ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 5
Profili critici

Giuseppe Maglione, 2008

Premessa

Chi lotta con i mostri deve guardarsi dal non diventare con ciò un mostro. E se guarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso guarderà in te (1) F. W. Nietzsche

Quest'ultimo capitolo, è dedicato ad un tentativo di riconsiderazione "critica" della Giustizia riparativa e della mediazione penale, del loro background teorico, degli aspetti strutturali e delle implicazioni empiriche del paradigma in discussione e delle sue svariate applicazioni. Più analiticamente, il mio obiettivo è la problematizzazione dei significati sociali (2) delle istituzioni e dei processi della Giustizia riparativa.

Tenterò di descrivere tali profili critici, distinguendo tra quelli del paradigma riparativo e quelli propriamente imputabili alla pratica della mediazione penale. In particolare, ritengo che le criticità del restorative paradigm possano essere riconducibiliessenzialmente al paradossale fenomeno di assimilazione della logica riparativa alla logica invasiva e manipolatoria del diritto penale: penso ad alcune questioni generali come l'emergere delle potenzialità degenerative dell'informalità e flessibilità, rilevate ormai da diversi studi, piuttosto che all'effetto collaterale della neutralizzazione del conflitto e dell'espansione del controllo sociale proprio per mezzo della diffusione delle pratiche "riparative". Per quanto attiene alla mediazione penale, i nodi problematici appaiono legati agli effetti dell'eccessivo orientamento alla vittima, il net widening effect, infine la paventata legittimazione del diritto penale simbolico attraverso il funzionamento e la diffusione della pratica mediatoria.

1. L'inglobamento della giustizia riparativa nella giustizia penale

Conviene preliminarmente interrogarsi sul "perché" - sulla ragione strutturale - di questo possibile processo di "recupero" da parte del sistema della giustizia formale-penale, della realtà della Giustizia riparativa, nelle sue diverse varianti operative, realtà originariamente sviluppatasi all'esterno, oltre i confini della legalità formale, secondo criteri di razionalità e con espressioni fenomenologicamente distinte dalla giustizia penale (3). Un'interpretazione possibile potrebbe essere quella secondo la quale, l'esperienza esterna viene inclusa come risorsa utile per un processo di razionalizzazione sistemica (4), nel senso che l'esperienza della restorative justice, se ed in quanto "istituzionalizzata", sembra capace di favorire contemporaneamente, sia l'arricchimento della "scatola di "attrezzi" con cui il sistema formale di giustizia e di controllo sociale penale opera, sia, l'implementazione di modalità ritenute "deflative" rispetto a quelle più proprie e tradizionali di gestione dei conflitti, cronicamente afflitte da disfunzionalità determinate da processi di crescita ipertrofica. I due obiettivi apprezzabili sotto il profilo della funzionalità sistemica, sono poi i medesimi contro i quali si può concentrare anche la lettura critica nei confronti del processo di "istituzionalizzazione" delle pratiche di Riparazione.

L'arricchimento della "scatola di attrezzi" è stato, ad esempio, censurato come "ampliamento della rete" del controllo penale, come inclusione nell'area della criminalizzazione secondaria di quanto "di fatto" altrimenti vi sfugge (5), l'obiettivo "deflativo" - spesso più presunto che reale - è stato invece contestato come orientato principalmente alla definizione di una giustizia minore, come giustizia "svilita" e di secondo livello (6), ed infine l'inclusione di pratiche riparative nel sistema della giustizia penale è stato ritenuto capace di favorire (paradossalmente se consideriamo le premesse del nostro discorso) la "giuridizzazione" dei rapporti sociali, operando così in favore di una rilegittimazione dello stesso sistema giudiziario e comunque favorendo un incremento del dominio della regolamentazione di tipo giuridico (7).

Se la ragione forte di questo processo di inclusione entro i confini della legalità formale di quanto all'esterno di questi "naturalmente" si era determinato sembra rispondere a necessità strutturali che possiamo convenzionalmente definire di "egemonia" (8), la medesima in sostanza presente in tutti i sistemi, la retorica giustificativa che legittima questo "sfondamento" del fronte mi sembra possa essere diversa in ragione dei contesti culturali in cui essa opera. Inclusione della Giustizia riparativa nel dispositivo penalistico, significherebbe evidentemente, espandere il controllo formale statale. L'informalismo della Riparazione in specie, permetterebbe quell'espansione riducendo e dissimulando la coercizione che al contempo stimola resistenza e giustifica la domanda di protezione formale.

La coercizione è dissimulata nell'informalità del processo riparativo: nel suo linguaggio, nel setting, negli strumenti operativi ecc. L'indice formale dell'espansione del controllo statale potrebbe essere considerato il fatto che istituzioni informali virtualmente non "licenziano" mai un caso: ogni richiesta anche futura merita aiuto nelle forme discutibili, di una presa in carico permanente. La creazione delle istituzioni di Giustizia riparativa poi, sempre nell'ottica dell'espansione dell'azione di controllo del Leviatano, aumenterebbe il quantum delle risorse statali deputate al controllo sociale. La Giustizia riparativa, prima di tutto non deve rispettare i pesanti oneri procedurali formali del controllo sociale formale, che assolvono una funzione garantista nei confronti dei "controllati". Le istituzioni informali agevolerebbero poi, la capacità di definizione delle corti, permettendo a queste di attirare sempre nuove domande. L'istituzione informale può essere vista, quindi, come tentativo di espansione del controllo statale ad importanti sfere di interazione sociale, mediante un subdolo processo di dissimulazione delle forme, processo i cui esiti sarebbero paradossali rispetto alla concettualizzazione della Riparazione come reazione della Lebenswelt alla colonizzazione giuridica.

Come ha scritto Richard Abel, campione tra gli "accusatori" delle pratiche di restoration:

"The paradigm for contemporary expansion of state informal control is neighborhood justice, for the concept of neighborhood simultaneously fulfills a number of different requirements. It satisfies nostalgia for a mytical past, whether imagined as a small town or an urban ethic enclave that symbolizes homogeneity, and thus security in a society whose normative and social conflicts are extremely threatening. It locates institutions of social control in residential settings that appear to be as remote as possibile from the state, an appearance that is enhanced by the language and forms of decetralization, which conceal the extent of state direction" (9).

Le istituzioni di giustizia informale non de-formalizzano dunque, il controllo statale piuttosto, pregiudicano le modalità extrastatali di controllo informale, con effetti socialmente destrutturanti. La giustizia informale perfeziona il monopolio della violenza attivando e disciplinando forme di violenza in precedenza trascurate, estendendo un controllo meno coercitivo ma più pervasivo, espropriando in maniera meno visibile ma comunque concreta il conflitto alle parti, riducendo anche la partecipazione dei cittadini alla gestione delle dispute, minimizzando la partecipazione democratica.

La giustizia informale poi è stata accusata, contestualmente ad essere veicolo di espansione di controllo sociale statale, anche di essere fattore di neutralizzazione del conflitto, inteso in senso macro come possibile minaccia alla stabilità dei rapporti di potere di stato e struttura sociale.

La giustizia informale neutralizza il conflitto rispondendo alle varie istanze di intervento, tamponando localmente, assecondando il micro-conflitto in modo da inibire la trasformazione delle stesse dinamiche micro-conflittuali in serie sfide alla struttura sociale. Considerando il conflitto non attinente alla struttura sociale ma legato alla comunicazione ecologicamente radicata, la tecnologia riparativa individualizza i rapporti di opposizione, negandone ogni collegamento con le contraddizioni di base della struttura sociale, assorbendo in ultima istanza il potenziale distruttivo, ma anche rigenerativo, del conflitto sociale. Il proliferare della giustizia informale porta con sé il rischio di aderire ad una funzione regolatrice orientata alla produzione di adeguamenti, potrebbe addirittura essere riassorbita dal progetto biopolitico di plasmare e incanalare la moltitudine dei desideri senza controllo, cercando di modificare il carattere delle parti il cui comportamento è percepito come deviante, intervenendo sul conflitto prima della sua escalazione, prima della violazione della legge, in taluni casi anche quando il conflitto non c'è.

L'effetto di inglobamento può anche essere concettualizzato, come suggerito da autorevole dottrina, come net widening effect (10). Per net widening effect può intendersi:

"Within critical criminology this term is used to describe the effects of providing alternatives to incarceration or diversion programs to direct offenders away from court. While all of these programs developed since the late 1960's were intended to reduce the numbers of offenders in prison or reduce the numbers going to court, it has been found that what has happened instead is that the total numbers of offenders under the control of the state have increased while the population targeted for reduction has not been reduced. In short, the net of social control has been thrown more widely" (11).

Il fenomeno in questione è stato osservato soprattutto nell'ambito dell'applicazione della tecnologia riparativa in ambito minorile:

"However, despite the promise of prevention and early intervention programs, research has shown that these policies rarely produce the expected results and more often have the opposite effect. Instead of reducing the number of youth formally processed through the juvenile justice system, these prevention and early intervention policies actually subject more youths to formal justice system intervention. Criminologists refer to this phenomenon as "net widening" and it is a growing trend. The implications of net widening are serious because the process results in the diversion of resources from youth most in need of intervention to youths who may require no intervention. This process depletes the system's resources and impairs its ability to properly intervene with appropriate youth. Instead of improving public safety, these early intervention and prevention strategies promote net widening by shifting resources from youth most in need to youth least in need" (12).

Il net widening è dunque considerabile come uno dei più evidenti "fallimenti" nel funzionamento della giustizia informale e della tecnologia riparativa:

"In recent years critical concern has been focused upon diversion program accountability and has stimulated evaluation of the program's implementation efforts and results. Emerging from these evaluation efforts have been several important and alarming trends. First, and central to diversion's basic conceptual rationale, has been the documented failure of diversion programs to implement appropriate client targeting upon system-insertable clients. This failure has resulted in what is referred to as "net-widening" -namely, extending the client reach of the justice system by increasing the overall proportion to population (system-insertable and "others") subject to some form of system control. Second, diversion's net-widening has been shown to have the potential to produce a number of consequences detrimental to clients. Third, and a more subtle issue underlying the net-widening findings, is the question of how the general population may come to accept state intrusions as a matter of common course" (13).

Probabilmente un limite generale che è possibile cogliere in quelle notazioni critiche, può essere considerata l'iscrizione della Riparazione sempre e comunque nella logica del paradigma di giustizia penale, alla stregua della retribuzione e della rieducazione, operazione che porta a concettualizzare la tecnologia riparatoria, nelle sue plurime espressioni fenomenologiche, come complesso di tecniche di mera diversion processuale, perciò sempre e comunque una risposta appartenente al controllo formale.

Ma la Riparazione è ontologicamente diversa da ogni altro strumento presente nella scatola degli attrezzi del sistema penale, giacché lavora unicamente attraverso la comunicazione e attinge ad un concetto di responsabilità non "retroriflesso" (14).

Ma su queste considerazioni tornerò in esito al capitolo.

1.1 Anomalie dell'informalismo

Continuando nell'ideale rassegna delle problematizzazioni del significato sociale della Giustizia riparativa, svolta per il momento ad elevato livello di astrazione, è possibile prendere in considerazione i limiti di una delle principali caratteristiche strutturali della Riparazione: l'informalità. Come è stato sostenuto, soprattutto negli Stati Uniti, con l'ascesa della Riparazione al formalismo delle istituzioni giudiziarie rimasto inalterato, si affianca una complessa rete di regolazioni para-legali che complica ulteriormente invece che semplificare il sistema esistente.

Si lamenta la poca chiarezza su quale possa essere il modo migliore di organizzare le strutture di gestione informale dei conflitti; su quali tipi di provvedimenti queste possano adottare e su quali casi possano intervenire; su quale sia il tipo di preparazione richiesta per farne parte e in generale, sulle procedure ad utilizzare e sulla legittimità rispetto all'ordinamento delle soluzioni adottate (15).

Specialmente negli Stati Uniti la proliferazione capillare di istituzioni locali capaci di invadere pesantemente la privacy individuali e facenti capo ad una burocrazia sostanzialmente incontrollabile, non poteva non alimentare il timore dell'avvento di una società totalmente amministrata da un paternalismo parastatale. Per molti critici l'informalismo e la sua retorica non sarebbero stati altro che un paravento dietro al quale realizzare il vero scopo di ampliamento della rete di controllo sociale. Le procedure legali-formali limitano la necessità dell'intervento diretto dello Stato- se certi comportamenti specificamente sono vietati perché illegali, tutti gli altri sono permessi perché legali. La legge formale inoltre limita i modi in cui lo Stato può intervenire - la coercizione esplicita richiede la garanzia di un giusto processo. Dall'altro le stesse istituzioni dell'informalismo rappresentano una modifica dell'intervento dello Stato in direzione di un paternalismo impegnato, una negazione della coazione che implica l'offerta di un aiuto, una "redistribuzione" delle risorse legali, una forma di neutralizzazione del conflitto che si presenta, paradossalmente, come un modo nuovo e migliore di esprimerlo.

All'opposto la legge formale è meno accessibile, è difficile da mobilitare, è meno tollerante verso le scusanti avanzate dall'autore del torto, che si trova a dipendere dalla gestione paternalistica, informale e priva di garanzie del conflitto, da parte della restorative expertise. Si assiste ad una erosione dei diritti formali, conseguenza inevitabile della progressiva intrusione dello Stato nell'area dell'autonomia personale: l'individuo deve convincersi che i suoi problemi troveranno soluzione nella misura in cui si sottoporrà a un controllo continuo sulla sua esistenza (16).

Da un'altra angolazione, l'ascesa della Riparazione invece di trasformare o sovvertire l'apparato legale esistente, ne lascerebbero sostanzialmente intatte le strutture fondamentali. Anzi, lo spostamento nelle sedi informali di gran parte delle dispute minori, avrebbe consentito ai soggetti operanti nel sistema di giustizia operanti nel sistema di giustizia ufficiale di concentrarsi meglio sui casi più seri e (soprattutto economicamente) più interessanti (17). Di qui la creazione di fatto di due sistemi di giustizia paralleli, riconoscibili in base alla casistica trattata, al tipo di clientela e alla gamma di provvedimenti utilizzati: invece di ridurre l'ambito di intervento legale, la diffusione delle soft justices avrebbe prodotto la contemporanea espansione delle procedure sia formali che informali. Non la richiesta di giustizia diversa avrebbe creato le nuove istituzioni para-legali, piuttosto sarebbero state queste ultime, con la loro stessa presenza, a inventarsi la propria clientela, coinvolgendo degli individui che prima avrebbero probabilmente risolto in maniera veramente informale le loro controversie attraverso la discussione, la rinuncia o la semplice sopportazione.

Essere riuscito a formalizzare l'informale: questo il paradosso del movimento informalista.

Un ulteriore paradosso del sistema a doppio binario venutosi ad instaurare di fatto con l'ascesa della Restorative justice sempre negli USA, potrebbe essere considerato il fatto che nel contesto relativamente non-valutativo delle procedure informali vengano spesso presentate prove e fatte ammissioni, sufficienti per un'incriminazione: con la conseguenza che la parte non soddisfatta dei lievi provvedimenti informali, sia continuamente tentata di scavalcarla per adire il giudice ed ottenere sanzioni più intense.

Altra questione ampiamente rilevata è che le procedure della Giustizia riparativa tenderebbero naturalmente a diventare troppo informali: in situazioni emotivamente sovraccariche, la parte psicologicamente e/o economicamente più debole si potrebbe sentire privata di una tutela più formale che la possa mettere in grado di negoziare da una posizione più forte; troppo informalismo potrebbe impedire il perseguimento di una sistemazione razionale della controversia. In specie per le dispute familiari, si teme che la sottrazione delle stesse all'ambito del sistema legale ufficiale possa impedire il perseguimento dell'eguaglianza formale e sostanziale tra i soggetti del rapporto: in molti casi, l'accordo finale non appare tanto la conseguenza di un mutuo consenso, quanto il riflesso delle doti di resistenza o della vulnerabilità delle parti.

Nel passaggio all'informalismo, le differenze sociali, personali ed economiche sarebbero rimaste inalterate, con la conseguenza che la giustizia informale dietro una maschera di neutralità, si sarebbe trovata a confermare di fatto le ineguaglianze, producendo dei compromessi che inevitabilmente avrebbero favorito il più forte.

C'è poi un'altra rilevante anomalia. L'informalismo ha contribuito a rilegittimare il sistema giuridico in crisi.

La proliferazione delle alternative ha di fatto distratto l'attenzione dalle pur effettivamente esistenti, difficoltà delle procedure ufficiali di aggiudicazione, diffondendo l'impressione che le loro debolezze fossero dovute essenzialmente non a problemi strutturali, ma al semplice sovraccarico di casi marginali.

La giustizia informale sarebbe stata insomma più conservatrice che progressista, dividendo, anziché aggregando, i soggetti in base ai loro problemi. Incoraggiando infine i soggetti a farsi carico responsabilmente dei conflitti le cui origini affondano in situazioni sociali difficili e complesse, l'informalismo avrebbe indirettamente sollevato lo Stato dalle sue responsabilità di intervento su queste ultime.

Favorendo l'informalismo, lo Stato avrebbe dunque in realtà inteso prevenire le possibilità di organizzazione e di resistenza delle categorie sociali subalterne, sviluppando una forma pervasiva di controllo basata su strategie apparentemente non coercitive.

Molte forme di attività che prima sfuggivano ai parametri d'intervento formali, sarebbero divenute accessibili e direttamente manipolabili, in un contesto dove i soggetti venivano incoraggiati a rinunciare alla tutela legale dei loro diritti: la capacità dello Stato di occuparsi dei conflitti minori e interpersonali, sarebbe aumentata nella misura in cui "l'ideologia dell'informalismo costituisce il fondamento amministrativo-tecnocratico per un intervento finalizzato al mantenimento dell'ordine pubblico" (18)

2. Una ricognizione possibile delle contraddizioni della mediazione penale

Venendo alle contraddizioni della mediazione penale, come espressione della tecnologia riparativa, ritengo, per agevolare la penetrazione analitica, sia necessario distinguere tra limiti teorici e limiti pratici.

Secondo alcune interpretazioni (19), un primo, fondamentale limite della mediazione penale, è riconducibile al fatto che la "dimensione della giustizia" nella mediazione penale è ritagliata esclusivamente sugli interessi della vittima. La mediazione penale non potrebbe essere concettualizzabile, come processo relazionale in cui partners contraenti sulla base di autonomia privata determinano in prima persona, se giungono alla risoluzione del conflitto, quale sarà l'esito del loro incontro. Infatti, non rimane aperta la questione su chi riceverà giustizia né tanto meno, il reo designato può essere vittima, se quindi l'assegnazione di ruoli non è in discussione, la pratica riparativa è un rituale, un cerimoniale con un risultato prestabilito (20).

Per di più, la privatizzazione della questione della riparazione fra parti contraenti sulla base dei loro interessi, segue un modello di stimolo tipo do ut des, ma non sulla base e per la promozione dell'autonomia privata: è la legge che pone un premio per un determinato comportamento procedurale delle parti coinvolte e che ricambia con gratificazioni nel caso in cui le parti pervengano ad una soluzione "autonoma", nel caso contrario tiene ferma la minaccia. La mediazione tratta le parti come individui privati, disinteressandosi di tutti i soggetti possibilmente coinvolti in una violazione giuridica. La funzione di questa restrizione del campo di osservazione basata sulla "divisione del lavoro" è la diversion: si devia dalla discussione sulle possibilità e necessità di tutela dai rischi vitali nelle società tardomoderne, rischi che vanno oltre la minaccia e la violazione della singola vittima e che sono meno visibili, ma che contribuiscono non poco alla vittimizzazione di ampi strati della popolazione.

2.1 Pericoli dell'orientamento alla vittima

Secondo alcuni autori (21), contrariamente a ciò che fa credere la retorica giustificativa della mediazione penale, allorquando questa associa l'esigenza di rivalutare e di ristabilire la soggettività della vittima nel processo penale, alla critica rivolta al diritto penale dello stato assistenziale e al suo essere orientato prevalentemente al reo, la vittima costituirebbe già da lungo tempo il punto di orientamento decisivo del diritto penale, anche se non la vittima attuale, bensì quella potenziale. La perdita di posizione della vittima attuale nel processo penale non è fondata sull'orientamento al reo, quanto sull'intenzione dello Stato di de-drammatizzare e razionalizzare il rapporto reo-vittima, sottraendo loro il diritto all'esercizio della violenza (22).

A questa situazione si affiancherebbe un paradosso, relativo al senso delle sanzioni: appellarsi alla Riparazione dal punto di vista della vittima è logico e rispecchia i suoi interessi, ma si esaurisce altrettanto logicamente in essi. L'orientamento alle vittime potenziali invece importa non la corrispondenza della riparazione ai bisogni della vittima, quanto orientare il senso della sanzione alla situazione della vittima potenziale.

Da un'altra angolazione, la mediazione si richiama alla promessa di poter rendere visibile come conflitto reale, uno schema vago e formalistico di contrapposizione reo-vittima. Infatti, la mediazione sostituisce all'astrazione giuridica, alla distinzione giuridico-formale di "reo" e "vittima", una finzione sociologica regressiva (23), vale a dire la costruzione di ruoli dicotomici degli attori, che, da una prospettiva individualistica, esclude la comprensione dei complessi nessi intersoggettivi e ristabilisce la dicotomia reo-vittima, questa volta però su un livello di scienze della realtà.

È vero anche che la costruzione giuridica della fattispecie deriva dall'astrazione dal contesto sociale della sua origine; vero è che anche le valutazioni soggettive delle interazioni sociali e le valutazioni della "materialità delle comunicazioni" non rappresentano punti di riferimento della concettualizzazione giuridica, e che non gioca alcun ruolo il relativo significato individuale della vittimizzazione, così come nessun ruolo gioca la rappresentazione della criminalità e della giustizia che hanno le parti. Tuttavia o proprio per questo, secondo certe analisi critiche, non è giusta la conclusione contraria, secondo la quale alle classiche interpretazioni del reato come delitto o pericolo, basterebbe aggiungere il loro contesto interattivo e considerarle così anche come accadimenti sociali traumatici, per poter far emergere il conflitto reale che si cela in ogni delitto (24).

Prigioniera della definizione giuridica di reo e vittima, la mediazione focalizza l'attenzione sulle vittime individuali, e soprattutto, sulle vittime dei classici reati di violenza interpersonale e dei reati contro la proprietà (25).

In questo modo con una vittima diretta e concreta, si conferma l'immagine tradizionale della criminalità, che produce selettività e discriminazione riguardo a gruppi di vittime e gruppi di reati. In questa rappresentazione, non vi è posto per il riconoscimento di una relazione mediatoria o addirittura per una dialettica tra reo e vittima. Il problema appare allora il passaggio dallo status di reo a quello di vittima, transizione che sembra meno praticabile del percorso inverso.

La realtà della vittimità come quella della criminalità è dovuta a processi di costruzione sociale, l'effetto dell'immagine tradizionale di reo e vittima è quello di non dover rappresentare posizioni nella struttura delle relazioni sociali, quanto piuttosto qualità degli attori.

Quest'immagine presenta il reo come malato, malvagio ecc. in ogni caso decisore forte, mentre la caratteristica fondamentale della vittima "innocente" è la sua debolezza multipla e per lo più la passività che si rivela in un'elevata capacità di sofferenza (26). Queste attribuzioni speculari, celano sia il fatto che si tratta di definizioni che presuppongono una determinata concezione della criminalità, sia il fatto che il ruolo della vittima non dipende affatto da traumi o sofferenze. Nel moderno, dopo l'istituzione del potere statale di punizione, non solo l'acquisto dello status di vittima, ma ambedue i ruoli dipendono dal retrocedere della posizione del soggetto a favore dello stato e del diritto; a favore quindi di quel terzo potente cui le parti delegano il potere di esercitare violenza.

In sintesi, il punto cieco dell'immagine tradizionale consiste nel fatto di concepire l'istituzione della vittima come qualità e non come relazione ternaria includente il terzo. Quest'ultimo costituisce l'aspetto decisivo che è offuscato dalla retorica dominante sulla vittima in generale e, in particolare, dalla mediazione come procedimento penale che, peraltro, si ritiene capace di poter trascurare questo fatto e di poter produrre esiti positivi. Il rapporto reo-vittima non è di per sè sufficiente a fondare la vittimità della criminalità. Questa si costituisce solo dal punto di vista di un terzo potente che non si identifica necessariamente con il diritto: i terzi determinano se si tratta di un reo o di una vittima, nonché la dignità della vittima che giustifica il sacrificio del reo liberando in tal modo entrambi gli attori e la comunità stessa, dalla violenza minacciosa del conflitto.

Il mantenimento dell'immagine tradizionale si rivela poi, funzionale sia per il sistema della giustizia penale che per l'industria, sempre più redditizia, della vittima.

Mentre per il reo l'abituarsi al proprio ruolo è di poca utilità e, per la vittima, in quanto mette in dubbio la sua dignità, rappresenta uno svantaggio, il mantenimento delle posizioni crea vantaggi e occasioni per altri fattori: infatti, nella protezione della vittima e nei programmi di assistenza ad essa rivolti, questa, inerme, entra principalmente come beneficiaria delle prestazioni dello stato sociale. I programmi di compensazione si rivelano strumenti eccellenti per regolare i bisogni della vittima in conformità alle esigenze e alle prospettive del sistema della giustizia penale, e per placare, nello stesso tempo lo scontento del pubblico (27).

Al livello dell'integrazione del sistema, la funzionalità del discorso dominante sulla vittima va vista nella sua congruenza con le pratiche di gerarchizzazione della società del rischio: sono assicurate le posizioni di forza e di subordinazione esistente.

Secondo questa prospettiva critica, dal semplice fatto che, dappertutto, si fa un gran parlare della mediazione e dei presunti bisogni della vittima non si può arguire una tendenza di sviluppo in direzione di una sensibile e seria considerazione dei suoi interessi. L'orientamento alla mediazione e a influenze pedagogiche su giovani rei, sembrano rispecchiare più gli interessi di un sistema di assistenza sociale sempre più accademizzata e i deficit di legittimazione di un sistema di giustizia penale che oggi si vede posto dinnanzi a problemi sempre più stringenti di applicazione del diritto. Il continuo rimando alla percentuale di procedure mediatorie conclusesi con successo nasconde il fatto che l'azione penale è sottoposta alla pressione di un carico sempre più alto di affari da risolvere, carico di cui cerca di alleggerirsi mediante determinate strategie di composizione amministrativa. Non solo la criminalità rappresenta un fenomeno di massa, anche la giustizia penale è oggi un affare di massa, in cui la massima del funzionamento efficiente della giustizia penale si è trasformata in uno slogan contro gli imputati. Infatti, dire che la giustizia penale è un affare di massa implica non solo la routine della sospensione procedurale di fattispecie di reato da parte di una procura costretta, perché i casi possano in assoluto essere decisi, a decidere in base agli atti.

Ciò sta ad indicare, soprattutto, il fenomeno per cui il sistema di giustizia penale, oggi, cerca un contatto sempre più stretto con quel mercato della sicurezza interna scatenato dai media, dai parlamenti e dai governi e sempre più si presenta come fornitore di nuovi prodotti e nuovi servizi. Entrando in concorrenza e cooperazione a livello paritario con il sistema privato di produzione di sicurezza, i suoi obiettivi non sono più rei e vittime individuali, bensì situazioni che vengono regolate alla periferia del sistema penale, da un lato mediante l'informalizzazione e dall'altro mediante accordi, patteggiamenti mediazione contratto all'interno dello stesso processo penale.

Il risultato sostanziale di questi mutamenti non è tuttavia la diminuzione delle procedure formali quanto l'autonomizzarsi delle procedure istruttorie e la rivalutazione della procura come istanza di sanzionamento.

2.2 La mediazione come strumento di oppressione sociale

Un'altra lettura critica circa la mediazione penale, rileva ed enfatizza come questa pratica si sia trasformata in un pericoloso strumento per aumentare il potere del più forte a danno del più debole. A causa dell'informalismo e del consensualismo della procedura, e al contempo per l'assenza di regole sia sostanziali che procedurali, la mediazione potrebbe amplificare lo squilibrio dei poteri e aprire la porta alla coercizione e alla manipolazione da parte del più forte nel conflitto, al tempo stesso, la posizione di neutralità solleverebbe il mediatore dal prevenire tutto ciò. Rispetto alle procedure formali-legali, la mediazione avrebbe prodotto risultati ingiusti in quanto sproporzionatamente e ingiustificatamente favorevoli alle parti più forti. Inoltre, date la sua riservatezza e informalità, essa dà ai mediatori ampi poteri strategici sul controllo della discussione, aprendo la strada all'affermarsi dei loro pregiudizi. Questi possono alterare la selezione e la forma dei problemi, il modo di strutturare e di valutare le opzioni, e molti altri elementi che influenzano la soluzione. Di conseguenza la mediazione avrebbe spesso prodotto dei risultati ingiusti.

Inoltre, dal momento che la mediazione gestisce le dispute senza fare riferimenti ad altri casi simili e all'interesse pubblico, essa produce una disaggregazione e una privatizzazione dei problemi sia di un gruppo soziale sia pubblici. La conseguenza è che la mediazione ha di fatto aiutato i forti a "dividere e comandare". Le parti più deboli vengono rese incapaci a organizzarsi e l'interesse pubblico viene sottovalutato e ignorato. In definitiva l'effetto complessivo del movimento per la mediazione sarebbe stato quello di indebolire le conquiste di giustizia sociale ottenute dai movimenti per i diritti civili, delle donne, dei consumatori ecc. e di aiutare ristabilire la posizione privilegiata delle classi sociali più forti che opprimono quelle più deboli. Questo quadro di oppressione si ritrova in molte situazioni. La mediazione familiare indebolisce garanzie ed espone le donne ad accordi coercitivi e manipolatori che producono ingiustizie sia nei diritti di proprietà che in quelli di custodia. La mediazione tra proprietario e conduttore permette al primo di sfuggire ai suoi obblighi di provvedere al minimo di decenza abitativa per il secondo, con danni evidenti per la qualità della vita di questi. La mediazione sulle discriminazioni in ambiente di lavoro spinge le vittime ad accettare buonuscita e permette al razzismo e al sessismo di riprodursi indisturbati all'interno del mondo degli affari e delle istituzioni. Anche nei conflitti tra partners commerciali, la mediazione consente alle parti di prendere accordi a porte chiuse che possono svantaggiare i consumatori. In ogni campo, la mediazione sarebbe stata utilizzata per rafforzare il potere del più forte e aumentare lo sfruttamento e l'oppressione del più debole.

2.3 Limiti pratici della mediazione penale

Le forme applicative della Giustizia riparativa si sono diffuse in molti paesi e, parallelamente, sono state accompagnate da tutta una serie di rilievi critici. Molti hanno osservato che, fino ad oggi, i programmi di mediazione in specie, sono stati applicati prevalentemente ad autori di reato di razza bianca e appartenenti alla classe media, mentre solo raramente hanno potuto beneficiarne coloro che appartengono alle minoranze etniche. Inoltre, i criminali ammessi ad usufruirne sono per lo più giovani, non recidivi, responsabili di delitti non gravi, soprattutto contro la proprietà, pur se da qualche tempo si riscontra la tendenza a prendere in considerazione anche criminali adulti responsabili di reati di una certa rilevanza.

È difficile trovare delle buone ragioni per escludere gli autori di crimini gravi da questi programmi, in quanto il principio secondo cui tali autori devono subire una punizione trova le proprie origini nella concezione retributiva e la vendetta, quale risposta sociale alla delinquenza, anche se viene canalizzata in un contesto legale, non può costituire una valida base per una reazione "civile" da parte della società. La convinzione che la gente non accetti l'applicazione dei programmi di mediazione agli autori di reati gravi non è altro che uno stereotipo, così come è uno stereotipo l'atteggiamento punitivo della collettività. Anzi, è stato ipotizzato che più grave è il caso, più grande è il potenziale beneficio per le vittime di superare il trauma; se ciò è vero, alle vittime non dovrebbe essere negata l'opportunità di partecipare ad un programma semplicemente perché lo Stato pone un limite ai tipi di crimine previsti. Essa ha il diritto di incontrare il criminale, se lo desidera e se questi è d'accordo. La valutazione della vittima, circa la banalità o la gravità di un episodio, non necessariamente corrisponde all'ordine di gravità legalmente stabilito e, pertanto, essa deve essere lasciata libera di decidere ogni volta nel modo che ritiene più opportuno.

Quest'ultima considerazione apre un'ulteriore questione, quella relativa all'accettazione da parte delle vittime dei programmi di mediazione; infatti, è stato dimostrato che alcune, anche se in numero piuttosto limitato, si rifiutano di prendervi parte. Tutti concordano nel ritenere che alla vittima debba essere pienamente garantito il diritto di non accettare, anche perché in caso contrario la mediazione non sarebbe realizzabile. Tuttavia anche quando viene espresso un rifiuto, l'applicazione del modello "riparativo" non è del tutto esclusa, in quanto è possibile ricorrere ad altre forme che, come la compensazione ed il community service, non rientrano nel concetto di mediazione intesa in senso stretto.

Più complesso appare il problema del consenso del "reo": potrebbe essere ammesso, se non l'obbligo di partecipare alla mediazione (che necessita anche della collaborazione del criminale), almeno quello di eseguire un community service, e ciò per analogia alle condizioni previste per la probation; se venisse escluso anche il community service, si potrebbe considerare la possibilità di imporre un servizio simile in un ambiente residenziale. Anche per Martin Wright la partecipazione volontaria del criminale non è così "vitale" (28), in quanto non esiste ragione alcuna per cui non si possa affermare, come questione di semplice giustizia naturale, che il criminale ha l'obbligo di riparare, materialmente ed emotivamente, al danno arrecato, se si è legittimati a richiederlo.

È stato inoltre sottolineato che, nell'ottica dei principi di difesa e di sicurezza sociale, i programmi di restituzione e mediazione, in quanto svolti nella società libera, potrebbero comportare rischi eccessivi di recidiva grave. È qui sufficiente accennare al fatto che tali rischi non si differenziano da quelli presentati dalle misure alternative al carcere, come la probation e la parole.

Un'altra critica mossa all'applicazione della pratica mediatoria è la mancanza di chiarezza circa i suoi obiettivi: a volte si enfatizza la soddisfazione dei bisogni della vittima, altre volte la rieducazione del criminale, altre volte ancora la diminuzione della popolazione carceraria e la riduzione del carico di lavoro delle corti, e così via. In particolare, qualcuno ha avanzato l'ipotesi che i progetti di mediazione, inizialmente auspicati dai movimenti in favore delle vittime, in realtà "usino", e strumentalizzino le vittime stesse, in quanto l'oggetto principale del loro interesse rimarrebbero il criminale e l'attuale sistema di giustizia.

Anche il raggiungimento dell'obiettivo di ridurre i tassi di carcerazione attraverso programmi di mediazione appare problematico: la ricerca empirica, infatti, sembra aver dimostrato che tali programmi non sono in grado di ridurre non solo i tassi di carcerazione, ma neppure l'applicazione delle misure alternative. Sembra quindi verificarsi il fenomeno, già segnalato a proposito delle misure alternative al carcere, dell'ampliamento e del rafforzamento del controllo sociale da parte dello Stato. I programmi di mediazione e restituzione, infatti, possono rendere le reti del controllo più ampie poiché, estendendosi a soggetti che altrimenti non verrebbero sottoposti ad alcuna misura, determinano l'aumento nel numero delle persone il cui comportamento è regolato e controllato dallo Stato; più forti, poiché la restituzione si aggiunge ad altre pene, intensificando così il potere di intervento dello Stato; differenti, in quanto vengono creati nuovi sistemi di controllo che non riguardano più soltanto il settore penale ma anche quello amministrativo.

È comunque verosimile che il rischio si attenui, e addirittura scompaia, quando i programmi, come quelli community - based, sono del tutto indipendenti dal sistema di giustizia; in tal caso, infatti, come è stato in precedenza descritto, le parti si rivolgono spontaneamente alle agenzie preposte e tentano un accordo che è al di fuori di qualsiasi contesto legale (quest'approccio è comunque inattuabile nei paesi come il nostro, dove vige il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale). D'altra parte, bisogna ricordare che i programmi indipendenti dal sistema di giustizia, così come pure quelli che, al di là del tipo di rapporto con tale sistema, prevedono una regolazione privata del conflitto, non sono esenti da limiti, primo fra tutti la mancanza delle garanzie offerte dal sistema penale, quale la tutela giuridica dei diritti dell'accusato.

Inoltre, se è vero che il controllo sociale formale produce effetti di etichettamento, è anche vero che stigmatizzare una persona attraverso un sistema di controllo sociale informale, può avere le stesse gravi conseguenze per la vita di quell'individuo. Anche alcuni aspetti più propriamente "pratici", quali la struttura organizzativa delle agenzie che curano i programmi (agenzie private, governative o appartenenti al sistema di giustizia), il ruolo e la formazione dei mediatori (professionisti o volontari, formati in psicologia clinica o esperti in counseling), le modalità del "processo" di mediazione (incontri faccia a faccia tra l'autore e la vittima o nessun incontro, necessità di una negoziazione preparatoria o meno, etc.), gli enti che elargiscono i fondi (sovvenzioni private o pubbliche), sono attualmente oggetto di valutazione e discussione da parte della letteratura criminologica.

3. Intersezioni critiche

È emerso in quest'ultimo capitolo, l'esistenza di un vero potenziale degenerativo delle pratiche di Riparazione: penso al fenomeno di assimilazione della logica riparativa alla logica del diritto penale, ad alcune questioni come lo sviluppo di dinamiche ingovernabili dell'informalità e flessibilità della Riparazione, piuttosto che all'effetto collaterale della neutralizzazione del conflitto e dell'espansione del controllo sociale, oppure ancora alla riconferma degli status di vittima e reo.

È possibile sostenere quanto questi diversi vulnera teorici e pratici, siano riconducibili alla Riparazione come concepita dalle interpretazioni "classiche" del paradigma riparativo, che vedono in quest'ultimo null'altro che un nuovo (magari postmoderno) paradigma di giustizia penale.

Tuttavia anche la concettualizzazione da me proposta, di Riparazione come reazione "entropica" della Lebenswelt, come tentativo di rivitalizzazione del mondo vitale, presenta limiti e contraddizioni: anche in questa prospettiva, la Riparazione detiene un potenziale degenerativo, potendo involvere in forme subdole di riproduzione dell'ordine giuridico-penale, pervenendo addirittura ad una regolazione normalizzante di ogni micro-conflitto.

Ricordo che la Giustizia riparativa è stata concettualizzata in questa sede, come un particolare dispositivo di interpretazione e regolazione della conflittualità sociale dichiarata, realizzante un effetto di rivitalizzazione della Lebenswelt atrofizzata, nelle sue potenzialità autoregolative, dall'azione complementare di giuridificazione e giudiziarizzazione sociale, fenomeni connessi alla parabola del Welfare State biopolitico.

Ebbene, anche questa lettura ha i suoi limiti. Penso ad esempio, in questa prospettiva, all'effetto possibile della Riparazione come regolazione normalizzante "dal basso" delle interazioni sociali conflittuali, effetto che potrebbe far pensare ad alcune delle caratteristiche di quella che ho definito biopolitica post-disciplinare. Una delle ultime acquisizioni del primo capitolo si fondava sull'affermazione che l'esaurimento della biopolitica "tradizionale" del Welfare State, consistesse nell'esaurimento della sua componente disciplinare, con tutte le conseguenze "strutturali e "funzionali" che questo ha comportato e comporta.

L'esaurimento delle tecniche di controllo disciplinare operative attraverso dispositivi e istituzioni, che anticipavano e rendevano possibile l'assoggettamento/soggettivazione biopolitico (comunque meno cogente di quanto sostenuto da Foucault), non significava fine della biopolitica, ma probabilmente, evoluzione della stessa. Lo scopo specifico del modello neobiopolitico d'integrazione lato sensu sociale, mi sembrava essere la responsabilizzazione del soggetto, l'individualizzazione del sociale, "promuovendo una forma governamentale di potere" (29), finalizzata ad irreggimentare le "forme" cognitive, linguistiche e comunicative dei singoli; un sistema, quello neobiopolitico, basato su flessibilità, esaltazione di responsabilità individuali e facoltà cognitive, un sistema produttivo aperto, basato sulla collaborazione, sulla rete e su soggettività adattabili a ogni contesto. Centralità in questo modello veniva data alle risorse comunicative e relazionali, alle risorse "sociali" produttive di "comunità", utilizzate (paradossalmente) per la de-socializzazione della moltitudine, la singolarizzazione delle responsabilità. La Giustizia riparativa potrebbe rappresentare una manifestazione ed un veicolo per questa forma tardo-moderna di biopolitica: funzionalizzando il processo comunicativo tra soggetti in conflitto alla responsabilizzazione degli stessi, astraendo la relazione conflittuale dalle contraddizioni della più ampia struttura sociale nel quale è radicata, privatizzando il conflitto, normativizzando la comunicazione tra le parti e stabilendo una disciplina per l'interazione comunque prodotta dall'esterno, le tecniche riparative contribuirebbero al processo di individualizzazione del sociale di cui sopra, asservendo la biopolitica tardo-moderna. I sedicenti vantaggi di tipo psico-pedagogico dell'azione riparativa come la presa di coscienza personale, l'incremento dell'autostima delle vittime ed del senso di responsabilità degli autori, il senso d'appartenenza alla comunità, piuttosto che la realizzazione attraverso la Riparazione di interventi psicosociali, nei quali viene riscoperta l'importanza delle emozioni e dei sentimenti, rappresenterebbero effetti neo-biopolitici, partecipando ad un processo di normalizzazione delle facoltà cognitive, linguistiche e comunicative delle parti confliggenti secondo standard fissati dall'esterno, inducendo l'adesione delle stesse a forme di interazione costruite artificialmente e distanti dalla specificità reale dei confliggenti, finalizzate al controllo pervasivo degli stessi.

Proprio perché la biopolitica è relativamente indipendente dalle istituzioni statali, essa si può riprodurre in maniera proteiforme, in molti altri contesti, in forme inedite, anche al di là dei limiti dello statalismo welfarista, ad esempio attraverso i meccanismi de-centrati della Giustizia riparativa.

C'è un'altra "intersezione critica" che credo valga la pena di analizzare: si tratta del rapporto tra Lebenswelt e Riparazione, questa volta interpretabile in termini maggiormente critici.

Rammento che in questa sede l'azione Riparativa è stata intesa, ad elevato grado di astrazione teorica, come una forma di agire comunicativo esprimentesi in una tecnologia di interpretazione e gestione del conflitto sociale, che attraverso la risorsa comunicativa attinta dai mondi della vita quotidiana, permette ai partecipanti al conflitto di produrre-riprodurre "argomentativamente" il significato dell'interazione conflittuale e di gestirla in modo intersoggettivo e coerente con quella specifica rappresentazione "relazionale" del conflitto, prescindendo dalla riduzione "oggettivistica" che ne farebbe il dispositivo giuridico. Questa interpretazione, inevitabilmente presenta dei limiti e delle contraddizioni.

Prima di tutto non tutti quelli che il diritto penale definisce crimini implicano una relazione sulla quale poter lavorare (reati senza vittima p. es.); in secondo luogo questa lettura nega i differenziali di potere "sociale" nella generazione della realtà del conflitto in capo alle parti; anche poi, a voler prescindere dall'obiettiva difficoltà di identificare istanze e valori così generalmente condivisi da poter fondare una costruzione intersoggettiva della realtà del conflitto, non si può sottovalutare come il pericolo di istanze materiali indotte abbia presentato, recentemente, difficoltà alla riproduzione simbolica del mondo vitale e alle stesse forme di garanzia delle libertà, cosa dire infatti, della difficoltà o impossibilità di individuare una Lebenswelt unitaria come sfondo condiviso dai soggetti socializzati nella società multiculturale? La società multiculturale è una società conflittuale (30). Il problema però, è che nella società del politeismo dei valori (31), individuare quel serbatoio di evidenze e convinzioni che i partecipanti alla comunicazione utilizzerebbero per i processi di interpretazione e di interazione cooperativa e di regolazione argomentativa dei conflitti, la Lebenswelt appunto, è operazione particolarmente difficile, se non impossibile.

Non mi diffondo oltre sui nodi problematici della Riparazione, promettendo una presa di posizione nelle conclusioni finali, per ora mi limito a dire, in maniera un po' perentoria, che tutte le critiche riproposte sono sensate se in quanto esse siano intese come "individuazione" di rischi possibili, mentre non possono non produrre perplessità se queste venissero intese come individuazione di rischi inevitabili (32).

Note

1. F. W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Newton & Compton, Roma, 1977.

2. R. Abel (ed), The Politics of Informal Justice, Academic Press, Los Angeles, 1982.

3. M. Pavarini, Dalla pena perduta alla pena ritrovata? Riflessioni su una "recherche", in "Rassegna penitenziaria e criminologia", 1/3, pp. 71-102, 2001.

4. Ibidem.

5. S. Cohen, Visions of Social Control, Polity Press, Oxford, 1985.

6. T. E. Marshall, Out of Court: More or Less Justice?, in R. Matthews (ed.), Informal Justice?, Sage, London, 1995.

7. R. Abel, The Politics of Informal Justice, cit.

8. M. Pavarini, Dalla pena perduta alla pena ritrovata? Riflessioni su una "recherche", cit.

9. R. Abel, The Politics of Informal Justice, cit.

10. G. Mannozzi, La Giustizia senza spada, Giuffrè, Milano, 2003.

11. R. Drislane, G. Parkinson, Social Science Dictionary, Athabasca University, 2003.

12. D. Macallair, Widening the Net in Juvenile Justice and the Dangers of Prevention and Early Intervention, Center on Juvenile and Criminal Justice, San Francisco, 2002.

13. D. Macallair, Widening the Net in Juvenile Justice and the Dangers of Prevention and Early Intervention, cit.

14. G. Mannozzi, La Giustizia senza spada, cit.

15. G. Cosi, Invece di Giudicare. Scritti sulla mediazione, Giuffrè, Milano, 2007.

16. R. Abel, The contradictions of Informal Justice, in R. Abel (ed.), The Politics of Informal Justice, cit.

17. G. Cosi, Invece di Giudicare. Scritti sulla mediazione, cit.

18. C. B. Harrington, Shadow Justice? The Ideology and Institutionalization of Alternatives to Court, Greenwood Press, Westport, 1985.

19. C. Messner, Mediazione penale e nuove forme di controllo sociale, in "Dei Delitti e Delle Pene", VII, 3, pp. 93-111 2000.

20. Ibidem.

21. C. Messner, Mediazione penale e nuove forme di controllo sociale, cit.; cfr. G. Ponti, Tutela della vittima e mediazione penale, Giuffrè, Milano, 1995.

22. Ibidem.

23. Ibidem.

24. C. Messner, Mediazione penale e nuove forme di controllo sociale, cit.

25. Ibidem.

26. Ibidem.

27. C. Messner, Mediazione penale e nuove forme di controllo sociale, cit.

28. M. Wright, Justice for Victims and Offender, Open University Press, Philadelphia, 1996.

29. M. Poster, The Second Media Age, Polity Press, Cambridge, 1997.

30. Cfr. J. Tully, Strange Multiplicity. Constitutionalism in the Age of Diversity, Cambridge University Press, Cambridge, 1995.

31. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1977.

32. M. Pavarini, Dalla pena perduta alla pena ritrovata? Riflessioni su una "recherche", cit.