ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 4
Prassi applicative

Giuseppe Maglione, 2008

Premessa

Nel regno degli esseri viventi non esistono cose, ma solo relazioni (1). G. Bateson

Superamento del nesso delitto-castigo; crimine come "segmento" di una complessa relazione conflittuale; produzione-ri-produzione di microkosmoi sociali differenziati, locali, aderenti alle specifiche esigenze delle parti contendenti; flessibilità e informalità nella regolazione del conflitto; (ri)attivazione dei canali comunicativi tra confliggenti; composizione "satisfattiva" della frattura relazionale verificantesi post delictum, tra le parti; coscienza della complessità e della peculiarità dello scontro tra aspettative sociali simbolicamente condivise. Sono queste, in estrema sintesi, alcune delle principali premesse teoriche del paradigma riparativo d'approccio e gestione della conflittualità sociale "da crimine".

In questo quarto capitolo, mi propongo di analizzare un'applicazione concreta del paradigma riparatorio, la mediazione penale per adulti nell'ordinamento italiano, descrivendone gli aspetti normativi, poi cercando di verificare empiricamente la "funzionalità" dell'istituto, come dispositivo di reazione/rivitalizzazione della Lebenswelt alla colonizzazione giuridica/giudiziaria.

1. Tecnologia della mediazione

Dal punto di vista teorico, il termine "mediazione" è di per sé polisemico, rinviando contestualmente, a mere tecniche di intervento sociale basate su incontro e confronto delle parti, come ad un nuovo approccio alle dinamiche sociali che permette di prescindere dalla risposta giudiziaria in relazione a taluni conflitti interpersonali, sia, ed è quello qui più interessante, ad una modalità di gestione/risoluzione di conflitti "da reato" nella più ampia prospettiva della Giustizia riparativa. La pratica della mediazione, come da ultimo intesa, si caratterizza per la forte informalità e flessibilità operativa. Chiaramente non si tratta di assoluta informalità: il passaggio dalle relazioni duali ad un modello triadico, appunto quello della mediazione, provoca comunque la loro normativizzazione (2) e conseguente formalizzazione. È chiaro che, davanti ad un terzo, ambedue le parti devono per così dire razionalizzare le proprie pretese, dare loro un ordine di tipo "normativo", tale normativizzazione ovviamente, sarà massima davanti ad un giudice.

In questo contesto, come già detto, interessa la definizione di mediazione come pratica informale di regolazione dei conflitti, che trova applicazione nell'ambito familiare, commerciale, lavorativo, sindacale, interculturale, ambientale e penale, qui ricompresa normalmente tra gli ADR. Lo schema operativo minimo, è quello per cui un terzo neutrale assiste le parti nel ricercare una soluzione consensuale duratura e sostenibile, al loro conflitto, normalmente senza svolgere un ruolo direttivo. Su questo schema poi, s'innestano moduli operativi specifici, dotati di una certa autonomia, sia nelle prospettive che negli obiettivi, che variano a seconda dell'ambito di intervento e del modello culturale di riferimento.

Per quanto attiene alle principali caratteristiche "strutturali" della pratica mediatoria, posso ricordare: Coinvolgimento diretto delle parti nella negoziazione; Consensualità; Visione esterna ed oggettiva del conflitto da parte del mediatore; Rapidità ed economicità della procedura; Soluzioni aderenti agli interessi dei soggetti confliggenti; Attenzione alla ricostruzione delle relazioni intersoggettive deteriorate; Soddisfazione della "vittima"; Responsabilizzazione del "reo";

Esistono svariati esempi internazionali, di applicazione concreta dei programmi di mediazione, o più in generale di restorative justice. La città di San Francisco ad esempio, fa parte da tempo di quei "laboratori" in cui si sono ottenuti dei risultati considerevoli. Il Community restorative Board ha qui coinvolto numerosi quartieri cittadini, centinaia di volontari e numerosi lavoratori professionisti remunerati.

A livello "operativo" si conta un numero molto alto di persone inserite nei programmi alternativi di risoluzione dei conflitti, reclutati nei rispettivi quartieri e formati con training mirati e specialistici. Gli ideatori di tale programma sottolineano il lato preventivo perché, laddove sarebbe impensabile l'intervento giuridico-penale tutto volto alla cura dei sintomi, si interviene lavorando alla "dispersione" e al superamento dei fattori critici di costruzione del conflitto e dunque sulle cause.

Operando all'interno di relazioni interpersonali, negli spazi angusti di vincoli parentali, di vicinato, di convivenza, si mina alle basi la genesi progressiva di espressioni conflittuali che, dalla configurazione di reati di tipo bagatellare, ad esempio, senza argini e delimitazioni, potrebbero degenerare in esplosioni violente o comunque di instabilità ed intolleranza ben più gravi della microconflittualità da vicinato o intrafamiliare. Quello della prevenzione è forse il principale carattere di distinzione, insieme al rilevante spessore etico e psicologico, della mediazione rispetto all'attività di risarcimento e restituzione, con le quali è però spesso confusa. Con il primo termine si intende la monetizzazione, secondo certi parametri (lucro cessante, danno emergente, sofferenza patita), del danno ingiusto (patrimoniale e non) subìto dalla vittima, la cui pretesa può essere avanzata nel procedimento penale attraverso la costituzione della parte civile, o con separato giudizio in sede civile. La restituzione consiste invece nella mera consegna dell'oggetto materiale della condotta criminosa, al legittimo titolare. E' evidente che risarcimento e restituzione non coincidano con la pratica mediatoria, seppur da quest'ultima potenzialmente "utilizzabili", la mediazione comporta in generale ben altro lavorìo interiore, volto all'elaborazione costruttiva del conflitto, distinguendosi altresì per un background culturale che nulla ha a che fare con risarcimento e restituzione.

Riprendendo la panoramica internazionale, si può riferire di come in paesi come il Canada, si stia iniziando una notevole opera di valutazione e di studio di applicabilità in diversi contesti di forme "native" di mediazione e risoluzione pacifica dei conflitti di comunità. Istituzioni quali il sentencing circle, alta espressione della cultura giuridica tradizionale delle popolazioni autoctone, vedono oggi tentativi di estensione ad ambiti culturali più ampi, con un raggio d'azione maggiormente operativo a livello nazionale. Negli Stati Uniti esiste addirittura un'associazione nazionale di sostegno e coordinamento di tutti i progetti di mediazione, la National Association for Community Mediation, che ha tra i propri compiti anche quello di sostenere l'autonomia della mediazione finalizzata al cambiamento sociale e ad una maggiore qualità della vita.

Per quanto riguarda l'Europa rileva l'esempio francese. In Francia, infatti, si è sviluppata una tipologia "locale" di mediazione comunitaria, le cosiddette Boutiques de droit (3), che, nate in alcuni quartieri periferici di Lione, applicano operativamente i principi della mediazione sociale e penale. Alla base dell'attività delle Boutiques de droit vi è l'idea che la situazione locale, il quartiere di appartenenza, sia necessariamente il luogo più individuabile in cui i conflitti del quotidiano possono giungere a provocare disordini e squilibri che, con estrema facilità, subiscono una "legittimazione" ed una "istituzionalizzazione" (4) pericolose. Vi è in questi contesti una sensibilità massima per le minacce che provengono dalle condizioni di degrado e sulla base di questa percezione, si lavora essenzialmente nella ricostruzione dei luoghi di socializzazione negli spazi "degradati" dove è più facile che la giustizia formale statuale possa registrare la débacle.

Si moltiplicano i conflitti, le incomunicabilità, le convivenze problematiche, sia a livello nazionale che locale, e lo strumento della mediazione appare sempre più, l'unico adatto a risolvere tali questioni. Le forti tensioni e la situazione di crisi sociale permanente, hanno fatto in modo che ci si rendesse conto che gli equilibri, spesso precari, oggi si sono oramai profondamente modificati, lasciando le modalità statuali impotenti davanti alla gestione di situazioni conflittuali e di disagio.

La mediazione, operando un'azione senza dubbio di iniziale "rottura" con i vecchi codici dell'incomprensione e del rifiuto, costruisce un canale per così dire privilegiato, di nuova comunicazione e di conseguente comprensione tra individui e tra gruppi sociali. Senza pensare mai all'eliminazione delle differenze, né ad imminenti giudizi di tipo valoriale, la mediazione tenta comunque, inizialmente, di gettare un ponte di conciliazione e negoziazione che permetta l'avvicinamento e in seguito lo scambio dialogico e conoscitivo. L'obiettivo non è quello di ri-costruire un unico, monolitico sistema di valori, direzione nella quale opera simbolicamente il sistema giudiziario, piuttosto quello di definire uno spazio di intesa in cui, attraverso una "lingua franca", si possa valorizzare l'unicità delle esigenze delle parti, agevolando il passaggio di messaggi tra le stesse.

Con la proliferazione di forme applicative sempre più mirate di mediazione, come quelle che tra poco saranno analizzate, si dovrebbe assistere ad una progressiva maturazione in materia di risoluzione dei conflitti: guardando al consenso come all'obiettivo finale di tali iniziative, si giunge al superamento di una logica giudiziaria binaria ed oppositiva in cui ad un vincitore si oppone sempre, senza alcuna crescita sociale, un perdente, nel gioco "a somma zero". Attraverso la mediazione, i soggetti confliggenti riprendono il dialogo, tentano la comprensione reciproca e giungono ad un risultato nuovo, che va oltre le posizioni precedenti, in cui, per l'appunto, la somma finale è di guadagno per ambedue, perché ambedue hanno contribuito a produrre una soluzione diversa, non tanto di guarigione (il conflitto non è patologia (5)), ma di recupero della forza vitale del conflitto, di ricostruzione della relazione sociale e dunque, di pacificazione.

2. La mediazione penale: un profilo normativo

Sono diversi gli atti normativi elaborati negli ultimi anni da organismi internazionali (6), in relazione al "fenomeno" della mediazione penale, documenti che però, solo in rarissimi casi si caratterizzano per essere giuridicamente vincolanti per la legislazione interna. Gli atti privi di cogenza offrono tuttavia, soprattutto per Paesi come il nostro, uno spunto rilevante in tema di formulazione normativa e applicazione pratica di programmi di Giustizia riparativa. Del composito panorama internazionale, passerò in rassegna quei testi che, per diretta pertinenza al fenomeno della mediazione penale, contribuiscono a definire il frame normativo entro il quale trova collocazione coerente il D.lgs 274/2000, che può dirsi "attuativo", seppur parzialmente e in maniera differita nel tempo, dei programmi di mediazione penale prospettati da Unione Europea, Consiglio d'Europa e Nazioni Unite.

Una volta descritto il "quadro normativo" internazionale, passerò all'esame proprio del D.lgs 274/2000, il provvedimento che recepisce e formalizza, all'interno del nostro ordinamento, le molteplici istanze di creazione di un diverso modello di gestione del crimine, realizzando un vero microsistema integrato di tutela (7), innovativo e aggiuntivo rispetto al sistema tradizionale di amministrazione della giustizia in ambito penale.

2.1 La Raccomandazione Nº (99)19: una prima "positivizzazione" della mediazione penale

Il primo atto normativo da esaminare è la Raccomandazione Nº (99)19, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa il 15 Settembre 1999, durante la 679esima riunione dei delegati dei ministri.

Si tratta di un complesso di disposizioni pensate per chiarire "normativamente" il significato della pratica di mediazione penale, raccomandandone la diffusione nei paesi membri. In particolare, si procede alla precisazione dei fondamenti giuridici della mediazione, il suo rapporto con la giurisdizione penale, le caratteristiche della figura di mediatore, in generale si descrive il funzionamento e le modalità di costituzione del servizio mediatorio.

Già il preambolo della Raccomandazione appare alquanto significativo, esplicitando la logica politico-criminale che soggiace alla mediazione penale, logica che si sviluppa su tre direttive: ruolo e partecipazione attiva di reo, vittima e comunità alla risoluzione del conflitto "da" fatto delittuoso; attenzione per la posizione della vittima; responsabilizzazione del reo.

In particolare viene preso in considerazione come presupposto dell'emanazione della Raccomandazione, il ricorso sempre più ampio dei paesi membri alle pratiche di mediazione come complemento o alternativa alla gestione del crimine da parte del sistema giurisdizionale tradizionale; la necessità di attivare canali di comunicazione adeguati tra reo, vittima e comunità, finalizzati alla riparazione del danno e alla responsabilizzazione del reo; la possibilità di rendere la giustizia penale meno repressiva e più efficace in termini preventivi, magari introducendo proprio strumenti mediatori; il ruolo importante che organizzazioni non-governative possono svolgere nell'ambito della mediazione del conflitto, se dotate di strumenti idonei e di personale appositamente formato.

Una volta fornita la definizione della mediazione come quel processo che permette a vittima e delinquente di partecipare attivamente e consensualmente, alla soluzione delle difficoltà, materiali, simboliche, emotive, conseguenti al verificarsi del crimine, con l'aiuto del terzo imparziale, il il testo affronta direttamente alcune delle questioni più problematiche, come l'accessibilità generale del servizio di mediazione e la sua collocazione nel sistema di giustizia penale (Annexe II, artt. 1-5). Viene prevista anzitutto, la consensualità della pratica (art. 1), il fatto che le parti liberamente decidano di accedere alla mediazione, in assenza di qualsivoglia pressione da parte delle istituzioni o di terzi, e al contempo possano recedere dalla medesima in qualsiasi momento. Connesso strettamente al libero accesso è la normale gratuità (art. 3) del servizio, onde garantire da degenerazioni "economiciste" delle performances mediatorie, dallo scadimento in logiche di mercato, previsione che lascia intravedere una delle esigenze storiche a base della diffusione in generale degli ADR, vale a dire il tentativo di offrire una risposta al netto aumento dei costi di accesso alla giustizia, determinato dalla litigation explosion degli anni 60'-70'.

Sempre nei Principi generali dell'Annexe II, sono contemplate tre disposizioni basilari circa il rapporto mediazione penale -processo penale, poi approfondito nell'Annexe IV. Ricordo la prescrizione circa la confidenzialità (art. 2) delle informazioni emerse durante gli incontri di mediazione, ossia l'inutilizzabilità di tali dati, se non con l'accordo delle parti, in altri ambiti di giustizia; la fruibilità della mediazione in ogni stato e grado del processo (art. 4), nonché la fondamentale autonomia della mediazione all'interno del quadro del sistema di giustizia penale (art. 5), affermazione che intende sottoscrivere l'alterità della mediazione penale dagli strumenti negoziali della giustizia penale tradizionale, non una tecnica di regolazione privatistica della controversia in ottica pragmatica (transizione p.es.), ma un autonomo strumento di gestione del conflitto in prospettiva riparativa.

Interessanti anche le disposizioni all'Annexe III (artt. 6, 7, 8), denominato "Fondamenti giuridici". Ivi è disposta la necessità da parte della legislazione penale di favorire la mediazione, definendo le linee direttive della stessa, prescrivendo altresì il rispetto di alcune garanzie fondamentali (diritto alla consulenza giuridica, all'interprete, all'assistenza parentale in caso di soggetti minori implicati).

La parte centrale del provvedimento in parola consta dell'Annexe IV (artt. 6-32), nel quale si regola il rapporto tra giustizia penale e mediazione, e Annexe V (artt. 19-32) disciplinante il concreto funzionamento del servizio di mediazione. Provo allora ad analizzare partitamene queste disposizioni.

Per quanto riguarda l'Annexe IV è possibile isolare due gruppi di norme riferibili rispettivamente ai presupposti generali e minimi di accesso alla mediazione penale e al legame mediazione-giudizio penale.

Al primo gruppo si può ascrivere la previsione, di fondamentale importanza, dell'impossibilità di esercitare, da parte di chicchessia, pressioni su vittima e reo (anche minori) ad accettare la mediazione, concepita come strumento al servizio delle parti improntato alla consensualità. Rileva la disposizione circa la necessaria interruzione della mediazione allorché anche una sola delle parti non sia "capace" di comprendere il senso della mediazione, viene poi fissato il primo, concreto requisito di accesso alla mediazione penale: il riconoscimento dei fatti principali della vicenda e la conseguente inammissibilità della partecipazione ai fini di prova nel processo giudiziale. La convergenza delle parti nella ricostruzione minima dell'accaduto, come riconoscere la semplice esistenza del danno alla vittima, conseguente al comportamento della controparte, assurge a prima minima condizione dell'attività di mediazione, vero irrinunciabile punto di partenza. Sempre nell'ambito dei presupposti di accesso alla mediazione, l'attenta valutazione delle disparità inerenti a status sociale, età, sesso ecc., delle parti, in modo tale che i mediatori stabiliscano la giusta strategia di composizione definendola su misura degli interessati, la mediazione, infatti, come tentativo di riattivazione dei canali comunicativo-relazionali tra vittima e reo, necessita giocoforza della conoscenza approfondita delle caratteristiche personologiche delle parti

Il secondo gruppo di disposizioni dell'Annexe IV, attiene specificamente al rapporto mediazione-giustizia penale. E' stabilito primariamente (art. 9) che la decisione di rinviare al servizio di mediazione debba spettare alle autorità giudiziarie, tra l'altro tenute ad informare le parti della natura de processo di mediazione e delle conseguenze della loro decisione (art. 10), si contempla al contempo l'obbligo di informare le autorità giudiziarie della progressione del processo mediatorio e del suo esito, la garanzia di equiparazione (art. 17) tra valenza degli accordi di mediazione e sentenza, assimilati per efficacia, e di conseguenza il divieto di ne bis in idem, ovvero che dopo mediazione non si possa essere sottoposti a giudizio. Infine, è enunciato l'onere di prendere decisione senza ritardo da parte degli organi giudiziari, allorché non si giunga ad un accordo in mediazione in tempi ragionevoli o l'accordo preso non si metta in pratica (art. 18). Per quanto concerne il funzionamento del servizio di mediazione (Annexe V), questo dovrà essere regolato da norme riconosciute dall'ordinamento penale, che individuino chiaramente le caratteristiche della figura del mediatore, le modalità di selezione e formazione degli stessi, è prevista inoltre l'esistenza di organi di sorveglianza circa il generale funzionamento del servizio.

Mi soffermo ora sulle disposizioni inerenti alle qualità del mediatore (artt. 22-24). Il reclutamento dei mediatori sarà aperto a qualsiasi area e categoria sociale, tra soggetti che abbiano una buona conoscenza di culture e comunità locali, dovrà avere capacità relazionali adeguate all'esercizio della sua funzione, dovrà rispettare il canone dell'imparzialità. Per il mediatore è prevista una necessaria attività di training preliminare, che permetta l'acquisizione di competenze qualificate in relazione alla regolazione dei conflitti, al rapporto da instaurare con vittima e reo, nonché circa i fondamenti dell'ordinamento giudiziario. Oltre alla figura del mediatore il provvedimento descrive anche l'ambiente ideale della attività di mediazione (artt. 25-30). Si tratterà di uno spazio sicuro, confortevole e neutrale, possibilmente pubblico, nel quale la mediazione si svolga ad un ritmo sostenibile per le parti e gestibile efficacemente dal mediatore, tale da permettere a quest'ultimo, di percepire i cambiamenti e le trasformazioni che avvengono nelle parti durante i colloqui e di conseguenza modificare la strategia mediatoria.

La Raccomandazione (99)19 si chiude con la previsione delle regolari consultazioni di coordinamento tra servizi mediatori e sistema giudiziari, la ragionevolezza delle obbligazioni riparatorie, oltre alla necessità di promuovere da parte degli stati membri attività di ricerca sulla mediazione penale.

Tirando le fila del discorso fin qui fatto, possibile dire che lo spirito che anima la Raccomandazione (99)19, consiste nella concreta volontà di definire un modello uniforme e coerente per i programmi di Giustizia riparativa operata attraverso la tecnica della mediazione penale. Evidente traspare la cura per la regolamentazione di alcuni aspetti tipicamente controversi della mediazione. Si pensi alla possibile propensione dell'informalità della pratica a degenerare in un soggettivismo nella gestione della materia penale (rischio limitato dalle previsioni circa gli uniformi presupposti politico-criminali esplicitati dalla Raccomandazione), oppure alla eventualità di conflitti o comunque torsioni di forze tra mediazione e giustizia penale ordinaria (esorcizzati dalle disposizioni in materia di consultazioni regolari tra organi giudiziari e mediatori o più in generale dalla prevista creazione di organi di sorveglianza sui servizi mediatori). Sottolineo infine, come il Consiglio abbia prestato attenzione particolare al tema della formazione del mediatore, richiedendo una preparazione specificamente preordinata alla gestione del conflitto, alla conoscenza del sistema giudiziario, da coniugare con necessarie attitudini e capacità relazionali, lanciando chiaro il messaggio che la mediazione penale non sia un'attività da improvvisare, estemporanea, ma una pratica seria, che aspira alla credibilità e ad una posizione non ancillare rispetto al processo penale, nell'ambito della gestione del crimine e delle sue conseguenze.

2.2 La "Declaration of basic Principles on the use of Restorative Justice programmes in criminal matters"

I Basic Principles sono un atto normativo privo di cogenza, elaborato dalle Nazioni Unite nel corso del X Congresso sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti (risoluzione 2000/15 Vienna, 2000). Si tratta di un documento dal carattere più generale rispetto alla Raccomandazione precedentemente analizzata. Viene, infatti, considerata, ogni tecnica operativa di Giustizia riparativa, della quale si fornisce uno schema preliminare dei principi base, riprendendo in sintesi l'accezione anglosassone delle tecniche di restorative justice, comprensiva di svariati modelli operativi, anche piuttosto distanti nei presupposti, modalità e obiettivi, dalla mediazione penale di matrice "eurocontinentale".

In questa sede, volgerò l'attenzione solo alle disposizioni presenti nei Basic Principles direttamente inerenti alla mediazione penale, mentre trascurerò, quelle riferibili ad ulteriori tecniche operative di restorative justice.

L'incipit dei Basic Principles è dedicato alla definizione del procedimento riparativo, qualificando come tale "ogni procedimento in cui la vittima, il reo e/o altri soggetti o membri della comunità lesi da un reato partecipano attivamente insieme alla risoluzione della questione emersa dall'illecito, spesso con l'aiuto di un terzo equo e imparziale", si tratta evidentemente di una caratterizzazione particolarmente ampia nella quale rientra anche la mediazione reo-vittima.

Per quanto riguarda la specifica disciplina dei tratti salienti della mediazione, i Basic Principles come la raccomandazione, fanno primariamente riferimento al fatto che i programmi di Giustizia riparativa debbano essere generalmente fruibili e utilizzabili in ogni stato e grado del processo. Viene preso poi in considerazione il reclutamento del mediatore, che si vuole tra cittadini anche non predeterminati intellettualmente e professionalmente, essendo sufficiente l'alta competenza acquisibile attraverso l'esperienza di training permanente, formazione riguardante le tecniche specifiche di mediazione nonché ai fondamenti del sistema giudiziario. È altresì previsto che le procedure di selezione e valutazione assicurino la conformità ad elevati standards qualitativi, preferibilmente uniformi tra i diversi paesi.

In considerazione del fatto che la mediazione sia percepita come uno spazio e un tempo nel quale vengono "anatomizzati" i nodi conflittuali tra le parti, i Basic Principles si soffermano sulla regolamentazione dell'ambiente della mediazione. Tale spazio sarà sicuro e appropriato, diverso rispetto ai luoghi dove si dispiega la logica del processo penale, non aule di tribunale ma spazi appositi, in modo da sottolineare l'alterità della mediazione dai tradizionali luoghi di gestione del crimine e dalla logica che li supporta. Analogo discorso vale per la descrizione dei tempi della mediazione. Se, infatti, i tempi processuali possono dirsi insensibili rispetto allo stato emotivo delle vittime o più in generale alle personalissime esigenze delle parti, il tempo della mediazione sarà invece scandito in fasi che corrispondono ai diversi progressi della gestione del conflitto che oppone reo e vittima, alle urgenze interiori dei protagonisti del conflitto. Questa peculiare amministrazione del tempo della mediazione, trova un unico limite esterno nel rispetto necessario del principio di ragionevole durata del processo riconciliativo, la scelta su come procedere all'esito della mediazione dovrà essere presa, infatti, senza ritardo alcuno.

Rilevanti anche le disposizioni inerenti al coordinamento tra le esperienze di mediazione e le istituzioni della giustizia penale tradizionale. I Basic Principles prevedono la necessità di un continuo lavoro di consultazione e raccordo fra operatori della giustizia penale, riparativa e tradizionale, al fine di sviluppare nuove sinergie tra i due sistemi, che in questo modo non dovrebbero mai entrare in conflitto. È altresì proposta la diffusione di procedure scientifiche, rigorose e continuative di monitoraggio e valutazione delle attività dei mediatori, che dovranno dimostrare concretamente il perseguimento efficace degli obiettivi proposti, dalla risoluzione del conflitto ai compiti di prevenzione speciale e generale. Anche nel provvedimento normativo in analisi, viene confermato il complesso di principi partecipativi alla mediazione: la volontarietà nell'accesso, la confidenzialità delle informazioni emerse negli incontri, la libertà di recedere.

Come nella Raccomandazione (99)19, viene individuata nell'imparzialità (o equiprossimità, come qualcuno ha scritto) la precondizione dello svolgimento dell'attività del mediatore, che dovrà costantemente prestare attenzione agli squilibri di potere tra le parti, sia di tipo economico-sociale che culturale, tentando di stabilire, appunto in maniera imparziale, l'equilibrio necessario per comporre il conflitto.

Un altro fondamentale aspetto della pratica mediatoria preso in considerazione dai Basic Principles, è quello degli esiti della mediazione stessa. L'incontro tra vittima e reo mira al riconoscimento delle responsabilità individuali, a fare chiarezza sui moventi del fatto delittuoso, riattivando la comunicazione tra le parti. Tutto ciò è completato dall'attività riparatoria vera e propria, che può concretizzarsi in un risarcimento materiale, ma anche simbolico, come l'attività del reo utile per la vittima o la comunità, ovviamente il tutto improntato alla volontarietà.

In particolare si prescrive la ragionevolezza e proporzionalità delle obbligazioni riparative, dove col primo parametro si vuole indicare la relazione di omogeneità tra reato commesso e obbligazione, mentre la proporzionalità comporta la necessità di corrispondere alla gravità del reato, nel caso in cui invece, non si giunga alla definizione delle obbligazioni riparative e dunque l'esito della mediazione sia negativo, è negata la possibilità di conseguenze sanzionatorie.

Circa il rapporto giustizia penale-programmi di mediazione, è poi sancita l'autonomia di quest'ultima nel sistema penale. Tale autonomia si esprime ad esempio, nell'attribuzione di rilevanza giuridica ai risultati di mediazione-riparazione, che pertanto, avendo lo stesso statuto delle decisioni giudiziarie, dovrebbero precludere al procedimento successivo per i medesimi reati, in sede di processo penale. L'ultimo dato che intendo riportare a termine di questa breve disamina, è la considerazione che in generale i Basic Principles possono dirsi attuativi di alcune previsioni della Dichiarazione di Vienna del 2000 su criminalità e giustizia, in specie l'art. 28 della Dichiarazione, che invita alla diffusione di politiche di Giustizia riparativa, di programmi e procedure rispettosi dei diritti, dei bisogni e degli interessi delle vittime e dei delinquenti, delle comunità e di tutte le altre parti, nonché, più indirettamente, l'art 27 che promuove lo sviluppo di servizi di sostegno alle vittime e campagne di sensibilizzazione sui diritti delle stesse.

2.3 Gli atti internazionali implicitamente attinenti alla mediazione penale: una sintesi introduttiva

Oltre a quelli già analizzati, rilevano ulteriori atti normativi, prodotti ancora da organismi sopranazionali, in riferimento questa volta indiretto o implicito alla mediazione penale, nel senso che pur considerando elementi rilevanti per il fenomeno mediatorio, questo non risulta il "protagonista" del provvedimento stesso.

La mia attenzione si volge in particolare, alle Raccomandazioni Nº R(87)21 e R Nº (85)11 adottate dal Consiglio d'Europa e ai Principi base della Giustizia per le vittime di crimini e di abusi di potere adottata con la risoluzione n. 40/34 del 1985, dalle Nazioni Unite (Economic and Social Council). Il motivo di interesse di tali atti, risiede nel fatto che rappresentano un genuino e concreto tentativo di sensibilizzare i sistemi penali degli Stati membri, alla predisposizione di un'innovativa strategia di "gestione" della vittima del crimine, prima, durante e dopo il processo penale, attribuendole diritti precisi nonché sviluppando nuovi metodi di soddisfazione degli interessi della stessa, prospettiva che richiama apertamente lo spirito della mediazione penale.

2.3.1 Lo spazio della vittima nella legislazione europea

LaRaccomandazione Nº R (85)11, adottata dal Consiglio d'Europa il 1985, concerne specificamente la posizione delle vittime nell'ambito del diritto penale e della procedura penale, mirando a promuovere negli stati membri politiche legislative volte alla tutela delle vittime, i cui problemi sono spesso amplificati, piuttosto che diminuiti, dagli attuali sistemi penali. Proprio tra i possibili strumenti di assistenza delle vittime, viene accreditato dalla Raccomandazione il complesso di pratiche riconciliativo-mediatorie. I presupposti dell'emanazione dell'atto riferiscono prima di tutto alla necessità che il sistema penale diminuisca i problemi delle vittime, rispondendo anzi ai bisogni ed interessi delle stesse, è poi preso in considerazione l'obbiettivo di avvicinare le vittime alla giustizia penale nell'ottica di una proficua collaborazione finalizzata alla riduzione della cifra oscura di reati, ed in fine si richiede che gli stati membri favoriscano programmi di riconciliazione reo-vittima, leggendosi chiara l'allusione alla definizione di politiche di mediazione penale.

Le linee direttive della raccomandazione sono chiaramente esposte. E' preliminarmente caldeggiato un atteggiamento di maggiore comprensione, costruttivo e rassicurante (da parte degli organi di polizia in primis), rispetto la situazione della vittima, richiedendo ad esempio, che la polizia informi la vittima della possibilità di assistenza giuridica nonché di eventuale riparazione del danno da parte del reo, in generale viene prevista la continuativa operazione di informazione delle vittime circa il proseguimento delle indagini. Stessa cura va presa nel caso di interrogatorio della vittima, dovendosi tenere conto della situazione emotiva della stessa.

Nella seconda parte dell'atto si considera più attentamente l'utilizzo di tecniche riparatorie, nella prospettiva di una migliore soddisfazione delle esigenze delle vittime. Si afferma che la riparazione, opzione della quale dovrà essere prontamente tenuta al corrente la vittima, potrà essere del tutto sostituiva di una sanzione penale e quindi equiparata ad essa circa l'efficacia, pertanto si sollecitano gli stati membri a vagliare attentamente l'eventualità dell'introduzione di strumenti mediatori nell'ambito dei sistemi penale, per rendere questi ultimi, maggiormente aderenti alle esigenze della vittima.

L'atto si chiude con la previsione della necessità di protezione della vittima sia da possibili invasioni di privacy sia da danni attinenti alla sfera della incolumità fisica.

Per quanto riguarda la Raccomandazione Nº R (87)21, adottata dal Consiglio d'Europa il 1987, essa è invece dedicata alla assistenza alle vittime, tendendosi ad incoraggiare gli stati membri a prendere misure volte a garantire le vittime da vittimizzazione secondaria, in considerazione del fatto che il sistema penale non sia idoneo alla globale riparazione di pregiudizi e danni conseguenti al verificarsi del fatto delittuoso.

In apertura, ricalcando lo schema tipico delle raccomandazioni, vengono individuate le premesse della promulgazione dell'atto. Il primo riferimento è il numero particolarmente alto di soggetti che in Europa sono quotidianamente vittime di reati contro la persona o il patrimonio, è poi considerato il fatto che la vittimizzazione comporti pregiudizi di natura psicologica, sociale, oltre che materiale, normalmente trascurati dal sistema penale, la necessità di predisporre strumenti diversi dal processo per soddisfare i bisogni delle vittime, la possibilità che anche i privati contribuiscano a prendere in carico le questioni inerenti alla vittimizzazione. Esigenze chiare e concrete, che la raccomandazione chiede vengano gestite dai paesi membri col massimo dell'efficacia e della celerità.

Per quanto attiene alle specifiche misure promosse, diverse sono quelle degne di attenzione. Si parte col raccomandare ai governi di sviluppare ricerche e conseguenti programmi di assistenza alle vittime, di operare nel senso di sensibilizzazione sociale ai temi della vittimizzazione, nonché inventariare i servizi già esistenti in quest'ambito. Il Consiglio si premura di sollecitare misure precise per le vittime e le loro famiglie, si pensi all'aiuto immediato e la protezione dalle ritorsioni possibili del delinquente, per evitare una nuova vittimizzazione, consulenza giuridica e assistenza per ottenere una completa riparazione del danno.

Si prende in considerazione poi l'urgenza di assistere particolari categorie di vittime perché maggiormente vulnerabili, come i bambini, e particolari tipologie di vittimizzazione come quella domestica, in questi casi si raccomanda la creazione, sviluppo, implementazione di servizi appositamente pensati, dotati di personale formato professionalmente per venire incontro ai bisogni delle vittime. Si promuove poi il coordinamento dei servizi di assistenza pubblica e privata, anche attraverso agenzie nazionali, che svolgano attività di prevenzione sociale e situazionale collaborando con le autorità pubbliche, si richiedono poi periodiche valutazioni e monitoraggio dei programmi predisposti. Infine all'art 17, viene esplicitamente richiamata la necessità di sviluppo di servizi di mediazione penale, con potenzialità di prevenzione del crimine.

In entrambi i provvedimenti esaminati, la mediazione viene citata en passant, quello che interessa però, è che i due atti, di molto precedenti alla Raccomandazione (99)19, anticipano un tema centrale per la mediazione penale, quello dell'attenzione per la vittima, la cui ricorrente insoddisfazione circa gestione ed esiti del processo penale, ha rappresentato sicuramente uno dei presupposti della rinata sensibilità per la restorative justice. Viene in questo modo aperto un nuovo spazio per la vittima, di valorizzazione e riconoscimento della peculiarità di tale condizione in ambito penale, spazio in cui si inserirà la mediazione penale.

2.3.2 La Dichiarazione di Vienna: I diritti delle vittime del crimine

Con la Risoluzione Nº 40/34 del 1985 l'assemblea generale dell'ONU dichiara i Principi base della giustizia per le vittime di crimini e di abusi di potere. L'intenzione dell'Assemblea era quella di orientare gli stati membri ad affrontare il problema della criminalità dando centralità alla vittima, non limitandosi quindi ad agire con l'unico obiettivo della repressione e della sanzione dei fenomeni criminosi, ma prestando attenzione alla prevenzione e al risarcimento materiale e morale. Questo atto ufficiale è allora significativo giacché pone l'attenzione sulla particolare condizione della vittima, che oltre a subire la violenza rischia spesso anche l'indifferenza, la freddezza, il sospetto.

Per raggiungere lo scopo prefissatosi, la Dichiarazione Promuove un cambiamento di approccio di tutte le parti in gioco al ruolo e alla rappresentazione della vittima.

Il primo punto della risoluzione si preoccupa, infatti, di definire il concetto di "vittima di un crimine".

Citando dal testo, diremo che il termine vittima indica:

"quelle persone che, sia singolarmente che collettivamente, abbiano subito danni, come lesioni fisiche, sofferenza emotiva, pregiudizio economico, indebolimento di diritti, attraverso azioni od omissioni che violano le leggi penali, in vigore negli Stati membri, compreso le leggi che sanzionano l'abuso criminale di potere".

La parola vittima comprende pure la famiglia o i parenti stretti o i dipendenti della vittima primaria, nonché le persone che abbiano subito un danno nell'intervenire per soccorrere la vittima o evitare una possibile vittimizzazione.

Il secondo punto della risoluzione sollecita invece a considerare la particolare condizione di fragilità della vittima, che deve essere assistita sia nelle modalità per l'espletamento delle procedure sia nell'adozione di tutti i meccanismi formali e non, per un'equa soluzione dei conflitti. Le vittime avranno diritto al rispetto della propria dignità, così come ad un rapido risarcimento del danno subito. Dovranno essere stabiliti meccanismi giuridici e amministrativi onde consentire alle vittime di ottenere riparazione attraverso procedure formali, informali, eque, rapide, economiche. I processi giudiziari e amministrativi dovranno adeguarsi ai bisogni delle vittime, informandole di tempi e percorsi, consentendo l'espressione delle proprie opinioni e preoccupazioni, adottando misure idonee a minimizzare gli inconvenienti, assicurare la protezione della privacy, la loro incolumità, ma anche quella della famiglia e dei testimoni, cominciando ad evitare ritardi nella programmazione delle cause, nell'esecuzione delle sentenze o dei dispositivi per l'assegnazione del risarcimento danni alle vittime.

È previsto che i meccanismi informali di risoluzione delle liti, come la mediazione, ma anche l'arbitrato, il diritto consuetudinario ecc., dovranno essere applicate per facilitare la conciliazione e il risarcimento delle vittime e alleviare il trauma subito.

Altro punto centrale della risoluzione è la descrizione dei sistemi d'indennizzo e risarcimento. Il reo, o terzi responsabili, dovranno, se il caso, indennizzare equamente le loro vittime, le famiglie o dipendenti di queste. Tale indennizzo dovrà comprendere la restituzione di proprietà o di effetti sottratti, l'appianamento del danno o delle perdite subite, il rimborso delle spese sostenute e causate indirettamente dalla vittimizzazione, la disponibilità di servizi e il ripristino di diritti. Si richiede poi, ai governi di rivedere procedure, norme e leggi onde contemplare l'indennizzo come un'opzione disponibile in fase di pronuncia di sentenza, oltre alle sanzioni direttamente repressive. Nei casi di danno all'ambiente l'indennizzo dovrà comprendere possibilmente, il ripristino dell'ambiente, la ricostruzione delle infrastrutture, la sostituzione dei servizi.

È previsto poi che gli stati s'impegnino ad offrire sostegno finanziario alle vittime e alle loro famiglie, stanziando fondi nazionali specifici, nel caso in cui la vittimizzazione comporti danno grave a salute fisica o mentale, o la semplice inabilità al lavoro.

La Dichiarazione indica specifici obblighi di assistenza alla vittima. Attraverso mezzi governativi, comunitari, locali, di volontariato, dovrà essere assicurata l'assistenza materiale, medica, psicologica e sociale. La polizia, i servizi sociali e sanitari, dovranno essere formati o quantomeno sensibilizzati ai bisogni delle vittime, facendo particolare attenzione al tipo di danno subito.

La seconda parte della Risoluzione attiene invece alle vittime del cosiddetto abuso di potere. In questo caso il danno della vittima è derivato da azione od omissione che non costituisce violazione delle leggi penali nazionali, ma di norme internazionalmente riconosciute sui diritti umani. Gli stati membri dovranno inserire nei propri ordinamenti, norme riguardanti gli abusi di potere e prevedere rimedi alle vittime di tali abusi, che si configureranno anche come risarcimenti e indennizzi materiali, psicologici, medici. Bisognerà altresì promuovere politiche per la prevenzione di tali atti, definire e dare esecuzione a procedure che perseguano l'abuso di potere politico od economico.

2.4 La mediazione penale per adulti nell'ordinamento italiano: IL D.lgs 274/2000

Il D.lgs 274/2000, attuativo dell'art. 14 della legge delega 468/99, concretizza, nel nostro ordinamento, un nuovo modello di giustizia penale, ispirato a principi e preordinato ad obiettivi profondamente diversi da quelli tipici del sistema penale tradizionale. L'intervento del legislatore del 2000, lungi dal configurarsi, almeno nelle intenzioni esplicitate, come mero tentativo di alleggerire il carico di lavoro degli operatori giudiziari, mira chiaramente a definire una nuova strategia di gestione del reato, seppur espressivo di conflittualità "minore", nuovi strumenti per la composizione del conflitto da crimine, dispositivi ascrivibili organicamente proprio al modello della Giustizia riparativa. Si è cercato altresì, di dare attuazione alle ormai pressanti richieste provenienti da organismi internazionali, di protezione e soddisfazione della vittima, di colmare il deficit di vicinanza e risposta dello Stato al verificarsi del crimine, di limitare l'utilizzo della stigmatizzante pena detentiva a vantaggio di meccanismi "sanzionatori" a contenuto satisfattivo-riparatorio. È possibile allora affermare, che l'attribuzione della competenza penale del Giudice di Pace, rappresenti, almeno sulla carta, l'epocale superamento del carattere "ciclopico" della risposta sanzionatoria penale, il ripensamento del quasi automatico ancoraggio della sanzione alla detenzione, promovendo invece l'accesso a modalità di definizione alternativa del conflitto innescato dal reato, semplificando e "flessibilizzando" le forme dell'intervento penale.

Prima di passare all'analisi delle misure riparative e mediatorie specificamente previste dal D.lgs 274/2000, è opportuno dedicare qualche pagina alla definizione del rapporto Giudice di Pace-Giustizia riparativa, al fine di rendere più chiaro il senso dell'inserimento della mediazione penale, tra gli strumenti della conciliazione di cui dispone quel particolare soggetto giurisdizionale che è appunto, il Giudice di Pace. Il presupposto del rapporto in parola, mi sembra possa essere ravvisato nella natura del Giudice di Pace, come tipica struttura di gestione decentrata della conflittualità tra consociati. La dimensione di prossimità dell'attività di conciliazione, si rivela chiaramente il presupposto della definizione di strategie di riparazione del danno. È possibile, infatti, operare nel senso di una gestione satisfattiva e costruttiva del reato, solo ipotizzando la vicinanza, e dunque la conoscenza "da dentro", delle situazioni conflittuali sulle quali si va ad agire. La prossimità permette poi, una risposta più tempestiva alle diverse istanze avanzate dai consociati, aumentando la probabilità di soddisfazione delle parti e di prevenzione del manifestarsi di conflitti di forte intensità. Il livello di prossimità dell'operato del Giudice di Pace, come contesto della riparazione, risulta altresì, dalla considerazione del legame tra il Giudice di Pace e gli Enti Locali. Si pensi ad esempio, a come i Comuni interessati partecipino, ex art. 2 L. 374/91, all'istituzione di sedi distaccate dell'ufficio del Giudice di Pace o all'accorpamento di uffici contigui. Con la stessa prospettiva, nella stessa legge, viene stabilito che i locali nei quali sono ubicati gli uffici del Giudice, possano essere forniti dai Comuni, cui verrebbe corrisposto un contributo annuo a carico dello Stato, nel caso in cui le strutture edilizie delle preture non siano utilizzabili a quello scopo (art. 14). A ciò si aggiunge in fine, il rapporto di finanziamento che intercorre tra Giudice di Pace ed EE.LL., vale a dire il fatto che buona parte delle spese dell'ufficio del Giudice, comprese quelle per la mediazione penale, siano sostenute proprio dagli EE.LL.

Entrando ora nel merito del D.lgs 274/2000, dirò che l'attribuzione di competenze penali al Giudice di Pace, giudice non togato istituito nel 1995, è relativa a fattispecie penali espressive della cosiddetta microconflittualità intersoggettiva, tutti reati, come vedremo, caratterizzati dal fatto di destare un limitato allarme sociale. Nella gestione di tale conflittualità il Giudice di Pace dovrà perseguire la conciliazione fra le parti, principio che informa di sé tutta la normativa.

Le misure predisposte e offerte dall'ordinamento al Giudice di Pace per realizzare la conciliazione sono fondamentalmente di tre tipi: misure strettamente sanzionatorie non detentive, misure conciliativo-mediatorie, misure tipicamente riparative. Nella prima categoria di provvedimenti rientrano le prestazioni di attività non retribuite a vantaggio della comunità ex art. 54 (leggibile anche in ottica riparativa), l'obbligo di permanenza domiciliare (art. 53) e misure prescrittive specifiche (pena pecuniaria); alla seconda categoria è ascrivibile la mediazione ex art 29 co. 4 finalizzata alla remissione della querela; alla terza categoria attengono infine, le condotte riparative "estintive" del reato ex art 35. A quest'innovativo strumentario lato sensu sanzionatorio, va aggiunta la possibilità ex art. 34 dell'esclusione di procedibilità per particolare tenuità del fatto, istituto mutuato dal processo minorile (art 27 D.P.R. 448/88).

Prima di soffermarmi sulle disposizioni del D.lgs 274/2000 che introducono nell'ordinamento penale misure mediatorie e riparative, ricordo che la prima e preliminare innovazione del decreto è l'attribuzione (art. 21) alla parte offesa di poter citare direttamente in giudizio l'autore del reato per rivalersi dei propri interessi lesi, emancipandosi dal ruolo statico e marginale normalmente rivestito, per diventare protagonista del procedimento, tale inedito potere è esercitabile solo nei casi di reati perseguibili a querela.

Fatta tale debita premessa, inizio la panoramica sulle innovative misure riparative del D.lgs 274/2000, con l'analisi dell'art. 29, disposizione sintomatica dello spirito che anima suddetto provvedimento.

Cito direttamente dal testo normativo:

"Il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti. In tal caso, qualora sia utile per favorire la conciliazione, il giudice può rinviare l'udienza per un periodo non superiore a due mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell'attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio.
In ogni caso le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell'attività di conciliazione non possono in alcun modo essere utilizzate ai fini della deliberazione".

Questo è il comma quattro di suddetto articolo, denominato "Udienza di comparizione", facente parte del capo IV, definito "Giudizio".

Per la prima volta in modo esplicito, trova sanzione giuridica come strumento di conciliazione, la possibilità di accedere alla mediazione penale, quella tecnica di gestione del conflitto innescato dal crimine, informale, consensuale e soprattutto autonoma dalla sede giudiziaria.

Il Giudice di Pace, infatti, quando il reato è perseguibile a querela, può, se lo ritiene utile, promuovere la mediazione tra le parti al fine della conciliazione, che sarà suggellata dalla remissione della querela, agendo personalmente oppure, ove occorra, servendosi di strutture apposite, esterne all'apparato giudiziario, dopo aver rinviato l'udienza per un periodo massimo di due mesi, tempo nel quale si svolgerà la mediazione.

Nodi problematici in sede esegetica, che provo ora ad analizzare, sono le espressioni testuali "qualora sia utile" (rinviare per conciliare) e "ove occorra" (servirsi di strutture di mediazione). Nel primo caso l'interrogativo cui rispondere, concerne l'utilità generale del rinvio per conciliare le parti. Come suggerisce Carlo Sotis (8), tale rinvio dovrebbe essere sempre necessario, con eccezione delle ipotesi in cui la conciliazione sia già avvenuta, o è comunque percepibile si addivenga agevolmente e in tempi brevi ad essa. In questo caso il giudice valuterà la situazione in sede d'udienza di comparizione senza ulteriori rinvii. Altra eccezione è l'ipotesi in cui occorra accertare il fatto, mancando quello che dalla normativa internazionale viene definito requisito minimo d'accesso alla mediazione, vale a dire la convergenza delle parti nella ricostruzione essenziale del fatto delittuoso. Sotis suggerisce il rinvio sia utile anche nei casi in cui le parti non convengano pienamente sull'andare in mediazione, in modo tale da informare le stesse, quantomeno di cosa sia in concreto tale pratica.

Altro quesito interpretativo è quell'"ove occorra", riferito all'utilità della mediazione (per conciliare), magari svolta da strutture esterne, quesito che potremmo dire centrale.

La risposta più semplice da offrire, è che solo nei casi in cui le parti non desiderino ricucire la relazione interrotta dal verificarsi del delitto, ma preferiscano limitarsi a riparare gli effetti dannosi con semplici reintegrazioni, indennizzi, risarcimenti, il giudice possa fare a meno del servirsi di un servizio di mediazione professionale. In questo caso potrà operare in prima persona ai fini della conciliazione, in un'ottica transattivo-negoziale.

Chiudo la disamina dell'art 29, sul quale avrò modo di tornare in sede d'analisi sociologico-giuridica, ricordando la previsione di una rilevante garanzia che permette il coordinamento tra il ricorso alla mediazione e il principio costituzionale di presunzione di innocenza. L'art. 29 contempla, infatti, il divieto di utilizzazione delle dichiarazioni rese dalle parti durante la mediazione, ai fini della deliberazione, principio affermato anche dalla normativa comunitaria in materia.

La strada di ingresso della mediazione nel nostro ordinamento non è solo quella prevista dall'art. 29, il D.lgs 274/2000 definisce, infatti, altri due fondamentali istituti connessi (o comunque "connettibili" in via interpretativa) alla pratica mediatoria. Prima di tutto l'art 34, che prevede l'"esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto". Può essere qualificato come particolarmente tenue il fatto, quando:

"[...] rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato".

Emerge chiaramente dal disposto dell'art. 34, la presa di coscienza del legislatore circa la virtualità stigmatizzante delle conseguenze dell'esercizio dell'azione penale, foriera di pregiudizi concreti circa il lavoro, lo studio, la famiglia e la salute dell'imputato. È per questi rilevanti motivi che nel caso di "tenuità del fatto", ovvero della sproporzione tra il disvalore sociale del comportamento astrattamente sanzionabile e le deleterie conseguenze per il reo dell'attivazione dei meccanismi giudiziali penali, è possibile l'esclusione della procedibilità. Viene introdotta in questo modo una misura del tutto simile al non luogo a procedere per irrilevanza del fatto criminoso minorile (art. 27 DPR 448/88), adattato ovviamente alle caratteristiche del reo adulto. Da considerare tuttavia, che l'esito estintivo del reato e l'assenza di sanzione per il colpevole, potrebbero frustrare l'esigenza dell'offeso e della collettività di attribuzione della responsabilità, riparazione del danno e ripristino dell'ordine sociale. A questo vuoto di giustizia potrebbe rispondere proprio la mediazione, fissando un percorso attraverso il quale cercare di addivenire alla riparazione del danno prima dell'esclusione della procedibilità, riparazione cui darebbe adito, seppur in modo indiretto, l'art 34.

Altro varco aperto alla mediazione penale, è rappresentato dall'art. 35, che riconosce alla "condotta riparativa" realizzata prima del giudizio, efficacia estintiva del reato:

"Il Giudice di pace, sentite le parti e l'eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l'imputato dimostra di aver proceduto, prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato.
Il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato di cui al precedente comma solo se ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione".

Prima dell'udienza di comparizione, il reo può quindi dimostrare di aver provveduto alla riparazione del danno, elidendo gli effetti pregiudizievoli del reato, nelle forme del risarcimento o della restituzione, nonché all'eliminazione, sostenuta da presupposti diversi dalla restituzione, delle conseguenze dannose del proprio comportamento. E' disposto che si verifichi, ai fini del riconoscimento della fondatezza della causa estintiva, che la riparazione del danno sia adeguata alla soddisfazione delle esigenze di riprovazione e di prevenzione (9). La norma introduce in questo modo due criteri-guida per l'esercizio della discrezionalità del giudice, parametri tuttavia di difficile definizione interpretativa e probatoria. Prevenzione potrebbe significare prevenzione generale, la condotta riparativa dovrebbe allora essere funzionale al ripristino della pace sociale, ma anche prevenzione speciale, cioè riconciliazione reo-vittima e conseguente effetto di risocializzazione. Riprovazione potrebbe intendere proporzionalità tra gravità del fatto socialmente, ma anche individualmente percepita e condotta riparatoria.

L'istituto in esame, ha poi sollevato diverse perplessità, circa la sua ascrizione al paradigma riparativo, dubbi amplificati dal ruolo minimale previsto per la vittima nel funzionamento dell'istituto, godendo quest'ultima dell'unico diritto di essere sentita prima della dichiarazione dell'estinzione del reato. Altro vulnus dell'istituto appare l'assurgere a criterio guida per il giudice, dell'efficacia sanzionatoria della condotta del reo, che limita grandemente la valenza riparatoria dell'art 35, il quale a ben vedere risulta gravitare più intorno al paradigma del diritto penale minimo che della restorative justice.

Un ultimo spazio per la mediazione potrebbe ricavarsi da un'interpretazione teleologica dell'art. 54.

"Il Giudice di pace può applicare la pena del lavoro di pubblica utilità solo su richiesta dell'imputato. Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi e consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti od organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato".

Una volta definiti gli spazi aperti alla mediazione penale dal D.lgs 274/2000, provo ora ad individuare e descrivere le fattispecie codicistiche realmente mediabili (soprattutto mediante il ricorso all'art. 29), riconducibili a tre categorie omogenee:

  • delitti contro l'onore: artt. 594, 595, 616 c.p.
  • delitti offensivi di interessi individuali disponibili: artt. 626, 627, 631-33, 635-639
  • delitti offensivi di interessi personali indisponibili: artt. 582, 590.

Tutte e tre le categorie fanno riferimento a reati perseguibili a querela e concretamente mediabili. Nel primo caso la perseguibilità a querela garantisce la vittima dalla pubblicità del dibattimento, per evitarla od ottenerla, quando l'obiettivo dell'inserimento di tali tipi di reati (ingiuria, diffamazione, violazione, soppressione o sottrazione di corrispondenza) tra quelli mediabili, dovrebbe essere quello di consentire un'ulteriore privatizzazione del conflitto.

Alla seconda categoria ineriscono reati come furti perseguibili a querela, sottrazione di cose comuni, usurpazione, deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi, invasione di terreni ed edifici, danneggiamento, introduzione o abbandono di animali nel fondo altrui, ingresso abusivo nel fondo altrui, uccisione o danneggiamento di animali, deturpamento e imbrattamento di cose. In questo caso la querela è finalizzata all'individuazione della meritevolezza della risposta sanzionatoria o riparativa, che spetta in concreto alla parte, non essendo fissata una volta per tutte dal legislatore. La possibilità di mediare è invece funzionale ad offrire risposte differenziate per fatti criminosi il cui limitato disvalore sociale non giustifica obiettivamente la pena, richiedendo tuttavia l'attivazione di una confacente strategia di gestione degli interessi lesi della vittima.

Al terzo gruppo afferiscono reati offensivi di interessi indisponibili, si pensi alle lesioni corporali, in questo caso la querela svolge funzioni eminentemente deflative del carico di lavoro degli operatori giudiziari, quando la mediazione assolve il compito tipico di tutelare la vittima ed evitare la sofferenza della pena al reo.

Chiare appaiono infine, le costanti criminologiche caratterizzanti il catalogo di reati mediabili: l'autore del reato è sempre una persona fisica, proprio come la vittima; la vittima è sempre perfettamente identificabile; la "gravità" del fatto, il cui indice è la sanzione penale astrattamente prevista, è modesta; il bene giuridico offeso è sempre personale.

La portata innovativa, sperimentale delle disposizioni contenute dal D.lgs 274/2000, in generale lo spirito che anima il provvedimento, non possono non stimolare da una parte la riflessione critica sullo stesso, dall'altra, la valutazione circa l'effettività del provvedimento. La domanda che di conseguenza si può porre, è come sia stata applicata e recepita la normativa sopra vista da operatori e comunità, quanto e come funzioni nella prassi la mediazione presso il Giudice di Pace, chi vi accede, con quali esiti e prospettive. A tutti questi interessanti interrogativi proveremo a rispondere nell'ultima fase del nostro studio, l'analisi sociologico-giuridica in stile etnografico.

3. La mediazione penale: un profilo sociologico-giuridico

In quest'ultima parte dello studio sulla mediazione penale, riporto gli esiti della ricerca "sul campo" (10) avente ad oggetto i profili applicativi della mediazione penale ex art 29 co. 4 D.lgs 274/2000, svolta personalmente nei mesi di Ottobre-Novembre 2005.

Il presupposto della ricerca che propongo, è la consapevolezza della distinzione tra la legge, ultima parte di un formale e codificato iter di elaborazione normativa, e il diritto, inteso come stratificazione d'interventi di diversi operatori giuridici, come il risultato di una complessa operazione di "filtraggio" delle disposizioni normative, attraverso un fitto reticolo di transizioni sociali, spesso distorsive del senso trasfuso dal legislatore nella norma. La mia attenzione si è rivolta propriamente, al "distillato" di quel filtraggio e dunque alle modalità di inveramento nella prassi delle disposizioni elaborate dal legislatore, nazionale e internazionale, in tema di mediazione penale. Protagonisti dello studio contenuto in questo ultimo capitolo, saranno allora gli operatori della mediazione, coloro i quali vivono e agiscono quotidianamente questo nuovo modello di gestione della conflittualità sociale, in contesti organizzativi, professionali e sociali specifici e limitati.

Ad oggi in Italia, sono attivi quattro centri di mediazione penale presso il Giudice di Pace, nelle città di Milano, Firenze, Trento e Bolzano (unico Centro, quello promosso dalla Regione Autonoma Trentino Alto-Adige, articolato in due sezioni). Di queste organizzazioni, con i quali operatori ho avuto modo di discutere a lungo, tentando la prossimità e il contatto diretto al fenomeno in analisi, riporterò i profili organizzativi, le pratiche effettive, i modelli culturali di riferimento, sperando di definire, almeno in parte, una sintesi dei "microcosmi operativi" della mediazione.

3.1 La mediazione penale presso il Giudice di Pace di Firenze

Il centro di mediazione penale presso il Giudice di Pace di Firenze, è stata la prima struttura le cui prassi operative ho avuto modo di costatare direttamente, attraverso due incontri svolti con le mediatrici del centro (11).

Sito in Via Fattori 10/b, all'interno dell'edificio che ospita il Giudice di Pace fiorentino, l'Ufficio di mediazione penale nasce sulla base di una convenzione stipulata il 28 Ottobre 2004, tra il Giudice Coordinatore dell'Ufficio del Giudice di Pace di Firenze, dott. Cesare Iapichino, e il Prof. Emilio Santoro, direttore dell'Altro Diritto, promotore della costituzione dell'ufficio di mediazione.

L'ufficio diventa operativo effettivamente nel Dicembre 2004, rappresentando quindi la seconda esperienza di questo tipo in Italia, in ordine di tempo, dopo quella di Milano.

Per quanto attiene ai profili strettamente organizzativi, ricordo che l'Ufficio si avvale dell'attività di due mediatrici, formate e selezionate dall'Altro Diritto, l'avv. Valentina Adduci, coordinatrice, e la dott.ssa Paola Sanchez-Moreno, cui vanno aggiunte tre tirocinanti di un modulo professionalizzante dedicato alla mediazione dei conflitti, attivato dall'Università degli studi di Firenze. Le mediatrici operano nel centro per tre giorni settimanali, per quattro ore giornaliere.

L'inizio effettivo dell'attività dell'Ufficio, è stato preceduto da una consistente operazione di sensibilizzazione circa il progetto di mediazione penale (profili normativi, orizzonti di senso ecc), a Firenze. In particolare, si è cercato di analizzare insieme agli "operatori del diritto", Giudici di Pace e avvocati, il contenuto dell'art. 29 e 35 ex D.lgs 274/2000, in forza dei quali è possibile attuare la mediazione, ma anche di valutare come si inserisce la mediazione nel procedimento presso il Giudice di Pace e dunque i suoi possibili esiti procedurali. Altra direttrice dell'attività di sensibilizzazione è consistita nel coinvolgimento delle istituzioni locali, in specie assessori comunali, provinciali, regionali alle politiche sociali, con l'obiettivo di illustrare il senso e le prospettive dell'attività di mediazione, e più in generale, l'ottica della gestione dei conflitti tra consociati in senso compositivo-satisfattivo.

Si è cercato altresì, di instaurare un rapporto collaborativo con gli altri organi di giustizia di prossimità, come i Difensori civici, l'Ufficio di Arbitrato e conciliazione della Camera di Commercio di Firenze, i Servizi di Pronto soccorso giuridico, i Quartieri, ecc. L'obiettivo in questo caso, è stato quello di promuovere la creazione di una concreta rete di sinergie tra i soggetti non giurisdizionali preposti alla gestione dei conflitti, in modo da sviluppare una consapevolezza comune, circa i servizi offerti ai cittadini, nonché un apparato organico e funzionale, nelle sue articolazioni di settore e sul territorio, di giustizia di prossimità.

Passo ora, a descrivere propriamente le pratiche effettive elaborate di suddetto ufficio e dunque il funzionamento reale della mediazione penale a Firenze, considerato in base alle informazioni derivate dai colloqui svolti con le mediatrici.

Primo profilo da considerare è il rapporto trilaterale tra l'Ufficio di mediazione penale, il Giudice di Pace e l'Ordine degli avvocati di Firenze. Quello dell'interazione tra operatori, della mediazione e del mondo giurisdizionale tradizionale, appare evidentemente un aspetto centrale ai fini della comprensione del livello applicativo della mediazione penale, del suo inveramento nella prassi.

Conflitti o meglio, torsioni di forze tra i due "mondi" (vedi sopra, pag. 22), determinerebbero giocoforza, una limitazione esogena delle potenzialità della mediazione, pratica meno solida, perché di più recente introduzione e meno conosciuta, rispetto al processo penale tradizionale. In parole semplici gli avvocati, sfruttando la loro credibilità professionale, potrebbero ad esempio, opporre qualche resistenza all'attività di mediazione, esercitando pressioni sui Giudici di Pace e sui clienti, promovendo una certa "diffidenza" rispetto alla nuova forma di gestione dei conflitti.

Mi è stato spiegato di rapporti ottimi con i Giudici di Pace, mentre l'interazione tra l'ufficio e l'Ordine degli avvocati è stata descritta appunto, come più problematica. Non è faticoso comprendere le ragioni di tale fredda accoglienza. È evidente, infatti, quanto l'avvocato possa almeno in un primo momento, non tanto sentirsi delegittimato dalla presenza dei mediatori, trattandosi di figure professionali nettamente distinte in ordine a mansioni e spazio di operatività, quanto vedere in essi una specie di concorrente rispetto alla gestione della causa davanti al Giudice di pace e quindi al proprio cliente. In verità, questa "diffidenza ambientale", col passare del tempo si è modificata nettamente, intravedendosi la possibilità di una vera collaborazione tra mediatori e avvocati, o quantomeno un attivo coinvolgimento di questi ultimi. Il superamento dell'iniziale fase di stallo è da imputarsi sia all'attività d'intermediazione del dott. Iapichino, coordinatore dei G.d.P. di Firenze, sia alle modalità con le quali le mediatrici hanno definito il proprio rapporto con gli avvocati, informati sin dall'inizio del rinvio del Giudice ex art. 29 D.lgs 274/2000. In sintesi, posso descrivere quasi come "fisiologica" l'iniziale difficile convivenza tra mediazione e avvocati, comprensibilmente sorpresi dall'irruzione sulla scena della gestione dei conflitti, prima egemonizzata da questi, di nuove figure, con nuovi compiti e un'innovativa prospettiva di lavoro. Resta poi un fatto da considerare, che, come scrive il Luigi Lombardi Vallauri, l'avvocato rispetto al conflitto rimane "l'impresario delle pompe funebri e non il medico patologo" (12)...

A questo punto, descritta l'interazione operatori tradizionali del diritto e mediatrici, posso provare a calarci nella dimensione propriamente prasseologica dell'attività mediatoria, partendo dalle fasi preliminari e informative. L'attivazione dell'Ufficio di mediazione in relazione ad una specifica vicenda, consegue alla comunicazione inoltrata dal Giudice di Pace all'Ufficio, attraverso la cancelleria, circa la sospensione della procedura ordinaria e il conseguente rinvio alla mediazione, ex art 29 co. 4 D.lgs 274/2000. L'avviso si caratterizza per l'assenza di qualsiasi informazione nel merito della controversia, essendo indicato solo il nome delle parti e dei difensori, nonché i rispettivi recapiti telefonici. Segue l'invio da parte dell'Ufficio di mediazione agli avvocati, della comunicazione di avvenuta applicazione dell'art. 29, e quindi della sospensione del procedimento. Informare l'avvocato è chiara operazione finalizzata al coinvolgimento dello stesso, onde evitare spiacevoli tensioni, come sopra riportato.

La terza fase del percorso informativo, riguarda evidentemente le parti.

L'Ufficio di mediazione contatta querelante e querelato attraverso i rispettivi avvocati, allegando alla missiva informativa per il difensore, un'ulteriore lettera, che quest'ultimo consegnerà al suo assistito. Nella lettera inviata alla parte, è espresso chiaramente il senso e le prospettive dell'attività di mediazione, definita come processo d'elaborazione costruttiva del conflitto, dove le parti sono messe in condizione di esprimere liberamente il proprio punto di vista in relazione a ciò che le oppone, pratica gratuita, consensuale e confidenziale. A ciò si aggiunge, naturalmente, l'informazione dell'avvenuto rinvio del caso che coinvolge le parti, alla mediazione.

Nel caso in cui le parti non contattino direttamente l'Ufficio, decorso un certo periodo di tempo, saranno le operatrici che cercheranno di rintracciare telefonicamente i difensori di querelato e querelante, in modo tale da sollecitare la fissazione del giorno del colloquio individuale preliminare. Durante questa fase, i soggetti contendenti sono invitati separatamente ad esporre il personale punto vista in relazione alla natura del conflitto che li oppone, si cerca quindi di ricostruire storicamente l'accaduto ed infine si procede a sondare la reciproca volontà delle parti ad incontrarsi direttamente.

In presenza di detta libera disponibilità, si passa alla mediazione in senso sostanziale, vale a dire all'incontro face-to-face. Ricordo che la partecipazione ad ogni fase è "formalizzata" attraverso la sottoscrizione di alcuni moduli, d'ingresso, colloquio esplorativo e incontro di mediazione face-to-face. Da rilevare che l'esito dell'incontro finale, qualora abbia o meno avuto luogo, viene comunicato al Giudice di Pace in maniera estremamente sintetica, senza attribuzione di responsabilità del successo o insuccesso dell'attività alla singola parte, onde evitare possibili condizionamenti nella deliberazione dell'organo giudicante.

Due parole sul metodo seguito a Firenze. Da rilevare è l'originale commistione tra elementi mutuati da modello culturale umanistico (Morineau) e le tecniche di conciliazione-negoziazione, il tutto all'insegna della flessibilità nella definizione di risposte alle specifiche esigenze delle parti. Per meglio comprendere le dinamiche effettive della mediazione, nonché i risvolti operativi del metodo d'intervento, propongo a questo punto, di considerare alcuni casi concretamente gestiti dalle mediatrici fiorentine, che gentilmente ci hanno concesso di esaminare, ovviamente nel rispetto della privacy delle parti coinvolte. Come vedremo, i casi selezionati rimandano a tipologie tipiche di conflitti interpersonali, ipotesi reali cui è possibile attribuire valore "esemplare".

Caso N.1

Rinviato il caso al centro di mediazione, espletata la fase informativa e raccolta l'adesione delle parti al colloquio esplorativo individuale, in quest'ultima sede, la vittima faceva emergere la tipologia di reato che lo vedeva coinvolto, si trattava di un caso di diffamazione.

La Vittima (chiameremo così la parte querelante), membro di un'amministrazione pubblica, era stato pubblicamente accusato dal Reo (parte querelata), di mala gestio di soldi dei contribuenti; giunta voce alla V. di tale accusa, questi reagiva querelando per diffamazione R. La vittima si diceva spinto a tale gesto dalla P.A. d'appartenenza, in vero, emergeva dall'incontro preliminare un forte risentimento personale dovuto alla gravità delle accuse mossegli. Risultava altresì, l'aspettativa minima della vittima rispetto al reo, vale a dire delle scuse formali per lo spiacevole accaduto, in più la V. si dichiarava ancora non pienamente convinto di voler accedere alla mediazione, in quanto parlare dinnanzi a terzi, con l'offensore, lo poneva a disagio. Da parte sua, il Reo, sosteneva la bontà delle sue accuse e si diceva riluttante a chiedere scusa.

Le parti, stante le preliminare diffidenza reciproca, decidono tuttavia di partecipare all'incontro congiunto di mediazione. In questo contesto, vittima e reo in presenza delle mediatrici, si chiariscono spontaneamente, senza alcun intervento direttivo delle operatrici, che si limitano ad assistere la comunicazione tra le parti. Il reo, infatti, a contatto con l'"oggetto" delle sue accuse, "toccando con mano la sofferenza" a questi arrecata dalle sue parole, definisce queste ultime come affermazioni superficiali e quindi gratuitamente offensive. Le scelte della vittima a proposito della gestione dei soldi dei contribuenti, erano infatti dettate da complesse motivazioni tecniche, delle quali il reo era malauguratamente ignaro, nessuno sperpero dunque, solo una necessaria, forse poco popolare, amministrazione delle risorse disponibili.

Il naturale esito procedurale della vicenda è stato la remissione della querela, in forza delle scuse del Reo e pertanto, dell'avvenuta pacificazione delle parti.

Il caso esaminato è interessante per diversi aspetti. Prima di tutto la resistenza preliminare alla mediazione, che testimonia quanto il conflitto fosse sentito, soprattutto dalla vittima, conflitto che in sede processuale sarebbe andato incontro ad una gestione poco sensibile a tale "carica affettiva" meglio compresa e valorizzata dalla mediazione. Da considerare poi come il semplice "posizionamento" face-to-face delle parti, abbia determinato un naturale flusso comunicativo che ha risolto il conflitto, quasi senza intervento delle mediatrici, attive soprattutto nella prima fase della mediazione. Il contatto apre alla dissoluzione di pregiudizi, come quelli che il reo nutriva verso la vittima, e dunque alla possibile pacificazione.

Caso N.2

Il motivo d'interesse che ci spinge a riportare questo secondo caso, è il fatto di risultare espressivo della cosiddetta microconflittualità "da vicinato", la cui gestione è tipicamente demandata al Giudice di Pace.

La querela era conseguente a delle ingiurie. Il Reo, infatti, aveva pesantemente offeso l'altra parte, con la quale era entrato in conflitto per una poco chiara situazione di parcheggi condominiali.

In sede di colloquio preliminare, il Reo, consapevole del proprio gesto, si dichiarava subito disponibile ad un accordo amichevole, simbolico (come stringere la mano) e materiale (un indennizzo economico). La Vittima, da parte sua era ben disposta a quel tipo di riparazione, a patto che si trovasse un accordo anche per la questione parcheggio.

Durante l'incontro congiunto, cui le parti pervenivano, V. e R. parlano diffusamente delle modalità d'indennizzo e della questione parcheggio, trovando rapidamente l'accordo. Emergeva addirittura una netta convergenza di vedute in relazione al fatto scatenante il conflitto (il parcheggio), entrambi volevano la stessa cosa ma non si erano parlati e quindi compresi.

La mediazione, conclusasi con la remissione della querela, ha offerto alle parti lo spazio per comunicare, spazio che per questioni contingenti non avevano precedentemente trovato. È un dato ricorrente, tra l'altro già evidenziato nella parte teorica del nostro studio, come l'assenza di comunicazione assurga a chiaro fattore incidente sul verificarsi del conflitto, deficit di comunicazione acuito poi dal verificarsi del crimine, dove all'originaria incomunicabilità si sovrappone una vera frattura relazionale, che la mediazione tenta di ricomporre.

Casi N.3 e 4

Gli ultimi due casi che intendo riferire, attengono ad un'altra forma di conflittualità, quella intrafamiliare, forse la più complessa da gestire perché più forti i legami affettivi che coinvolgono le parti. Un conflitto relativo coniugi, infatti, non può non implicare aspettative e sofferenze, specificissime e profonde, che in sede di mediazione bisognerà "anatomizzare", operazione evidentemente non semplice.

La prima vicenda concerne una querela per lesioni, percosse, ingiurie, dove querelante era la moglie e querelato il marito, coinvolti tra l'altro, in una separazione giudiziale.

Durante l'incontro preliminare, il marito sosteneva che i rifiuti della moglie alle richieste d'incontro di questi con la loro figlia, avevano creato una situazione particolarmente ostile, alla base del conflitto attuale, nonché dell'imminente separazione. In più contestava il rapporto simbiotico tra la moglie e la madre (della moglie), che minava il rapporto coniugale.

Dal colloquio con la moglie querelante, emergeva invece, il timore di questa a lasciare che il marito, descritto come poco affidabile, addirittura violento, vedesse la bambina e in più il desiderio di portare avanti la querela. In questo caso la mediazione non è avvenuta, poiché la parte querelante ha rifiutato l'incontro di mediazione face-to-face. A riprova della difficoltà di gestire tale tipologia di conflitto, riporto un ulteriore interessante esempio. Premesso che anche in questo caso c'era una separazione giudiziale in atto, il marito querelava la moglie per ingiurie, quest'ultima rispondeva querelando il primo per mancata corresponsione dell'assegno di mantenimento, controreplica del marito con denuncia perché la moglie gli impediva di vedere i figli.

Nell'incontro preliminare il marito individuava nella voglia della moglie di "avere sempre ragione" uno dei fattori a base della crisi matrimoniale. Affermava di voler vedere i figli come da accordi presi col giudice, dichiarandosi infine, poco persuaso dell'utilità della mediazione. La querelata, nel colloquio individuale, dopo essersi detta fiduciosa nella mediazione, considerava la nascita dei tre figli in solo diciotto mesi e quindi l'aver trascurato il marito, la causa del deterioramento del rapporto coniugale, infrantosi alla fine in un presunto tradimento del marito. Propriamente il caso di ingiurie si era verificato al termine di un esame medico sui figli, cui erano presenti entrambi i coniugi, occasione in cui la moglie aveva offeso dinnanzi ad altri il marito.

In sede di mediazione i coniugi non trovano l'accordo, emergendo soprattutto la scarsa motivazione del marito (dettosi spinto alla mediazione soprattutto dall'avvocato). È questo l'unico caso di mediazione arrivata all'incontro face-to-face (dei 27 totali nel periodo Dic. 04 - Ott. 05), con esito, tra l'altro comprensibilmente, negativo.

Diversi i dati che si possono considerare. Risalta prima di tutto, come la mediazione permetta costantemente l'emersione della dimensione profonda del conflitto, come dietro ad un evento apparentemente risibile (si pensi alle ingiurie) si celi invece una situazione di disagio, di sofferenza, in generale un conflitto interpersonale spesso drammatico, riportato alla luce dall'attività di mediazione.

Il reato in sé, si configura come la punta di un iceberg, il mero sintomo di una contrapposizione radicata, invisibile se non attraverso l'esplorazione creativa degli aspetti reconditi del conflitto: partendo dal reato, come frattura relazionale contingente, promuovendo la comunicazione tra parti, solo in questo modo, si può giungere alla comprensione profonda del conflitto, e di conseguenza alla sua gestione costruttiva.

La mediazione in sintesi, opera sulle cause della disputa, risale ai suoi elementi primi, mina alle fondamenta i fattori di rischio di future e spesso più intense esplosioni d'intolleranza, realizzando in questo modo, un'efficace azione preventiva circa la possibile degenerazione del conflitto.

Provando ora, a ricomporre organicamente i dati reperiti circa quest'esperienza di mediazione penale, è possibile dire come la mediazione penale presso il Giudice di Pace di Firenze, si caratterizzi prima di tutto, per il ruolo "non-direttivo" svolto dalle mediatrici. Come ci è stato espressamente detto, la mediazione è pensata prima di tutto, come spazio della comunicazione, come istituzionalizzazione del dialogo, che apre alla comprensione reciproca. Chiara è la consapevolezza che il sovrapporsi di svariati diaframmi comunicativi durante il processo giurisdizionale, alimenti la frattura relazionale che già tiene lontane le parti, acutizzando il conflitto. Lasciando invece, che reo e vittima si parlino direttamente, facendo affidamento sulla autonomia e maturità delle stesse, temperando possibili tensioni e agevolando il dialogo, mansioni tipiche del mediatore, normalmente si perviene alla composizione della disputa. Questa fiducia nella comunicazione creativa, riecheggia delle elaborazioni dell'ultimo Wittgenstein (13) e di Austin (14), per i quali "la comunicazione non è semplicemente strumento per rispecchiare la realtà esterna, bensì per crearla" (15), comunicazione come mezzo di mantenimento dell'ordine sociale, delle relazioni intersoggettive, della stessa identità personale.

La relazione di accompagnamento alla Raccomandazione Nº (99)19 poi, individua nell'espressione "ethic of care", la necessaria guida dell'attività di mediazione: non prendere in carico le parti (la mediazione non è terapia) e curare il conflitto (che non è un episodio patologico), bensì prendersi cura della relazione interoggettiva deteriorata, questo l'obiettivo della mediazione. A Firenze ci sembra sia stata recepita in pieno questa prescrizione di metodo, risaltando la disponibilità, preparazione e l'umanità delle operatrici. Non è un caso quindi, che tutte le parti coinvolte nell'attività dell'ufficio, anche nei casi in cui non si sia pervenuti all'incontro finale, abbiano chiaramente espresso la propria soddisfazione per lo spirito della mediazione, ne abbiano riconosciuto l'utilità e necessità.

Un ultimo dato. Le mediatrici ci hanno parlato di un "futuribile" progetto di accordo con le Procure della Repubblica e la Polizia Giudiziaria, circa la possibilità di inviare in mediazione casi che ancora non sono sfociati nella querela, ma che presumibilmente avranno quell'esito. Personalmente ritengo questo tipo di iniziativa veramente apprezzabile, venendo, infatti, aumentato lo spazio di operatività della mediazione penale, che svolgerebbe a questo punto una concreta azione preventiva.

3.2 La mediazione penale presso i Giudici di Pace del Trentino

Come premessa all'analisi di seguito proposta, ricordo che alla Regione Autonoma Trentino-Alto Adige sono attribuiti direttamente dalla normativa di attuazione dello Statuto speciale di autonomia, peculiari compiti e funzioni in materia dei Giudici di Pace. La Regione, ad esempio, propone al Consiglio Superiore della Magistratura i Giudici di Pace che dovranno operare nelle due Province di Trento e Bolzano, fornisce gli uffici, le attrezzature e i servizi occorrenti al loro funzionamento, nonché l'apparato amministrativo.

Proprio il ruolo affidato all'ente nel settore dei Giudici di Pace ha comportato per lo stesso, la necessità di assumersi l'onere della costituzione dei Centri per la mediazione applicativi del D.Lgs. n. 274/00. È dunque su iniziativa della Regione autonoma che nel Giugno 2004 vede la luce il Centro di mediazione penale presso i Giudici di Pace del Trentino-Alto Adige, articolato nelle due sezioni di Trento e Bolzano.

Nel mese di Novembre 2005, ho avuto modo di essere ricevuto e parlare con i mediatori (16) operativi a Trento, pertanto mi appresto a riportare i dati salienti emersi in occasione di quella lunga intervista.

Il Centro di mediazione penale di Trento, proprio come quello di Bolzano, nasce formalmente nel Giugno 2004. Alla costituzione formale segue un'intensa attività di sensibilizzazione, soprattutto verso gli operatori tradizionali del diritto, a partire poi, dall'Agosto successivo il Centro inizia la sua attività concreta. Attualmente la struttura è aperta al pubblico i giorni di Martedì e Giovedì dalle ore 9.00 alle ore 14.00, nei locali del Palazzo della Regione, Via Gazzoletti, nº2. Per il centro di Bolzano, gli orari sono invece 16.00-18.00 il Lunedì, 9.00-13.00 il Giovedì, egualmente presso il palazzo della Regione, in Piazza Sernesi.

Il centro di Trento vede attivi ben dieci mediatori (in principio erano in dodici, proprio come a Bolzano, oggi per questioni contingenti a Trento, sono rimasti in dieci). I mediatori sono assunti e retribuiti direttamente dalla Regione, in forza di un contratto di cooperazione continuata a progetto.

La formazione di tali operatori è stata svolta prevalentemente dall'Associazione Dike, nelle vesti del prof. Adolfo Ceretti e della prof.ssa Claudia Mazzucato, senza dimenticare il contributo, a livello formativo, offerto dall'Università di Trento. Il training si è articolato in dieci stages, per un totale di 160 ore tra attività teoriche e pratiche, a partire dal Settembre 2003. Il modello teorico di riferimento è stato quello umanistico definito da Jaqueline Morineau, con l'integrazione di alcuni elementi conciliativo-negoziali. Dato interessante è il fatto che i mediatori trentini provengano da aree di competenza scientifica particolarmente eterogenee: pedagogica, giuridica, della cooperazione internazionale, psicologica ecc.

Tratteggiati sommariamente gli aspetti organizzativi e strutturali, e premesso che la mediazione penale a Trento è svolta esclusivamente in applicazione dell'art 29 co. 4 del D.lgs 274/2000, anche se a livello teorico, si è discusso sulla possibilità di agganciare la mediazione agli artt 34, 35, e 54, passo a descrivere il centrale argomento, ai fini del nostro studio, delle prassi operative del centro. Con quest'espressione intendo quel complesso intreccio di pratiche professionali, modalità di interazione con gli altri operatori del diritto, modelli teorici calati nell'esperienza, moduli gestionali interni, plasmati nella quotidianità e rappresentanti il reale "funzionamento" della mediazione penale a Trento.

Primo obiettivo è la descrizione del percorso formale della pratica di mediazione, cioè quell'insieme codificato di fasi nelle quali si articola l'attività di gestione del caso, successivamente alla sospensione del procedimento ex art. 29, iter non scandito dalla legge, bensì elaborato dagli operatori del Centro in accordo col Giudice di Pace.

L'incipit del percorso è ovviamente, l'invio al centro, da parte del Giudice di Pace, del fascicolo relativo ad un determinato procedimento. Nel fascicolo sono indicate diverse informazioni, tra le quali il nome delle parti e dei difensori, i rispettivi recapiti telefonici e il tipo di reato che coinvolge vittima e reo. Il fascicolo viene allora visionato dal Coordinatore del centro, il quale individua tra i mediatori il Responsabile del fascicolo, figura centrale per lo svolgimento della mediazione, in quanto parteciperà a tutti gli incontri e in generale presiederà allo sviluppo di tutta l'attività. Il Responsabile è scelto in base ai criteri di competenza specifica, alle mediazioni già svolte, oltre ad essere valutate possibili incompatibilità col caso (conoscenza delle parti, conflitti d'interesse ecc.). Segue la comunicazione scritta da parte del Coordinatore al Giudice di Pace inviante, della designazione del Responsabile, cui il Giudice farà riferimento per quanto concerne la mediazione in oggetto. A questo punto il Responsabile del fascicolo avvisa le parti, mediante lettera, dell'incarico di mediazione ricevuto dal Giudice di Pace. Tale comunicazione scritta contiene anche informazioni generali inerenti al senso dell'attività di mediazione, oltre a promuovere il primo incontro, preliminare e informativo, rivolto individualmente alla parte. La comunicazione scritta anticipa una serie di contatti telefonici tra il Responsabile e le parti, al fine di individuare il giorno dell'incontro preliminare, nonché semplicemente offrire informazioni sulla mediazione.

Fissato il giorno, si giunge in questo modo ai colloqui preliminari individuali. A questi parteciperanno, oltre alla singola parte, il Responsabile del fascicolo e due mediatori, scelti discrezionalmente dal responsabile stesso. Ricordo che il colloquio preliminare si articola in due fasi. La prima è di tipo informativo, ricercandosi esclusivamente gli elementi per la ricostruzione storica della vicenda, fase alla quale partecipa anche il difensore della parte. Segue un secondo momento, che potremmo definire di tipo empatico, cui la parte è invitata ed esprimere le conseguenze psicologiche del verificarsi del reato, in generale il proprio punto di vista sulla vicenda. La composizione dell'equipe di mediazione nei due incontri varia: con la vittima parleranno, infatti, il Responsabile ed un primo mediatore, che sarà poi sostituito dal secondo mediatore nell'incontro con il reo. Il Responsabile svolge allora funzione di fil rouge tra i due colloqui preliminari, essendo l'unico soggetto ad avere una visione complessiva (conoscendo il punto di vista di vittima e reo) della vicenda. Ovviamente sono previsti degli incontri dell'equipe al completo, anche informali, dove verranno scambiate le informazioni rilevanti per la successiva eventuale mediazione face-to-face. Al termine del colloquio preliminare viene redatta una relazione nella quale si riporta il consenso delle parti a pervenire alla mediazione vera e propria, oltre a commenti e indicazioni utili per l'equipe di mediazione.

In sede d'incontro finale, infatti, la configurazione del gruppo di operatori cambierà ancora. Rimane ovviamente il Responsabile, a questi si aggiungeranno però, altri due mediatori, diversi dai colleghi che hanno partecipato ai colloqui preliminari.

Questa duplice variazione nella composizione del gruppo di mediatori, ci è stata spiegata come diretta derivazione del modello operativo umanistico (17), che prevede appunto, la "pulizia" nello sguardo e nelle analisi degli operatori. Questi in alcun modo dovranno essere condizionati dalle impressioni ricavate, ad esempio, in sede di colloquio preliminare, allorché operano invece nella fase della mediazione face-to-face.

Altra importante conseguenza, nella struttura della mediazione, dell'adesione al modello di Jaqueline Morineau, è il fatto che la mediazione face-to-face, non possa esaurirsi che in un unico incontro, salvo ipotesi del tutto eccezionali. In questo caso la scelta deriverebbe dalla volontà di evitare che con la reiterazione degli incontri, si sovrappongano e sedimentino, da parte di vittima e reo, considerazioni del tutto indipendenti alla mediazione, magari strumentali a scopi reconditi, quando invece, la prospettiva del "qui ed ora", alla base della prospettiva umanistica, comporta l'emersione dei nodi maggiormente problematici del conflitto, in uno spazio di tempo limitato, e l'altrettanto rapida rielaborazione degli stessi.

All'incontro di mediazione face-to-face, seguirà il momento transattivo-negoziale, cui potranno partecipare anche i difensori delle parti, fase finalizzata alla mera definizione delle conseguenze materiali della mediazione. Aggiungo che chiuso il fascicolo della mediazione, dopo il finale incontro transativo, non è prevista attività di follow-up.

Sempre proiezione del modello umanistico di mediazione, sono poi i parametri di valutazione degli esiti della mediazione stessa. Condizione da verificarsi perché si possa parlare di esito positivo sono: l'inversione del cambio di livello comunicativo e di rapporto tra le parti, il riconoscimento della sofferenza reciproca ed in fine, la riparazione simbolica. Si tratta di criteri palesemente ispirati al modello di Jaqueline Morineau, dove a rilevare è la trasformazione delle modalità di interazione tra le parti, da competitive e distruttive a collaborative, la cui premessa è appunto, il riconoscimento dell'altra parte come soggetto sofferente, per aver subito ma anche arrecato dolore psichico o materiale. Si cerca l'identificazione dell'altro non come avversario o nemico, ma come essere umano depositario di aspettative, esigenze comprensibili attraverso l'incontro.

Da quanto appena detto, risalta l'assenza della remissione della querela, tra i parametri dell'esito positivo. La mediazione, infatti, al contrario dell'analoga esperienza fiorentina, può concludersi positivamente anche se le parti decidono di non rimettere la querela e continuare l'iter nelle sedi ordinarie della giustizia. In questo modo si cerca di valorizzare l'autodeterminazione dei soggetti confliggenti nel decidere se trattare in mediazione, anche il discorso sulla remissione. Viene affermata in questo modo, la possibilità di coesistenza dei percorsi di mediazione e giurisdizionale, nel senso che mantenere la querela non è considerato indice di una fallita pacificazione, perché la remissione è collocata su piano sostanzialmente indipendente, essendo sufficiente, per potersi parlare di avvenuta conciliazione, del verificarsi delle condizioni sopra viste.

Gli operatori del centro hanno avuto modo di concettualizzare tale possibile convivenza, oltre che come riflesso del modello umanistico di mediazione, anche come il tentativo di modificare, nel senso di una progressiva umanizzazione, i percorsi di giustizia penale. Questi saranno percepiti, dopo la mediazione riuscita, non più come luoghi del dissidio, del "gioco a somma zero", ma come spazio più costruttivo, in cui affrontare questioni di ordine prevalentemente materiale, con la consapevolezza che l'altra parte non sia nemico, ma soggetto col quale si è verificato un "incidente di percorso" comunicativo e relazionale, emerso e gestito in mediazione.

Altro rilevante dato che ci sta a cuore evidenziare, è il rapporto tra Centro di mediazione e operatori della giustizia tradizionale, in specie avvocati. In relazione a questa interessante problematica, diremo subito che il Centro di mediazione di Trento non ha incontrato la diffidenza, neanche episodica, dell'Ordine degli Avvocati locale. La positiva interazione è secondo noi imputabile a diversi fattori.

Prima di tutto il fatto che il centro sia formalmente un organismo della Regione autonoma. Questo sicuramente rappresenta una difesa, seppur simbolica, rispetto ad eventuali contestazioni degli operatori giuridici tradizionali. L'immedesimazione nella struttura regionale, tra l'altro anche fisica, attribuisce al centro una certa credibilità e solennità, probabilmente rassicurante per gli avvocati. Più concretamente la Regione ha promosso incontri con rappresentanti dell'Ordine degli avvocati, nonché con i giudici di pace, al fine di chiarire lo spazio di operatività del centro, il senso e le prospettive dell'attività di mediazione.

A ciò si associa quella strategia inclusiva, definita proprio come prassi operativa, rispetto ai difensori delle parti. L'avvocato, infatti, è chiamato a partecipare e a svolgere un ruolo attivo, alla prima parte del colloquio preliminare. Con la stessa prospettiva, la negoziazione sugli aspetti materiali vede l'intervento dei difensori. Non bisogna dimenticare poi, che la mediazione a Trento non punta esclusivamente alla remissione della querela, intravedendosi la possibilità della continuazione dell'iter processuale standard. Il Centro di mediazione trentino pertanto, non ha dovuto fronteggiare la resistenza da parte di singoli avvocati in seguito alla consistente opera di sensibilizzazione, diversamente dall'esperienza fiorentina, dove la diffidenza iniziale (ed episodica) dei difensori si è protratta per diverso tempo, anche dopo l'inizio concreto delle attività del Centro, per poi sfumare del tutto, profilandosi l'attuale ottima interazione.

A proposito poi, dei rapporti con gli altri soggetti di giustizia di prossimità, diremo che a Trento, ancora non sono state previste reti di sinergie con le altre strutture, dislocate sul territorio e preposte alla gestione non contenziosa dei conflitti sociali, non escludendosi tuttavia la possibilità, in futuro, di collaborazioni di questo genere.

Prima di passare all'analisi delle "aree di criticità" dell'attività di mediazione a Trento, voglio ricordare, seppur en passant, che la maggior parte dei reati mediabili, concerne microconflittualità da vicinato, nelle forme giuridiche d'ingiurie e lesioni, e conflittualità intrafamiliare, che si mostra particolarmente difficile da gestire.

Dicevo delle aree di criticità. È agevolmente comprensibile, quasi "fisiologico", che strutture come un centro di mediazione penale, innovative nella prospettiva di lavoro e negli obiettivi, prive di esperienza consolidata nelle prassi, strutture la cui attività si configura visibilmente come work in progress, come sperimentazione, debbano affrontare tutta una serie di difficoltà giornaliere estremamente concrete.

In relazione a questo delicato tema, a lungo mi sono soffermato con gli operatori. Ci sono state evidenziate in proposito due tipologie di difficoltà. Al primo gruppo afferiscono ostacoli che potremmo definire legati in generale all'attività di mediazione, quasi strutturali, prescindendo dall'ambiente spaziale e sociale di riferimento. Mi riferisco ad esempio, alla natura terribilmente intricata e specificissima delle vicende da mediare, l'esistenza di eventi pregressi nel tempo, anche di molto, che rendono l'attività di mediazione alquanto impegnativa. A ciò bisogna aggiungere la difficoltà del mediatore a rispondere all'istante e dominare disagi emotivi propri, oltre che delle parti.

Alle aree di criticità "strutturali" nell'attività di mediazione, aggiungo quelle strettamente legate al contesto organizzativo e sociale trentino.

Trattandosi di un gruppo di lavoro eterogeneo a livello di competenze e costruito "in laboratorio", ci è stato detto ad esempio, di inevitabili difficoltà di coordinamento, o nel dare un indirizzo unitario all'attività del centro, cui in parte sopperisce la rigidità del modello teorico, in parte un surplus di lavoro della coordinatrice, dott.sa Cristina Corsi. La possibile soluzione a questo tipo di problema, è stata individuata nella definizione di procedure di selezione dei mediatori più accurate, nel senso di finalizzate alla creazione di un gruppo omogeneo, non solo perché legato ad uno stesso modello teorico, ma anche perché composto da operatori provenienti da aree di competenza meglio assimilabili. Altra esigenza emersa sarebbe poi, la previsione di un'attività continuativa e maggiormente strutturata di formazione.

Vengo alla questione dell'adesione "forte" al modello teorico di Jaqueline Morineau. Dalla narrazione delle prassi operative del centro, emerge chiaramente quanto, contenuti e forma dell'attività mediazione, siano pervicacemente ancorati al modello umanistico della Morineau. Tale forte riferimento appare senz'altro funzionale ad indicare ad un gruppo giovane ed eterogeneo, un indirizzo chiaro e unitario nello svolgimento dell'attività di mediazione. Appare altrettanto chiaro il limite dell'adesione forse rigorosa, al modello. Della rigidità, infatti, si potrebbe risultare in qualche modo "prigionieri", magari arrivando a perdere di vista la specificità dei soggetti in conflitto, perché protesi ad applicare rigidamente quel modello.

Ovviamente tale effetto collaterale si verificherà maggiormente nel caso di operatori che per provenienza culturale, competenze o altre questioni contingenti, non riescano a declinare il modello, generale ed astratto, alla propria esperienza sul campo, accedendo ad un inevitabile misconoscimento delle situazioni concrete e irripetibili che si troverà ad affrontare in mediazione. Si tratta in sintesi, della dialettica antica tra flessibilità e rigidità di approccio ai modelli teorici: bisogna scegliere tra le sicurezze offerte dal riferimento "forte" a quel certo paradigma, certezze tendenti però, ad opprimere e appiattire la creatività dei singoli, oppure preferire la minore o più flessibile caratterizzazione teorica, al fine di adattarsi senza risposte preconfezionate alla realtà sempre mutevole, strategia che tuttavia, dà adito a soggettivismi e un po' troppa anarchia. In tutto ciò la bravura dell'operatore che dovrà saper mediare, è il caso di dire, tra la teoria e la prassi. A Trento, quello della rigidità del modello è una questione tanto presente agli operatori, quanto percepita come gestibile. Se si considera, infatti, il progressivo "consolidamento interno" del centro attraverso l'accumulazione di esperienza, oltre che alla sensibilità e competenza dei mediatori, non si può non convenire sul fatto che nel breve periodo si possa agevolmente procedere alla definizione ed implementazione di prassi più flessibili. A riprova di questa tendenza, gli operatori del centro ci hanno parlato ad esempio, di una recente e graduale attenzione al tema della remissione della querela come parametro dell'esito positivo della mediazione, stante tutto il discorso fatto in precedenza su quest'argomento.

Un ultimo dato circa le aree di criticità della mediazione trentina, lo rilevo lanciando un rapido sguardo sulla realtà sociale sulla quale opera il centro.

I mediatori mi hanno fatto notare prima di tutto, le differenze tra l'attività di mediazione cui sono coinvolti cittadini di Trento rispetto alla mediazione di conflitti inerenti cittadini dei paesi limitrofi. È emersa ad esempio, una diversa percezione della figura del mediatore. Se, infatti, in città questi appare a tutti gli effetti, una figura professionale istituzionale, anche se nuova, per i membri delle comunità alpine, dove sopravvivono forti tradizioni e il senso d'appartenenza è radicato, il mediatore è "analogizzato" al cosiddetto sensale, vera agenzia comunitaria di gestione della conflittualità sociale, il saggio del villaggio, che per attitudini ed esperienza veniva legittimato a comporre le liti tra paesani, prescindendo dalle strutture giurisdizionali. I conflitti quotidiani erano demandati a questo soggetto, di cui il mediatore sembra raccogliere la pesante eredità. Per il processo non c'era quasi mai spazio, vedendosi in quest'ultimo una specie di "realtà" stigmatizzante. Antropologicamente interessante sapere che ai membri delle comunità alpine, spesso anziani coinvolti in microconflittualità di vicinato, spiazzava trovarsi di fronte come moderno sensale, un soggetto che mancava di un requisito tipico per quella figura: l'anzianità. Tuttavia questo "effetto di spiazzamento" è venuto meno con il rapido circolare nei paesi trentini, delle caratteristiche dell'attività di mediazione, mentre permangono altri concreti disagi nell'interazione con le stesse comunità. In quest'affascinante realtà socio-culturale, il conflitto ad esempio, è vissuto come vergogna, si tenta normalmente l'evitamento (18), che rende il conflitto latente, fin quando le acredini represse nel tempo, trasformano il conflitto in un dissidio a volte esplosivo. Rilevano infine le resistenti barriere comunicative tra mediatori e nativi delle comunità alpine, dovute al fatto che in quelle realtà, si siano sviluppati codici comportamentali specifici e rigorosi, spesso difficili da comprendere per i non autoctoni. A questi codici i mediatori prestano da tempo, particolare attenzione e anche sfruttando l'analogia col sensale, stanno tentando una progressiva "decodificazione".

L'impressione che ho derivato dall'analisi delle prassi operative del Centro di mediazione penale di Trento, è che si tratti di una struttura potenzialmente in grado di dare piena applicazione alle previsioni del legislatore nazionale e comunitario in materia di gestione alternativa dei conflitti. La Regione autonoma mette a disposizione strutture e risorse, i mediatori svolgono un'attività di training articolata, per alcuni c'è poi la passione nello svolgimento dell'attività, l'organizzazione ci è sembrata encomiabile, e i circa settanta casi di mediazione conclusa positivamente sui centoquaranta trattati ci sembrano un'eccellente riprova di tale funzionalità. Aspetti più problematici appaiono invece, il rapporto con il modello teorico, l'eterogeneità forse eccessiva del gruppo di lavoro, le fisiologiche difficoltà nell'interazione con la comunità, ostacoli questi, che ritengo tuttavia superabili con il tempo e l'esperienza. Egualmente, sotto il profilo degli orizzonti di senso della mediazione, posso dire che questa tecnica operativa di restoration sia percepita prevalentemente come spazio di ascolto e dialogo, come strumento alternativo alla forza, come dispositivo di prevenzione di conflitti esplosivi, trovando affermazione nell'esperienza trentina, il più maturo e sensibile orientamento teorico in materia.

3.3 La mediazione penale presso il Giudice di Pace di Milano

L'ultimo Centro di mediazione penale con gli operatori (19) del quale ho avuto modo di parlare, è stato quello attivo nella città di Milano.

Il Centro di mediazione penale di Milano viene formalmente attivato nel Febbraio 2003, in conformità ad un accordo di collaborazione siglato tra l'Ufficio del Giudice di Pace di Milano e l'Assessorato alla Sicurezza Urbana. Promotore della costituzione del centro, è un'associazione, il Centro italiano per la promozione della mediazione sociale e penale. L'attuale gruppo di mediatori penali, con qualche piccola modifica nella loro composizione, già a partire dal 1990 lavora nell'ambito della mediazione sociale, attività egualmente promossa da associazioni, questa volta operative prevalentemente nella periferia milanese e dal Comune di Milano, nell'ambito di un progetto sulla prevenzione del disagio degli adolescenti a rischio.

Il centro di mediazione penale, ubicato in Via Paulucci Di Calboli Fulcieri, 1, è aperto al pubblico i giorni di Lunedì, Mercoledì, Venerdì, dalle ore 16.00 alle ore 19.00, Martedì, Giovedì, Sabato dalle 9.30 alle 12.30. Nel centro prestano servizio nove mediatori, provenienti da ambiti culturali omogenei (criminologico, penitenziario, penalistico), con formazione alla mediazione di tipo umanistico, integrata da elementi del modello conciliativo-negoziale. Ricordo in più, che alcuni degli operatori milanesi sono stati formati direttamente al Centro di mediazione e formazione alla mediazione di Jaqueline Morineau, a Parigi. Il Centro di mediazione penale di Milano collabora con il Servizio d'assistenza alle vittime, ospitato nello stesso edificio, che offre alle vittime di reato un supporto di tipo psicologico e legale.

Per quanto concerne le prassi operative del Centro, parto dall'esaminare le fasi formali di gestione del caso da mediare. Primo momento è, l'invio del caso da parte de Giudice di Pace, al Centro, in conformità all'art. 29 co. 4 ex D.lgs 274/2000. Dal fascicolo non risultano che informazioni minime circa lo specifico caso, vale a dire, i nominativi delle parti e dei difensori con rispettivi recapiti telefonici, mancando dunque, qualsiasi indicazione concernente il merito della vicenda. Particolarmente interessante notare il fatto che il Centro abbia, ormai da tempo, definito con le Forze di Polizia, una collaborazione circa la trasmissione dei casi. Prima ancora della querela, infatti, la polizia, percependo la possibilità di una mediazione in relazione ad uno specifico conflitto cui è chiamata ad intervenire, magari svolgendo attività di conciliazione ex art. 1 del T.U. sulla Pubblica Sicurezza, segnala quel conflitto al Centro, che in questo modo viene attivato. Aggiungo che a volte sono i Comuni dell'interland milanese, ad inviare al Centro casi da mediare, emergendo tutta la potenzialità preventiva e la dimensione di "prossimità" della mediazione penale.

Alla sospensione del procedimento e all'invio del caso al Centro, da parte del Giudice di Pace, segue la fase dei contatti telefonici tra mediatori, parti e avvocati delle stesse. Da rilevare che questi ultimi vengono informati della sospensione del procedimento e del suo deferimento al Centro di mediazione, esclusivamente per via telefonica e non per lettera scritta come accadeva per le altre due esperienze. In più, e anche questo è un dato singolare, spesso capita che siano le stesse parti a contattare il Centro, perché informate della nuova situazione, dal Giudice di Pace. In questo modo si passa ai colloqui preliminari individuali, cui partecipano oltre alla singola parte, due mediatori, dei quali almeno uno assisterà all'incontro anche con l'altra parte, mentre non è prevista la presenza dei difensori. Negli incontri preliminari si cerca di ricostruire storicamente la vicenda di conflitto, in seguito viene sondata la disponibilità di vittima e reo a pervenire all'incontro di mediazione face-to-face. Da sottolineare che, al contrario della prassi sviluppata negli altri centri esaminati, la partecipazione delle parti non è formalizzata con la sottoscrizione di alcun modulo di presenza.

Per quanto concerne l'ultima fase sostanziale dell'attività del Centro, ricordo che è previsto anche più di un incontro di mediazione, a seconda delle esigenze specifiche delle parti.

A termine dell'incontro face-to-face, nel quale a volte sono trattati anche gli aspetti materiali e negoziali del conflitto, è redatto il verbale di mediazione, nel quale è riportato al Giudice di Pace, l'esito dell'incontro finale, in maniera alquanto sintetica. Ci è stato riferito tuttavia, di come i Giudici tendano normalmente a chiedere notizie più dettagliate riguardo all'esito della mediazione, invito altrettanto regolarmente declinato dagli operatori, in conformità alle previsioni del legislatore Europeo in materia. I parametri di valutazione dell'esito dell'incontro finale, sono quelli tipicamente contemplati dal modello umanistico di mediazione: facilitazione e cambio di prospettiva nella comunicazione tra soggetti in conflitto, riconoscimento della sofferenza reciproca, riparazione simbolica. Come per l'esperienza fiorentina e al contrario di Trento, gli operatori milanesi considerano una mediazione riuscita solo nel caso in cui si giunga alla remissione della querela, vista come suggello della ricorrenza dei parametri "umanistici". Tale considerazione, deriva in parte dalla specifica prospettiva di lavoro dell'equipe di mediazione, in parte dalla convenzione siglata tra il Centro e il Giudice di Pace, che prevede esplicitamente la remissione di querela come indice formale di avvenuta conciliazione, pena il proseguimento dell'iter giurisdizionale.

Dopo la chiusura del fascicolo non è prevista attività di fallow-up, ovvero di monitoraggio successivo degli esiti della mediazione, mentre solo informalmente viene sondato il livello di soddisfazione delle parti e degli operatori, normalmente molto alto, circa quello specifico caso gestito.

Vengo ora, al delicato tema dell'interazione tra Centro e tradizionali agenti del diritto. Gli operatori del Centro hanno indicato il rapporto con l'Ordine degli avvocati come relativamente problematico. Seppur senza verificarsi conflitti aperti e plateali, emerge costantemente la forte diffidenza dei difensori ad accettare l'esistenza della mediazione, diffidenza che spesso si trasforma in pressioni indirette sui Giudici di Pace a non operare il rinvio del caso al Centro. Probabilmente tale difficoltà, è, almeno in parte, imputabile all'assenza di una preliminare attività di sensibilizzazione verso gli avvocati, circa il rapporto mediazione-processo, nonché al senso generale dell'attività di mediazione. A ciò si aggiunge il fatto che per i difensori delle parti, non ci sia spazio, neanche sotto il profilo negoziale, nella gestione del conflitto.

Altro livello dell'attività mediatoria da considerare, è quello degli orizzonti di senso, di come cioè, nel determinato contesto lavorativo in analisi, la mediazione venga a ricoprirsi di significati ulteriori e specifici. Mi sembra che la mediazione nell'esperienza milanese, proprio come a Firenze e Trento, non sia avvertita come attività di terapia, di presa in carico dei soggetti in conflitto, stanti i possibili, incidentali effetti terapeutici della pratica stessa. L'idea di fondo è che la mediazione sia invece, uno spazio e un tempo di "anatomizzazione" dei nodi problematici di una relazione intersoggettiva che, per eventi contingenti, è andata deteriorandosi, fino alla cessione della sua gestione agli "specialisti senza cuore" del processo giurisdizionale. L'attività del mediatore è poi concepita come tipicamente non-direttiva, il mediatore non dà consigli, non giudica, non interpreta ma si limita a svolgere un lavoro di software della comunicazione, agevolando il confronto, sintetizzando i punti di vista, assistendo le parti nell'elaborazione costruttiva del conflitto, nell'esplorazione creativa dei suoi lati reconditi e profondi.

Connessa strettamente a questa prospettiva è la convinzione, rilevata presso gli operatori milanesi, che le categorie di vittima e reo altro non siano che cristallizzazioni giuridiche di posizioni in un rapporto intersoggettivo, ben più complesso di quello che superficialmente appare. Non esiste, infatti, questa rigida contrapposizione tra vittima e reo, spesso la differenza la fa la celerità nel querelare, profilandosi, una certa "mobilità" tra le posizioni delle parti (il reo potrebbe essere vittima e viceversa). Le etichette giuridiche, che accompagnano, e spesso stigmatizzano i soggetti in conflitto durante l'iter processuale, rappresentano una vera semplificazione cognitiva (oltre che terminologia distorsiva) di una relazione, come dicevamo, quasi mai lineare, quella di vicinato, familiare ecc., il cui deterioramento precede e in qualche modo soggiace al reato. La mediazione, al contrario del percorso giurisdizionale, mira all'approfondimento di quel rapporto, alla comprensione delle molteplici implicazioni emotive e simboliche del conflitto, superando l'angusto orizzonte dei ruoli fissi della "commedia processuale", mai corrispondenti alla irripetibile e specifica realtà della disputa. Secondo questa prospettiva si cerca la elaborazione del conflitto, prescindendo dunque, dalle categorie preconfezionate.

Prima di passare alle considerazioni conclusive circa la mediazione penale nel contesto milanese, intendo svolgere qualche osservazione in relazione al tema della specifica conflittualità sulla quale opera il Centro. Dirò allora, che il primato circa i reati maggiormente mediati, tra i circa quaranta complessivi di cui l'80% positivamente conclusi, è conteso tra l'ingiuria, le percosse e le lesioni lievissime, legate a conflittualità di vicinato, familiare e automobilistica.

In verità si rivela necessario un ulteriore approfondimento sugli ambiti di conflittualità cui afferiscono quegli specifici reati. Due in particolare i dati che voglio porre in risalto. Prima di tutto c'è stato riferito del carattere interetnico di diverse dispute composte. Una città come Milano presenta, infatti, tipologie di conflitto che vedono coinvolti soggetti italiani e stranieri, ma anche esclusivamente stranieri, contrasti caratterizzati da innumerevoli difficoltà nella loro gestione, data la "differenza" culturale della quale sono portatrici le parti. Altro rilievo interessante è quello che concerne la microconflittualità da vicinato. Gli operatori ci hanno informato del fatto che molti dei vicini di casa in conflitto, dimorano nelle abitazioni dell'ALER, la società che a Milano gestisce le case popolari. Le mura estremamente sottili di questi edifici, e dunque il fatto che i rumori s'intendano da un appartamento all'altro agevolmente, sembrano spesso essere, se non alla base del conflitto, quantomeno il contesto ecologico che lo amplifica.

Dall'esame delle prassi operative del Centro di mediazione penale di Milano, ho tratto numerose e rilevanti indicazioni, circa un'ulteriore prospettiva di mediazione. Come per le esperienza di Trento, il modello culturale di riferimento è quello umanistico di Jaqueline Morineau. Appare chiaro tuttavia quanto il rapporto con tale schema sia di continuo dialogo, un "sestante" che orienta l'attività del Centro, soprattutto a livello dei contenuti della mediazione, meno nella struttura della stessa (più di un incontro di mediazione, possibilità di discutere su aspetti negoziali, necessità di remissione della querela ecc). L'elasticità nell'utilizzo del modello, costantemente declinato alle esigenze dei soggetti confliggenti, ritengo possa essere conseguenza diretta della grande esperienza accumulata negli anni dagli operatori milanesi. Questo gruppo, opera nell'ambito della mediazione dei conflitti, prima sociale poi penale, da più di dieci anni, caratterizzandosi come l'équipe maggiormente consolidata, tra quelle esaminate, sotto il profilo dell'esperienza, della conoscenza reciproca, delle tecniche di lavoro.

Ultimo dato da evidenziare, è la singolare sinergia creatasi tra il Centro e le forze di Polizia, circa la segnalazione di conflitti sociali da mediare.

Come già detto, la Polizia, in taluni casi, contatta e richiede direttamente l'intervento del Centro a proposito di dispute di carattere non particolarmente "intenso" e soprattutto non integranti (almeno per il momento) gli estremi di una fattispecie penale, in assenza, altresì, di querela. Il senso e il valore di questa collaborazione sono abbastanza chiari, venendo data piena applicazione alla virtualità preventiva e alla dimensione di "prossimità" della mediazione. È possibile appunto, in base a quella collaborazione, procedere al tentativo di dispersione dei fattori critici di degenerazione del conflitto, direzione nella quale opera anche la mediazione successiva a querela, rendendo tuttavia tale intervento ancora più efficace. Viene, infatti, anticipata "sul campo", la radicalizzazione del conflitto nella quale normalmente consiste l'accesso alla giustizia processuale (e dunque la giuridicizzazione della disputa) con il suo corollario di azzeramento della comunicazione interpersonale.

Concludo, dicendo che nell'ipotesi di casi inoltrati dalle forze di Polizia, l'esito della mediazione è valutato esclusivamente in base ai parametri umanistici, per il semplice fatto che manca la querela, la cui remissione è condizione principale per potersi parlare di mediazione riuscita.

Note

1. G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976.

2. J. G. Belley, L'Etat et la regulation juridique des sociétés globales. Pour une problematique du pluralisme juridique, in "Sociologie et Sociétés", XVIII, 1, p. 17 ss., 1986.

3. P. Bonafè-Shmitt, Le boutique de droit: L'autre mediation, in "Archives de Politique Criminelle", 14, p. 30 ss., 1992.

4. B. Faedda, Incontri culturali tra mediazione e conflitto, in "Diritto & Diritti", 2001.

5. S. Castelli, La mediazione. Teorie e tecniche, cit; cfr. D. H. Ford, R.M. Lerner, Teoria dei sistemi evolutivi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995.

6. Tutti gli atti nazionali e sopranazionali di seguito analizzati sono consultabili, rispettivamente, sui siti del Ministero della Giustizia, di Restorative Justice e delle Nazioni Unite.

7. Cfr. Relazione di accompagnamento al D.lgs 274/2000, par. 10.1.

8. C. Sotis, La mediazione nel sistema penale del giudice di pace, in G. Mannozzi (a cura di), Mediazione e Diritto penale, Giuffrè, Milano, 2004.

9. G. Mannozzi, Mediazione e diritto penale, cit.

10. Per un'analisi approfondita sulle modalità operative di ricerca sociologica "sul campo", in stile etnografico, rimando, a titolo puramente informativo, ad A. Dal Lago, R. De Biasi (a cura di), Un certo sguardo, introduzione all'etnografia sociale, Laterza, Roma-Bari 2002; J. Clifford, G. E. Marcus, Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Maltemi, Roma, 2005; G. Gobo, Descrivere il mondo. Teoria e pratica del metodo etnografico in sociologia, Carocci, Roma, 2001.

11. Ringrazio, per essersi prestate con pazienza a rispondere alle mie domande, l'avv. Valentina Adduci, coordinatrice, e la dott.sa Paola Sanchez-Moreno, mediatrice.

12. L. Lombardi Vallauri, Introduzione generale al Convegno su Le professioni giuridiche come vacazioni, in Le professioni giuridiche come vocazioni, Atti del convegno di Firenze, in Iustitia, 1990, 10 ss.

13. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Tr. it. Einaudi, 1967.

14. J. L. Austin, How to do Things With Words, London, Oxford University Press, 1955.

15. S. Castelli, La mediazione. Teorie e tecniche, cit.

16. Ringrazio per le esaustive informazioni datemi, la dott.sa Cristina Corsi, coordinatrice dei mediatori trentini, e il dott. Mauro Cereghini, mediatore.

17. Vedere J., Morineau, Lo spirito della mediazione, FrancoAngeli, Milano, 2000.

18. S. Castelli, La mediazione. Teorie e tecniche, cit.

19. Il paragrafo che qui propongo consiste della rielaborazione di un'intervista svolta con la dott.sa Francesca Garbarino, mediatrice milanese, cui va il mio personale ringraziamento per avermi ricevuto e aver risposto alle mie domande.