ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Considerazioni conclusive

Giuseppe Maglione, 2008

Molte cose non sono venute ad esistenza per l'impossibilità di dare ad esse un nome (1). S. Jerzy Lec

Percorrere un itinerario nuovo e inesplorato, rifiutando strade consunte dal reiterato transito di altri, comporta innumerevoli difficoltà e solo qualche vantaggio. Con il mio studio, ho deciso deliberatamente di optare per una strada ancora poco battuta, forse attratto dal mistero della novità, forse poco stimolato dagli abituali percorsi.

Dietro le spalle, mi sono lasciato un assetto di analisi ormai consolidato, che con relativa coerenza riesce ad illuminare la piattaforma storico-sociologica e filosofica della Giustizia riparativa e delle sue multiformi applicazioni. Una griglia analitica ormai data per ovvia (come direbbe Schütz), che viene riproposta in maniera ricorrente senza esitazioni, preferendo, con un gesto "iconoclasta", una prospettiva analitica diversa, ancora fragile e non priva di contraddizioni. La scelta è stata dettata non tanto e non solo dal rifiuto degli assunti teorici di base, della strumentazione concettuale e analitica adoperata, o delle acquisizioni finali cui perviene la dottrina consolidata; piuttosto, l'idea di una concettualizzazione alternativa, è stata dettata dalla convinzione che è "strategicamente" necessaria un'interpretazione radicale, in senso letterale, una lettura deliberatamente divergente da quelle ormai invalse nel tempo, che possa dare una dimensione dialettica e conflittuale al dibattito sulle cultural roots della Riparazione (dibattito che a dire il vero latita). Non penso che le categorie della mitezza giuridica, piuttosto che i riferimenti alla critica del sapere post-moderno o alla "crisi" del diritto penale ecc., siano concetti euristicamente inutili, che non possono trovar spazio in un tentativo di ricostruzione teorica delle condizioni di possibilità della Riparazione. Penso solo che si possa (e si debba) investire anche su altre interpretazioni, altre categorie, per arricchire quelle analisi, oppure smentirle, esercitando la normale curiositas scientifica.

L'interpretazione "alternativa" che ho proposto, muove da lontano, da un'analisi delle condizioni di emergenza storica del Restorative justice paradigm, legando la parabola di una specifica razionalità socio-politica (Welfare State biopolitico) all'evoluzione del legal system, leggendo la Riparazione, tra essere e dover essere, tra descrizione e prescrizione, come dispositivo per la rivitalizzazione dei mondi vitali sclerotizzati dalla pervadenza del diritto e dell'azione del giudice.

Utilizzando griglie concettuali poco consuete per gli studi sulle cultural roots della Riparazione, sono pervenuto ad una concettualizzazione della stessa, non semplicemente come mera strategia di gestione dei conflitti o come paradigma di giustizia penale, bensì come specifica griglia interpretativa dei fenomeni conflittuali, trascendente le semplificazioni cognitive, le violente astrazioni concettuali e l'intervento monotematico del dispositivo giuridico. Riparazione come dispositivo realizzante un sistema integrato di approccio ai rapporti di opposizione interprsonale che si avvale della risorsa comunicativa attinta dai mondi vitali, per la trasformazione costruttiva del conflitto stesso. Adottando quelle stesse categorie che mi hanno portato ad apprezzare il potenziale "positivo" della Riparazione per la produzione di un diverso ordine, sono altresì pervenuto all'identificazione del potenziale degenerativo, dei limiti e delle contraddizioni della stessa, prendendo le debite distanze dagli intenti apologetici di certa produzione scientifica sull'argomento.

A questo punto, mi sembra chiaro quanto l'obiettivo di questo studio, non possa essere considerato semplicemente il tentativo di svolgere una ricognizione delle basi culturali e delle condizioni di insorgenza della Riparazione.

Lo scopo della mia breve ricerca può essere ricondotto invece, ad un tentativo di elaborare una metodologia eccentrica, per l'interpretazione delle determinanti sociologiche, storiche e filosofiche della Giustizia riparativa: tracciare un percorso diverso e alternativo (provarci almeno), raccogliendo talune suggestioni di quella che ho definito letteratura "irenista" sulla Riparazione, problematizzandone alcuni assunti, sviluppando fino alle intime contraddizione gli strumenti interpretativi da questa proposti, cercando di dimostrare che, forse, una lettura diversa, attingendo a serbatoi concettuali magari inconsueti, è possibile (oltre che necessaria). Che è fattibile un coerente discorso esterno sulla Riparazione, che non si atteggi a mera apologia o critica distruttiva, ma che con sguardo il più possibile disincantato, sviluppando un'analisi operativa ad alto livello di astrazione senza lesinare verifiche empiriche, colga la direzione dello sviluppo dinamico, le potenzialità, oltre che eventuali limiti della restoration.

Quello che m'interessava (e m'interessa tuttora) è verificare la funzionalità euristica di certe categorie assolutamente trascurate dalla letteratura scientifica che si occupa di Riparazione, per penetrare le radici culturali, i significati sociali e le contraddizioni di quel "paradigma". Un obiettivo metodologico, ripeto, il dare un nome diverso (come direbbe Stanislaw Jerzy Lec) a dimensioni già esplorate, ma anche "illuminarne" analiticamente di nuove, elaborando nuove categorie, in modo da cogliere (o costruire) la specificità dell'argomento.

Questo eccentrico itinerario ha dovuto fronteggiare tutta una serie di difficoltà teoriche, di ostacoli relativi al metodo e alla sostanza dei problemi, che non possono non indurre una riflessione finale. Penso all'analisi delle tante criticità sostanziali della restoration nelle sue varie applicazioni, sintetizzate nell'ultimo capitolo del mio studio, che vanno a ridimensionare il potenziale positivo del "paradigma". Incontrare questi limiti ha prodotto in me disorientamento (che permane), dubbi e incertezze. Rispetto ai profili critici è difficile prendere posizione per l'una o per l'altra lettura, per il semplice fatto, che con l'esclusione di qualche attacco meramente ideologico e pregiudiziale, ritengo che tutte le criticità riportate effettivamente vadano a comporre il potenziale degenerativo della restoration.

Probabilmente, come suggerisce Massimo Pavarini, si può convenire con la considerazione critica "globale", secondo la quale la Giustizia riparativa abbia successo nella gestione delle situazioni problematiche che socialmente sono costruite, situazioni problematiche spesso produttrici anche di grande sofferenza e di esteso disagio negli attori sociali coinvolti, ma che socialmente non sono avvertite come "minacciose" e "contestatrici" dell'egemonia dell'ordine normativo statuale su cui si cementa il patto di cittadinanza (2). Lo spazio di praticabilità di una "gestione del conflitto tra le parti private" sarebbe quindi in ragione di quanto la struttura sociale è socialmente condivisa come stabile, di quanto, in diverse parole, quella determinata situazione problematica è sofferta solo "privatamente". In linea di massima, questo tipo di lettura credo possa essere formula di sintesi equilibrata delle criticità della restoration.

Per quanto attiene alle difficoltà di metodo, mi limito qui a ricordare il centrale problema del linguaggio. L'analisi della struttura e delle funzioni della Giustizia riparativa, manca ancora di un di un vocabolario pienamente sviluppato e articolato, che le sia proprio. Questo è un enorme problema. Sono necessari continui riferimenti e rimandi a mille scienze, dottrine ed interpretazioni dagli statuti epistmici svariati, proprio perché l'analisi della restoration non ne ha uno proprio. In particolar modo, quello che manca è un vocabolario per un'analisi esterna delle condizioni di emergenza storica della Riparazione, più che per la struttura della Riparazione in sé. Questo deficit è stato per me uno ostacolo davvero impegnativo da affrontare, che ho cercato di eludere, puntando su di un approccio multidisciplinare e trasversale alle varie questioni, rifiutando decisamente il riferimento alla concettualistica penalistico-criminologica (rappresenta la strada "consunta"), attingendo a serbatoi concettuali diversi (sociologici, filosofico-politici, sociologico-giuridici) accomunati dal fatto di prestarsi ad offrire schemi flessibili, categorie e parole "critiche" per svolgere un discorso esterno alternativo e minimamente credibile.

Anche in un altro senso la restoration s'infrange contro il muro delle parole. Scriveva Ludwig Wittgenstein: "Un'immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e questo sembrava ripetercela inesorabilmente" (3). Nel nostro caso l'immagine (e la parola), è quella del punire, punire l'azione criminale. Trattasi di una sequenza, quella che lega la trasgressione alla punizione, percepita come assolutamente naturale, si produce come irriflessa nelle menti di ognuno, del tutto indiscutibile e indiscussa: chi delinque deve essere punito. Si può discutere sulle forme della punizione, sul perché e sul come, ma si deve punire, si deve necessariamente infliggere dolore. La Giustizia riparativa vuole essere un tentativo di sottrarsi a questa coazione intellettiva, o come direbbe Wittgenstein a questo "crampo mentale", tentativo evidentemente ancora tutto da produrre. La Giustizia riparativa può (e deve) considerarsi se non come "aspirante" surrogato del sistema penale, quantomeno una forma di riflessività critica dello stesso, una forma di ripensamento delle tecnologie punitive, di superamento di quel vocabolario, una forma alternativa di concettualizzazione dei fenomeni criminosi, un tentativo, comunque non privo di ambiguità, di andare oltre il delitto, oltre il castigo.

Note

1. S. Jerzy Lec, Pensieri spettinati, Bompiani, Milano, 1984.

2. M. Pavarini, Dalla pena perduta alla pena ritrovata? Riflessioni su una "recherche", cit.

3. L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, Einaudi, Torino 2001.