un merito dell'illuminismo penale, tuttavia - per ragioni su cui avremo modo di ritornare - queste teorizzazioni hanno costantemente sottovalutato l'elemento conflittuale che percorreva le società del tempo, caratterizzate da una marcata stratificazione economica. La "svista" ha probabilmente costituito terreno fertile per l'involuzione autoriataria del pensiero liberale, avviando la deriva verso una nuova concezione "naturalistica", sostanzialista, della devianza (113). È merito del pensiero marxista aver denunziato immediatamente il carattere contestabile dell'ordine sociale, offrendo un'immagine estremamente conflittuale della società, le cui definizioni di devianza riflettono gli esiti del conflitto stesso: le istanze del gruppo sociale che prevale. Già nel marxismo vi è, insomma, un primo abbozzo di sociologia giuridico-penale in cui gli elementi strutturali caratteristici di una data formazione sociale sono valutati in rapporto alle definizioni di devianza che questa esprime. Sul punto torneremo comunque nello specifico, per ora sono sufficienti questi pochi accenni (114).

Nella seconda metà del XIX secolo, come detto, verranno a maturazione le scienze umane e sociali, il cui avvento influirà in maniera non indifferente sui processi di controllo sociale e questo vale a maggior ragione nel caso dei meccanismi di controllo praticati attraverso il diritto penale. Dalla pratica penale effettiva sorgono, infatti, dei saperi inizialmente "non-teoretici", che verranno a completa maturazione, formalizzandosi in dei saperi "teoretici" (115), solo nella seconda metà del secolo XIX. La scienza del crimine nasce, quindi, a partire da esigenze connesse al funzionamento dei sistemi penali, all'interno di una tendenza ad una razionalizzazione maggiore dell'intervento istituzionale. Tale processo influirà notevolmente sul funzionamento effettivo del sistema penale, ma, soprattutto, verrà a costruire un forte elemento culturale di legittimazione dell'intervento penale stesso.

La pretesa di eliminare il crimine attraverso uno studio ed un intervento sulle cause dello stesso, eludendo la questione dei processi attraverso cui si perviene all'individuazione della devianza criminale, è un fattore di rafforzamento per un'immagine "monista", sostanzialista, della devianza. Le scienze criminali, da subito, esprimeranno una tale visione della devianza, indugiando nella ricerca delle cause individuali o sociali di comportamenti assunti per "anormali" o "patologici". Soffermandosi così sulle "diversità" caratteristiche dei soggetti individuati come criminali, piuttosto che sulle ragioni strutturali o culturali per cui si è giunti alla criminalizzazione di quel dato comportamento o individuo.

È questo, ovviamente, il caso dell'antropologia criminale e della c.d. Scuola Positiva di diritto penale che, nella seconda metà del XIX secolo, avranno un successo ed una diffusione tali da determinare profondi mutamenti nei meccanismi di controllo penale e nell'ideologia degli attori istituzionali.

Al momento tuttavia ci preme piuttosto sottolineare come in questa fase - contrassegnata dal domino assoluto delle scienze criminali classiche di matrice antropologica - E. Durkheim (116) sia stato il primo a riproporre il problema del delitto non più in termini di una patologia da individuare e sulla quale intervenire.

Nel suo Le regole del metodo sociologico è contenuto un capitolo intitolato Le regole relative alla distinzione fra normale e patologico, in cui egli enuncia la sua idea - sovversiva in un'epoca di positivismo imperante e di lettura dei conflitti che percorrevano la società (di cui il crimine era un'espressione) attraverso i concetti biologici di disfunzione e patologia - del delitto come fatto normale e, in ultima analisi, funzionale all'esistenza stessa dell'ordine sociale. Egli infatti in questo capitolo arriva ad affermare che "il crimine non ha nulla di morboso, e la pena non può avere lo scopo di guarirlo, quindi la sua vera funzione deve (...) essere cercata altrove" (117), indicando questa funzione nella sua capacità di produrre solidarietà, essendo la pena stessa espressione dell'esistenza di un ordine sociale.

Per la prima volta dallo sviluppo del pensiero positivista e dalla formalizzazione delle scienze umane e sociali vi è chi, occupandosi del crimine, non si riferisce ad esso come ad un fenomeno patologico, ma ne teorizza la normalità e la funzionalità per l'ordine sociale stesso: il crimine ed il diritto penale che lo definisce non sono altro che l'espressione dei confini morali di una data società.

Si torna così ad evidenziare la sostanza normativa e convenzionalistica del crimine, che si era persa completamente a causa del ricorso alle metafore organicistiche di cui le scienze umane e sociali facevano ampio utilizzo nella fase del loro primo sviluppo (118).

Con Durkheim il problema del crimine torna ad essere un problema dovuto alla contingenza storica delle società del tempo, in cui la progressiva divisione sociale del lavoro allenta i legami sociali, facendo perdere di vista al singolo il filo che lo lega alla società ed aumentando gli antagonismi ed i conflitti. L'insieme di questi problemi è espresso con il concetto di anomia, cioè mancanza di norme, disaffezione all'ordine sociale ed alle regole di condotta che esso implica. Il diritto penale è, in questo quadro, un meccanismo per sanzionare le deviazioni dall'ordine stabilito, rinforzando la coscienza collettiva, lesa dall'infrazione, attraverso la reazione stigmatizzante.

Vi è tuttavia un'aporia di fondo nelle considerazioni svolte da E. Durkheim, che è in pratica il nodo irrisolto di tutta la sua analisi sulle funzioni del diritto penale. Egli, infatti, risolvendo il problema della deviazione individuale in una questione di anomia, dà per scontata quella coscienza collettiva su cui si dovrebbe fondare l'ordine sociale, mostrando un'eccessiva fiducia nella capacità degli organismi intermedi - le corporazioni professionali, che nella sua costruzione teorica avrebbero dovuto evitare fenomeni anomici, socializzando gli individui ai valori espressi dalla coscienza comune - di mediare i conflitti. Il diritto penale in questo quadro è lo strumento estremo di tale meccanismo di socializzazione, reintegrando la coscienza lesa dall'infrazione.

Tuttavia è evidente come, nella sua analisi, l'esistenza di tale coscienza collettiva sia data per scontata (119) - o perlomeno vi sia troppa fiducia nella possibilità di crearla. Al contrario anomia e conflitti che Durkheim vedeva come fattori accidentali, cui sarebbe stato possibile ovviare - al limite anche con il diritto penale quale estremo strumento d'integrazione per la maggioranza non deviante - si rivelarono fattori normali nello sviluppo delle società industriali.

Tutta l'opera Durkhemiana è percorsa da questo tentativo di rintracciare la coscienza collettiva su cui fondare l'ordine sociale, tentativo che ad una considerazione storica della società in cui visse il sociologo francese non sarebbe azzardato definire velleitario. La critica che gli può essere mossa è dunque di avere considerato con eccessiva fiducia la possibilità di conseguire una tale coscienza comune e di avere teorizzato il diritto penale come espressione di questa morale condivisa. Al contrario, "sarebbe stato più appropriato parlare di moralità dominante o di ordine morale dominante, che non di coscienza collettiva" (120), tenendo maggiormente presente il dato dei forti conflitti che caratterizzavano le società del tempo e di come l'ordine giuridico dominante fosse espressione degli interessi di che prevalsero nella soluzione di quei conflitti.

Certo non vogliamo con ciò dimenticare il grande pregio delle parole spese da Durkheim sul diritto penale, egli infatti "parte dal presupposto che è criminale ciò che viene definito come tale: se Durkheim avesse visto l'elemento criminale come residente nell'individuo, in una sua patologia, non avrebbe potuto fare questo tipo di discorso, che è fondamentalmente giuspositivistico. Precorre in ciò, quindi, le teorie dell'etichettamento" (121).

Se Durkheim può essere considerato l'iniziatore della sociologia moderna è, quindi, perché in esso, per la prima volta, scompaiono le metafore organiciste che avevano contrassegnato l'alba delle scienze sociali (122), il problema dello studio del comportamento umano in società diventa quello di individuare i fattori culturali - in Durkheim, la coscienza collettiva - su cui si fonda l'ordine sociale, i quali sono adesso assunti quale chiave di volta per comprendere l'agire - individuale e collettivo - degli uomini.

La metafora organicistica attraverso cui si leggeva la realtà sociale (con le sue patologie e disfunzioni) è stata, a partire dall'opera del sociologo francese, superata dal riferimento ai fattori culturali, come sottolinea A. Dal Lago "l'avanzamento prodotto dalla sociologia è consistito soprattutto nella trasformazione della materia biologica in materia simbolica" (123). Su questi presupposti si fonderà la scienza sociale del "nuovo continente" nata nell'ambiente del dipartimento di sociologia dell'università di Chicago.

Come detto i sociologi statunitensi riservarono parecchia attenzione ai problemi posti dalla società che abitavano, soprattutto furono assillati dall'esigenza di costruire quella materia simbolica che facesse da collante per la varietà di razze che popolavano le città americane e, segnatamente, Chicago.

La rilevanza della c.d. scuola di Chicago per la sociologia della devianza risiede nel fatto che le opere a questo tema dedicate dai "chicagoans" risentirono particolarmente della loro visione dell'ordine e del controllo sociale, che fu sostanzialmente una concezione "pluralista" (124).

In un contesto in cui, a livello di teoria generale, dominavano gli strumenti concettuali elaborati dall'interazionismo simbolico di G. H. Mead - nella cui opera il controllo sociale è visto passare attraverso elementi di tipo comunicativo, per mezzo dei quali costruire, nell'interazione concreta, un sostrato simbolico condiviso su cui fondare l'ordine sociale (125) - fra gli autori che si occuparono specificamente di devianza ve ne furono alcuni che riuscirono a "dare voce" ad ambienti e soggetti marginali, prescindendo dal giudizio sociale che colpiva queste categorie. Riuscendo, così, ad evitare di sovrapporre un giudizio di "diversità" scientifico allo stigma sociale già efficace nella marginalizzazione di tali categorie di persone.

Tale approccio, che tanto fecondo si dimostrerà per il prosieguo di un pensiero criminologico crititco, aveva l'indiscutibile pregio di utilizzare metodi di ricerca "qualitativi", riuscendo così - al pari dei lavori etnografici sulle popolazioni primitive - a far parlare gli individui studiati. Una prospettiva questa che evidenzia l'esistenza di vere e proprie organizzazioni sociali parallele o devianti, con le relative istituzioni e razionalizzazioni (126).

Si pensi ai classici lavori di N. Anderson sugli hoboes, o a quelli di F. M. Thrasher sulle gangs giovanili, per citarne alcuni, che nel complesso possono essere considerati il pionieristico contributo alla nascita di un'etnografia sociale (127).

I metodi etnografici, oltre alla propensione a rimettere costantemente in questione l'universo di valori, la coscienza collettiva per usare la terminologia di Durkheim, rifuggendo dalle rappresentazioni "moniste" dell'ordine sociale, furono l'eredità che i Chicagoans lasciarono a quegli autori che, negli anni sessanta, elaborarono il primo esplicito attacco contro l'ideologia della difesa sociale e la scienza criminale classica, che contribuiva a sorreggerla.

1.2.2: Sviluppo di un approccio «critico»: i «neo-Chicagoans»

Le scienze sociali nord americane sorsero, come detto, con una naturale propensione all'intervento nella realtà concreta, al fine di riuscire a costruire una società affettivamente coesa attorno ad alcuni valori fondamentali. L'attenzione che rivolsero allo studio empirico della realtà sociale e la tendenza ad evidenziare i vari "sotto-universi" culturali di cui era composta la società americana del tempo, fece della scuola sociologica di Chicago un indirizzo che guardava al problema del controllo sociale in un'ottica "pluralista".

Tuttavia, sul piano della teoria sociale generale, della problematica, cioè, relativa al concetto di controllo sociale, la sociologia statunitense subì una lenta evoluzione, tra gli anni '40 e '50 del secolo XX, verso una visione "monista" dell'ordine sociale; e naturalmente il mutamento di prospettiva non mancò di riflettersi in una correlativa visione della devianza.

Il passaggio coincide con l'emergere di un paradigma sociologico destinato a rimanere a lungo dominante (non a caso ormai considerato fra gli indirizzi "classici" della sociologia stessa) la cui diffusione fu tale che ancor oggi è in grado di fornire "il retroterra ideologico ai discorsi di senso comune sulla devianza" (128). Stiamo parlando dello struttural-funzionalismo, rappresentato dai lavori del suo caposcuola: T. Parsons (129).

Nell'impianto teorico del sociologo americano la solidarietà sociale, il problema attorno cui ruotava tutto il lavoro di Durkheim, attraverso la quale si sarebbe dovuto ovviare ad anomia e conflitti - che, come detto, il sociologo francese aveva ben presenti, nonostante un'eccessiva fiducia nella possibilità di risolverli - cessa di essere un obbiettivo da raggiungere, per trasformarsi in un postulato indiscutibile: la coscienza collettiva diviene in Parsons un dato di fatto a partire dal quale studiare i meccanismi di funzionamento del sistema sociale (130).

Le conseguenze della neutralizzazione teorica di ogni conflitto o possibile anomia, insita nella descrizione di una società assolutamente consensuale, si fanno sentire maggiormente sul piano della rappresentazione del crimine che tale costruzione offre: Parsons, infatti, - banalizzando e minimizzando il problema dei conflitti - risolve la questione del crimine in un problema individuale: se una deviazione rispetto all'ordine costituito si è potuta produrre, la ragione sarà da rintracciare all'interno dell'individuo, in un problema di cattiva socializzazione.

Se, infatti, "i cardini della teoria di Parsons sono costituiti dal postulato di un sistema di valori condiviso e dall'interiorizzazione di tali valori nella socializzazione" (131) il verificarsi di un episodio di devianza sarà interamente dovuto ad un problema di cattiva interiorizzazione di questi valori condivisi dalla maggioranza non deviante. È evidente pertanto come l'elemento criminale torni ad essere rintracciato nell'individuo, in uno scarto, in un'anomalia rispetto alla descritta (o meglio: prescritta - come sottolinea D. Melossi (132)) normalità, "in questo modo l'infrazione ridiventa patologica (...) può essere concepita come una tendenza marginale che il sistema è in grado di correggere con i meccanismi di controllo sociale" (133).

Il breve discorso condotto a proposito dell'opera di T. Parsons, può valere anche per un altro esponente di questa corrente sociologica: R. K. Merton (la cui "teoria della devianza è una delle più famose e delle più riprodotte nei testi di questa disciplina" (134)).

Questi offre una versione sicuramente più raffinata di sociologia della devianza, che attraverso la distinzione fra quelli che sono i valori condivisi in un dato contesto sociale, le norme stabilite per conseguirli e le opportunità per poter conseguire quei valori secondo i mezzi legittimi, giunge ad una partizione ormai classica fra i tipi di comportamento umano rispetto ad un dato ordine sociale: conformismo, cioè il comportamento che condivide le mete e le persegue nel rispetto delle norme previste; innovazione, cioè il comportamento di chi, pur condividendo le mete, utilizza mezzi illegittimi per conseguirle; ritualismo, cioè l'atteggiamento di chi non partecipa di quei valori, ma rispetta le norme previste dall'ordinamento; rinuncia, cioè il comportamento di chi non condividendo i valori sociali, si allontana dalla vita sociale stessa, non rispettandone nemmeno le norme; ribellione, cioè l'atteggiamento di chi non condividendo le mete sociali previste e rifiutando anche i mezzi per conseguirle, tenta di mettere in pratica progetti rivoluzionari.

Al di là di questa partizione, dal sicuro valore descrittivo, è interessante notare come in Merton sia presente una maggiore considerazione, rispetto a Parsons, del problema costituito dalla stratificazione economica che caratterizzava la società cui volgeva il suo sguardo (135). Ciò è evidente nel concetto, che egli enuclea, di deprivazione relativa, posto, fra l'altro, al centro della sua spiegazione "causale" del crimine, affianco al concetto di anomia.

La privazione relativa è la discrepanza esistente fra le mete culturali (il successo economico nella società di Merton, che è ancora la nostra) ed i mezzi legittimi per conseguirle, essa è fattore di anomia, nel senso che si crea un conflitto fra le mete culturali condivise e le possibilità strutturali di conseguirle legittimamente. Ciò, nella visione di Merton, determinerebbe l'aumento di comportamenti illegittimi, criminali, cioè, secondo la precedente partizione, innovativi.

Tuttavia, nell'impostazione mertoniana, l'anomia non è espressione di conflitti o disgregazione sociale, il comportamento innovativo condivide infatti le mete culturali poste in una data società, al contrario di quanto accade nel caso del ritualismo, della rinuncia o della ribellione; il presupposto di una coscienza collettiva comune non viene, infatti, mai a mancare nelle teorie struttural-funzionaliste e la ragione del comportamento innovativo è, piuttosto, rintracciata - come avveniva in Parsons - in una cattiva socializzazione, cioè in una difettosa interiorizzazione delle norme stabilite. Come si può notare il problema delle cause della devianza si risolve, nuovamente, in un problema di patologia individuale.

Se pure accolgono i valori sociali condivisi, gli "innovatori", "sono stati socializzati in modo imperfetto, così che essi abbandonino i mezzi istituzionalizzati pur di mantenere l'aspirazione al successo" (136).

Ecco il ritorno prepotente dell'idea di patologia, della pretesa cioè di spiegare il comportamento deviante sostenendo che c'è "un qualcosa che manca all'individuo" (137) e che in un certo senso ne determina la "natura" antisociale. È ciò è tanto più importante poiché tale approccio sociologico è tutt'ora l'approccio, in un certo senso, "ufficiale", perché assolutamente dominante anche aldilà del ristretto ambito accademico, nel discorso degli attori istituzionali e nel ragionamento pratico di senso comune, al pari di quanto avvenne nel corso della prima metà del XX secolo con le dottrine criminologiche di derivazione darwinista.

La teoria di R. K. Merton, che è, come sottolineato, un classico della sociologia della devianza, ripropone una spiegazione del comportamento criminale che, pur se basata su un concetto quale quello di deprivazione relativa che inserisce elementi di critica per la stratificazione sociale che caratterizza le società capitalistiche, si risolve in un perfetto strumento ideologico per "legittimare scientificamente, e in tal modo stabilizzare, l'immagine tradizionale della criminalità come del comportamento e dello status tipici delle classi povere della nostra società e il corrispondente effettivo reclutamento della popolazione criminale da queste classi" (138).

L'egemonia culturale dello struttural-funzionalismo fu, tuttavia, avversata negli Stati Uniti d'America da una generazione di scienziati sociali che, soprattutto nell'ambito specifico dello studio della devianza, riproposero radicalmente la questione del crimine in un'ottica "pluralista", sulla falsa riga delle indagini avviate a Chicago agli inizi del XX secolo (139). L'insieme di questi contributi venne ad enucleare il nocciolo duro di quella che sarà poi meglio formalizzata sotto l'etichetta di «criminologia critica».

Schematicamente potremmo individuare due categorie di autori distinguibili (non senza qualche forzatura) in relazione alla complessiva prospettiva sociologica da cui prendono le mosse.

In primo luogo si possono individuare coloro che comunemente vengono denominati «teorici dell'etichettamento», ai quali si deve l'esplicito spostamento di prospettiva che, per le scienze criminali, ha rappresentato una vera e propria rivoluzione scientifica (140). L'opera di questi autori può a ben ragione essere considerata uno sviluppo dei lavori di tipo etnografico sulla devianza avviati dalla scuola di Chicago e, sul piano teoretico, un'applicazione ancora più matura dei presupposti dell'"interazionismo simbolico" allo studio del crimine.

In secondo luogo coloro che si riconducono comunemente all'indirizzo «etnometodologico» fondato da H. Garfinkel. I quali paiono, più che porsi su un piano diverso rispetto ai "labeling theorists", arricchirne la prospettiva attraverso un fecondo ricorso agli strumenti concettuali della sociologia fenomenologia, oltre ad improntar, su questi presupposti, un progetto di ricerca empirica basato, anche in questo caso, prevalentemente sul metodo etnografico. Da un certo punto di vista l'etnometodologia è interpretabile comeuna prosecuzione su un piano empirico della prospettiva teorica lanciata dalla sociologia fenomenologica, è stato infatti detto che "l'oggetto dell'etnometodologia consiste nell'analisi del ragionamento e delle conoscenze di senso comune in rapporto al problema dell'ordine sociale" (141) ed - aggiungeremmo noi -al problema della sua costruzione e giustificazione.

Le due correnti vennero a costituire quella "criminologia antagonista" che si pose in contrapposizione dialettica con la dominante prospettiva dello struttural-funzionalismo, denunziando esplicitamente l'assurda pretesa di una scienza delle cause del crimine priva di considerazione per i processi attraverso cui si crea la devianza stessa.

In un classico del "labelling" uscito negli anni '60, H. S. Becker (142) sottolineava lucidamente come tutti gli scienziati sociali (ma il discorso non muta per i loro antesignani europei: gli "antropologi criminali") che si erano posti il problema di spiegare le ragioni per cui un individuo commette una violazione di una norma, hanno sempre eluso la questione del chi e cosa viene individuato come deviante; in questo accettando: in primo luogo una visione sostanzialista della devianza, che, come detto, vede i comportamenti criminalizzati come intimamente devianti; in secondo luogo il presupposto che l'autore di una trasgressione abbia nella sua natura deviata le ragioni della sua specifica trasgressione.

Ripercorrendo sommariamente le rappresentazioni che della devianza sono state offerte, Becker (143), si sofferma sulla tendenza invalsa a considerare i fenomeni devianti come fenomeni patologici, i quali - nel linguaggio utilizzato dal paradigma sociologico all'epoca dominante - rappresentando una costante minaccia all'esistenza dell'ordine sociale, sono descritti quali elementi "disfunzionali" alla vita del sistema sociale. Se ciò che è disfunzionale alla vita dell'ordine sociale è la devianza, è chiaro che si dovrebbe essere in grado di trovare un accordo preliminare su ciò che alla vita di questo sia funzionale, il che, come abbiamo spesso sottolineato, non è un dato ricavabile dalla natura delle cose, ma, piuttosto, il frutto di contingenti scelte politiche e complessi processi culturali.

A questo proposito P. L. Berger, T. Luckmann (144) hanno parlato di una naturale "apertura di fronte al mondo dell'uomo". Per questi autori, infatti, non esisterebbe una natura umana determinata da particolari caratteristiche biologiche dell'uomo, queste, al contrario, opererebbero come limite all'interno del quale si possono - e storicamente si sono date - determinare diverse umanità. In questo senso la naturale apertura di fronte al mondo, che, libera, dispiegherebbe tutte le potenzialità umane, viene chiusa in un ordine che formalizzi le possibilità d'azione concesse agli individui. Ogni soggetto viene ad esistere all'interno di un sistema più o meno formalizzato di regole di condotta e quest'ordinamento s'impone agli individui quale ordine dato, naturale. Il suo carattere artificiale viene così perso di vista. Tanto più esso funziona efficacemente nell'indirizzare la condotta umana, nel modellare vere e proprie umanità, quanto meno viene messo in discussione quale ordine naturale, ineluttabile.

A riguardo il mantenimento dell'ordine non necessita tanto di meccanismi di controllo basati sullo schema interdizione/sanzione, quanto di procedure discorsive in grado di fornire le dovute legittimazioni. Queste offrono plausibili ragioni che giustifichino l'esistenza dell'ordine che gli individui trovano quale dato storico, aggiungendo all'azione di pura coercizione, la forza dei meccanismi persuasivi.

Fra tali meccanismi di legittimazione è possibile rintracciare diversi livelli di formalizzazione, a partire da un livello pre-teoretico, fino a giungere alle più complesse costruzioni teoretiche (145). In ogni caso l'effetto fondamentale di queste pratiche discorsive è quello di fornire una logica alle istituzioni, le quali, di per sé, non ne posseggono, se non, appunto, attraverso il significato che gli attribuiamo nel momento in cui tentiamo una loro legittimazione: "la logica non risiede nelle istituzioni e nelle loro funzionalità esterne, ma nel modo in cui queste sono trattate quando si riflette su di esse. In altre parole, la riflessione sovrappone la qualità della logica all'ordine istituzionale" (146).

Così, a differenza delle rappresentazioni della devianza che H. S. Becker definisce "relativiste" (147) (in cui non è difficile rintracciare gli echi dell'opera della filosofia classica del diritto penale o delle pagine di Durkheim) le quali identificano la devianza con la semplice trasgressione di norme, evidenziando la natura interamente politica e contingente delle definizioni di devianza - oltre a non escludere a priori la possibilità che all'interno di una medesima formazione sociale esistano diversi centri normativi, anche in contrasto fra loro - l'immagine che lo struttural-funzionalismo (come ogni teoria eziologica sul crimine) ci offre della devianza è mistificatrice poiché idonea, nel patologizzare il comportamento criminale, a legittimare quale dato di natura ogni ordinamento sociale e le correlative definizioni di devianza.

Come più volte abbiamo sottolineato, per comprendere i fondamentali meccanismi che assicurano continuità ad un ordine istituzionale è necessario interessarsi al complesso di conoscenze teoriche (che a riguardo si differenziano dalle conoscenze non-teoretiche, solo per il maggior grado di formalizzazione, non negli effetti) idonee a fornire motivazioni valide per giustificare l'esistenza di determinate istituzioni sociali.

Esse, più che conoscenze "descrittive" della realtà delle cose, paiono assumere il ruolo di conoscenze "prescrittive". Ponendosi quali discorsi veridici sul mondo sociale, sulla realtà, la quale è quale dev'essere, forniscono una solida legittimazione alle istituzioni cui si sovrappongono. In questo quadro ogni deviazione dall'ordine istituzionale non sarà la semplice infrazione di una regola, bensì il distacco da un corpo di conoscenze valide sulla realtà.

Non è difficile immaginare come ogni concreta deviazione verificatasi venga, in ordinamenti le cui definizioni di devianza siano sorrette da simili costruzioni teoriche, che ne fanno un dato di natura, considerati depravazione, malattia, irrazionalità o ignoranza (148). In concreto la scienza criminale d'impronta eziologica ha sempre agito in questo senso, avallando e sorreggendo con le dovute razionalizzazioni l'ideologia della difesa sociale, legittimando così i sistemi penali di tutto l'occidente moderno e contemporaneo.

Il processo di "reificazione" (149) che si attua attraverso il ricorso alle conoscenze (siano esse teoretiche o meno) diffuse socialmente, porta a far assumere alle istituzioni sociali una natura ontologica, indipendente dall'attività creatrice dell'uomo. Gli stessi ruoli sociali (150) subiscono tale processo di reificazione, all'esito del quale l'individuo che occasionalmente ha incarnato un dato ruolo sociale sarà visto come nient'altro che quel tipo, imparando egli stesso come naturalmente incarnante le caratteristiche che quel ruolo implica. Perdendo di vista così la circostanza che anche le caratteristiche di un dato ruolo sociale sono il frutto di un processo di produzione di cui è l'uomo, non la natura, il protagonista.

Lo struttural-funzionalismo è paradigmatico in questo: sovrapponendo tale costruzione teorica alla realtà sociale avremo il crimine, cioè l'atto intrinsecamente criminale perché naturalmente disfunzionale rispetto ad un'ordinata convivenza e non il crimine in quanto atto socialmente definito tale. Ci sarà, inoltre, anche il criminale, cioè l'individuo che, in quanto autore di un'infrazione, non ha percepito - per un difetto di socializzazione - o non è in grado di percepire - per un difetto di costituzione - la portata del suo comportamento. Ecco svelatala natura intimamente deviata dei trasgressori di una norma.

Il merito di aver esplicitamente attaccato le distorsioni di simili rappresentazioni della devianza è tutto dei teorici del "labelling", basti il riferimento alla celebre definizione "antagonista" di devianza che H. S. Becker offrì negli anni '60: "il deviante è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; il comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta come tale" (151).

L'inversione di prospettiva è lampante: se "la devianza non è una semplice qualità presente in certi tipi di comportamento ed assente in altri, ma è piuttosto il prodotto di un processo che implica le reazioni di altre persone ad un determinalto comportamento" (152), non dovrebbe essere di alcun interesse scientifico concentrare la propria attenzione sulle cause cha hanno determinato la deviazione, sarebbe infatti più fecondo analizzare i processi attraverso cui si giunge alla formalizzazione e all'applicazione dell'"etichetta" di deviante.

"È interessante il fatto che la maggior parte della ricerca e della teorizzazione scientifica sulla devianza si occupi delle persone che infrangono le norme piuttosto che di quelle che le istituiscono e le fanno applicare. Se vogliamo raggiungere una totale comprensione del comportamento deviante, dobbiamo mettere sulla bilancia queste due possibili direzioni d'indagine. Dobbiamo vedere la devianza, e gli outsiders che personificano questo concetto astratto, come una conseguenza di un processo di interazione fra persone: alcune, nel servizio dei propri interessi, elaborano e fanno applicare delle norme che colpiscono altre persone che, nel servizio dei propri interessi, hanno commesso degli atti etichettati come devianti" (153).

Seguendo l'indicazione offertaci da questo "manifesto" programmatico di una criminologia "antagonista", il processo di criminalizzazione può essere scomposto nei due momenti da cui è costituito: criminalizzazione primaria e secondaria e valutato in relazione al ruolo di quelli che Becker chiama "imprenditori morali" (154). La cui azione, nell'ottica di una sociologia-giuridico penale, viene in considerazione quale insieme di comportamenti in grado di influenzare l'agire dei soggetti istituzionalmente preposti alla creazione ed applicazione delle norme giuridiche (155).

"In qualunque luogo vengano create ed applicate delle norme, dovremmo essere consapevoli della possibile presenza di un individuo o gruppo attivo. Le loro attività si possono propriamente definire imprese morali, in quanto ciò che essi intraprendono porta alla creazione di un nuovo frammento della costruzione morale della società, del suo codice giusto e sbagliato" (156). Il successo di una "crociata" morale ha il suo esito inevitabile nella creazione di una nuova legge, che istituzionalizza le idee morali che la crociata propugnava. A ciò, spesso, fa seguito la creazione di apparati e agenzie cui devolvere specificamente l'applicazione di quelle norme: "l'esito finale della crociata è una forza di polizia" (157), l'analisi della cui attività, delle direzioni verso cui orienta la sua azione, è altrettanto importante.

La rilevanza dello studio dei processi di applicazione della legge è data dalla circostanza che a partire da questa preliminare identificazione dei devianti le scienze criminali d'impronta eziologica ritaglino il proprio ambito di ricerca. Pertanto, problematizzare il processo di "etichettamento", è problematizzare l'oggetto stesso della scienza criminologia classicamente intesa.

Il paradigma della social reaction nello studio dei processi di criminalizzazione secondaria, integra il criterio della liceità o meno del comportamento criminalizzato, con un insieme di fattori che arricchiscono l'indagine. I soggetti concretamente etichettati come devianti, infatti, risultano tali all'esito di una procedura influenzata da molte variabili, quali il tempo in cui fu commesso l'atto deviante, i soggetti coinvolti, l'eventuale azione esterna di imprenditori morali in grado di influenzare la selettività del processo di criminalizzazione secondaria.

Tutte queste variabili portano ad allargare notevolmente il ventaglio di comportamenti definibili devianti: aldilà di comportamenti pienamente devianti, perché effettivamente trasgressivi di una norma ed in concreto perseguiti come tali (o, viceversa, conformi), vi saranno, infatti, atti falsamente etichettati perché percepiti come concretamente devianti nonostante le loro conformità in astratto alla norma; o atti segretamente devianti, perché indipendentemente dalla loro natura trasgressiva, non vengono in concreto percepiti come tali (158).

Il che dimostra l'assurdità di un sapere scientifico il cui oggetto è predefinito da complessi processi sociali, formali o informali, che andrebbero studiati di per sé.

Se pure H. S. Becker non manca di evidenziare il ruolo dei saperi nel processo di costruzione sociale che porta alla definizione della devianza (159), il contributo teorico ed empirico offerto dall'etnometodologia è, forse per i più stretti legami che intrattiene con la sociologia fenomenologica, più efficace in tal senso.

Il nome etno-metodologia fu coniato da H. Garfinkel intorno al 1946, ed indica, nelle due parole da cui è composto, il suo stesso oggetto di studio: i procedimenti utilizzati dai membri di una data formazione sociale per "attribuire coerenza, comprensibilità, tanto ai propri, quanto agli altrui comportamenti" (160). Cioè quel processo che, sulla scia di P. L. Berger e T. Luckmann, abbiamo individuato come "processo di legittimazione" delle istituzioni sociali, all'esito del quale esse appaiono dotate di una logica che, appunto, le rende comprensibili...giustificabili.

Fra i tanti indirizzi di ricerca nati in seno all'etnometodologia, molto prolifico fu il settore di studi dedicato al problema della devianza, alla questione della definizione "scientifica" e di "senso comune" di devianza che una data formazione sociale esprime. Qui l'analisi è svolta a partire dal presupposto (di chiara matrice interazionistica) che il significato degli oggetti sociali non può darsi al di fuori delle concrete interazioni della vita quotidiana, in cui viene costantemente negoziato e rinegoziato (161).

Il legame che unisce l'etnometodologia alla sociologia fenomenologica è evidente, si pensi alla definizione che il suo caposcuola offre della disciplina: "l'etnometodologia cerca di considerare le attività pratiche, le circostanze pratiche e il ragionamento sociologico pratico come argomento di indagine empirica, e, attribuendo alle attività più ordinarie della vita quotidiana l'attenzione generalmente accordata agli eventi straordinari, cerca di apprendere qualche cosa su tali attività come fenomeni degni di studio in quanto tali" (162).

Il ragionamento pratico, l'attività cognitiva attraverso cui comunemente diamo senso al nostro mondo quotidiano è il punto di partenza di ogni processo di reificazione della realtà sociale, all'esito del quale tutta la realtà sociale è percepita come un "opus alienum" (163).

Per la sociologia fenomenologica - ed in particolare per il discepolo di Husserl che, in America ne fu il caposcuola: A. Schuz - il mondo della vita quotidiana (il lebenswelt husserliano) è una provincia finita di significato, rispetto al quale i membri di una collettività hanno un atteggiamento naturale "ingenuo". Viceversa l'atteggiamento fenomenologico implica una εποχή, una messa fra parentesi della convinzione che il nostro mondo quotidiano non sia altro rispetto a ciò che ci appare. Messa fra parentesi che sposta l'oggetto dell'analisi dello scienziato sociale da quel modo normalmente ritenuto un'entità oggettiva, alle strutture concettuali per mezzo delle quali esso viene pensato ed oggettivato. Il processo di reificazione impedisce all'uomo comune di mettere in questione i costrutti attraverso cui vede la "realtà" che lo circonda, le tipizzazioni (164) attraverso cui interpreta il mondo sociale; impedisce, in ultima analisi, di cogliere il continuo processo di "costruzione" della realtà sociale in cui è egli stesso implicato.

Il progetto etnometodologico consiste appunto nell'analisi empirica dell'atteggiamento "naturale", "ingenuo", dell'uomo comune, delle sue strutture cognitive e di come queste vengano utilizzate nell'attività pratica.

Pertanto, secondo gli etnometodologi "le caratteristiche oggettive del mondo sociale" sono ridotte "alle procedure interpretative mediante le quali il mondo viene costruito all'interno delle concrete interazioni" (165).

Peraltro a qualcuno (166) è parso che la tendenza di Garfinkel e compagni (ma il discorso potrebbe valere anche per P. L. Berger, T. Luckmann) ad utilizzare strumenti concettuali ricavati dall'interazionismo simbolico abbia rappresentato un distacco dall'opera del maestro A. Schutz, più fedele invece ai postulati della fenomenologia husserliana. Per il sociologo tedesco, infatti, gli oggetti sociali non hanno alcuna esistenza al di fuori della coscienza individuale e tale circostanza come è evidente tradisce un marcato individualismo, lasciando intravedere la deriva solipsistica. L'enfasi posta dagli etnometodologi sui processi interazionali restituisce alla realtà la dimensione che gli è propria: non il micro-universo costituito dalla coscienza del singolo, bensì il contesto dell'interazione sociale, all'interno del quale si costruiscono quei significati condivisi che abbiamo chiamato tipizzazioni (167).

Come sottolineato, insomma, il programma di ricerca tracciato dagli etnometodologi è diretto all'analisi delle procedure interpretative attraverso cui il mondo sociale viene costruito (segnatamente, per quello che ci riguarda: come viene costruita la categoria "devianza" ed il correlativo ruolo sociale del "deviante"), delle pratiche attraverso cui la "realtà" è resa comprensibile (accountable).

Caratteristiche di queste pratiche interpretative, degli account, sono: da un lato la loro indicalità, cioè il fatto di essere comprensibili solo a partire dalla situazione in cui sono fornite, mai oggettivamente, al di fuori di essa; dall'altro la loro riflessività, cioè il fatto di essere inidonee a spiegare effettivamente il mondo sociale cui pretenderebbero di riferirsi, in quanto non esisterebbe da un lato la società, quale entità dotata di una logica immanente e dall'altro un modo di osservarla, di spiegarla enucleandone tale logica. Realtà e account sono elementi connessi, questi ultimi sono una parte costitutiva fondamentale della realtà sociale che essi stessi pretenderebbero di spiegare.

Per gli etnometodologi anche lo scienziato sociale, nel fornire una spiegazione alla realtà sociale, partirà da un punto che è costituito da quell'atteggiamento "ingenuo" che l'uomo comune mostra nei confronti del mondo che lo circonda. Cosicché le sue spiegazioni, per quanto più elaborate, saranno dotate della medesima indicalità e riflessività, appunto perché gli scienziati sociali inizieranno la loro indagine condividendo con l'uomo della strada il senso comune che "reifica" il mondo sociale.

"Per esempio anche se il sociologo e il poliziotto possono avere teorie molto diverse sul modo in cui un ragazzo diventa un delinquente e ognuno può appellarsi a criteri e a prove diverse per sostenere i rispettivi punti di vista, entrambi non hanno difficoltà a trovarsi d'accordo sul fatto che ci siano persone riconoscibili come delinquenti minorili e che ci siano modi strutturati in cui queste persone diventano tali" (168).

È così che "i ruoli sono riabilitati: i primi (i sociologi) divengono specialisti che si basano su categorizzazioni e tipizzazioni profane, i secondi (gli uomini della strada) scienziati sociali pratici le cui teorie e i cui metodi si situano allo stesso livello di quelli dei professionisti" (169).

In sostanza gli etnometodologi assumono come loro obbiettivo e programma di ricerca, quello di trasformare ciò che normalmente per gli scienziati sociali è una risorsa - le categorizzazioni di senso comune utilizzate come account della realtà sociale - in oggetti di studio. Tale prospettiva è particolarmente feconda nello studio della devianza perché è in grado di evidenziare quali ragionamenti pratici gli attori istituzionali e non utilizzino nell'identificare in concreto crimine e criminale. Gettando ulteriore luce sul processo di costruzione sociale della devianza.

1.2.3: Criminologia critica e rapporto sapere-potere nel diritto penale

Indiscutibile merito dei sociologi del "dissenso" americani fu insomma quello di aver rimesso drasticamente in questione i processi di definizione (tipizzazione) dei comportamenti e degli attori devianti, riuscendo in una prospettiva microsociologica (attenta cioè allo studio di fenomeni circoscritti socialmente, fino alle interazioni faccia a faccia, che coinvolgono un numero molto limitato di persone) ad evidenziare i meccanismi attraverso i quali gli attori sociali costruiscono la realtà stessa in cui credono di agire.

Questi autori, saldando le dinamiche della criminalità a quelle del controllo sociale, hanno restituito al fenomeno criminale la complessità che gli è propria, essendo esso un fenomeno la cui sostanza non è rintracciabile, come pretenderebbe di fare la criminologia classica, al di fuori del processo sociale che porta alla sua definizione astratta ed individuazione concreta - con tutto l'insieme d'interessi e di forze sociali che lo muovono - in una qualche forma di patologia individuale o sociale che consenta di determinarne l'intima sostanza.

Tuttavia l'utilità pratica ai fini della ricerca empirica che la prospettiva microsociologica ha dimostrato di avere - concentrando l'attenzione su concreti e specifici processi di costruzione di comportamenti ed attori come devianti - è parsa, per altri versi, un limite.

In particolare la critica mossa a questo genere di ricerche fu centrata sul fatto che esse, se non inserite in un contesto macrosociologico, parrebbero descrivere dei processi avulsi dalla realtà sociale complessiva in cui si svolgono, l'esito dei quali è in un certo senso rimesso all'arbitrio dei soggetti coinvolti. Riducendo con ciò il concetto di devianza ad un mero "soggettivismo", comprensibile solo a partire dai significati individuali che i soggetti di volta in volta protagonisti del processo di costruzione le attribuiscono. L'approccio puramente "interazionistico" o "costruttivista" ha, quindi, da subito mostrato i suoi limiti intrinseci, che lo espongono alle aporie dell'indeterminismo soggettivistico.

Su questo piano, l'elaborazione di una criminologia critica pare poter essere un recupero degli elementi positivi di un approccio costruttivista nel quadro di una prospettiva macrosociologica, in cui il fenomeno della costruzione sociale della devianza è messo in relazione con la struttura economico-sociale su cui s'inserisce ed a cui ritorna con i suoi effetti, riacquistando, così, una certa materialità (170).

La critica ai criminologi costruttivisti venne mossa inizialmente dai teorici del conflitto (171), i quali contestarono non tanto la fecondità dell'approccio della social reaction, quanto, piuttosto, il fatto di non aver sviluppato appieno il problema relativo a chi, in concreto, riesce nelle nostre società ad assumere un ruolo determinante nei processi di definizione della devianza. Di aver parzialmente eluso, in sostanza, la questione relativa a come, nelle nostre, società sia distribuito il potere di definizione.

Per questi teorici - che, al pari dei neo-chicagoans, partono da una posizione fortemente critica dello struttural-funzionalismo e della sua visione consensuale della società - le nostre società, più che su di un insieme condiviso di valori si fondano sul conflitto, sul domino esercitato da alcuni su altri. Sarebbero ovviamente le categorie sociali che prevalgono all'esito del conflitto a poter indirizzare i processi di criminalizzazione determinando una marcata criminalizzazione di comportamenti e attori riconducibili alle categorie soccombenti. La distribuzione del potere di definizione rifletterebbe in sostanza l'esito del conflitto sociale e corrisponderebbe all'acquisizione da parte di alcuni settori sociali del controllo sugli apparati di Stato.

Come segnala Alessandro Baratta (172), la critica mossa ai teorici costruttivisti solleva un problema effettivo: come, da chi e con quali intenti ed esiti, nelle nostre società vengono condotti i processi di criminalizzazione. Tuttavia le risposte offerte dai teorici del conflitto a tale problema appaiono per certi versi estremamente riduttive. Essi, infatti, pur provando a mantenere le distanze dal Marxismo finiscono per offrire una visione del diritto e dello stato saldamente in mano ai gruppi di volta in volta dominanti, riproducendo il rozzo meccanicismo di certe letture alquanto riduttive dell'opera del filosofo tedesco. Lo stesso avviene quando questi teorici passano ad una specifica analisi del diritto penale e dei processi di criminalizzazione.

Se pure non si rinunzia all'approccio della social reaction, lo studio dei processi di criminalizzazione è condotto avendo riguardo al solo funzionamento degli apparati statali, senza alcuna considerazione per la capacità dei processi informali di criminalizzazione di incidere sull'andamento effettivo dei processi formali. Così, in questa visione, il gruppo dominante è tout court identificato con gli apparati di stato e la loro azione. Tutto ciò determina l'impossibilità di mettere a fuoco con più precisione la complessità dei meccanismi attraverso cui le esigenze di determinati gruppi d'interesse si istituzionalizzano.

Due ordini di obiezioni si potrebbero muovere a tale tentativo di superare l'approccio costruttivista con il riferimento alla questione della distribuzione del potere di definizione ed esse appaiono strettamente correlate, poiché frutto della medesima inadeguatezza teorica: in primo luogo l'impostazione del problema risente di quella visione del potere che definimmo giuridico negativa, la quale risolve, con estrema semplificazione, la questione del potere nelle società moderne nei meri termini dell'esercizio di una coercizione giuridica a sanzione del dominio economico; in secondo luogo è completamente assente in tali critiche la consapevolezza del legame che unisce i teorici "costruttivisti" (almeno alcune delle loro prospettive) ad autori che nel XX secolo hanno saputo esprimere delle analisi decisamente più elaborate del problema del potere nelle società contemporanee, come Gramsci o Foucault.

Per la verità - stando alla critica mossa da uno dei teorici del conflitto, Coser (173), ad alcuni dei criminologi "costruttivisti", i quali a parere del suddetto ignorerebbero i "fattori istituzionali in generale e la centralità del potere nell'interazione sociale in particolare" limitandosi "alla descrizione dei modi attraverso i quali i soggetti agenti individuali e coloro che li studiano spiegano le loro azioni" - parrebbe alquanto azzardato istituire un parallelo fra neo-chicagoans ed alcuni fra i filosofi che più hanno contribuito nel secolo XX all'analisi del potere.

Tuttavia lo studio delle concrete interazioni attraverso cui si definisce in concreto ciò che è deviante e delle pratiche di accounting che i membri di una data collettività utilizzano per spiegare e rendere comprensibili i loro gesti più quotidiani, è forse un programma di ricerca meno lontano di quanto si possa immaginare dalla coppia concettuale foucaultiana potere-sapere, o dal concetto gramsciano di egemonia politico-culturale.

Il programma di ricerca tracciato dai criminologi costruttivisti pone, infatti, questioni fondamentalmente epistemologiche, al pari di quanto non abbia fatto Foucault nei suoi lavori sulla "genealogia delle scienze umane" (174); questioni che non riguardano tuttavia i classici temi neopositivisti sul come assicurare alle scienze (anche sociali) una migliore presa sugli oggetti del loro studio. Non si pongono in sostanza problemi di verificazione, coerenza e formalizzazione degli enunciati scientifici, viceversa, le domande che i teorici costruttivisti sollevano sono piuttosto di questo genere: "è sensato parlare dei fatti sociali come oggetti? In che modo, e con quale diritto, l'elaborazione di un teorico sociale si differenzia da quelle degli attori? Sono fondate le pretese di rigore e oggettività accampate dalle scienze sociali?" (175).

Per i criminologi "costruttivisti" (ma il discorso è identico se si valutano le opere di M. Foucault sulla devianza o sulla follia) non esisterebbe una realtà sociale da studiare e spiegare, bensì concrete pratiche, che, nel contesto interazionale della vita di tutti i giorni, fornendo continuamente delle spiegazioni sulla realtà in cui ci si muove, costruiscono l'oggetto stesso del loro discorso. Analogamente a quanto ebbe modo di sostenere Gramsci in relazione alla sociologia, lo scienziato sociale (ma anche l'uomo della strada che si rappresenta il mondo sociale in cui vive) lungi dal descrivere una realtà materiale, oggettiva, non va oltre la mera ripetizione tautologica di fatti politici, "le cosiddette leggi sociologiche che vengono assunte come cause (...) non hanno nessuna portata causativa; esse sono quasi sempre tautologie e paralogismi. Di solito esse non sono che un duplicato del fatto osservato" (176).

Nel caso specifico degli etnometodologi, per esempio, la loro attenzione per le pratiche di accounting ci evidenzia come questi siano soprattutto interessati agli "aspetti architettonici progettuali dei sistemi di conoscenza, piuttosto che al loro valore di verità (...) il problema della verità viene messo tra parentesi, mentre s'indagano soprattutto le procedure (pratiche) di costituzione e funzionamento dei saperi e gli effetti che essi producono nell'ambiente" (177).

È evidente come la critica mossa dai teorici del conflitto alla criminologia costruttivista tradisca una concezione del potere fondata sul semplice paradigma giuridico ed economico, in base alla quale i rapporti strutturali e la marcata stratificazione sociale sono assicurati con il semplice ricorso alla coercizione per mezzo del diritto.

Anche in questo caso si sarebbe perso di vista ciò che Foucault e Gramsci avevano segnalato come la principale caratteristica del potere nelle società contemporanee: la sua creatività. La sua capacità di creare consenso, di costruire un'egemonia a partire dai rapporti interni alla società civile stessa, di coinvolgere, al limite, anche la razionalità scientifica nei processi di dominio.

Del resto anche H. Becker ebbe modo di reagire alle critiche mossegli, sottolineando l'ingenuità di certe obiezioni rispetto alla raffinatezza delle attuali forme di potere: "le teorie interazioniste della devianza, come le teorie interazioniste in generale, dedicano attenzione al modo in cui gli attori sociali definiscono gli altri ed i loro ambienti. Sono particolarmente attente alle differenze di potere nel dare definizioni; al modo in cui il gruppo raggiunge ed utilizza il potere per definire come gli altri gruppi verranno considerati, capiti e trattati. Le élite, le classi dirigenti, i capi, gli adulti, gli uomini, i bianchi - i gruppi superiori in generale - mantengono il loro potere sia controllando come le persone definiscono il mondo, le sue componenti e le sue possibilità, sia usando forme di controllo più rudimentali. Possono usare mezzi più rudimentali per stabilire l'egemonia. Ma il controllo basato sulla manipolazione di definizioni ed etichette funziona con più facilità e ad un costo inferiore, e i gruppi di status superiore lo preferiscono" (178).

Similmente a quanto Foucault ha fatto con la sua analitica del potere, dimostrando un interesse per le micro-relazioni di potere e le pratiche discorsive che le sorreggono, così i teorici costruttivisti (in particolare gli etnometodologi) analizzando il ragionamento pratico degli individui coinvolti nell'interazione, i suoi effetti di verità, il suo ruolo nella creazione e nella riproduzione dell'ordine sociale, anch'essi mostrano una strada per comprendere meglio come il potere - concetto estremamente evanescente e sovente identificato con gli apparati statali tout court - operi nelle connessioni della vita quotidiana, dandogli una dimensione forse meno astratta.

Come è stato sottolineato tanto i lavori di Foucault che quelli dei criminologi "costruttivisti" sul concetto di devianza, sono impostati in maniera tale da non postularne un'ontologia, ma per evidenziare tutte quelle "procedure conoscitive, sociali, morali, di senso comune, che ne rendono possibile la riconoscibilità" (179), che la creano. Esse si muovono su un piano fondamentalmente epistemologico ed evidenziano quanto sia insostenibile ogni discorso (come quello svolto dalle scienze umane e sociali) che pretenda di fornire una «sostanza» a concetti, quali devianza o delinquenza.

Se le obiezioni mosse alla prospettiva "costruttivista" paiono per certi versi ingenue, è pur vero che una maggiore considerazione per gli elementi materiali, e già si è segnalato, integrerebbe la critica agli attuali processi di criminalizzazione in una visione più comprensiva delle strutture su cui s'inseriscono i processi di costruzione della devianza. Processi che, altrimenti, parrebbero letteralmente campati per aria.

In questo senso la criminologia critica, se da un lato prende a prestito dal marxismo parecchi elementi concettuali a partire dai quali svolgere la critica delle società capitalistiche, dall'altro è cosciente del complesso rapporto dialettico che intercorre fra struttura sociale e soprastrutture ideologiche. Essa è quindi in grado di cogliere come, più che attraverso la semplice coercizione, le forme di dominio moderne si sostanzino nella capacità di diffondere delle vere e proprie concezioni del mondo, degli universi simbolici che circoscrivono la realtà che abitiamo, risolvendo sul piano dell'economia politica della verità (come direbbe Foucault) o dell'egemonia politico-culturale (come direbbe Gramsci), questioni che un certo materialismo volgare pretenderebbe risolte con la forza e l'arbitrio tout court.

Così, per comprendere i processi di criminalizzazione che l'occidente capitalistico mette in pratica, è centrale focalizzare "l'immagine sociale dominante della criminalità" (180), intendendo con questa, tanto il suo "aspetto formale" - che è dato dalle definizioni di devianza che la società esprime - tanto dal suo "aspetto pratico" - dato da ciò che è effettivamente perseguito come deviante in un dato momento.

Lo stereotipo del criminale è l'esito di processi egemonici, di processi di costruzione del consenso, ma come tutti i processi analoghi poggia su ben precise basi materiali ed a tal proposito è possibile distinguere (181): una sfera materiale, che è data dalle condizioni strutturali su cui s'inseriscono i processi di costruzione sociale della devianza e gli stereotipi criminali e dagli aspetti di effettiva negatività e problematicità sociale che vengono elaborate nei termini di devianza e criminalità; una sfera soggettiva, che è data dai processi di creazione e costruzione dello stereotipo del criminale, rappresentato dal campo d'indagine tipico dei teorici "costruttivisti" e delle indagini genealogiche di Foucault.

Tale impostazione rimette in questione lo statuto ambiguo dello stereotipo criminale, il quale va valutato, oltre che attraverso l'analisi dei singoli meccanismi di interazione e di accounting per mezzo dei quali si forma, anche a partire dall'analisi della struttura sociale in cui quei processi soggettivi di costruzione ideologica si svolgono (182) e del suo referente materiale, cioè delle concrete problematiche che contribuisce ad interpretare e su cui s'inserisce, con i suoi effetti sulla riproduzione materiale ed ideologica della realtà. Tale approccio è in grado di mettere in evidenza oltre ai processi di costruzione e di funzionamento pratico di uno stereotipo criminale, anche le sue ragioni d'esistenza e le sue concrete funzioni rispetto ad un determinato ordinamento sociale.

Condurremo pertanto su questi presupposti la nostra analisi del ruolo e le caratteristiche dello stereotipo nei processi di criminalizzazione svoltisi nell'Italia unitaria, avendo un particolare riguardo, in questa prima parte, alla svolta di fine XIX sec. e, nella seconda parte, alla svolta di fine XX sec.

Tuttavia asserire che questi processi hanno avuto un ruolo fondamentale nel mantenimento della struttura sociale e delle stratificazioni economiche, riproducendo, nel loro andamento discriminatorio, la struttura di classe della società (183), non vuol dire che il tasso di carcerizzazione della marginalità sociale rifletta esattamente una quota di quelle che H. Becker chiamava azioni falsamente etichettate, o che L. Ferrajoli definisce come cifra dell'ingiustizia.

Spesso, infatti, il discrimine che porta ad una concreta definizione di devianza è rappresentato, più che dall'intrinseca lesività del comportamento, dalla percezione che una data collettività ha di quei comportamenti e, soprattutto, dei loro autori. Il processo che crea la devianza non si limita semplicemente ad identificare i comportamenti carichi di disvalore, ma individua anche gli autori tipici di quei dati comportamenti, costruendo dei "ruoli" devianti che hanno un peso specifico notevole nei processi di etichettamento. Tali costruzioni simboliche (siano esse non-teoretiche, di senso comune; o teoretiche, cioè scientifiche) sono comunemente in grado di produrre false etichette devianti ed il fatto, qualora la falsità della definizione venisse appurata, sarebbe ovviamente percepito per quello che è: un'ingiustizia, un arbitrio.

Tuttavia l'ingresso di tali definizioni di devianza fondate sul paradigma dell'autore nei procedimenti applicativi della legge penale, non è una circostanza dovuta ad una prassi operativa difforme dai principi di diritto, bensì è essa stessa una circostanza prevista ed implicata dalle norme stesse. Il diritto penale pare essere meno di quanto si pensi un settore dell'ordinamento giuridico votato ad individuare comportamenti socialmente negativi criminalizzandoli, piuttosto esso si è andato costruendo concretamente come sistema che seleziona i suoi "clienti" in relazione al loro modo di essere.

Asserire, infatti, che esso sia funzionale al mantenimento della struttura di classe - cioè dei rapporti di produzione capitalistici e dei correlativi rapporti sociali - non significa solo ritenere che il capitale si serva direttamente della forza coercitiva del diritto penale per imporre le proprie esigenze a livello di criminalizzazione primaria. Significa piuttosto che il potere in una società capitalistica avanzata, attraverso complesse costruzioni concettuali, attraverso saperi e stereotipi sul crimine, legittima e rende giustificabile la quantità ed il tipo d'intervento penale occasionalmente funzionale alle sue esigenze e ciò tanto a livello di criminalizzazione secondaria che nella fase esecutiva della sanzione stessa.

Espressione di tale funzione del diritto penale in una società capitalistica sono i meccanismi disciplinari che - oltre ad essere il principale strumento idoneo a "fabbricare" l'umanità adatta ad inserirsi docilmente nell'universo sociale dato, accettato quale opus alienum - hanno la peculiarità di essere fondati sul nesso sapere-potere, caratteristica che gli consente di "oggettivare" i loro bersagli.

Tali connotati rendono le "discipline" uno strumento di potere estremamente insidioso, rispetto al quale le garanzie individuali pensate dalla cultura liberale nulla possono; ciò per due ordini di motivi. In primo luogo perché tali meccanismi rendono libertà l'illibertà, cioè coerciscono gli individui attraverso la produzione del consenso attorno a determinati precetti comportamentali; essi fanno in modo che i comandi non vengano imposti attraverso la mera forza esercitata sul corpo dell'individuo, bensì mediante l'interiorizzazione. Sono dunque meccanismi che agiscono sull'anima dell'individuo. In secondo luogo perché, essendo le discipline fondate su delle più o meno complesse costruzioni concettuali, su dei saperi, giustificano il loro intervento nella vita degli individui accampando delle pretese pedagogiche, ritenendo, con la loro presa in carico, di colmare o ovviare ad un deficit di cui gli individui sarebbero portatori. Esse rappresentano un "potere normalizzatore" e come tale non colpiscono certificabili infrazioni di una legge, bensì tutta una serie di tendenze, caratteri, stili di vita, modi di essere, che lo sviluppo delle scienza umane e sociali ha sintetizzato nel concetto di delinquenza.

Lo strutturarsi dei meccanismi disciplinari ha avuto una lunga e sovente contraddittoria gestazione, all'esito del processo tuttavia i nostri sistemi penali hanno assunto dei caratteri molto lontani rispetto ai modelli teorici pensati dalla filosofia politica d'impronta liberale.

Le pagine che seguiranno sono in un certo senso prodromiche all'analisi degli attuali processi di controllo sociale. Esse, infatti, sono funzionali all'individuazione delle matrici storico-culturali dei meccanismi disciplinari attualmente in opera all'interno del nostro sistema penale, oltre a rappresentare un'ottima occasione per l'approfondimento di alcuni dei presupposti teorici fondamentali cui ci siamo richiamati nell'analisi del concetto di controllo sociale

La storia della nascita dei meccanismi disciplinari ci consentirà di evidenziare, inoltre, come a partire da questa pratica punitiva si siano date per la prima volta le condizioni per il diffondersi di un'ideologia «sostanzialista» del crimine fondata su un paradigma scientifico. Ideologia che, scalzando le rappresentazioni «convenzionaliste» offerte dalla filosofia classica del diritto penale, ha sostituito progressivamente le vecchie concezioni teologico/moraliste della devianza parecchio radicate nel senso comune.

In questo ci pare di poter individuare il processo culturale che ha legittimato e giustificato la piega decisamente discriminatoria che hanno sempre preso i processi di criminalizzazione in tutto l'occidente capitalistico in generale ed in Italia in particolare, costruendo così lo schema ideologico, una certa immagine sociale della criminalità, l'universo simbolico, in sostanza, per mezzo del quale occultare le reali funzioni dei sistemi penali moderni e contemporanei: la riproduzione dei rapporti sociali esistenti.

"La storia del sistema punitivo è più che la storia di un preteso autonomo sviluppo di talune «istituzioni giuridiche». È la storia delle relazioni delle «due nazioni», come le chiamava Disraeli, dalle quali sono composte i popoli: i ricchi e i poveri" (184); e potremmo aggiungere: essa è anche la storia di come le classi dominanti sono riuscite ad imporre la loro funzione egemonico/pedagogica (185) sulle classi subalterne, costantemente inferiorizzate, tanto materialmente che nelle rappresentazioni di esse offerte dai ceti dominanti. Del resto "per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico" (186).

Note

1. Nel suo Social control: a survey of the foundations of order, 1901. Cfr.: L. Gallino, Dizionario di sociologia, Torino, 1978; il termine, quasi incidentalmente, era già stato utilizzato da H. Spencer, a riguardo cfr. anche: D. Melossi, Theories of social control and the State between American and European shores, in: C. Sumner, The Blackwell companion to criminology.

2. L. Gallino, Dizionario di sociologia, cit., p. 174.

3. Ibidem.

4. Potere è qui inteso come capacità di indirizzare i processi di controllo sociale.

5. Per questa partizione cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Roma/Bari, 1990.

6. R. Treves, Sociologia del diritto, Torino, 1987, p. 5.

7. L. Gallino, Dizionario di sociologia, cit., p. 232.

8. Offerta da A. Baratta, cfr.: Introduzione alla sociologia giuridico-penale, Bologna, 1980, p. 19 e ss.

9. A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico-penale, cit., p. 19.

10. Ivi, p. 20.

11. D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, Bologna, 1996, p. 15.; cfr. anche: Id, Theories of social control and the State between american and european shores, cit.

12. Cfr.: D. Melossi, Ideologia e Diritto Penale. Garantismo giuridico e criminologia critica come nuove ideologie della subalternità?, in: La Questione criminale, 2, 1992.

13. Anche se non si può certo negare che essa, almeno fino alle prime esperienze concrete di suffragio universale, possedesse un certo grado di rispondenza al vero.

14. Cfr.: D. Melossi, Theories of social control and the State between american and european shores, cit.

15. Sia che consistano in facoltà di agire (diritti) o in obblighi di agire/non agire (doveri).

16. È appena il caso di rilevare che la società americana a cavallo tra XIX e XX secolo appariva tutt'altro che un'entità omogenea, si capisce, quindi, quale importanza potesse rivestire per gli scienziati sociali del tempo la questione di armonizzare la macedonia di culture che andavano popolando il suolo degli Stati Uniti d'America, di raccogliere le diversità attorno ad un nucleo di valori condivisi. In questo quadro un processo di codificazione giuridica puro e semplice appariva come una scatola vuota se non riempito dal consenso e dalla condivisione dei valori sanciti sulla carta. Le scienze sociali americane colsero immediatamente le peculiarità della situazione del loro paese: si posero infatti come un laboratorio non solo di "teoria sociale" ma anche di "ingegneria sociale". A riguardo cfr.: D. Melossi, Theories of social control and the State between american and european shores, cit.

17. Cfr.: D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 19.

18. Cfr.: M. Foucault, La volontà di sapere, Milano, 2001, p. 77 e ss.; più in generale, su tutto il processo di costruzione delle monarchie assolute visto sotto il profilo del progressivo accentramento della prerogativa legislativa e giurisdizionale, cfr.: G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1999.

19. La "governamentalità", in: aut aut, nº 167/168, 1978.

20. Ivi, p. 15.

21. Ibidem.

22. Ibidem.

23. Ivi, p. 18.

24. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 79.

25. Cfr.: M. Foucault, "La governamentalità", cit., p. 20.

26. Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 971 e ss.

27. D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 31.

28. Cfr.: I. Berlin, Due concetti di libertà, Milano, 2000.

29. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 79; Id., Microfisica del potere, Torino, 1977.

30. Cfr.: D. Melossi, Theories of social control and the State between american and european shores, cit.

31. D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit.

32. Si tratta di un lavoro del 1576 di G. de la Perrière, Miroir politique; che Foucault analizza nella sua lezione del 1978.

33. M. Foucault, "La governamentalità", cit., p. 15.

34. Ibidem.

35. Ibidem.

36. Si tratta di un opera pedagogica scritta da La Mothe le Vayer per un giovane "principe".

37. M. Foucault, "La governamentalità", cit., p. 15.

38. Su questi temi cfr.: M. Foucault, La volontà di sapere, cit.; Id., Microfisica del potere, cit.

39. Cfr.: Quaderni dal carcere, Roma, 1971; soprattutto il vol.: Note su Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno.

40. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Note su Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, cit., p. 172.

41. Ivi, p. 115.

42. Ivi, p. 83 e ss.

43. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Note su Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, cit., p. 114.

44. Ibidem.

45. Che nel lessico foucaultiano diverranno istituzioni disciplinari.

46. Ivi, p. 174.

47. Ivi, p. 89.

48. Su questi temi cfr.: A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Note su Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, cit.; tali processi risultano peraltro fortemente accelerati nelle moderne democrazie di massa, al cui interno, "dopo la formazione del regime dei partiti, fase storica legata alla standardizzazione di grandi masse della popolazione (comunicazioni, giornali, grandi città ecc.) i processi molecolari avvengono più rapidamente che nel passato" (Ivi, p. 114).

49. Controllo sociale è, peraltro, una locuzione completamente assente nelle pagine del filosofo francese: D. Melossi, Theories of social control and the State between american and european shores, cit.

50. Cfr.: B. Smart, The Politics of Truth and the Problem of Hegemony, in: D. Hoy, Foucault: A Critical Reader, 1986, p. 157 e ss.; Gramsci definisce gli intellettuali "i funzionari delle superstrutture", cioè il gruppo in grado di costruire ed elaborare concezioni del mondo idonee, qualora riescano a raggiungere il livello di diffusione necessario a creare dei movimenti collettivi, ad incidere anche sulla struttura economica della società, sulla sua conservazione o modificazione. A riguardo, se si dovesse determinare il grado d'incidenza dell'attività degli intellettuali sulla struttura sociale, si potrebbero distinguere due piani distinti (e sono entrambi soprastrutturali) a partire dai quali esercitano la loro funzione: quello della società civile, in cui l'intellettuale è in grado di organizzare l'egemonia politico-culturale, di costruire il consenso su temi specifici o questioni più generali, mobilitando le forze sociali; e quello della società politica, in cui l'intellettuale (che in questi casi è necessariamente un funzionario) è chiamato ad esercitare il dominio diretto, attraverso le funzioni statali esplicitamente coercitive, strumentario che "assicura «legalmente» la disciplina di quei gruppi che non «consentono» né attivamente né passivamente" (A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Gli Intellettuali e l'organizzazione della Cultura, cit., p. 30).

51. Sul punto cfr.: M. Foucault, Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica, in: Id., Biopolitica e liberalismo, Milano, 2001, p. 107 e ss.; in questo senso cfr. anche: M. Senellart, Oltre la ragion di stato. Biopolitica e governamentalità in Michel Foucault.

52. Cfr.: M. Foucault, Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica, cit., p. 110; Id., Microfisica del potere, cit.

53. Cfr.: M. Foucault, Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica, cit., p. 111.

54. Accusa che peraltro mossagli da uno dei più illustri filosofi del nostro tempo: J. Habermars, cfr.: Il discorso filosofico della modernità, Roma/Bari, 1997.

55. Cfr.: M. Foucault, Spazio, sapere e potere, in: Biopolitica e liberalismo, cit., p. 183/184; Id., Microfisica del potere, cit.

56. Cfr.: M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 80.

57. S. Catucci, Foucault (introduzione a), Roma/Bari, 2000, p. 86.

58. M. Foucault, Microfisica del potere, cit.

59. M. Foucault, La volontà di sapere, in: I corsi al Collège de France. I Resumés, Milano, 1999, p. 16/17.

60. Cfr.: M. Foucault, Microfisica del potere, cit.

61. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 240.

62. M. Foucault, la volontà di sapere, cit., p. 120.

63. M. Foucault, "La governamentalità", cit., p. 28.

64. Cfr.: M. Foucault, "La governamentalità", cit., p. 29.

65. Ivi, p. 21; P. Pasquino, Theatrum politicum. La genealogia del capitale - la "polizia" e lo stato di prosperità, in: aut aut, nº 167/168, 1978.

66. M. Foucault, "La governamentalità", cit., p. 18.

67. Ivi, p. 20.

68. Ivi, p. 26.

69. Ivi, p. 18.

70. Cfr.: P. Pasquino, Theatrum politicum. La genealogia del capitale - la "polizia" e lo stato di prosperità, cit.

71. P. Pasquino, Theatrum politicum. La genealogia del capitale - la "polizia" e lo stato di prosperità, cit., p. 58.

72. Cfr.: P. Pasquino, Theatrum politicum. La genealogia del capitale - la "polizia" e lo stato di prosperità, cit.; M. Foucault, "La governamentalità", cit.; Id., Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica, cit.

73. O bio-potere, secondo la celebre definizione foucaultiana, cfr.: M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 119 e ss.; cfr. anche: Id., Biopolitica e liberalismo, cit.; Id. Bisogna difendere la società; Sicurezza, territorio, popolazione; Nascita della biopolitica, in: I corsi al College de France. I resumè, cit., pp. 67/91.

74. Il quale funziona "sulla base della tecnica e non del diritto, della normalizzazione e non della legge, del controllo e non della punizione" (M. Foucault, La volontà di sapre, cit., p. 80), sul punto avremo modo di tornare ampiamente più avanti.

75. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 123.

76. Quest'aspetto del potere bio-politico è stato sviluppato da M. Foucault nei suoi lavori sulla "medicalizzazione" del corpo sociale (in generale su questi S. Catucci, Foucault (introduzione a), cit., p. 116 e ss. L'esito estremo della commistione fra sapere medico-biologico e potere politico sono le politiche della razza, come, in un suo corso al Collégé de France (Bisogna difendere la società) nel 1975/1976, aveva lucidamente intuito M. Foucault. L'estrema espressione del potere bio-politico, il Reich nazista, esplicitamente si prefiggeva il compito di "assumere la cura del corpo biologico della nazione" (G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, 1995, p. 161).

77. M Foucault, I corsi al Collège de France. I Résumés. Milano, 1999, p 78.

78. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 123/124.

79. Cfr.: M. Foucault, "La governamentalità", cit., p. 26/27.

80. Come nel caso delle enormi masse sotto-proletarie, esercito di riserva del proletariato, che, quando sono state abbandonate a loro stesse, hanno sempre rappresentato un potente fattore di conflittualità e disordine sociale, oltre che uno strato sociale dall'enorme potenziale eversivo in quanto segno tangibile delle contraddizioni e degli squilibri scatenati dal sistema di produzione capitalistico.

81. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 124. A tale consapevolezza giunse del resto anche A. Gramsci, il quale sottolineò con decisione come il potere moderno si atteggiasse a "pedagogo", costruendo di volta in volta oltre alle istituzioni sociali, anche l'umanità funzionale alle esigenze della produzione; sul punto inoltre il filosofo italiano ritorna accennando ai più recenti (per l'epoca in cui scriveva Gramsci) sviluppi nella produzione industriale, rappresentati dalla razionalizzazione della produzione avviata da E. Ford nei suoi stabilimenti: anche in questo caso, più che la mera forza, per spezzare le resistenze operaie all'avvio di un processo produttivo assai più faticoso ed alienante, si dimostrarono utili vari strumenti di produzione del consenso (fra cui gli alti salari). Gramsci non manca a riguardo di sottolineare lo stretto legame che unì, negli Stati Uniti del tempo, la questione della razionalizzazione dei processi produttivi al proibizionismo ed alla questione sessuale, svolgendo peraltro considerazioni che in un certo senso anticipano alcuni lavori foucaultiani: così se E. Ford si interessa alla vita sessuale dei suoi dipendenti non è certo per una qualche forma di "puritanesimo", piuttosto questo è un dato da correlare alla razionalizzazione del processo produttivo, che necessitava di un lavoratore in grado di adattarsi ad un processo di produzione interamente meccanizzato ed automatizzato, "non può svilupparsi il nuovo tipo di uomo domandato dalla razionalizzazione della produzione e del lavoro, finché l'istinto sessuale non sia stato conformemente regolato, non sia stato anch'esso razionalizzato". I tentativi di E. Ford di istituire un osservatorio sulla vita privata dei suoi dipendenti furono appunto dettati dall'esigenza di regolarizzare (disciplinare, diremmo foucaultianamente) la vita degli operai in maniera conforme alle nuove esigenze produttive, in modo che irregolarità di vita non venissero ad intaccare l'efficienza "muscolare e nervosa" dell'operaio (cfr.: A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, cit., in particolare: Americanismo e Fordismo, p. 403 e ss.). La vicenda del proibizionismo può essere correttamente letta, come recentemente è stato proposto, in quest'ottica: essa fu una perfetta espressione dell'esigenza di controllare più efficacemente le classi popolari, limitandone quanto più possibile l'abbandono morale. Sul punto avremo modo di tornare; cfr. comunque: A. Cottino, Consumi illeciti, in: Storia d'Italia, annale nº 12, La criminalità, Torino, 1997.

82. Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Roma/Bari - 1976.

83. Temi classici, questi, della filosofia politica d'impronta marxista che avremo modo di approfondire nel prosieguo della trattazione.

84. A. Dal Lago, la produzione della devianza, Verona, 2000, p. 34.

85. Non meno delle campagne, che, come vedremo, furono percorse un po' in tutta Europa da rivolte contadine e da fenomeni di brigantaggio.

86. Cfr.: D Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 31.

87. N. Bobbio, Stato, governo, società, Torino, 1985, p. 50.

88. Vedi, per una descrizione del suo emergere, A. Dal Lago, La produzione della devianza, cit.

89. N. Bobbio, Stato, governo, società, cit., p. 52.

90. L. Gallino, Dizionario di sociologia, cit., p. 611.

91. C.H. de Saint Simon, cit. in A. Dal Lago, La produzione della devianza, cit., p. 57.

92. Cfr.: A. Dal Lago, la produzione della devianza, cit.

93. Cfr.: A. Dal Lago, la produzione della devianza, cit., p. 14 e ss.

94. Quaderni dal carcere, Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit., p. 146 e ss.

95. A. Dal Lago, la produzione della devianza, cit., p. 44.

96. Cfr.: N. Bobbio, Stato, governo, società, cit., p. 79.

97. Cfr.: A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Bologna, 1991, p. 53. Si potrebbe dire che era il vuoto lasciato dalla Divinità - cui tradizionalmente ci si rivolgeva per legittimare l'antica struttura sociale, con i suoi ceti ed i relativi privilegi - a dover essere colmato.

98. P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, p. 132 e ss.

99. Cfr.: A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit.

100. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit., p. 66.

101. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit., p. 65.

102. A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico-penale, cit., p. 43 e ss.

103. Ivi, p. 162.

104. Ivi, p. 161.

105. Ivi, p. 152 e ss.

106. Ivi, p. 159 e ss.; A. Baratta, Che cosa è la criminologia critica, in: Dei delitti e delle pene.

107. Riprendo questa distinzione da: D. Melossi, Teoria sociale e mutamenti nella rappresentazione della criminalità, in: Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. III, Criminologia, Milano, 2000, p.149 e ss.

108. A. Baratta, Che cosa è la criminologia critica, cit., p.

109. Cfr. A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico-penale, cit., p. 87 e ss.

110. La realtà come costruzione sociale, cit.

111. Su questi temi cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit.

112. Cfr. A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico-penale, cit., p. 29 e ss. È tuttavia da considerare il fatto che il pensiero filosofico penale espresso da questa importante tradizione culturale perse progressivamente la verve critica che ne aveva contraddistinto la nascita, subendo una vistosa involuzione in senso conservatore. Il processo è sommariamente scomponibile in due fasi che contraddistinsero la storia della filosofia giuridico penale d'impronta liberale: una prima riconducibile al periodo rivoluzionario, come detto, connotata da un'enorme potenziale critico; una seconda riconducibile alla fase di assestamento degli stati borghesi usciti dal crollo dell'ancien regime, caratterizzata dalla prevalente preoccupazione di conservare l'ordine costituito rispetto alle nuove prospettive rivoluzionarie che si affacciavano nel XIX secolo.

Sul piano teorico la paralisi della critica si esprime nello sviluppo di un indirizzo (soprattutto fra Italia e Germania) dottrinale d'impronta idealistica dai connotati fortemente conservatori: l'indirizzo tecnico-giuridico.

In base a tale indirizzo il diritto e lo stato si auto-giustificano in quanto tali, in tal maniera il diritto penale stesso trova la sua giustificazione nel suo esistere, nel suo semplice vigore normativo, poiché - con una fallacia naturalistica, che confonde il diritto quale è, con il diritto quale dev'essere - esso è assunto (secondo l'insegnamento hegeliano) quale espressione di uno spirito oggettivo, la cui immanente universalità delegittima ogni possibile critica.

Tale legalismo etico è stato forse fra gli elementi culturali più forti nel sorreggere quella che abbiamo individuato come ideologia della difesa sociale, in particolare esso legittimando quale espressione di un universale astratto tutto il diritto statuale, universalizza anche i concetti di devianza cristallizzati nelle forme del diritto penale, esprimendo una visione del crimine tutt'altro che convenzionalista.

Per tutti questi argomenti cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., pp. 203 e ss; 932 e ss.; inoltre, per la parabola dell'indirizzo tecnico giuridico nella cultura italiana cfr. Id., La cultura giuridica nell'Italia del novecento, Roma-Bari, 1999.

113. Per la distinzione fra visione convenzionalista e sostanzialista della devianza cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 5 e ss.; sul punto cfr. infra par. 2.3; qui è sufficiente rilevare come una concezione "convenzionalista" della devianza implichi l'idea che questa sia un dato "fabbricato" socialmente, continuamente rinegoziabile. Una visione "sostanzialista", al contrario, implica che la devianza sia considerata una qualità intrinseca di certi comportamenti che, necessariamente, si riflette in una "diversità" dei loro autori: assolutamente inconciliabili con l'ordine sociale, al pari degli atti che commettono. Inutile sottolineare come quest'ultima visione si rappresenti l'ordine sociale quale elemento stabile e non contestato/contestabile, arrivando ad universalizzarlo.

114. Cfr. infra, par. 2.1.

115. La distinzione fra saperi "non teoretici" e saperi "toretici" è ripresa dal lavoro di P. L. Berger, T. Luckmann: La realtà come costruzione sociale, cit., p. 31 e ss.; essa ci pare ricalcare quella fra "saperi" e "scienze" avanzata da G. Procacci: Economia sociale e governo della miseria, in "aut aut", nº 167/168, 1978, p. 63 e ss.; in ogni caso utilizzeremo la locuzione "saperi non-teoretici" per intendere un sapere che si forma a partire da esperienze ed esigenze pratiche della vita di tutti giorni - ciò che nell'opera degli etnometodologi viene chiamato sapere pratico; sul punto cfr. infra.

116. Il quale è considerato il primo ad avere offerto un'autentica sociologia della pena (se si eccettuano gli elementi contenuti in embrione nelle pagine marxiane), considerando quest'istituzione sociale indipendentemente dallo scopo che dichiaratamente le si attribuiva: la prevenzione del crimine. In questo senso cfr.: D. Garland, Pena e società moderna, Milano, 1999; per un'analisi del Durkheim sociologo della pena, oltre all'opera già citata, cfr. anche: D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza. Teorie criminologiche e società tra Europa e Stati Uniti, Milano, 2002, p.73 e ss.

117. E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Roma, 1996, p. 78.

118. Cfr.: A. Dal Lago, La produzione della devianza, cit., p. 47 e ss.

119. Ivi, p. 75; D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 87 e ss.

120. Cfr.: D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 93.

121. Cfr.: D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 134.

122. Si pensi a C. H. de Saint Simon, A. Comte, H. Spencer...

123. La produzione della devianza, cit., p. 58.

124. Cfr. D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 61 e ss., 139 e ss.; Id., Theories of social control and the State between american and european shores, cit.; Id., Teoria sociale e mutamenti nella rappresentazione della criminalità.

125. Come sottolineavamo all'inizio del lavoro, diversamente che nelle teorie filosofico-politiche d'origine europea, le scienze sociali americane percepirono immediatamente che la condivisione di un universo simbolico da parte dei membri di una formazione sociale è un dato interamente da conquistare, piuttosto che un presupposto incontestabile dell'ordine sociale. Ovviamente agli scienziati sociali che vissero e operarono in una città come la Chicago degli anni venti, tali considerazioni dovettero sembrare del tutto scontate: avendo sotto gli occhi un crogiuolo di razze, culture e stili di vita diversi, inseriti in un contesto di forte espansione industriale, con gli aspri conflitti che ne conseguivano. Cfr.: D Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 61 e ss. Id., Theories of Social Control and The State Between American and European Shores, cit. Come abbiamo avuto modo di sottolineare il problema di integrare e governare le enormi masse di individui che l'industrializzazione ed i nuovi regimi agrari attiravano verso le città fu "il" problema per i governi dell'epoca; negli Stati Uniti d'America tuttavia la questione venne affrontata in un'ottica meno "elitaria" rispetto all'atteggiamento tenuto dai governi europei nei confronti delle masse urbane e rurali: piuttosto che con meccanismi meramente penal-polizieschi (risorsa di governo cui - soprattutto i Italia - continuamente si attinse per gestire i conflitti che il rapido sviluppo industriale implicava) nella società americana si cercò immediatamente di costruire un consenso, di "educare" queste masse "incivili" e "pericolose" alla convivenza civile; cfr.: D. Melossi, Theories of social control and the State between american and european shores, cit.

126. Cfr. A. Dal Lago, R. De Biasi (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all'etnografia sociale, Roma-Bari, 2002, Introduzione, p. xviii e ss. A riguardo cfr. anche: D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 139 e ss.

127. Cfr. A. Dal Lago, R. De Biasi (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all'etnografia sociale, cit., p. xxii.

128. Cfr.: A. Dal Lago, La produzione della devianza, cit., p. 77.

129. Non è questo il luogo adatto per sviscerare le ragioni dell'inversione di paradigma che la concezione del controllo sociale nelle scienze sociali Americane subì, sulla questione cfr.: D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 83 e ss.; Id., Theories of Social Control and The State Between American and European Shores, cit.

130. Cfr.: A. Dal Lago, La produzione della devianza, cit., p. 77 e ss.; D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 83 e ss.

131. Cfr.: A. Dal Lago, la produzione della devianza, cit., p. 83.

132. Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 84.

133. Cfr.: A. Dal Lago, la produzione della devianza, cit., p. 83.

134. Cfr.: D. Melossi, lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 139.

135. Cfr.: A. Dal Lago, la produzione della devianza, cit., p. 84 e ss.; D. Melossi, lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 143 e ss.; A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico penale, cit., p. 65 e ss.

136. Cfr.: R. K. Merton, Teoria e struttura sociale, cit. in: A. Dal Lago, La produzione della devianza, cit., p. 86.

137. Cfr.: D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 87.

138. A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico penale, cit., p. 69.

139. È questa la ragione - oltre che per esigenze di comodità espositiva - per cui abbiamo riunito indirizzi di sociologia della devianza non completamente conciliabili quanto a presupposti teorici, sotto la comune denominazione di neo-chicagoans. Un'altra ragione milita tuttavia in favore di tale scelta: ed è data dal fatto che entrambe le correnti verranno a costituire quella che viene comunemente indicata come "sociologia del dissenso", oltre a mostrare, sotto il profilo specifico dello studio della devianza, parecchie affinità e similitudini; cfr.: L. Gallino, Dizionario di sociologia, cit.; A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Bologna, 1991.

140. Cfr.: A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico penale, cit., p. 87 e ss.

141. P. Giglioli, A. Dal Lago, Etnometodologia, Bologna, 1983, p. 11. al problema della sua costruzione e giustificazione.

142. Outsiders. Saggi di sociologia della devianza. Torino, 1997. L'opera è fondamentale aldilà degli spunti teorici che offre, per la magistrale ricerca etnografica condotta su due categorie di gruppi devianti: i fumatori di marijuana ed i musicisti delle sale da ballo.

143. Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, cit., p. 18 e ss.

144. Cfr.: La realtà come costruzione sociale, cit., p. 73 e ss.

145. Ivi, p. 132 e ss.

146. Ivi, p. 95.

147. Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, cit., p. 21.

148. Cfr.: P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, cit., p. 94 e ss.

149. Ivi, p.127 e ss.

150. Intesi qui quali rappresentazioni viventi delle norme sociali, dato che le condotte non esisterebbero senza individui concreti che le realizzino, così come non esisterebbe la devianza senza il deviante; cfr.: P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, cit., p. 105.

151. Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, cit., p. 22.

152. Ivi, p. 25.

153. Ivi, p. 126.

154. Ivi, p. 115 e ss.

155. A questo proposito v. lo schema che riassume il campo d'indagine di una sociologia giuridica riportato a pag. 3.

156. Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, cit., p.

157. Ivi, p.

158. Per questa partizione cfr.: H. S. Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, cit., p. 29; ragionando sui costi e sugli scopi del diritto penale L. Ferrajoli (cfr.: Diritto e ragione, cit., p. 193 e ss.) ha parlato in proposito di costo dell'ingiustizia, arrivando a distinguere: la cifra dell'inefficienza, data dall'insieme delle trasgressioni penali che restano impunite, la c.d. "cifra oscura" del crimine; e la cifra delle ingiustizie, assolutamente più intollerabile, costituita da tutti coloro che hanno subito un processo, magari con l'applicazione di qualche provvedimento cautelare, per poi essere assolti; da coloro che hanno subito una condanna definitiva, per poi vedersi revisionata la sentenza; e, infine, da coloro che sono destinati a non vedere mai riparati gli errori giudiziari in cui sono incorsi.

159. Sottolinea infatti il ruolo degli "esperti" nelle fasi che portano all'emanazione di una nuova normativa, quindi il peso che costruzioni teoretiche più o meno formalizzate riescono ad avere sul processo di criminalizzazione primario (cfr.: H. S. Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, cit., p. 115 e ss.); ed individua come fondamentale l'analisi dei "saperi" che orientano l'agire degli agenti istituzionalmente preposti all'applicazione delle norme, evidenziando il ruolo della rappresentazione che gli agenti di polizia hanno della devianza nella selezione dei comportamenti da sottoporre al processo di criminalizzazione secondaria (cfr.: H. S. Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, cit., p. 120 e ss.).

160. L. Gallino, Dizionario di sociologia, cit., p. 284.

161. Cfr.: L. Gallino, Dizionario di sociologia, cit., p. 284; A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, cit., p. 389 e ss.

162. H. Garfinkel, Che cos'è l'etnometodologia, in: P. Giglioli, A. Dal Lago, Etnometodologia, cit., p. 55.

163. Cfr.: P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, cit., p. 127 e ss.; il processo di reificazione, come più volte abbiamo sottolineato, non si arresta all'attribuzione di senso effettuata a livello di "saperi non teoretici", tuttavia i saperi teoretici, la scienza, non intervengono che ad un livello diverso, ma a partire dalle medesime esigenze; in questo la sociologia fenomenologica è fedele alla matrice husserliana dei suoi presupposti teorici, per il filosofo tedesco, infatti, la scienza è una prosecuzione del "pre-scientifico mondo della vita" ed interviene, alla stessa stregua dei saperi pratici, come "possibile risposta ai problemi che gli uomini si trovano a dovere affrontare nella vita pratica" (A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, cit., p. 327). Così: se la scienza è preceduta logicamente dal mondo della vita, essa va spiegata attraverso i problemi eminentemente pratici cui ritorna; Husserl parlava a riguardo di "limitazione positivistica", per indicare la tendenza diffusa ad invertire l'ordine dei problemi da affrontare, pretendendo di spiegare attraverso le categorie della scienza l'universo sociale.

164. La tipizzazione del mondo sociale è il principale esito del processo di reificazione, esse costituiscono nient'altro che uno schema prefissato attraverso cui i membri di una data società interpretano le situazioni di ogni giorno, regolando la propria azione di conseguenza. Anche il concetto di devianza è tipizzato in schemi che ne consentono la riconoscibilità in base all'universo simbolico di riferimento in una data formazione sociale (Cfr.: A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico penale, cit., p. 98, 99). Tuttavia gli schemi interpretativi non paiono di certo immutabili, anzi, nel corso dell'interazione faccia a faccia sono suscettibili di essere messi seriamente in questione ed eventualmente, in quella specifica circostanza, rinegoziati. Ciò è dovuto al fatto che tali schemi perdono il loro carattere anonimo (che li rende applicabili astrattamente ad intere categorie di soggetti) man mano che l'interazione si avvicina alla situazione dell'incontro diretto. Il carattere deindividualizzante dello schema interpretativo entra seriamente in questione, infatti, a contatto diretto con le caratteristiche singolari dei soggetti di un processo d'interazione; tuttavia l'insieme delle tipizzazioni di cui è dotata una data formazione sociale costituisce l'intera gamma degli schemi interattivi fissati: l'intera struttura sociale, nelle sue istituzioni, nei suoi ruoli sociali (Cfr.: P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, cit., p. 52 e ss.).

165. P. Giglioli, A. Dal Lago, Etnometodologia, cit., p. 15.

166. Ibidem.

167. È da notare incidentalmente come queste considerazioni possano apparire affrettate, soprattutto alla luce della scoperta di alcuni scritti inediti di Husserl in cui è chiaro l'intento del filosofo di sfuggire alla deriva solipsistica (Cfr.: F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Manuale di storia della filosofia, vol. III, Roma/Bari, p. 299.). In particolare il filosofo sottolineava come ciò che residua dalla "messa fra parentesi" fenomenologica del mondo empirico, non sia pura autocoscienza, priva della coscienza dell'altro: se ciò che resta è il soggetto ed anche ciò che egli crede "oggetto" della sua conoscenza è frutto della sua stessa coscienza, che si rappresenta - letteralmente "costruendolo"- il mondo in cui vive, il soggetto non è, comunque, una monade isolata, ma conduce un'esistenza essenzialmente intersoggettiva ed è in questa dimensione che si svolge il processo di costruzione della realtà sociale.

168. Zimmermann D.H., Pollner M., il mondo quotidiano come fenomeno, in: P. Giglioli, A. Dal Lago, Etnometodologia, cit., p. 91.

169. P. Giglioli, A. Dal Lago, Etnometodologia, cit., p. 20.

170. Cfr.: A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico penale, cit., p. 119 e ss.; Id., Che cosa è la criminologia critica, cit., p.; Id., Problemi sociali e percezione della criminalità, in: La Questione Criminale, 1977, 1.

171. Cfr.: A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico penale, cit., p. 119 e ss.

172. Introduzione alla sociologia giuridico penale, cit., p. 130.

173. Riportata in: A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, cit., p. 349.

174. Cfr.: P. Giglioli, A. Dal Lago, Etnometodologia, cit., p. 27. Il discorso vale soprattutto per gli "etnometodologi", i quali, nonostante parecchie affinità teoriche con autori come Becker, rendono decisamente più esplicite alcune ascendenze in comune con il filosofo francese, quali i presupposti teorici della fenomenologia; cfr. anche: S. Catucci, Foucault (introduzione a), cit.; M. Donnelly, Foucault's Genealogy of the Human Sciences, in: Economy and Society, 1982, vol. 11, p. 363 e ss.

175. P. Giglioli, A. Dal Lago, Etnometodologia, cit., p. 27.

176. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit., 147.

177. P. Giglioli, A. Dal Lago, Etnometodologia, cit., p. 36.

178. H. S. Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, cit., p. 152.

179. P. Giglioli, A. Dal Lago, Etnometodologia, cit., p. 36.

180. Cfr.: G. Baronti, La funzione dello stereotipo criminale nell'ambito dei processi di controllo sociale", in "La questione criminale, 1977, 1, p. 255; cfr. anche: D. Chapman, Lo stereotipo del criminale. Componenti ideologiche e di classe nella definizione del crimine, Torino, 1971.

181. Cfr.: A. Baratta, Problemi sociali e percezione della criminalità, cit.

182. Secondo l'assunto gramsciano che vede le soprastrutture, le concezioni del mondo, fiorire a partire dalla complessa struttura sociale, marcatamente stratificata nei sistemi capitalistici, ed esprimere quindi, nonostante queste tendano normalmente a porsi quali teorie universali, il mero punto di vista del gruppo sociale che se ne rende fautore (A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il materialismo e la filosofia di Benedetto Croce, cit., p. 108 e ss.).

183. Cfr. A. Baratta, Sistema penale ed emarginazione sociale, in: La Questione criminale, 1976, p. 237 e ss.; analoghe considerazioni sono svolte da M. Pavarini per quello che riguarda la pratica penale effettiva nell'Italia del XX secolo, cfr.: La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'italia del XX secolo, in: Storia D'Italia, Annale nº 12, La criminalità, Torino, 1997, p. 981 e ss.; Per un diritto penale minimo: "in the books" o "in the facts"? Discutendo con Luigi Ferrajoli, in: Dei delitti e delle pene, 1998/3, p. 125 e ss.

184. G. Rusche, cit. in: A. Baratta, Sistema penale ed emarginazione sociale, cit., p. 240.

185. Il sistema penale può infatti essere correttamente considerato, come sottolineammo, una frazione del complesso sistema di istituzioni educative improntate nelle società moderne, su cui si fonda buona parte del concreto esercizio del potere, cfr.: A. Baratta, Sistema penale ed emarginazione sociale, cit.

186. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il Risorgimento, cit., p. 249.