ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 1
La vita non vive: Welfare State biopolitico e regolazione dei conflitti

Giuseppe Maglione, 2008

Premessa

La vita non vive (1). F. Kürnberger

L'analisi delle condizioni di emergenza storica del Restorative Justice paradigm, muove da lontano. Muove dal tentativo di focalizzare il funzionamento di una precisa razionalità socio-politica, nell'affermazione (e nell'eclissi) della quale, affonda le radici il paradigma “riparativo” di interpretazione e regolazione della conflittualità sociale. Muove dallo sforzo di rispondere ad alcuni interrogativi, apparentemente irrelati e distanti, ma che ad un'attenta analisi scoprono parte del background socio-culturale e storico della giustizia riparativa.

Com'è possibile l'elaborazione e seguente socializzazione (poco differenziata qualitativamente), su scala nazionale, di entitelments (2) volti a soddisfare una richiesta potenzialmente indefinita di fruizione di provisions (3), senza correre il rischio (parola-chiave) di generare tensioni e conflitti deflagranti per la rivendicazione di risorse lato sensu sociali? Com'è possibile rendere compatibili con l'ordine politico, interessi disgreganti (4) (perché logicamente antinomici p.es.) di intere fasce della popolazione, ad ottenere accesso alla condizione sostanziale di cittadinanza sociale (endowment e non solo entitlements)? Com'è possibile definire (e far funzionare) un'unica strategia per garantire la beveridgeana “freedom from want” (5) alla collettività, nella sua interezza e irriducibile (si direbbe) complessità? Com'è possibile, che la struttura unitaria e indifferenziata delle chances di vita (6) somministrate massivamente dal Welfare State, soddisfi la globalità delle aspettative di benessere sociale?

È accreditabile come interpretazione e risposta, l'ipotesi dello sviluppo, della proliferazione e radicamento sociale, di tecnologie dotate di un potenziale di generazione biopolitico (altra parola-chiave), capaci di plasmare, standardizzandole, le preferenze degli individui destinatari finali delle provisions? Sono immaginabili processi di soggettivazione/assoggettamento “demiurgici”, permanentemente operativi, che attraversino l'intero corpo sociale, volti alla costruzione e orientamento dei “bisogni sociali” del soggetto, di più, alla costruzione del soggetto conforme a quel determinato sistema di socializzazione delle risorse? Esiste davvero un dispositivo capace di plasmare la percezione delle esigenze “sociali” della collettività? Quali sono queste tecnologie (ammessa la fondatezza dell'ipotesi), quale la loro struttura, quale la matrice di linguaggio unificante le preferenze, quali le coordinate per la localizzazione storica dei processi di assoggettamento? Quale il frame socio-politico entro il quale si iscrivono coerentemente le une e gli altri? Ma soprattutto: funzionano (o hanno funzionato) effettivamente questi dispositivi? Quali gli effetti reali, le disfunzioni eventuali e le ragioni intime di queste ultime? Quale l'interferenza (da dimostrare) con altre tecnologie di gestione di conflittualità sociale? Forse un rapporto di reciproca convalidazione, oppure di concorrenza, di antagonismo? Ed infine, quali gli scenari attualmente emergenti, come conseguenza del dispiegarsi degli eventuali processi critici e disfunzioni di cui sopra?

Molteplici domande, che, ad un maggior livello d'astrazione, invitano ad “interrogare” il funzionamento-dis-funzionamento, di alcune fondamentali dinamiche del Welfare State, come razionalità socio-politica alla parabola della quale si connette, nella mia analisi, “l'insorgenza” del Restorative justice paradigm. Una sola ipotesi interpretativa avanzata, intorno alla validazione della quale, si sviluppa lo studio distillato nelle pagine che seguono.

Urge preliminarmente una chiarificazione dei termini delle questioni che cercherò di affrontare. Tutte le domande che mi sono sopra posto, ritengo rinviino ad un unico grande argomento: l'analisi della funzione biopolitico-normalizzatrice (da adesso in avanti solo bio-norm) del Welfare State. Di cosa si tratta? Come e quando fa la sua comparsa? A cosa “serve”? Cosa spiega? Prima ancora, quali sono le ragioni della riconduzione dei problemi di cui sopra, all'espressione bio-norm del Welfare State?

L'obiettivo di questa prima parte del mio lavoro consiste dunque, nell'impostare tali questioni in maniera teoricamente più consapevole, cercando di offrirne una verifica empirica, il tutto finalizzato a costruire una prima base per quella genealogia “culturale” della Giustizia riparativa, operazione assunta come scopo specifico di tutta la ricerca.

1. Considerazioni teoriche preliminari e questioni di metodo

Prima di svolgere l'analisi del fenomeno funzione bio-norm del Welfare State (condizioni d'intelligibilità, processi critici, scenari emergenti), ritengo necessario premettere alcune considerazioni relative alla metodologia adottata, individuare gli studiosi con i quali ho contratto un vero “debito di riconoscenza”, dai quali cioè, ho mutuato l'angolazione della ricerca, segnalando le specifiche analisi che hanno orientato sostanzialmente la mia indagine.

Prima di tutto, la struttura teoretica di fondo è mutuata dalla riflessione foucaultiana di metà anni Settanta (7), nonché da alcune indagini, che recuperano coordinate concettuali principali degli studi di Michel Foucault sulla biopolitica. Penso in particolar modo agli studi di François Ewald (8), Jacque Donzelot (9), Robert Castel (10). Questi autori, epigoni foucaultiani, meglio di chiunque altri, sono riusciti ad impiegare la griglia interpretativa foucaultiana per decodificare e problematizzare dinamiche complesse del Welfare State (o État Providence). Per la mia ricerca, questi studi sono stati un punto di riferimento metodologico fondamentale.

Da Pierre Rosanvallon (11), Jürgen Habermas (12) ed Achille Ardigò (13) “prendo in prestito” la concettualizzazione della crisi “contestuale”, del Welfare e del capitalismo maturo, che è il frame nel quale acquistano senso i processi critici della funzione bio-norm del Welfare state.

Un supporto rilevante, per l'identificazione del rapporto tra processi critici e sistema giuridico di regolazione della conflittualità sociale, mi è stato offerto infine, dagli studi di Lawrence Friedman (14), Gunther Teubner (15) ed Antoine Garapon (16).

Il riferimento principale, quasi grammaticale, nella decodificazione delle dinamiche di welfare centrali per l'economia del mio studio, è costituito dalla nozione foucaultiana dispositivo biopolitico (17). Ricordo, con parole foucaultiane, che un dispositivo è:

“un insieme irriducibilmente eterogeneo che comporta dei discorsi, delle istituzioni, delle strutture architettoniche, delle decisioni regolamentari, delle leggi, delle misure amministrative, degli enunciati scientifici, delle proposizioni filosofiche, morali, filantropiche, in breve: del dicibile e del non dicibile” (18).

Per biopolitica Foucault intende invece, una serie di regimi epistemologici entro i quali acquistano consistenza un complesso di oggetti (la popolazione, le malattie in senso patologico e sociale, la sicurezza, la previdenza, ecc) e di soggetti (i malati, i contribuenti, gli utenti, i cittadini, gli individui pericolosi, i criminali, ecc) i quali, a loro volta, costituiscono i correlati e i punti di applicazione della strategia, articolata in svariate tattiche, della governamentalità biopolitica, intesa come nuovo paradigma di sovranità, che non cancellerà la sovranità in senso classico, ma la penetrerà profondamente, utilizzandola in funzione di un nuovo fondamento del potere che non sarà più il prelievo, l'estrazione di forze, ma la produzione della vita.

L'idea poi, di processi di soggettivazione/assoggettamento, per me software esplicativo di complesse trasformazioni antropologiche, è anch'esso un concetto che attraversa, diagonalizza, l'intero itinerario intellettuale foucaultiano. Processo di soggettivazione come:

“il modo con cui le singolarità si percepiscono e si autocostituiscono entro determinate istituzioni (la scuola, la fabbrica, la famiglia, gli uffici, ecc.) e in relazione a specifiche problematizzazioni della condotta” (il lavoro, l'educazione, la sessualità, la normalità, la salute, la delinquenza, ecc), attraverso “l'assoggettamento a determinati ordini del discorso e a specifiche tecnologie di potere” (19).

Ewald, Castel, Donzelot. Tre autori, tre letture foucaultiane di riferimento. Di Ewald, utilissima è la concettualizzazione di Welfare State come massima realizzazione istituzionale, come akmè, della gestione biopolitica delle relazioni e dei conflitti sociali che si sviluppano a partire dalla fine del XIXº secolo. Suggestioni ewaldiane sono anche i riferimenti alla gestione preventiva dei rischi sociali, all'abolizione dell'imputazione soggettiva delle responsabilità, all'obliterazione della responsabilità individuale come principio regolatore del diagramma politico liberale. Da Castel mutuo l'idea che la condizione salariale e la partecipazione alla produzione di massa si sublimino nella soggettivazione del lavoratore come consumatore dei prodotti della società industriale. Uno schema che si rivelerà davvero utile, quello di Castel, per analizzare la costruzione del destinatario delle provisions (funzione bio-norm). Donzelot mi suggerisce infine, l'idea che il riconoscimento dei diritti sociali svolge anche una funzione legittimante (vedremo di cosa), e che le modalità di riorganizzazione delle relazioni sociali, a partire dal primo Novecento, sono state volte ad attenuare il principio della responsabilità individuale.

Rosanvallon. La parte prima del mio studio, relativa alla ricostruzione “genealogica” della funzione bio-norm del Welfare State, muove dall'indagine di Rosanvallon sul rapporto tra Stato Protettore e Welfare State, analisi che cercherò di incrociare con l'“implicita” cartografia foucaultiana delle ambiguità del Welfare State, sviluppata nel corso del 1978/79 al Collège de France (durante il quale Foucault svolge prima di tutto, un'analisi genealogica del dispositivo biopolitico, contestualizzato a partire dall'analisi della razionalità governamentale liberale). Sono poi debitore della declinazione in termini filosofico-politici e sociologici della crisi del Welfare State, realizzata da Rosanvallon, contenuta nel suo celebre testo sulla crisi dello Stato Providenza (20).

Habermas, Ardigò. Le analisi di questi autori mi offrono spunti importanti per sviluppare la parte del mio studio relativa ai processi critici della funzione bio-norm (colonizzazione amministrativa e giuridica della Lebenswelt), ma anche per impostare una concettualizzazione alternativa del senso e delle potenzialità del Restorative Justice Paradigm. Per processi critici intendo l'intrecciarsi, storicamente determinato, di una pluralità di variabili (sociali, economiche, politiche, culturali ecc.) determinanti una variazione qualitativamente intensa, si potrebbe dire con Bergson, una differenza di natura (21), nell'esercizio della funzione bio-norm. Di questa variazione proverò a definire il profilo storico, le implicazioni socio-politiche, analizzarne le conseguenze sulla regolazione dei conflitti sociali. Per quanto riguarda la concettualizzazione alternativa, cercherò di caratterizzare il Restorative Justice Paradigm, secondo un'impostazione parzialmente habermasiana, come dispositivo capace di ri-vitalizzare la Lebenswelt colonizzata dal diritto, nonché come forma di agire comunicativo fondato su di un vocabolario non-giuridico.

Le analisi di Teubner, Friedman e Garapon, hanno guidato la mia ricerca nella parte in cui sviluppo l'analisi delle macro-trasformazioni giuridiche conseguenti ai “processi critici” della funzione bio-norm del Welfare State. Fenomeni centrali, come la giuridificazione sociale, le modificazioni della legal culture, la trasmigrazione delle aspettative di regolazione sociale causate dal declino del Welfare State verso il legal system, sono stati focalizzati e descritti proprio attraverso la concettualistica elaborata da questi ultimi studiosi.

La ormai vasta letteratura sulle “nuove” pratiche di gestione non-coercitiva dei conflitti sociali (mediazione in primis), nonché alcuni studi di Claudius Messner (22), Richard Abel (23) e Massimo Pavarini (24), mi hanno permesso infine, di articolare il discorso sul profilarsi di nuovi, emergenti scenari della regolazione dei conflitti sociali, delle loro caratteristiche strutturali e funzionali, nonché del loro ineludibile potenziale degenerativo.

2. Condizioni di intelligibilità

Svolgere un'indagine “genealogica” (25) del fenomeno funzione bio-norm del Welfare State, come mi accingo a fare, è impegno oneroso, un'operazione complessa. Cercherò di ricostruire le condizioni di intelligibilità, ovverosia il percorso storico che conduce all'emersione, rafforzamento e radicamento sociale della funzione bio-norm del Welfare State, considerata principalmente, come performante meccanismo di gestione preventiva di conflitti sociali storicamente determinati. Come si struttura la funzione bio-norm del Welfare State? A partire da quali paradigmi socio-politici, su quali piattaforme culturali si fonda? In quali regimi governamentali affonda le proprie radici? Rispondere a queste domande significa individuare le condizioni di intelligibilità del fenomeno in analisi.

2.1 Dalla razionalità governamentale liberale al regime socio-politico del Welfare State: una ricognizione delle origini della funzione bio-norm

“L'interrogativo sui limiti rimanda alle origini” (26), scriveva Pierre Rosanvallon, esordendo nella sua originale analisi sullo sfaldamento delle basi intellettuali dello Stato assistenziale francese.

Sulla scia di Rosanvallon, muovo dalle origini della funzione bio-norm del Welfare State, con l'obiettivo di descriverne il profilo storico e l'evoluzione, per coglierne altresì il senso profondo e le contraddizioni implicite. L'ipotesi che avanzo, è che la funzione bio-norm del Welfare State, affondi le sue radici in un isomorfismo di base tra specifici paradigmi socio-politici, meglio: tra razionalità governamentali (27), prima facie assolutamente distanti, irriducibili le une alle altre (almeno per certe interpretazioni filosofico-politiche). Mi riferisco alla razionalità governamentale liberale, mirabilmente analizzata da Foucault nei corsi al Collège di fine anni settanta (28), col suo “doppio bordo” storico (governamentalità liberale classica più semplicemente “liberalismo classico”, il secondo governamentalità neo-liberale o “neo-liberalismo”); alla razionalità governamentale dello Stato Protettore Classico, apparato giuridico-istituzionale, teorizzato nelle sue linee essenziali da Locke e Hobbes e da diversa angolazione da Adam Smith; infine, ed evidentemente, al Welfare State inteso non solo, come un'infrastruttura erogativa e regolativa di provisions (fasci di beni, provvidenze) sulla base di entitelments (titoli formali di accesso), finalizzata alla socializzazione dei rischi, ma anche e soprattutto come una più generale razionalità socio-politica e amministrativa, un complesso diagramma di regolazione sociale.

La posizione che sostengo, è la negazione di una discontinuità netta, di una rottura radicale, tra questi tre modelli politici e istituzionali, e le razionalità che li animano: variazioni, accomodamenti, trasformazioni senz'altro, ma la struttura prima, il nucleo elementare, specifici obiettivi essenziali, seppur calati in contesti storici diversi, permangono, a mio parere, poco mutati. Il Welfare State, in specie, mi sembra possa rappresentare, della razionalità governamentale liberale, uno sviluppo, forse paradossale, per correzione e radicalizzazione (29). Lo Stato protettore classico, d'altra parte, credo offra una prima essenziale piattaforma culturale e politica sulla quale edificare il Welfare State moderno, o almeno sue componenti fondamentali, nonché alcune issues fondamentali per la governamentalità liberale.

Mi sembra di scorgere, di individuare dunque, una sorta di isomorfismo delle componenti prime dei tre modelli. L'analisi di questa “continuità”, più che l'analisi dei tre modelli socio-politici in sè, è condizione d'intelligibilità della struttura e del funzionamento della funzione bio-norm del Welfare State.

2.1.1. Stato protettore classico, governamentalità liberale, Welfare State: profili minimi ed essenziali

E' leggendo le pagine Thomas Hobbes (30) e John Locke (31), che si possono saggiare le caratteristiche fondamentali, l'anima ideologica e la struttura, dello Stato protettore classico. Si tratta di un modello di Stato fondato sulla realizzazione di un duplice compito: produzione di sicurezza (termine-chiave) e riduzione dell'incertezza.

Lo Stato è il diritto di sicurezza degli individui. Non esiste rapporto di esteriorità, trattasi di due grandezze assolutamente fungibili. La nascita dell'individuo e quella dello Stato moderno, fanno parte di uno stesso processo generativo. Il contratto sociale crea collegamento tra queste due soggettività, istituendo “un potere comune atto a difendere gli uomini dall'aggressione degli estranei e dai soprusi che potrebbero commettere gli uni contro gli altri” (32). Il primo diritto rivendicato e garantito, è la sicurezza della vita, lo scambio politico di base consiste nella sottomissione per protezione dell'integrità fisica rispetto tutte le minacce di violenza sociale, rispetto al bellum omnium contra omnes. Il passaggio hobbesiano dallo Stato di natura allo Stato civile, ha come scopo fondamentale la produzione di pace civile. Il correlativo e, al contempo, lo strumento principale di realizzazione di pace e sicurezza sociale, sarà il diritto di proprietà. Come scriveva già Hobbes: “là dove non vi è alcuna Repubblica, esiste una guerra perpetua d'ogni uomo contro il suo simile. Ogni cosa appartiene perciò a chi la ottiene e la conserva con la forza: questa non è né proprietà, né comunità, ma incertezza”.

L'ideale di Hobbes è, dunque, una società pacificata, una società in cui gli individui alienano integralmente la loro naturale libertà allo Stato in cambio di sicurezza (33). Al di fuori dello Stato, del Leviatano, non c'è nessuna possibilità di sfuggire alla guerra di tutti contro tutti, realtà insita, indissociabile dallo stato di natura. Per Hobbes, lo Stato e la società sono la stessa, identica cosa: entrambe nascono semplicemente dalla paura che gli individui hanno della morte, dal viscerale desiderio delle cose necessarie ad una vita confortevole, quindi dall'esigenza di difendersi strenuamente contro tutte le passioni violente e distruttive degli altri individui. Hobbes, è chiaro, parte da presupposti schiettamente, fortemente individualistici per arrivare a delle conclusioni radicalmente collettivistiche: detto in maniera diversa, l'interiorizzazione hobbesiana dello Stato, il pieno, integrale rispetto della delega offerta allo Stato sovrano, sarebbero null'altro che la condizione imprescindibile per quel convivere civile che gli individui reputano rispondere, costantemente, al loro naturale, specifico interesse.

Hobbes chiaramente esclude qualsivoglia, minima possibilità che l'esigenza di sicurezza (fisica) possa soddisfarsi altrimenti che attraverso l'esperimento di un'alienazione della libertà a un ente storicizzato o a procedure che chiedono obbedienza. Ma ciò implica ovviamente una negazione-rimozione di quelle specifiche forme organizzate di solidarietà collettiva che vanno a conciliarsi con la libertà e l'autonomia individuale e che hanno fornito storicamente una risposta diretta al complesso di bisogni di sicurezza individuale, collettiva e di autoconservazione. Più in generale, nell'individuo atomistico ed egoistico di matrice hobbesiana, non c'è la minima possibilità di pensare a qualcosa di diverso dall'esigenza di sicurezza (34).

La proprietà, in questa prospettiva, viene a configurarsi, come estensione, attributo indissociabile dell'individuo, meglio: del soggetto di diritto. Essa lo definisce e lo protegge al contempo, “determinando, il mio, il tuo, il suo” (35) limita la violenza sociale. Il diritto di proprietà è riduttore d'incertezza e produttore di sicurezza.

Individuo, proprietà, Stato protettore sono inscindibilmente legati: “Il fine capitale e principale per cui gli uomini si associano in repubbliche e si sottomettono ai governi è la conservazione della loro proprietà” scrive Locke (36). Pensare lo Stato e riconoscere il diritto degli individui alla protezione significa, semplicemente, distinguere due momenti di un'unica affermazione: “lo scopo della Repubblica, è lo scopo dei privati” (37). Lo Stato fa esistere gli individui come soggetti dotati di diritti, assumendo come proprio fine la protezione di questi ultimi: non v'è Stato Protettore senza individuo titolare di diritti, né individuo che realizzi questi diritti senza Stato Protettore. Questa l'essenza dello Stato Protettore.

Per quanto attiene all'emersione del paradigma liberale, allo sviluppo dinamico di questa razionalità socio-politica, alle condizioni in costanza delle quali si afferma, funziona e disfunziona, paradigmatica è la lezione di Michel Foucault. Foucault sostiene che intorno al XVIII sec. si verifica una transizione politica fondamentale: il principio di limitazione esterna della Ragion di Stato, in termini giuridici, viene sostituito dal principio di limitazione interna, in termini economici (38), sulla Ragion di Stato si innesta l'economia politica, intesa come specifico regime di veridizione. E qual è questa nuova verità, portato di una nuova, emergente, razionalità di governo? Sarà, per dirla con Foucault, il “governare meno e con la massima efficacia”. Il nome di quest'emergente fenomeno politico, orientato da quest'imperativo è, appunto, liberalismo.

Si tratta di un'arte di governo che scommette sul mercato, sulla naturalizzazione dei meccanismi del mercato. Mercato come luogo in cui si produce verità e giustizia, come spazio in sé il meno regolamentato possibile dallo Stato, mercato come ispiratore della nuova arte di governo.

Foucault individua e descrive i due nuovi protagonisti di tale emergente arte di governo: l'homo oeconomicus e la società civile (con correlativa eclissi del soggetto di diritto), indispensabili correlati della tecnologia di governo liberale.

L'homo oeconomicus è il nuovo soggetto di interesse, non governabile dal sovrano, perché sintesi della totalità economica, nella sua intangibilità. La società civile invece, rappresenta il principio in nome del quale il liberalismo tende ad autolimitarsi, una specie di riflessività critica (così come il liberalismo è riflessività critica rispetto la governamentalità in genere) che impone al regime liberale di domandarsi continuamente se non governa troppo.

Quest'arte di governo deve affrontare subito, tutta una serie di problemi che conseguono prevalentemente alla naturalizzazione del mercato e dei suoi meccanismi. Si pensi al rischio apportato dall'esistenza stessa dell'homo oeconomicus, di delegittimare il ruolo dello Stato in quanto sistema di governo. L'homo oeconomicus, infatti, mette in crisi la legittimità del governo, a causa della sua assoluta incoercibilità rispetto al potere politico, conformandosi solo agli imperativi naturali del mercato. Foucault evidenzia questo pericolo, sostenendo che la categoria elaborata dalla cultura liberale classica per farvi fronte, sarà proprio quella di società civile (39). La società civile rappresenterà la camera di compensazione per i pericoli e rischi generati dalla dinamica del mercato (40).

A questo punto, un passaggio fondamentale. Per rispondere efficacemente a tutti i rischi e pericoli prodotti dalla dinamica del mercato, la cui verità è trasfusa all'interno dello Stato, nonché per garantire il miglior funzionamento del meccanismo statale, compare nel XVIII sec., si sviluppa e si radica progressivamente, una nuova razionalità governamentale, un nuovo paradigma, che continua il liberalismo classico (contraddizioni comprese): il neo-liberalismo. Neo-liberalismo come emergente modello di “gestione della libertà” (prima di tutto quella alla concorrenza), che non si limita a garantirla, fa molto di più: la produce, la suscita, la inquadra. Calcolo “politico” del rischio, libero gioco degli interessi individuali, compatibile con l'interesse di tutti ed ognuno. Ma neo-liberalismo è soprattutto un modello politico attualizzato all'interno di una ragione governativa che ha strutturalmente bisogno di libertà, e che altrettanto strutturalmente, consuma libertà.

Il problema fondamentale della sicurezza emerge a questo punto, simmetricamente alla produzione/consumo permanente di libertà, e con tale problema il neo-liberalismo deve necessariamente confrontarsi (41). Il problema della strategia (articolata in molteplici tattiche) di aggiramento ed eliminazione dei pericoli immanenti alla dinamica delle relazioni tra interessi individuali e collettivi, è il problema del neo-liberalismo, è la sorgente prima delle crisi di governamentalità liberali, crisi iscritte nel suo stesso, fisiologico funzionamento. Icasticamente si potrebbe dire che l'invito a “vivere pericolosamente” (42), vero portato del neo-liberalismo, implichi giocoforza, l'adozione di una serie complessa di meccanismi di sicurezza. Come scrive mirabilmente Antonio Negri (43):

“A dover essere garantita non è più semplicemente una specie di protezione esterna dell'individuo stesso. Il liberalismo innesca un meccanismo entro il quale in ogni momento si troverà a porsi come arbitro della libertà e della sicurezza degli individui a partire da questa nozione di pericolo. In fondo, se per un verso il liberalismo è un'arte del governo che si occupa fondamentalmente degli interessi, esso - ed è questo il rovescio della medaglia - non può intervenire sugli interessi senza essere al tempo stesso amministratore dei pericoli e dei meccanismi di sicurezza/libertà, del gioco sicurezza/libertà che deve garantire che gli individui o la collettività saranno esposti il meno possibile ai pericoli”.

Sintetizzando: se il neo-liberalismo emerge come tecnica che si innesta sulla meccanica degli interessi, esso dovrà allora, intervenire necessariamente sui pericoli che a tale meccanica sono consustanziali, allestendo un complesso di meccanismi di sicurezza/libertà, come li definisce Negri. È proprio intorno a questa cultura del pericolo (dal liberalismo suscitata), che si svilupperà quella formidabile estensione delle procedure di controllo, costrizione, coercizione che investirà lo Stato di funzioni nuove, destinandolo, alla fine, a “farsi carico del problema della vita” (44).

Libertà, pericolo e sicurezza dunque, triade indissociabile, centro propulsore di questa nuova razionalità governamentale, che, comportando la proliferazione di procedure di controllo, di forme d'intervento statale capillari, va a costituire il paradosso del neo-liberalismo. È in questo contesto che nasceranno (forse paradossalmente) le tecnologie moderne dell'assistenza, della previdenza, delle assicurazioni, in una parola: il Welfare State.

E veniamo allora, alla caratterizzazione essenziale di quest'ultimo sistema socio-politico.

Quando penso al Welfare penso ad un'infrastruttura (composta da Stato, mercato e famiglia) erogativa e regolativa di provisions (fasci di beni (45), provvidenze) sulla base di entitelments (titoli formali di accesso (46)), finalizzata alla socializzazione dei rischi sociali (rischi del ciclo di vita, di classe, intergenerazionali) (47). Penso ad un gigantesco, farraginoso operatore di solidarietà sociale. Fermarsi a questa intuitiva descrizione sarebbe però riduttivo, il Welfare è molto di più. È un'articolazione di agenzie e agenti deputati all'attribuzione di significati, alla sanzione di comportamenti di rilevanza sociale, alla classificazione, all'esclusione, all'assimilazione, nonché alla costruzione dei bisogni sociali. È un complesso di pratiche discorsive con uno straordinario potenziale generativo normativo, è un regime di veridizione.

Ripercorrendo in sintesi la storia del Welfare State moderno, partendo dalle analisi economico-giuridiche più accreditate (48), si può dire che il passaggio dalla lotta di classe aperta alla contrattazione consensuale, in un contesto in cui merito ed uguaglianza delle chances di vita prevalgono sul privilegio, è la pietra angolare sulla quale si edifica il moderno Welfare. Il piano Beveridge del 1942 (i cui punti base erano: un sistema di assicurazione generalizzato, unificato, semplice, uniforme, centralizzato; interventi di aiuto alle famiglie; miglioramento salute pubblica; organizzazione dell'impiego), rappresenterebbe, di quella transizione, il suggello formale. Dal punto di vista più strettamente economico, è il keynesismo (codificazione del ruolo dello Stato come stimolatore di consumo e investimento, direttamente con spesa pubblica e indirettamente con politica fiscale e di credito; corrispondenza globale tra imperativi crescita economica ed esigenze di equità sociali) la condizione di possibilità della trasformazione in parola. A partire da queste premesse si sarebbe sviluppato un solido compromesso sociale: la classe operaia accetta di non contestare i rapporti di produzione (proprietà privata) in cambio della redistribuzione-allocazione perequata delle risorse e di un sistema di attivo di negoziati sociali.

Non mi soffermo ulteriormente sui caratteri strettamente economici del Welfare State. Preferisco concentrarmi invece, su alcuni aspetti più funzionali all'economia specifica del mio studio. Preferisco introdurre a questo punto un'analisi del Welfare State da un'angolazione profondamente diversa, rispetto a quella economico-giuridica, un'indagine maggiormente consonante con l'orientamento della mia ricerca. Mi riferisco all'analisi di François Ewald, contemplata nella sua monumentale ricerca genealogica sull'État Providence (49). Muovendo dalla legge francese sugli infortuni sul lavoro, del 9 aprile 1898 (“avec cette loi, un monde bascule” (50)), Ewald si propone di tracciare, secondo una prospettiva di chiara matrice foucaultiana, la “traiettoria di vita” dell'État Providence.

L'industrializzazione, quadro storico-economico entro il quale l'État Providence iscrive le sue origini, ha prodotto nuove maniere di identificazione umana, nuove modalità di gestione delle condotte umane, di pensare i rapporti tra gli individui, i loro conflitti, il loro destino. Il rischio è la posta in gioco. La socializzazione (stavo per dire normalizzazione) la puntata vincente. La responsabilità, come principio di regolazione del diagramma politico liberale, risulta “perdente”. Viene così fondato un sistema di giustificazione-normazione giuridica che progressivamente legittima e legalizza, un nuovo principio di responsabilità: il principio della responsabilità senza colpa (51), impegno che già alcuni civilisti in epoca bismarckiana (prima) e weimariana (dopo) avevano assunto di realizzare (52). Ma perché il diagramma socio-politico dell'État Providence si affermi pienamente, dispiegando il suo potenziale di palingenesi sociale, c'è bisogno di un ulteriore passaggio: il principio della responsabilità senza colpa deve andare incontro ad una specifica evoluzione “qualitativa”, deve trasformarsi in colpa senza responsabilità. La responsabilità del danno, cioè, deve essere completamente incorporata nel risarcimento assicurativo (53), sul piano simbolico e materiale. Questo sarà possibile con la diffusione della pratica assicurativa dell'indennizzazione del danno (straordinaria strategia di difesa dal rischio), realizzante l'aggressione e la dissoluzione del principio di responsabilità. Tale strategia di neutralizzazione del rischio, particolare forma di difesa attiva della società, fa convergere unicamente e interamente nella forma-Stato il principio di responsabilità. Si viene a creare così, una società sottratta completamente al rischio, ma anche priva di responsabilità (in senso liberale) una società della quale può integralmente rispondere solo lo Stato, una società della de-responsabilizzazione (o di colpa senza responsabilità).

Lo Stato qui, non soltanto si appropria del monopolio della violenza legittima, ma si annette in linea esclusiva il principio di responsabilità, trasformandolo, plasmandolo in qualcosa di nuovo.

L'emersione dell'État Providence consiste, sintetizzando, nella transizione da una problematica della responsabilità liberale, ad una problematica della responsabilità senza colpa, alla attribuzione di centralità al principio di colpa senza responsabilità, che può essere declinato anche come principio di solidarietà, operazione che corrisponde sul piano giuridico, al passaggio dal primato del diritto civile al primato del diritto sociale.

Da un'altra angolazione, l'État Providence appare soprattutto come un nuovo contratto sociale, che va incontro alle esigenze di una nuova società (che contestualmente contribuisce ad edificare): la société assurentielle. Questo modello di società, necessita di dispositivi di mantenimento dell'ordine sociale (rectius del potere) penetranti, diffusi, senza limiti; richiede il potere della prevenzione, un potere che rende il diritto non più e non solo, strumento di interdizione, ma anche struttura del dover fare, un diritto che inevitabilmente si va a confondere con le prescrizioni morali, di una morale: quella sociale, come scrive Ewald.

Anche la société assurentielle deve fare i conti con l'in/sicurezza. L'emergere della société assurentielle è, infatti, accompagnato sin dall'inizio da una pluralità di conflitti: tra il sociale e l'economico (normazione sociale vs. industrializzazione), piuttosto che tra il giuridico e il politico. Trattasi di conflitti di responsabilità come li qualifica Ewald, che richiedono un superamento della responsabilità individuale, o meglio, dell'imputazione soggettiva delle responsabilità.

Sarà proprio lo schema dell'assicurazione a fondare contestualmente le nuove politiche di gestione dei conflitti sociali e la strategia di superamento della responsabilità individuale. I diritti sociali, la loro distribuzione (più o meno manipolatoria), sono allora il nuovo strumento di azione governamentale: per questi, l'uomo ha valore giuridico solo in quanto essere vivente, i diritti sociali sono espressione del diritto alla vita:

“La ligne de partage ne passe plus entre libre et non libre, mais entre le mort et le vivant, entre la vie et ce qui la menace. Avec le droits socieaux, une problematique de la liberation succéde à celle de la liberté” (54).

La storia della gestione dei conflitti di responsabilità da parte della società assicurativa è la genealogia di quella positività politica, di quel nuovo diagramma di regolazione sociale denominato État Providence. L'État Providence è la risposta istituzionale della società assicurativa, al mutamento economico-sociale ed antropologico di fine ottocento, è la risposta alla lucida constatazione che “l'insicuritè est partout” (55).

Ineludibile appare ora, la questione cruciale sul nesso, sulle ragioni della continuità tra i tre modelli, “humus” nel quale germina la funzione bio-norm del Welfare State. In cosa individuare la connessione, quale la logica unitaria soggiacente i tre modelli di Stato? Come si concettualizza a partire da tale nesso, l'origine della funzione bio-norm del Welfare State?

2.1.2 Contatto sinaptico: il governo dell'In/Sicurezza

La premessa dalla quale muovere è che non credo sia isolabile un unico nesso tra i tre modelli di regime politico in analisi, ve ne sono di diversi, a diversi livelli. Provo a passarne in rassegna alcuni, ponendo particolare attenzione tra questi, ad un preciso contatto sinaptico (56).

Il primo, fondamentale punto di connessione considerabile, quello rilevabile ictu oculi, consiste nella questione della riduzione/controllo/irregimentazione, più semplicemente, del governo della in/sicurezza.

Lo Stato protettore classico è formalizzazione giuridica e istituzionale di dispositivi di produzione di sicurezza e di riduzione dell'incertezza, in questi due compiti sta la sua ragion d'essere; la governamentalità liberale produce naturalmente libertà e rischio, consuma quella stessa libertà (carattere liberogeno), necessita sillogisticamente di dispositivi di sicurizzazione; il Welfare State (o État Providence) egualmente come operatore di solidarietà sociale, ridistribuendo risorse socializzando rischi, cos'altro è se non un elefantiaco apparato di produzione di sicurezza?

Il problema a questo punto, è capire cosa significa sicurezza, a quale realtà riferisco con questo termine. Sûreté e sécurité (57); security, safety, certainity (58); Sicherheit (59). Tutti questi termini vengono tradotti in italiano con l'unico lemma di “sicurezza”, questa è però, una traduzione che appare irreprensibile solo per il tedesco (Sicherheit). La lingua francese e la lingua inglese (più precise) utilizzano termini diversi con significati filologicamente molto distanti, che rinviano a diverse e distanti “sfere” di sicurezza; queste, sono contenute indistintamente nel termine italiano e in quello tedesco, rendendo necessario, in questi due ultimi casi (per indicare le diverse sfere), una differenziazione per aggettivo.

Sûreté è la condizione iscritta come diritto dell'uomo dai rivoluzionari del 1789, è la sicurezza giuridica dell'individuo dinnanzi al potere. L'idea di Sûreté è legata, connaturata direi, alla limitazione del potere attraverso il diritto: garantire dalle violazioni del diritto è garantire la Sûreté. Se un intervento si richiede, per la garanzia della Sûreté, questo è configurabile solo come intervento negativo, come immunizzazione: rendere immuni dalla violazione possibile.

Sûreté rimanda altresì alla sfera della incolumità fisica, all'imperativo del neminem laedere, garantita con azioni repressive, coercitive, negative appunto. Chiedere Sûreté significa chiedere contestualmente, meno intervento dello Stato (in economia p.es.) e più Stato (intervento negativo per la garanzia dell'ordine pubblico p.es.). Sûreté, potremmo dire, è la sicurezza civile.

Sécurité esprime ben altro. Il termine rimanda alla condizione che si produce in forza e costanza dell'intervento positivo del potere governamentale: l'azione positiva, preventiva, proattiva, non la repressione o l'immunizzazione. Sécurité come correlato del “normale” intervento sovrano. La rivendicazione sociale di Sécurité pertanto, non è “rivendicazione di una sfera di libertà sottratta al potere dello Stato, ma equivale al contrario, alla richiesta di un aumento del suo potere di sorveglianza” (60).

Sécurité è la sicurezza sociale. In ciò la differenza di natura tra i due termini, e le due sfere di realtà cui rimandano.

Safety equivale sostanzialmente a Sûreté (dimensione dell'incolumità fisica e patrimoniale, sicurezza personale- intervento negativo), Security (sicurezza esistenziale- intervento positivo) a Sécurité. Residua il termine inglese certainity, che rimanda propriamente, alla posizione di generale certezza rispetto al futuro.

Queste necessarie chiarificazioni “terminologiche” mi permettono di introdurre, a questo punto, la vera issue, anticipata in principio di paragrafo, di questa prima parte della mia analisi.

Mi riferisco alla questione del governo della in/sicurezza, all'assurgere della sicurezza a posta in gioco fondamentale per le diverse razionalità governamentali sopra descritte. È questo il punto di contatto sinaptico, il nesso di cui parlavo sopra. Il Welfare State è, almeno in alcune sue componenti, estensione e approfondimento dello Stato Protettore classico, è il risultato di un processo di radicalizzazione e correzione (61) dei meccanismi di sicurezza del secondo.

La sicurezza che garantisce lo Stato Protettore, infatti, è in principio configurabile come Safety- Sûreté, ma attraverso quei processi di radicalizzazione verrà a strutturasi, sarà qualitativamente convertita, in Security-Securité. La radicalizzazione consiste, storicamente, nel fatto che i diritti economici e sociali (futura base giuridica del Welfare State) appaiono, a partire dalle rivendicazioni del movimento democratico ed egualitario settecentesco, estensione naturale dei diritti civili (delle libertà negative, quelle della Sûreté). Se il vero cittadino non può essere che proprietario, bisogna fare di tutti i cittadini che non lo sono una sorta di proprietari, cioè istituire dei meccanismi sociali che diano loro un equivalente (sarà la Securitè-Security) della sicurezza e della tutela che la società garantisce alla proprietà (Sûreté-Safety). Il movimento democratico settecentesco non farà altro che rivendicare i diritti completi della cittadinanza per tutti gli individui, il diritto di voto ma anche il diritto alla protezione economica, sia esso garantito dalla proprietà reale o da meccanismi che ne sostituiscano gli effetti.

Quello che voglio dire, è che il rapporto di continuità che intercorre tra Welfare State e Stato Protettore consiste nel passaggio dalla sola garanzia della Sûreté-safety, attraverso apparati giuridici, alla produzione di Securité-Security, attraverso politiche lato sensu sociali, consiste nella transizione tra paradigmi di sicurezza. Questo ovviamente non significa che non permanga un “residuo” di produzione di Sûreté-Safety (si pensi al tema centrale della garanzia dell'ordine pubblico), significa invece che l'offerta qualitativamente limitata di sicurezza dello Stato Protettore ad un certo punto, progressivamente, inizia ad articolarsi in qualità, si diversifica in opzioni, si arricchisce, offrendo al Welfare State moderno un primo, solido “punto d'ancoraggio”.

Considero un ulteriore punto di connessione. Si pensi a come funzionalmente la tecnologia assicurativa non sia altro che un complemento, una variante della mano invisibile (62) (concetto base dell'economia e della politica della governamentalità proto-liberale). In entrambi i casi, si ha produzione di un ordine globale fondato sulla sola ricerca degli interessi personali. L'assicurazione, come la mano invisibile, produce i medesimi effetti di una benevolenza certa; ciascuno quando si assicura contro i rischi, pensa unicamente al proprio interesse e ne risulta un finanziamento collettivo degli infortuni individuali.

Passando alla concettualizzazione dei rapporti di continuità tra Welfare State e governamentalità liberale, ci si imbatte anche in questo caso, nel contatto sinaptico costituito dalla questione sicurezza, declinata in termini parzialmente diversi rispetto a quanto esposto in relazione al rapporto Welfare State-Stato Protettore.

Ho già detto di come la governamentalità liberale tenda a favorire e a produrre libertà, intesa come variabile sulla quale si può agire per ampliarla e differenziarla (63). D'altro canto l'arte governamentale liberale naturalmente consuma determinate libertà, nel mentre ne produce e organizza altre. Il liberalismo incentiva la libertà di mercato provocando però un'eccessiva concentrazione monopolistica della proprietà; stimola un aumento indefinito dell'offerta di lavoro, ma non regola la domanda dell'impresa, generando disoccupazione e riducendo l'associazione libera dei lavoratori. In questo modo, il liberalismo per fare spazio a determinate libertà è costretto a comprimerne o a distruggerne altre.

Il problema emergente è allora quello dei costi della libertà, è, ancora una volta, il problema della sicurezza. La sicurezza è “il criterio per calcolare il costo di produzione della libertà” (64), mentre il problema sicurezza è il problema di

“determinare in quali esatte proporzioni ed entro quali limiti, l'interesse individuale e i diversi interessi individuali, possono diventare un pericolo per l'interesse di tutti. Il problema della sicurezza è dunque quello di proteggere l'interesse collettivo contro gli interesse individuali” (65).

Dalla seconda metà del XIX secolo si assiste ad una proliferazione di iniziative per la conoscenza e neutralizzazione dei pericoli prodotti dalla stessa meccanica degli interessi. L'adozione di strategie di scurezza relative all'igiene, alla malattia, alla sessualità, richiede la stimolazione della percezione del pericolo, realtà che è condizione imprescindibile del liberalismo (66). Il controllo degli effetti negativi della libertà raggiunge l'akmé istituzionale e politica, con il New Deal. Il New Deal è, in apparenza paradossalmente, momento di rilancio nella storia della governamentalità liberale, così come prima strutturale progettazione di Welfare State moderno. Interventismo, promozione di meccanismi di regolazione del ciclo economico, strumenti di gestione sociale capillari. La politica di Welfare del New Deal fu una maniera di garantire e produrre libertà del lavoro, politica, di consumo, al prezzo dell'interventismo statale sempre più pervasivo. In definitiva, la “risposta” strategica alla crisi permanente di governamentalità liberale, frutto del “rapporto triangolato” tra la tensione verso il governare meno, il meccanismo produzione/consumo della libertà e il conseguente problema della sicurezza, sembra essere proprio il Welfare State. Una risposta interna, che riposa sulle contraddizioni implicite del liberalismo. Welfare State come soluzione, apparentemente paradossale, all'insicurezza, al pericolo, inevitabile prodotto di scarto (e al contempo risorsa vitale) del liberalismo.

Tutto ciò è presente nell'elaborazione foucaultiana di fine anni Settanta, anche se non integralmente sviluppato nelle sue conseguenze. L'obiettivo di Foucault, come risaputo, era impostare la questione del rapporto, prima facie contraddittorio, tra liberalismo e il grande rilievo dell'amministrazione e gestione politica della popolazione. Su questo schema oggi è possibile innestare, proseguendo, forse radicalizzando il discorso foucaultiano, la continuità tra governamentalità liberale e Welfare State. Il liberalismo, per superare la sua crisi ontologica, si ribalta nel suo opposto? Un rapporto configurabile come una specie di nietzscheana opposizione estatica (67)? Non credo sia questo il modello. Non si tratta di ribaltamento né di opposizione, neanche estatica. Si tratta piuttosto di una “continuità”, ripeto, di un isomorfismo di base.

Sarebbe possibile individuare altri contatti sinaptici, forse ancillari rispetto a quello appena descritto. Mi soffermo solo su di uno. Si potrebbe ravvisare un legame nella natura del Welfare State come apparato istituzionale animato da un programma di intervento illimitato.

La dinamica del Welfare State poggia sull'idea di liberare la società dal bisogno e dal rischio (“freedom from want” (68)), su questo programma si fonda la sua legittimità. Tale programma è illimitato perché consiste nella trasposizione in linguaggio economico, della questione politica del perseguimento della felicità (69). Il fatto è che non ci sono norme oggettive per fissare un livello di vita minimo che corrisponderebbe alla soddisfazione dei bisogni essenziali e primari:

“il liberalismo si preoccupa innanzitutto dei limiti che l'azione di governo deve porsi, ma non è mai in grado di individuare stabilmente questo limite che il governo deve darsi. E quindi il limite si sposta in continuazione perché il liberalismo non trova mai il criterio attraverso il quale identificarlo e imporlo” (70).

Non ci sono norme oggettive, ma ci sono dispositivi di normalizzazione.

Anche la governamentalità liberale ha il suo programma illimitato. Trattasi della tensione interna verso il limite dello Stato, la ricerca illimitata del limite dell'azione governamentale. È, in sintesi, il problema del “si governa sempre troppo”.

3. La funzione biopolitico-normalizzatrice del Welfare State: come si fabbricano soggetti e bisogni sociali

Ho cercato finora, di descrivere come nel contesto della razionalità liberale si sviluppi una cultura del pericolo che “stimola” la produzione di una rilevante quantità di procedure di controllo e coercizione, investendo lo Stato di funzioni nuove, di una funzione nuova: la funzione biopolitico-normalizzatrice. È emerso, attraverso l'individuazione del termine di mediazione del governo dell'in/sicurezza, come le tecnologie assicurative, di protezione sociale, assistenziali del Welfare State, altro non siano che lo sviluppo, coestensivo, dei dispositivi biopolitici di sicurezza, di presa in carico della vita, la cui esigenza germina nella stessa dinamica governamentale liberale. Lo strumento, non l'unico ma probabilmente il principale, attraverso il quale è possibile la gestione della sicurezza, intesa, lo ripeto, come Security-Securité, sembra essere proprio il dispositivo biopolitico-normalizzatore. Questo stesso strumento funziona e si atteggia, nella struttura e nella forma, in maniera simile all'interno delle diverse, ma poi non così distanti, razionalità governamentali nelle quali è immerso, rappresentandone un evidente elemento di continuità.

La prima questione, è capire ora cosa si intende analiticamente con l'espressione dispositivi biopolitici. Per svolgere questa comprensione è necessario fare un passo indietro, cercando preliminarmente di analizzare la categoria di biopolitica in rapporto con disciplina e società disciplinare, grandezze strettamente collegate nella riflessione foucaultiana, articolandosi l'una sull'altra.

La società disciplinare è la società nella quale il controllo sociale viene costruito attraverso una rete sociale ramificata di dispositivi che producono e controllano costumi, abitudini e pratiche produttive. In questa società l'ordine sociale, si ottiene tramite istituzioni disciplinari - la prigione, la fabbrica, il manicomio, l'ospedale, l'università, la scuola, ecc. - che strutturano il terreno sociale e producono individualmente soggetti conformi all'ordine sociale, corpi docili (71) come direbbe Foucault. Il potere disciplinare governa strutturando i parametri e i limiti di pensiero e di pratica, sanzionando e/o prescrivendo i comportamenti devianti e/o normali.

Il codice (nonché strumento d'elezione) delle istituzioni disciplinari è la norma, non il diritto. La norma, non è la legge, la sua formulazione è diversa, il suo ambito di riferimento è variabile, può riguardare i gruppi e gli individui, singole azioni o classi di azioni e i suoi effetti sono forme di gerarchizzazione sempre più serrate e sottili:

“con la normalizzazione si tratta di ottenere una gerarchia di individui più o meno capaci: chi si comporta in base ad una certa norma, chi devia, chi può essere corretto e chi no, chi può essere corretto con determinati mezzi e quello per il quale occorre impiegarne degli altri” (72).

La norma qualifica e corregge a tutti i livelli della sua socializzazione: esclude nella misura in cui trasforma, forma nello stesso tempo in cui modifica positivamente.

Le discipline secondo Foucault, a partire dalla prima metà del XVII secolo, si distendono come una fitta rete di forme organizzative operando il modellamento dei corpi distribuiti in spazi codificati (eserciti, manifatture, collegi, ospedali, ecc.).

Le discipline si propongono di aumentare la produttività dei corpi e dei gesti di determinate molteplicità umane mediante un'analitica e una dinamica delle forze, con l'accoppiamento tra i corpi e i mezzi di produzione e di distruzione, con esercizi, addestramenti, esami e valutazioni al fine di generare corpi docili. Contestualmente, le discipline elaborano una conoscenza esaustiva dell'individuo sottoponendolo a svariate modalità di sorveglianza, inscrivendolo in reticoli spazio-temporali regolati da gerarchie, e controllandone l'evoluzione del comportamento con le scritture più diverse (registri, verbali, ispezioni, ecc).

Nella seconda metà del XVIII secolo, le discipline si combinano con una nuova tecnologia di potere, la regolazione, da cui discenderà la biopolitica moderna:

“Si tratta di una tecnologia di potere che non esclude la prima cioè la tecnica disciplinare vera e propria, ma che piuttosto la incorpora, la integra, la modifica parzialmente e che soprattutto la utilizza installandosi in qualche modo al suo interno, giungendo a radicarsi effettivamente grazie a questa tecnica disciplinare preliminare. La nuova tecnica non sopprime la tecnica disciplinare per la semplice ragione che essa si situa ad un altro livello, si colloca su di un'altra scala, possiede un'altra superficie portante e ricorre a strumenti del tutto diversi” (73).

Se la disciplina si occupa del corpo individuale, la biopolitica è il dispositivo che ne raffina, radicalizza e sviluppa la missione, governando non più e non solo il corpo individuale, ma fenomeni collettivi, la vita biologica in quanto tale, riproducendo e amministrando la vita. La biopolitica, estendendo a livello del biologico la sorveglianza, coinvolge la totalità dei viventi nel meccanismo disciplinare (la popolazione come il campo di incidenza), dissolve le categorie classiche del politico: il pubblico e il privato (74). Conserva, preserva e produce la vita, ottimizza stati di vita, “fa vivere e lascia morire”. Governa mediante la norma, eludendo l'effettiva vigenza della legge, sancendo, di conseguenza, la crisi del diritto come dispositivo per gestire la movimentazione sociale.

Questa caratterizzazione della biopolitica va calata nel contesto specifico del Welfare State, che la rivestirà di significati ulteriori, in linea di stretta continuità con la biopolitica liberale.

La biopolitica del Welfare State, è configurabile come una tecnica di potere assicuratrice e regolatrice, che dispiega una fitta rete normativa su tutto il corpo sociale, fatta di politiche assistenziali e assicurative, una rete normativa che produce soggettività. Tale biopolitica fa della gestione dei rischi l'oggetto stesso dell'azione politica. Il rischio non è più identificato con il male; in una certa misura, esso è positivizzato, è pensato più come una risorsa che come una costrizione (75). Questa nuova dottrina è portata avanti dall'economia politica all'incrocio dei numerosi rami che la costituiscono: calcolo delle probabilità, statistica, teoria della decisione, demografia, elaborazione della nozione di mercato.

La biopolitica del Welfare State mette in azione delle forze appartenenti ai più diversi sottosistemi sociali (76) (legali, legate all'architettura e all'urbanistica, alle funzioni professionali, ai poteri finanziari, burocratici, militari e strettamente politici, ecc) che coordinano delle tecniche analitiche (metodologie statistiche e attuariali, esami, valutazioni, notazioni, elenchi, rapporti e analisi, relazioni, ecc.) e dei compiti organizzativi (sorveglianze, controlli, test, monitoraggi, sistemi e regole di addestramento, requisiti e vincoli di abilitazione, strutture e procedure di addestramento e di ripartizione nello spazio, ecc).

Ad un maggiore livello di astrazione (e di sintesi), si potrebbe dire che la funzione biopolitico-normalizzatrice del Welfare State, si risolva in una specifica forma di gestione preventiva di conflitti sociali, potenzialmente deflagranti, attraverso la costruzione ed orientamento dei bisogni della collettività, la soggettivizzazione collettiva, il modelling sociale, “integrando” la collettività tramite il doppio registro dell'individuazione e della massificazione.

Ho utilizzato una formula, per questa definizione di funzione bio-norm del Welfare State, un'espressione-chiave, che necessita di un approfondimento ulteriore, mi riferisco evidentemente a soggettivazione/assoggettamento.

Secondo Foucault non è plausibile riferirsi ad una nozione astratta di Soggetto, non è possibile parlare di soggetto ed ignorare il doppio legame tra l'assoggettamento a determinati ordini del discorso/specifiche tecnologie di potere e la soggettivazione, ovverosia il modo con cui le singolarità si percepiscono e si autocostituiscono entro determinate istituzioni (la scuola, la fabbrica, la famiglia, gli uffici, ecc.) e in relazione a specifiche problematizzazioni della condotta (il lavoro, l'educazione, la sessualità, la normalità, la salute, la delinquenza, ecc). Foucault sostiene che il soggetto in sé non esista, che esso al contrario sia una fictio (riecheggiando la lectio nitzscheana), il risultato dell'azione combinata e complementare delle tecnologie di potere, un effetto discorsivo, il prodotto di discorsi a pretesa di verità di cui è l'oggetto.

Specifiche tecnologie di potere e pratiche di veridizione compongono il dispositivo bio-norm del Welfare State. È all'interno dell'articolazione istituzioni/regimi di veridizione del Welfare State, che si forma il soggetto-collettivo, che acquista una posizione nello spazio sociale, che percepisce come proprie certe esigenze, nutrendo certe aspettative, avanzando certe omogenee pretese ...

Le provvidenze del Welfare State contribuiscono quindi, ad un grande mutamento antropologico, ad una serie di nuove soggettivazioni, relative a fenomeni collettivi più che al singolo individuo (come accade invece per la soggettivazione disciplinare): si assiste, con l'ascesa del paradigma welfarista, ad una proliferazione ad libitum di bisogni vitali, i soggetti sono ora in grado di sopravvivere a diversi stati di dipendenza come la disoccupazione, la malattia e gli infortuni ecc. Tali bisogni vitali, la loro natura, la loro struttura, le modalità di soddisfazione, non sono altro che l'esito di una pressione intensa e continua esercitata dalle bio-norme sulla singolarità sociale. Scrive Richard Titmuss:

“Questa è forse una delle principali caratteristiche del ventesimo secolo: un numero sempre maggiore di persone sperimenta in uno o più momenti della propria vita il processo di selezione e l'essere scartati nella scuola, nel lavoro, nell'addestramento professionale, nell'acquisizione di uno status professionale, nell'avanzamento di carriera, nel tentativo di accedere ad un fondo di pensionamento” (77).

Ed è attraverso tali dispositivi di selezione, scarto, qualificazione, che la soggettività sociale conforme (al sistema di socializzazione delle risorse del Welfare State) si costruisce.

La singolarità sociale (intesa come corpo sociale magmatico e indifferenziato, l'uomo-specie foucaultiano) diviene soggettività sociale, esito ultimo di un complesso processo di soggettivazione/assoggettamento collettivo, attraverso il controllo e la dipendenza, conseguenza dell'adesione ad un'identità costruita mediante un sistema di saperi e poteri, di categorizzazioni e di norme, che investono la collettività nella sua interezza fino alle sue più periferiche e anonime articolazioni, nella sua durata e nella sua estensione.

Ma qual è la forma specifica di questi processi di soggettivazione/assoggettamento? Quale la loro composizione, la loro struttura “istituzionale”? Ebbene, l'assoggettamento del Welfare State mi sembra risulti “agito” da un complesso intreccio di meccanismi statali di integrazione e di esclusione sociale. Basti pensare al funzionamento inclusivo/esclusivo dei sistemi assicurativi e previdenziali, alla dipendenza dal sapere medico e, più generalmente, all'oggettivazione del sociale attraverso saperi codificati dalle expertise collegate al Welfare State. Sosteneva Foucault: “L'individuo fruisce pienamente dell'intero dispositivo di copertura solo se è integrato in un gruppo familiare, in un luogo di lavoro, in un ambiente geografico” (78). Ma qual è la nozione di gruppo familiare, quale la sua struttura naturale, in quale lavoro bisogna essere impiegati, per quanto tempo, per poter fruire della copertura? Esiste una nozione “naturale” di famiglia, lavoro, ambiente geografico di residenza? Probabilmente no. Esistono, ripeto, processi di soggettivazione/assoggettamento storicamente e culturalmente determinati, che attraversano e avvolgono reticolarmente il corpo sociale, che lo penetrano fino a diventarvi immanenti, che plasmano un certo ordine sociale, che creano soggettività conforme, prima agendo sul singolo individuo attraverso istituzioni specifiche (meccanismi disciplinari), poi su fenomeni collettivi (dispositivi biopolitici del Welfare State) attraverso interventi complessi., inducendo bisogni vitali, producendo vita.

Un esempio concreto, di come con il Welfare State si profili un nuovo statuto della soggettività, e con quale strumentazione, viene offerto da Robert Castel (79). Il nuovo soggetto si costituisce, secondo il sociologo francese, a partire dal riformismo capitalistico degli anni trenta e dall'inaugurazione dei moderni sistemi di Welfare State, attraverso l'introduzione di “nuovi elementi” nel salario, che “cessa di essere la retribuzione di una mansione” (80). Non è tanto la riduzione del tempo di lavoro, o il primo accesso al consumo di massa sostenuto dall'aumento salariale, la fonte prima dell'assoggettamento biopolitico “salariale”. Il nuovo assoggettamento dei lavoratori è caratterizzato piuttosto, da misure come il finanziamento pubblico del tempo libero: le ferie pagate. Per la prima volta il godimento del tempo viene riconosciuto ai lavoratori manuali: è uno dei primi passi della biopolitica del Welfare State verso la formalizzazione del diritto alla vita, operazione che segna l'abbandono dell'identificazione del lavoratore con la figura del povero bisognoso:

“il suo lavoro finanzia l'accesso alla qualità di uomo in quanto tale [...]. E' una rivoluzione culturale che va al di là del suo carattere di conquista sociale, si tratta di poter cambiare vita e le ragioni di vivere anche solo per qualche giorno l'anno” (81)

Altro esempio pratico di assoggettamento biopolitico, questa volta “sanitario”: la vaccinazione (82). La vaccinazione diviene un elemento dirimente dal punto di vista giuridico e sociale. Il bambino vaccinato è un soggetto abilitato a condurre una vita sociale potenzialmente normale. Le campagne per la vaccinazione obbligatoria e l'uso sempre più massiccio degli antibiotici non riguardano un corpo a cui si associano dei farmaci: i vaccini e gli antibiotici non hanno la funzione di ristabilire una normalità funzionale o fisiologica alterata, bensì costituiscono una nuova organizzazione immunologica dell'organismo, determinano cioè, un nuovo ordine dei rapporti tra corpo e ambiente attraverso la distruzione di un ordine precedente.

A questo punto del discorso, sono forse in grado di rispondere ad alcune delle domande poste in principio di analisi, convalidando l'ipotesi interpretativa allora avanzata. Mi interrogavo, ricordo, su alcune condizioni di funzionamento effettivo del Welfare State, più precisamente la questione fondamentale era: “Com'è possibile che la struttura unitaria e indifferenziata delle chances di vita somministrate massivamente dal Welfare State, soddisfi la globalità delle aspettative sociali?”. La risposta che propongo, consiste allora nei processi di assoggettamento bio-norm, dispositivo che plasma demiurgicamente le aspettative della collettività, che preforma e normalizza le esigenze sociali, nella loro quantità e qualità, prevenendo l'esplosione di conflitti per le risorse “da” Welfare State, dispositivo che, in questo senso, partecipa attivamente al governo della in/sicurezza sociale.

Si può parlare del meccanismo della capitalizzazione o ripartizione nella previdenza sociale, si può propendere per l'uno o l'altro, ma non si discuterà (rectius contesterà) quel meccanismo di protezione sociale che è la previdenza sociale in sé, il suo schema di funzionamento-base anzianità/malattia-risparmio-provvidenza, quasi fosse un dato naturale e immutabile.

Discorso simile per il diritto alla salute, l'obiettivo principale delle tecnologie e dei discorsi della biopolitica novecentesca, posto al centro di una riorganizzazione generale delle politiche assistenziali e assicurative a partire da Beveridge. Qual è lo stato di salute ottimale, l'equilibrio fisiologico da perseguire, cosa si può pretendere dal sistema sanitario nazionale, come lo si può pretendere? È ancora l'assoggettamento bio-norm, il dispositivo che elabora una matrice di unificazione delle preferenze, un linguaggio comune, una koinè per la rivendicazione delle risorse (in questo caso sanitarie). Si chiederà allora un aumento del numero dei presidi ospedalieri o una riduzione del costo dei tickets, ecc. Difficilmente si chiederà una modificazione degli standard culturali della salute fisica, biopoliticamente plasmati, ancor più difficilmente ci si renderà conto delle trasformazioni spesso “involutive”, di tali standard.

Si pensi ad esempio alla transizione, nelle pratiche discorsive di operatori medici ed opinion makers, dalla centralità dell'idea di salute fisica a quella, ben più sfuggente, di benessere fisico o forma fisica, idee che impongono una tensione esistenziale continua verso uno status ontologicamente irraggiungibile, richiedendo precisi investimenti (simbolici e materiali) per il raggiungimento di tale status, investimenti dotati di un chiaro fondamento biopolitico.

Altro standard “sanitario”: la promessa di salute infinita (o “l'impossibilità” della morte). Questa categoria, appare fondamentalmente un'ingiunzione alla collaborazione attiva dal basso dei soggetti a cui si rivolge. Per essere sempre più sani, bisogna essere sempre più vigili sulle minacce che sulla nostra salute continuano a incombere: fare sport, non fumare, evitare le occasioni di contagio, diete, vacanze, vincere lo stress, controlli periodici e terapie preventive...

La promessa di salute infinita, comporta regole “cogenti” e comportamenti predefiniti, che vanno a comporre un dispositivo di responsabilizzazione sempre pronto a rovesciarsi in colpevolizzazione (83): la malattia consegue unicamente all'inefficienza preventiva individuale. Questo trasforma il desiderio di star bene in strategie individuali e collettive di immunizzazione.

La ricerca della salute sconfina continuamente nella ricerca dei modi per evitare il rischio della malattia e del contagio, e il modo migliore per evitare la malattia e il contagio è quello di evitare, tout court, il contatto con gli altri e il normale rischio che qualunque contatto inevitabilmente comporta. Si diffonde la consapevolezza che vivere è mortale (84), ma alla morte si può sfuggire eludendo il contatto interpersonale, evitando l'altro, configurandosi un trend verso la baumaniana società elusiva (85). Difficile reperire esempio più chiaro di come l'investimento sul “bios” abbia diretti effetti sulla “polis”.

Tutto ciò, le richieste preformate, gli standard di riferimento, appare inevitabile, passando sotto la soglia della percezione critica, fatti semplicemente naturali. È impossibile (o quantomeno molto difficile), la variazione qualitativa delle richieste, la modificazione degli standard biopolitici, perché è davvero poco agevole la codificazione e la socializzazione orizzontale di linguaggi “alternativi”. Esiste un preciso, cogente “ordine del discorso” del Welfare State,

“in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità” (86).

Esiste una semantica imperante del Welfare, una ed una sola. Una semantica generativa, ovviamente: il disoccupato, il povero abile, il povero non meritevole, il diversabile, la madre sola ecc., ognuna di queste categorie (biopoliticamente costruite) richiede (e contribuisce a produrre) sistemi di accertamento, misure e servizi, culture e pratiche professionali, criteri di giustizia e giudizi morali densi di riferimenti normativi, ma soprattutto preformati alle esigenze dei destinatari, che non si limitano a sanzionare la “realtà” sociale, la generano, la plasmano, la riproducono. Così si “crea” lo stato di bisogno, la condizione di patologia, di disfunzione, di normalità ... Con terminologia prettamente foucaultiana, si potrebbe altresì parlare di regimi di verità il cui obiettivo è l'assoggettamento, la fissazione tramite un sistema di obbligazioni e divieti, ad una certa identità. Produzione di verità mediante pratiche discorsive elaborate da istituzioni e soggetti qualificati, per la costituzione di asimmetrie e gerarchie che verticalizzano e chiudono lo spazio politico, immunizzandolo da ogni forma di reciprocità e negoziabilità. La forma delle chances di vita (prima di tutto la forma discorsiva di queste), di conseguenza, non è messa in discussione, è quasi incontestabile, perché è essa stessa a determinare le istanze sociali che va a soddisfare: la “risposta” plasma la “domanda”.

Mi chiedevo poi, in principio di capitolo, com'è possibile rendere compatibili con l'ordine politico, interessi disgreganti di intere fasce della popolazione, ad ottenere accesso alla condizione sostanziale di cittadinanza sociale. Coerentemente all'analisi fin qui sviluppata, dirò che è il riconoscimento di diritti sociali (implementati dalle prestazioni di welfare) il fattore di trasformazione di interessi disgreganti in compatibili, la condizione di accesso alla cittadinanza integrale e sostanziale. È attraverso i diritti sociali che il consumatore -soggetto humeano- diventa attore (87) -soggetto razionale-cittadino. Propriamente, è la distribuzione di diritti sociali che corrisponde a tale strategia, assumendo le forme ambigue di una componente essenziale nell'assoggettamento bio-norm del Welfare State.

Ho discusso dell'assoggettamento bio-norm come di un meccanismo inarrestabile, compatto, irriducibile, pervasivo, straordinariamente incidente sul mantenimento di un certo ordine sociale. Ne è emersa la potenza (almeno teorica) e questo ha simmetricamente minimizzato, reso quasi insignificante, l'altro polo del processo, il “bersaglio” dell'assoggettamento: la singolarità sociale. Caratterizzare quest'ultima come un ens passivo, come realtà dall'indefinita plasticità, come statico dell'azione biopolitica, lo zero rispetto all'infinito (88), sarebbe davvero molto poco coerente con la griglia interpretativa finora adottata. In più, probabilmente, correrei il rischio di risolvere la mia analisi del bio-norm del Welfare State, in una riproduzione un po' kitsch e molto poco originale, dei ritratti distopici della società del futuro à la Orwell (89) o à la Huxley (90). Meglio evitare. Come? Si potrebbe ad esempio, pensare foucaultianamente a “conati” più o meno strategici di resistenza, articolati in tattiche locali, contestuali, parziali di micro-opposizione della singolarità sociale. Questa operazione permetterebbe l'introduzione di elementi di reversibilità nel flusso bio-norm, configurandosi ora come un ordine relazionale, una trama complessa di relazioni più che un flusso unidirezionale di potere. Pratiche di resistenza allora. Secondo Foucault ne esisterebbero di tre tipi: resistenza rispetto a forme di dominazione; rispetto a forme di sfruttamento che separano gli uomini da ciò che producono; rispetto alla normalizzazione che vincola l'individuo ad un'identità coatta. Sono evidentemente queste ultime pratiche, ad attirare la mia attenzione. In esse, la contestazione della norma è operazione simmetrica alla politicizzazione di una serie di tematiche, status, forme di sapere. Una prima pratica di resistenza alla normalizzazione da considerare, potrebbe essere la domanda di contro-potere storicamente determinata, di certi gruppi sociali, una domanda positiva di Welfare:

“quella di una previdenza che apra la strada a rapporti più ricchi, più vari, più diversificati e più flessibili con se stessi e con il proprio ambiente, in grado, nello stesso tempo, di garantire ad ognuno una reale autonomia” (91).

Le lotte contro il potere psichiatrico, gli attacchi contro la morale e la gerarchia sessuale, la contestazione della penalità e del sistema carcerario ecc., mostrano quanto intensa sia stata tale forma resistenza proveniente dal basso, nei confronti del massiccio investimento biopolitico dispiegatosi a partire dalla seconda guerra mondiale (92). Si è trattato di rivendicare la vita, piena, non alienata, la soddisfazione dei bisogni e dei desideri, una diversa idea di salute...

Un'altra ipotesi (provocatoria) è che siano configurabili come strategie di resistenza, per così dire passiva, la deresponsabilizzazione parziale o la dipendenza “indotta” dal Welfare State. Si potrebbe sostenere che il dispositivo bio-norm non produca positivamente soggettività deresponsabilizzate (come pure alcuni sostengono), né che queste siano una specie di “residuo fisso” del corretto funzionamento del Welfare State. Si potrebbe negare altresì, che il frame della dipendenza dal Welfare State sia parte attiva dei processi di assoggettamento e moralizzazione del Welfare State stesso (93). Al contrario, quelle soggettività sarebbero concettualizzabili come forme di opposizione strenua ed ineliminabile al processo di assoggettamento, una realtà di resistenza “passiva” appunto, dotata di una sua autonomia, nei confronti della quale si esercita relazionalmente il potere bio-norm, rifrangendosi continuamente.

Mi fermo qui. Piuttosto che diffondermi sulle possibili, differenti strategie di resistenza (argomento comunque dall'indubbio fascino), preferisco considerare, con effetto incidentale di problematizzazione del mito della irriducibile potenza dei dispositivi bio-norm, come a partire da un certo momento tale dispositivo cominci, con evidenza, a dis-funzionare. Gli obiettivi al conseguimento dei quali il dispositivo era preordinato, sfuggono, e questo fallimento produce un potente clangore, la cui eco risuona attraverso la società tutta, con rilevanti conseguenze. Accade qualcosa, qualcosa che è dinamica interna al Welfare State e ai suoi dispositivi biopolitici, che incrina il suo perfetto funzionamento. All'analisi di tale disfunzionamento dedico il prossimo capitolo.

4. Processi Critici

Finora mi sono interrogato e ho provato a suggerire risposte provvisorie, che attengono al perché del funzionamento dei dispositivi bio-norm del Welfare State: perché esiste qualcosa del genere, a cosa serve, quando si sviluppa, all'interno di quale conteso socio-politico ecc. Questa categoria, la sua struttura il suo senso, è stata finora contestualmente, l'elemento da comprendere (explanandum) e l'elemento che ha permesso di penetrare analiticamente altre realtà (explanans). Credo i tempi siano maturi per cambiare obiettivo. È arrivato il momento di indagare il funzionamento reale, nella sua effettività, di quello stesso dispositivo. Non come dovrebbe essere, ma com'è (o com'è stato). Presterò attenzione soprattutto alla dimensione del dis-funzionamento del bio-norm, alle condizioni di insorgenza e alle interferenze di questo dis-funzionamento con l'azione di altri dispositivi deputati formalmente alla regolazione della conflittualità sociale. Mi dedicherò in sintesi ai processi critici del fenomeno bio-norm del Welfare State.

Metodologicamente, la mia ipotesi di lavoro prevede la scomposizione del bio-norm del Welfare State nelle sue componenti prime, che ritengo simmetriche proiezioni delle tre fasi che nella genealogia foucaultiana scandiscono la governamentalizzazione biopolitica della vita: Potere pastorale (fattore critico bio-norm del Welfare State popolazione); Ragion di Stato (fattore critico (de)legittimazione eudaimonistico-sociale del Welfare State); Polizei (fattore di crisi mutamenti strutturali della categoria di rischio).

Nelle pagine precedenti sono pervenuto all'identificazione di un isomorfismo di base tra regimi politici quali lo Stato liberale e il Welfare State, prescindendo deliberatamente da una pedissequa riproduzione del percorso foucaultiano di governamentalizzazione biopolitica della vita, cadenzato dalle tre “fasi” del Potere Pastorale, Ragion di Stato, Polizei. Questo perché il mio obiettivo non era (e non è) la ricostruzione integrale della biopolitica foucaultiana, bensì isolare da quella complessa originale trama teorica ed epistemologica, un'unica componente, un singolo segmento, il comune denominatore dei regimi politici esaminati (la questione governo dell'in/sicurezza), operazione coerente con l'economia del mio studio e con gli obiettivi ultimi che questo cerca di conseguire.

Nelle pagine a seguire opto per un cambiamento di prospettiva, richiamando direttamente le tre “fasi” foucaultiane. Perché tale drastico cambiamento? Come si giustifica?

Mi sembra che la crisi del bio-norm del Welfare State s'inscriva coerentemente nella crisi del paradigma biopolitico tout court, per questo utilizzo le categorie foucaultiane di analisi genealogica della biopolitica, con la loro indubbia funzionalità euristica, per meglio contestualizzare il fenomeno in trattazione (processi critici). A questo punto, allargare lo sguardo, riprendendo complessivamente il discorso foucaultiano sulla biopolitica, è necessario. Esiste una dimensione “pastorale” nel bio-norm del Welfare State, il cui disfunzionamento è dovuto a trasformazioni che investono la popolazione; c'è un residuo, in quel diagramma socio-politico, dell'arte razionale di governo che si esaurisce con l'emergenza storica dei processi di delegittimazione eudaimonistico-sociale del Welfare State. Sono presenti infine, elementi della Polizei, che perderanno efficacia con il superamento della tradizionale tecnologia del rischio.

Questa particolare prospettiva metodologica apre ora, una rilevante questione. Sostanzialmente separerò le tre categorie della biopolitica foucaultiana, collegando ognuna di esse da un fattore di crisi del bio-norm del Welfare State. Non posso eludere allora, la questione della legittimità teorica della “disaggregazione” di ciò che nella lettura foucaultiana è, non semplicemente giustapposto, ma anzi sincronicamente e inscindibilmente legato (le tre componenti). Forse tradisco quella mirabile interpretazione? Ha senso farlo?

Prosaicamente ritengo che tale (ineludibile) tradimento, favorisca una disamina più agevole del complesso fenomeno processi critici del bio-norm del Welfare State, rispondendo primariamente alla forse mediocre esigenza di parsimonia analitica ed efficacia descrittiva.

4.1 Fattore di crisi: Potere pastorale/Popolazione

Cosa intendo dire quando istituisco un ideale legame tra Potere pastorale, popolazione e processi critici del Welfare State? Intendo sostenere, per ora apoditticamente, che il potere pastorale si proietta nella governamentalità del Welfare State fondamentalmente a due livelli: modalità e oggetto dell'esercizio del potere. Modalità come doppio movimento individualizzante e totalizzante del prendersi cura di un oggetto specifico: la popolazione.

Procedo partitamente nell'analisi, cercando di dimostrare progressivamente la fondatezza della tesi sostenuta.

Potere pastorale, dunque. Esso allude a quella modalità di governo degli uomini che, soprattutto nella tradizione ebraico-cristiana, passa per un rapporto stretto e biunivoco tra pastore e gregge. Diversamente dal modello greco o da quello latino, ciò che in essa conta non è tanto la legittimità del potere fissata dalla legge, o il mantenimento della concordia tra i cittadini, quanto la cura rivolta dal pastore alla salvezza del gregge (94). La relazione tra essi è perfettamente biunivoca: come le pecore ubbidiscono senza esitazione al volere di colui che le guida, così questi è tenuto a badare a ciascuna di loro, al punto di mettere a repentaglio la propria. Ma ciò ancora di più connota la pratica del potere pastorale è il modo in cui tale risultato è conseguito: una direzione capillare, pervasiva, collettiva e individualizzata (omnes et singulatim (95)), dei corpi e delle anime dei sudditi. Al centro di tale processo il dispositivo della confessione, strumento formidabile di soggettivazione ed assoggettamento, realizzando un movimento che condiziona il dominio sull'oggetto alla sua partecipazione soggettiva all'atto della dominazione. Confessandosi l'oggetto del potere pastorale è oggettivato nella costituzione di una precisa soggettività:

“E' una forma di potere che trasforma gli individui in soggetti. Vi sono due sensi della parola soggetto: soggetto sottomesso all'altro dal controllo e dalla dipendenza, e soggetto reso aderente alla propria identità attraverso la coscienza o la conoscenza di sé. Nei due casi questa parola suggerisce una forma di potere che soggioga e assoggetta” (96).

Il paradigma del potere pastorale si dispiega nelle sue caratteristiche strutturali e funzionali solo nel momento in cui viene tematizzato dai Padri della Chiesa, negandosi in precedenza (si pensi al Politico di Platone) la riducibilità concettuale del pastorato al potere politico. La tematizzazione cristiana si configurò come moralizzazione del rapporto pastore-pecora/guida-guidati, come affermazione dell'obiettivo di salvaguardia della vita terrena finalizzata a garantire la salvezza ultramondana, come correlativo dispiegamento di dispositivi di estrazione della verità dal fedele.

In questo modo il rapporto guida-guidati assume la struttura della sottoposizione acritica del guidato alla guida, determinata dall'accettazione passiva della “naturale” cogenza della volontà della guida, affermandosi altresì la necessità di produrre conseguentemente la conoscenza dettagliata del suddito attraverso dispositivi sofisticati come l'esame di coscienza e la direzione di coscienza (97), il primo da intendere come affidamento temporaneo al fedele dello stesso controllo interiore esercitato dal pastore con la pratica della confessione, con la quale il fedele esercita direzione di coscienza sul fedele. Queste tecniche di estrazione della verità, orientate verso gli individui e destinate a guidarli in maniera continua e permanente, implicando una forma specifica di conoscenza del fedele, caratterizzano il potere pastorale come potere par exellence individualizzante.

Per Potere pastorale, Foucault intende dunque, a maggiore livello d'astrazione, una forma storica di relazione tra gli uomini, per cui un singolo investito d'autorità si prende cura, come il pastore del suo gregge, di una molteplicità di uomini riuniti in popolazione. Volendo catalogare i tratti fondamentali, quelli che costituiscono il nucleo essenziale e irriducibile, del potere pastorale, sicuramente da considerare sono: la determinazione esogena della legittimità del pastorato (la guida attinge legittimazione dalla volontà divina); orientamento essenzialmente “assistenziale/oblativo”; cura nei confronti di un gruppo di uomini in movimento, più che verso un territorio; guida-pastore come garanzia, conditio sine qua non dell'aggregazione omogenea, dell'unità dei soggetti curati (98).

Da un punto di vista ancor più generale, il paradigma del potere pastorale costituisce uno strumento decisivo di decifrazione della razionalità politica che si afferma attraverso la governamentalizzazione dello Stato moderno: il pastorato, come risulta da quanto appena esposto, si occupa di una molteplicità di individui prefiggendosi la loro salvezza nel loro insieme e individualmente, analogamente lo Stato moderno non avrà come finalità precipua il possesso e la conquista di un territorio e il prelievo delle sue ricchezze, ma la buona gestione delle forze del corpo collettivo.

L'emergere della popolazione come oggetto principale di governo è collegato con la percezione che ciò che sta diventando importante, per la legittimità del potere di un sovrano su di un territorio, è la conoscenza e lo sviluppo delle forze su cui può contare lo Stato, la definizione, implementazione e attivazione di tecnologie razionali di potenziamento, in estensione e durata, delle forze dei singoli Stati. Di questo stato di cose saranno espressioni lo sviluppo di tecnologie diplomatico-militari e la polizia (intesa come complesso di mezzi per il potenziamento statale). Oggetto di queste tecnologie la diade popolazione/ricchezza: dall'arricchimento attraverso il commercio si mira all'aumento della popolazione, e quindi la possibilità di dotarsi di eserciti numerosi e forti.

In questo contesto sarà la popolazione ad apparire come la risorsa fondamentale della potenza dello Stato, riguardo alla quale verranno sviluppate forme specifiche di sapere e tecniche appropriate di amministrazione; d'altra parte oggetto essenziale del sapere e del potere di governo sarà necessariamente lo stesso individuo, nella misura in cui contribuirà alla conservazione e potenziamento dell'insieme. Di qui l'importanza della modalità duale di esercizio di questo potere: individualizzazione e totalizzazione. Di qui anche l'assurgere della vita, della salute, del benessere materiale e morale di tutti e ciascuno a riferimenti centrali delle pratiche di governo.

La biopolitica si caratterizzerà proprio mediante tale duplicità di esercizio modale del potere, al contempo individualizzante (tipico delle tecnologie disciplinari applicate ai corpi singoli) e totalizzante per la regolazione dei fenomeni biologici della popolazione.

E veniamo allora a descrivere, seppur in sintesi, taluni aspetti di quel particolare protagonista dell'esercizio del potere pastorale (e simmetricamente del bio-norm del welfare state): la popolazione.

“ [...] La popolazione non è la semplice somma dei soggetti che abitano un territorio, una somma che sarebbe il risultato della volontà, da parte di ciascuno, di aver dei figli o di una legislazione che favorirebbe o scoraggerebbe le nascite. La popolazione è una variabile dipendente da un certo numero di fattori che non sono esclusivamente naturali (il sistema delle imposte, l'andamento della circolazione monetaria e la ripartizione del profitto sono determinanti essenziali del tasso di popolazione” (99).

Dagli inizi del XX secolo, il concetto di popolazione designa una variabile indipendente dalla quale dipenderebbero tutte o quasi, le trasformazioni sociali (100). La ridefinizione della categoria di popolazione nel linguaggio scientifico e pubblico agì in una duplice direzione. Da un lato spostava il fondamento dell'ordine sociale dal contratto tra individuo e società alla sorveglianza della regolarità biologica, economica e politica dell'evoluzione dei fenomeni sociali a livello di massa. Dall'altro neutralizzava il potenziale sovversivo della struttura sociale offerto dalla “folla” imbrigliando nel determinismo biologico l'energia dissolvente delle norme sociali manifestata dagli individui equalizzati dalla massa. La separazione teorica dei concetti di “popolo” e di “popolazione” segnava quindi l'abbandono sia del contrattualismo sia del volontarismo antipositivista, per approdare ad una visione organicista della società e del “sociale” (101).

Era ora possibile prevedere i comportamenti individuali e collettivi sulla base di indicatori macrosociali relativi ai cambiamenti esterni ed interni dell'organismo sociale. Controllare la densità e le qualità fisiche, psicologiche e morali del corpo sociale, prevedere e guidare la normalità di sviluppo dell'organismo, inferita sulla base di stime statistiche e misure globali, significa rinforzare l'equilibrio omeostatico della società in generale.

L'intervento sulla popolazione ricopre ineludibilmente un ruolo biopoliticamente rilevante, si pensi alla regolazione dei flussi migratori e le politiche di sostegno alle famiglie, tese ad aumentare il tasso di natalità degli autoctoni.

Nella prospettiva foucaultiana, la popolazione consiste di un insieme di elementi che, da un lato, è collegato al regime generale degli esseri viventi e dall'altro può essere visto come il punto di applicazione di interventi concertati (102). Le tecnologie biopolitiche non configurano la popolazione come un insieme di soggetti di diritto e neppure come agglomerato di forza-lavoro. La popolazione è lo spazio di azione della sinergia “regolativa” tra discipline e governamentalità:

“se si guarda la popolazione come composta da individui uti singuli è il campo in cui si dispiegano le tecnologie disciplinari, se la si guarda nella sua complessità è l'oggetto delle tecnologie di governo informate dall'economia politica. Laddove la disciplina individualizzava per identificare e garantire l'ordine dello spazio epistemico e sociale, il controllo governamentale serializza per garantire la permanenza coerente, l'integrazione del sociale” (103).

Le due figure di esercizio di potere sulla popolazione ancora una volta non sono giustapposte: il controllo governamentale sussume in sé la disciplina integrandola, e producendo la doppia morsa biopolitica dell'individualizzazione/serializzazione (104). Per popolazione Foucault non intende allora un popolo, l'insieme di abitanti dello Stato-Nazione, ma, in sintesi, identità collettive costruite dal potere per assicurare produttività e potenziamento dello Stato.

In che senso la popolazione, la cui centralità per il bio-norm del Welfare State è concettualizzabile come proiezione della ratio pastoralis su tale regime politico, partecipa ai processi critici del bio-norm del Welfare State? La tesi fondamentale, è che oggi la governamentalità biopolitica del Welfare State, cessa di essere modalità di governo delle popolazioni, a causa delle trasformazioni qualitative che investono intensamente quella soggettività collettiva.

In verità, storicizzando l'analisi, sarebbe possibile distinguere almeno tre definiti campi di incidenza della biopolitica. Il primo “bersaglio” d'elezione può essere considerato (come già argomentato) la popolazione, in senso “foucaultiano”. Popolazione come oggetto fondamentale in riferimento al quale si realizza la totalizzazione biopolitica, così come il singolo è oggetto del livello individualizzante dell'esercizio del potere disciplinare. Progressivamente il bersaglio dell'azione biopolitica si sposta: dalla popolazione all'ambiente. Ambiente inteso come uno spazio di relazioni dinamiche tra elementi ed eventi naturali ed artificiali, piuttosto che mero contesto esterno della molteplicità degli uomini da governare biopoliticamente (105). La governamentalità smette di regolare la popolazione, assumendola come complesso di individui che come atomi in continuo movimento, devono essere “lasciati fare”, concentrandosi invece sul Soziale Umwelt, sull'ambiente in cui essi vivono. Il governo della popolazione cede il passo ad un governo mediato, operando sull'ambiente, come humus delle relazioni di mercato, agevolando il libero dispiegarsi delle dinamiche dello scambio, la valorizzazione o la svalutazione delle risorse disponibili, la concorrenza. L'azione di governo mira all'ottimizzazione delle condizioni facilitanti il libero agire di un soggetto, non disciplinabile, ma sensibile alle variazioni delle opportunità strutturali offerte dall'ambiente in cui opera (106).

Il passaggio successivo è la configurazione dell'ambiente come mercato, il moloch neoliberista (terza fase). Nel momento in cui il mercato diventa il frame di operatività (e senso) dello Stato, esso esclude del tutto la possibilità di prendersi cura della popolazione (107). Le persone circolano rapidamente come le risorse finanziarie: questo comporta il superamento dei lentissimi meccanismi disciplinari ma anche di quelli biopolitici più lenti rispetto alla velocità del mercato.

Paradossalmente l'avverarsi della previsione foucaultiana del mercato come luogo di veridizione delle politiche, fa venire meno la nozione che lo studioso francese pone al centro della sua analisi (108). Oggi lo Stato non è in grado do governare la popolazione in senso foucaultiano. La manipolabilità delle popolazioni è aumentata a dismisura, lo Stato può limitarsi a selezionare la popolazione, attraverso meccanismi esclusivi/inclusivi individuare attori adatti al mercato, prescindendo dai dispositivi disciplinari: “non è necessario produrre cittadini ‘buoni’ o imprenditori ‘utili’: basta selezionarli” (109).

Il venir meno della convinzione che la popolazione sia una risorsa data che va presa in carico e curata per potenziare lo Stato, comporta un decremento d'importanza del biopotere, emergendo, infatti, una società in cui la politica rinuncia alla presa in carico individualizzante e totalizzante, o a predisporre l'ambiente, dedicandosi invece quasi esclusivamente al filtro e alla selezione (110).

Sintetizzando: tre “bersagli” biopolitici in successione storica: individuo-popolazione-ambiente. Quando il mercato s'identifica con l'ambiente, il modello biopolitico, in particolare la sua versione welfarista, esaurisce parte fondamentale di quella ratio pastoralis che l'animava, emerge impietosa, la crisi.

È evidente come questo, per l'economia del mio studio, rappresenti un dato particolarmente rilevante. Il displacement appena descritto comporta naturalmente una variazione intensa circa la dimensione pastorale della biopolitica, al contempo rappresenta un fattore critico per il bio-norm del Welfare State. Viene infatti meno, il riferimento unico e fondamentale della tecnologia welfarista: la popolazione, come agglomerato umano sussumibile (e razionalizzabile) entro i clusters statistici dell'assicurazione, emergendo lo spazio fisico-sociale dell'ambiente, anch'esso destinato poi a divenire evanescente oggetto dell'azione biopolitica, una volta surrogato dal mercato intangibile.

Il Welfare State, si trova dunque di fronte ad una sorta di rivoluzione sociologica (111). I suoi soggetti non sono più gli stessi. Attrezzato per gestire i problemi di popolazioni relativamente omogenee, di gruppi e di classi coese, deve oggi confrontarsi con la società atomizzata dominata dal mercato. È utile ricordare come il Welfare State, da sempre abbia sovrapposto tre elementi: gruppi di riferimento, sistemi di regole e prestazioni mirate, operatori sociali specializzati (112). L'identificazione della popolazione di riferimento, definita in termini statistici, giuridici e amministrativi per divenire oggetto d'intervento pubblico, rappresentava la prima fase dell'intervento Welfare State. Questa prima operazione risente oggi di quelle fortissime trasformazioni sociali, provate a descrivere qualche riga sopra.

Dicevo dell'emersione di nuovi “soggetti sociali” (113). Con sguardo “fenomenologico” potrei citare, a titolo puramente esemplificativo, i disoccupati di lunga durata. Nessuna caratteristica permette di identificare a priori quale mercato è quasi definitivamente chiuso per tali soggetti. Probabilmente le caratteristiche oggettive non possono essere separate da variabili esplicative biografiche: la storia individuale più che la sociologia e la statistica, appare mezzo più adatto per scandagliare il sociale. Analogo discorso per le famiglie sovranindebitate, per la popolazione migrante ecc.

Oltre la macrovariabile del mercato per spiegare crisi del bio-norm del Welfare State è necessario allora, l'integrazione del fattore umano, accennare a chi il mercato lo vive, meglio: lo subisce. Tali soggetti sociali non rappresentano popolazione nel senso tradizionale dell'assistenza sociale, non sono neppure un gruppo sociologico: condividono solo un profilo biografico, statisticamente sfuggente, poco assicurabile.

4.2 Fattore di crisi: Ragion di Stato/Legittimazione/Sicurezza

Per Ragion di Stato Foucault intende una particolare arte razionale di governo, una razionalità specifica nell'arte di governare gli Stati, che traduce e determina il progressivo spostamento del potere dall'esterno all'interno dei confini di ciò su cui si esercita (114).

Quest'arte non corrisponde all'imitazione del governo della natura da parte del re, bensì verte su principi utili alla guida del governo concreto: né natura, né sue leggi in generale e nemmeno conformità all'ordine generale del mondo, ma governo conforme alla potenza dello Stato e delle sue esigenze. La lettura foucaultiana della Ragion di Stato diverge, da un'ulteriore, autorevole tradizione, quella machiavelliana. Mentre ancora il principe machiavelliano conservava una relazione di singolarità e di trascendenza nei confronti del proprio principato, mentre lo sforzo del principe era proteso unicamente verso il rafforzamento del legame con lo Stato, l'arte di governo razionale, s'interessa esclusivamente dell'esistenza pura dello Stato, della sua natura, del suo rafforzamento singolare, inducendo caratteristicamente, un doppio movimento di immanentizzazione e pluralizzazione (115). Da un lato, infatti, il governo non si rapporta più circolarmente a sé stesso (autoconservazione e ampliamento dei propri assetti), ma alla vita di coloro che governa, nel senso che suo obiettivo precipuo è, oltre l'obbedienza incondizionata, il benessere dei governati. Esso aderisce internamente alle esigenze dei governati, inscrive il proprio operato nei processi vitali, trae la propria forza da quella dei sudditi. Per fare ciò per raccogliere e soddisfare tutte le richieste che gli arrivano dal corpo della popolazione, esso è costretto a moltiplicare le proprie prestazioni in spazi disparati. Di qui il doppio movimento: verticale, dall'altro verso il basso, congiungendo oikonomicamente sfera statale a quella familiare, ed orizzontale, relazionando pratiche e linguaggi in forme di amplificazione di prestazioni e rendimenti (116).

Foucault isola un ulteriore aspetto peculiare della Ragion di Stato: la costituzione di un certo tipo di conoscenza (presupposta dall'arte di governo razionale). “Il governo è possibile solo se si conosce la potenza dello Stato; è così che può essere conservata” (117). È necessaria la costruzione di un sapere concreto, rigoroso, esatto circa la potenza dello Stato, una conoscenza come la statistica o aritmetica politica, ovverosia la conoscenza delle forze rispettive dei diversi Stati.

Questa breve disamina della categoria della Ragion di Stato nella semantica foucaultiana, e del suo utilizzo euristico, dovrebbe rendere intuitivo il nesso che essa intrattiene con quel particolare diagramma di regolazione sociale che è il Welfare State. La mia tesi è che l'auto-potenziamento dell'arte razionale di governo, si traduca nel Welfare State, nella tendenza strutturale di questo regime socio-politico, alla habermasiana colonizzazione statale della lebenswelt (118). Di cosa si tratta? Si potrebbe dire che Welfare State tenda a pervadere sfere di esistenza che obbedivano a leggi proprie di una razionalità pratica di ordine morale ed estetico provocando così, un impoverimento delle possibilità di espressione e comunicazione che restano comunque necessarie anche in società complesse, affinché gli individui possano imparare a ritrovare sé stessi, ad affrontare e a regolare i conflitti collettivi. La trattazione di materie culturali in termini amministrativi ha come ulteriore conseguenza, che contenuti e norme consolidate della tradizione che rientravano tra condizioni culturali marginali del sistema politico, vengono tematizzate pubblicamente scuotendo le strutture vitali per il sussistere di una sfera pubblica spoliticizzata.

A tutti i livelli, la pianificazione amministrativa produce effetti di turbamento e di pubblicizzazione (non intenzionali), che indeboliscono il potenziale giustificatorio delle tradizioni, costrette ad abbandonare la loro spontaneità. L'effetto è il logoramento prima, la dissoluzione poi della capacità di affrontare autonomamente conflitti sociali e collettivi, di auto-organizzazione sociale. Ciò che prima era affidato alla riflessione e alla comunicazione inter-soggettiva indifferenziata o ad autorità con carisma, nel quadro di una più o meno generale regolazione endogena dei conflitti, viene ora considerato compito specializzato di élites esperte ed istituzioni specializzate. All'avanzare della pianificazione amministrativa di Welfare State anche nella sfera dell'intimità e familiarità, consegue la distruzione o corrosione delle basi culturali tradizionali dei processi consensuali spontanei di regolazione dei conflitti.

Ciò che prima veniva ottenuto in termini di dovere morale, secondo norme di senso comune tradizionale più o meno sacralizzate, oggi diviene oggetto di negoziazione con lo Stato. Di conseguenza il consenso si produce e riproduce sempre più affidandosi a pratiche transazionali privato-pubbliche, anche per la politicizzazione di ambiti privati.

Il consenso, in breve, invece che essere generato spontaneamente (119), sulla scorta delle tradizioni culturali e morali, o per via razionale e discorsiva, promana da risarcimenti conformi al sistema (120), distribuiti dallo Stato secondo regole di mediazione compromissoria tra portatori di interessi. I risarcimenti conformi al sistema dovranno compensare le legittimazioni mancanti. Il problema ovviamente si pone quando le pretese di risarcimenti conformi al sistema aumentano più rapidamente della massa di valori disponibile, o quando s'ingenerano aspettative impossibili da soddisfare con risarcimenti conformi al sistema, in questo caso la crisi di legittimazione è inevitabile.

L'intervento del Welfare State, con i connessi aspetti di pianificazione amministrativa della vita, tende sempre più sul terreno della transazione, a sostituirsi a gradazioni di esperienze e di corpi sociali intermedi tra lo Stato centrale e i singoli mondi vitali (121). Ambiti di vita che un tempo erano lasciati alla autoregolazione della sfera privata e tradizionale, o di autonomi gruppi sociali intermedi tra pubblico e privato sono ora aree coperte da interventi pubblici (quelli del Welfare State) per prestazioni, prelievi e controlli sempre più consistenti, capillari e poco efficienti. Effetto ultimo è la colonizzazione (rectius: la sterilizzazione) dei mondi vitali.

Qui s'inserisce coerentemente la questione del processo di graduale delegittimazione .del Welfare State. Se l'arte razionale di governo è par exellence, auto-potenziamento/rafforzamento singolare dello Stato, elemento costitutivo della governamentalizzazione biopolitica, proiettandosi nel bio-norm del Welfare State come tendenza alla colonizzazione amministrativa della lebenswelt, per espandersi e penetrare la società civile, mi chiedo come sia possibile che tale auto-rafforzamento “funzioni” in assenza di legittimazione sociale. Se è vero che non è la coercizione/repressione degli apparati di Stato, ma al contrario è la stimolazione dell'autoproduzione/normalizzazione del corpo sociale, la democratizzazione della sovranità a fondare il discrimen tra governamentalità biopolitica e paradigmi di potere sovrano classico, mi chiedo come sia possibile eziologicamente tale auto-potenziamento in presenza di un deficit legittimazione (che scopre evidentemente i limiti dell'assoggettamento bio-norm del Welfare State). Mi chiedo come sia possibile la statalizzazione del biologico, in un contesto di delegittimazione statale.

Può essere utile a questo punto ripercorrere brevemente le fasi fondamentali dell'emergenza storica ed evoluzione del processo di delegittimazione del Welfare State, prima ancora cercare di spiegare il significato dell'espressione delegittimazione.

È evidente che non avanzi alcuna pretesa di esaustività con questa analisi, non provo nemmeno a definire una mappatura generale della “crisi” di legittimazione del Welfare State. Intendo solo individuare alcune, specifiche “componenti” di tale complesso fenomeno. Mi rifarò soprattutto a sue declinazioni sociologiche e socio-politiche.

Muovo dalla considerazione elementare, di weberiana memoria, che lo Stato necessita di “riconoscimento” da parte dei membri della società, riconoscimento mediante il quale ottenere la propria legittimazione. Max Weber com'è noto, individua tre tipi di legittimazione: carismatica, tradizionale e legale-razionale (122). Nel terzo tipo che è ritenuto proprio dello Stato moderno, la ragione della doverosità dell'obbedienza dei cittadini nei confronti dello Stato risiede nella validità dei comandi, emessi in base a regole generali, le quali sono state elaborate secondo precise procedure.

È questa la legittimazione alla base del Welfare State? Sembrerebbe di no. La natura della legittimazione si è andata modificando sino a rendere desueta la tassonomia weberiana (123). La legittimazione legale-razionale va incontro ad un progressivo indebolimento legato ad innumerevoli fattori, tra questi meritano menzione: la fragilità motivazionale di un riferimento puramente formale e procedurale alla correttezza di regole privo di contenuto valoriale; la perdita di efficacia di manifestazioni istituzionali propri della razionalità legale; l'emersione di nuovi soggetti rappresentativi di forze sociali, inosservanti regole procedurali.

Di fronte a questa prima crisi di legittimità (legale-razionale) gli Stati cercarono nuove fonti di riconoscimento sociale. Qui rileva in specie, la proposizione dello sviluppo tecnologico-industriale come valore in sé e per sé, come giustificazione ulteriore della fluidificazione dei confini Stato/società (124). La fonte del consenso sarà la promessa delle prestazioni (redditi/servizi) ai cittadini. È questa la nuova forma di legittimazione del Welfare State, che con Arnold Gehlen, chiamerò eudemonistico-sociale (125). Gehlen con questa densa espressione indicava un tipo di legittimazione basata sulla capacità dello Stato di assicurarsi il riconoscimento da parte dei cittadini, garantendo un flusso di beni e servizi crescenti, per garantire uguaglianza.

Quando riferisco del deficit di legittimazione del Welfare State, parlo di un processo di arretramento dei livelli di tale legittimazione, che credo possa essere colto, considerandolo da due punti di osservazione distinti. Due le coordinate fondamentali da considerare: il dubbio radicale sull'uguaglianza e la destituzione di senso della solidarietà sociale, questioni strettamente collegate, che si implicano mutuamente.

L'emergere di una domanda radicale sul senso della dinamica egualitaria del Welfare State, è la prima questione di straordinaria importanza, che provo ad esaminare.

La domanda fondamentale che ci si pone, in maniera più o meno manifesta, a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo passato è: “L'eguaglianza è davvero un valore che ha ancora avvenire?” (126). Eguaglianza è fattore di potenziamento razionale del Welfare State?

L'uguaglianza ha funzionato senza problemi finché si trattava di tradurla in una norma giuridica, civile. Non è stato più così da quando si è trattato di conferirgli una dimensione sociale ed economica, da quando un intero apparato istituzionale ispirato da una precisa razionalità socio-politica ha assunto quel conferimento come obiettivo supremo, la propria raison d'etre. Innanzitutto perché veniva ad aprirsi un campo sconfinato all'attuazione dell'uguaglianza (il programma illimitato), sfera che non cessava di dilatarsi. La domanda di eguaglianza civile e politica si traduce nella determinazione di una norma identica per tutti, il suo scopo è l'abolizione radicale delle differenze di posizione civile e politica. La domanda di eguaglianza economica o sociale (quella cui cerca di rispondere il Welfare State) si presenta sotto un'altra forma: si esprime come volontà di riduzione delle disuguaglianze. In relazione a tale istanza si sviluppa un forte dubbio. Pur vivendo in una società del rischio generalizzato, il singolo non riesce più a percepirsi come possibile destinatario delle provvidenze dello Stato sociale, dell'azione di livellamento delle disuguaglianze. E allora, perché mai destinare stanziamenti per l'adozione di misure di protezione sociale di cui non si sarà mai oggetto?

Emerge a questo punto, con evidenza, la seconda coordinata da considerare. La crisi intellettuale che investe il Welfare State. Essa consiste in una crisi di solidarietà complementare al dubbio radicale sull'uguaglianza. Anche questo è fattore di depotenziamento/delegittimazione dell'apparato statale.

Il Welfare State in quanto operatore centrale di redistribuzione e di organizzazione di solidarietà, funziona come una grande intercapedine istituzionale (127), sostituendosi al rapporto diretto tra individui e tra gruppi. Isolata dai rapporti reali che la strutturano, l'organizzazione della solidarietà attuata dal Welfare State, diventa sempre più astratta, verificandosi un vero occultamento dei rapporti sociali. Quando l'individuo è separato dalla società si trova di fronte una serie di pericoli, tra cui anche l'estinzione, cui non può far fronte da sè stesso. La separazione dalla società quindi, impone all'individuo insopportabili tensioni psicologiche, tensioni che hanno il loro fondamento nel fatto antropologico radicale della socialità. Il pericolo estremo di una simile separazione è, ovviamente, il pericolo della mancanza di significato.

Non esiste più uno spazio sociale intermedio. La crisi della solidarietà sembrerebbe allora derivare dalla decomposizione, meglio: dalla dislocazione (128) del tessuto sociale generata in modo meccanico, dallo sviluppo del Welfare State. Un Welfare State il cui sviluppo appare una “progressione a freddo”, non lubrificata da interventi simbolici di riformulazione del contratto sociale. Non c'è più sufficiente “spazio” tra Stato e individui e questo è un problema, enorme.

Secondo quest'angolazione di ricerca, i limiti del Welfare State vanno colti partendo dalle forme di socievolezza che esso ingenera (o almeno cerca di generare) e non principalmente dal grado di socializzazione della domanda, secondo un'angusta prospettiva economico-politica. La configurazione fondamentale della crisi del Welfare State è dunque non tanto quella della crisi fiscale, bensì, come già detto, quella della crisi di legittimazione (eudaimonistico-sociale).

Secondo Habermas, una crisi di legittimazione si produce nel momento in cui, “il sistema legittimatorio non riesce a preservare il necessario livello di lealtà di massa, attuando così gli imperativi di controllo del sistema economico che si è assunto” (129). La crisi di legittimazione è immediatamente crisi di identità; essa non procede lungo la via di una minaccia dell'integrazione del sistema, ma risulta dal fatto che l'attuazione di compiti statali di pianificazione mette in questione la struttura della sfera pubblica spoliticizzata. Questo il problema fondamentale: ipertrofia dell'intervento Welfare State, cui consegue un deficit di legittimazione dei suoi apparati, del suo intervento. Tale deficit “si produce nel momento in cui si cerca con mezzi unicamente amministrativi di conservare o creare in misura sufficiente strutture normative efficaci ai fini della legittimazione” (130). È quello che è avvenuto nel corso dello sviluppo del sistema capitalistico, e che accade in costanza di Welfare State: il sistema politico ha spostato e continua a spostare le sue frontiere, facendole avanzare non solo nel sistema economico, ma anche in quello socio-culturale.

Con il diffondersi della razionalità della organizzazione del Welfare State, le tradizioni culturali (che non sono rigenerabili in termini amministrativi) vengono rese instabili e svuotate, tradizioni che mantengono forza legittimatoria solo finché non vengono distaccate da sistemi interpretativi che ne assicurano la continuità e ne garantiscono l'identità, distaccamento normalmente operato dalla pervadenza amministrativa del Welfare State:

“l'aggressione di forme della razionalità economica e amministrativa contro ambiti di vita che obbediscono all'ostinata peculiarità della razionalità morale, estetico-pratica, conduce ad una sorta di colonizzazione del mondo vitale. Intendo l'impoverimento delle possibilità espressive e comunicative, che rimangono necessarie anche in società complesse affinché gli individui posano imparare a trovare sé stessi, a venire a capo dei propri conflitti, a risolvere in comune problemi comuni, cioè tramite una formazione collettiva della volontà” (131).

In sintesi, e per concludere questa parte dello studio, la tensione infinita al potenziamento del Welfare State, che in questo contesto si configura come penetrazione della società civile e colonizzazione della Lebenswelt, “eredità” dell'arte razionale di governo, viene meno, s'incrina con la sterilizzazione dei mondi vitali, perché viene meno il bacino dal quale attingere la propria forza: viene meno il sociale come, al contempo, risorsa necessaria e campo d'azione preferenziale dell'azione governamentale welfarista.

Manca un'ultima tessera al complesso mosaico finora composto, un ultimo elemento: il fenomeno delle nuove (forse) declinazioni dell'insicurezza sociale.

Il Welfare State, ricordo, è stato pensato come frame istituzionale preposto a garantire la libertà dalla paura: la paura della disoccupazione di massa negli anni Trenta, o la depressiva incertezza sul presente e sul futuro per uomini e donne altrimenti consegnati al darwinismo sociale del mercato (132). Il Welfare State istituzionalizzava il conflitto di classe, stabilendo norme e codici di comportamento prescrittivi per tutti. Lo scambio tra sicurezza - i diritti sociali di cittadinanza- e rispetto delle regole democratiche, poteva anche essere considerato foriero di esistenze e biografie prevedibili, ma era sicuramente propedeutico alla definizione di un equilibrio dinamico e pacifico, cioè abbastanza aperto all'innovazione nei rapporti di forza nella società. Il Welfare State era, in sintesi, pensabile come espressione e rappresentazione politica-istituzionale di una “costituzione materiale” che considerava il capitalismo una formazione economica e istituzionale da mettere sotto controllo perché distruttiva del legame sociale (133), in ciò la sua ragion d'essere.

Questa concezione del Welfare State nell'ultimo quarto di secolo, in costanza di quel processo di delegittimazione eudaimonistico-sociale, va incontro ad una progressiva trasformazione: si assiste al passaggio (per certi versi drammatico) dallo Stato sociale allo Stato di sicurezza nazionale, nel quale la precarietà - nei rapporti di lavoro, ma anche delle prospettive sul futuro - diventa il background per una limitazione delle libertà individuali e per un aumento dei poteri di polizia. Come osserva sarcasticamente Zygmunt Bauman, oggi l'insicurezza, concettualizzata quasi esclusivamente come safety, si cura non rimuovendone le cause, ma “con dosi progressive di incertezza”, perché gli uomini e donne sono oramai vite di scarto che attendono il loro turno per essere scaricate in qualche discarica sociale, che si tratti di un quartiere off-limits o di un Centro di permanenza temporanea dislocato ai margini della città. Lo Stato del welfare, è ormai delegittimato e l'ultimo disperato tentativo di auto-legittimazione dell'entità statale è la famigerata offerta della garanzia di sicurezza (declinata in termini di safety).

Oggi, in maniera manifesta, il potere politico cerca una pur debole legittimazione attraverso la tematica della sicurezza. L'immigrazione, gli esuli, gli scarti umani rientrano, come suitable enemies, nel gioco delle paure tautologiche su cui la discussione mediatica fa leva:

“I governi, spogliati di gran parte delle loro capacità e prerogative sovrane dalle forze di globalizzazione che non sono in grado di contrastare - e meno ancora di controllare - non possono far altro che scegliere con cura i bersagli che sono presumibilmente in grado di contrastare e contro cui possono sparare le loro salve retoriche” (134).

Gli scarti umani della contemporaneità, costituiscono un bersaglio facile su cui scaricare le ansie e i timori di una collettività precaria. Lo Stato, nell'ultimo esausto sforzo di darsi una definizione, raccoglie tali ansie e le arruola tra gli obbiettivi primari per riaffermare un'autorità erosa ed indebolita, dequalificando la concezione della sicurezza come security, abbandonandosi alle derive pan-penalistiche per autolegittimarsi.

In un contesto in cui si delinea, di contro alla territorialità statale, uno spazio extraterritoriale, una zona che sfugge al controllo delle leggi nazionali, come uno dei principali effetti della globalizzazione e delle sue ripercussioni a livello economico e legale; dove lo spazio economico è egemonizzato da free riders che inseguono il capitale nomade, dove non esiste tassazione che regga, dove l'unica legge è la lex mercatoria; in questo spazio, le stesse decisioni politiche determinanti, sono prese da una classe politico-economica sovranazionale, mentre sono assenti una comunità politica globale o spazi politici globali. Lo spazio extraterritoriale è una zona di nessun potere (almeno apparentemente), dove lo Stato nella sua definizione classica non ha alcun'ingerenza e dove dominano, invece, i poteri forti della globalizzazione. Ciò che rimane di apparente competenza dello Stato-nazione, è proprio la garanzia della sicurezza (safety), ottenibile attraverso la trasformazione dello Stato sociale (centrato sulla garanzia della security) in Stato penale (135), che ha al primo posto tra i suoi obiettivi, la criminalizzazione degli scarti della società e il loro inserimento in una questione di sicurezza. È uno Stato-nazione, quello contemporaneo, preoccupato delle proprie sicurezze, a cui tuttavia sfuggono sia le questioni economiche, perché sono ormai sopranazionali, sia quelle militari, in quanto la stessa guerra, più o meno mascherata dietro interventi democratici, è deregolamentata dagli effetti della globalizzazione. In sintesi, lo Stato ha rinunciato alle sue funzioni sociali ed economiche, ha scelto una politica di sicurezza come fulcro di una strategia mirante a recuperare la legittimazione perduta e l'impronta protettiva agli occhi del cittadino. La domanda di Stato è oggi domanda di sicurezza fisica-safety. La domanda di sicurezza relativizza la domanda di eguaglianza: è questo l'aspetto regressivo della “crisi” (136).

Lo Stato ha acconsentito a progettare e creare nuovi luoghi sicuri per lo smaltimento dei rifiuti umani (banlieues, nuovi ghetti, campi per immigrati) diventando, afferma Bauman con un'espressione molto forte, uno “Stato caserma”, uno Stato che protegge gli interessi dei grandi gruppi industriali moderni e intensifica la militarizzazione e la repressione sul fronte interno. Il tutto nel tentativo di costruire una legittimazione sicuritaria che rimane, comunque, apparente e labile.

Nelle forme di governo delle società avanzate globalizzate, come si vede, le nozioni e le prassi di sicurezza e insicurezza sono costitutivamente avvinte (137), qui la sicurezza non è semplicemente designata come assenza di insicurezza. Si configura invece, come eliminazione autoritativa e coattiva dell'insicurezza. Allo stesso modo, qui l'insicurezza non è il negativo della sicurezza (138). Piuttosto, è pensata come minaccia della civiltà e del civile convivere, non semplice pericolo sociale contro cui vigilare. Trionfano, allora, i paradigmi del sorvegliare e punire, gli schemi hobbesiani della sicurezza, riscritti utilizzando codici e saperi discriminanti. Nasce in questi interstizi l'esigenza inappagabile dell'ampliamento progressivo dell'esclusione dall'agorà (139), l'ossessione della sicurezza genera la democrazia dell'insicurezza (140). Ma che ne è, a questo punto, del Welfare State? Quale sicurezza sociale le politiche di welfare possono garantire nell'epoca dell'insicurezza dispiegata? Quale lotta all'insicurezza, a questo stadio, il Welfare può mai assicurare? Ma sovviene anche un altro drammatico dubbio: non sono forse, già scritte nel codice genetico del Welfare le premesse di quest'esito catastrofico?

Nel passaggio al Welfare State, ricordo, proprio la lotta all'insicurezza diveniva la base del patto associativo. La lotta all'insicurezza era, insieme, obiettivo immediato e motivo teleologico dell'esserci e del fare del Welfare. Il benessere della società finiva col dipendere dalle spese per la sicurezza sociale, lo Stato sociale era l'incarnazione perfetta dello Stato della sicurezza sociale. Ciò che restava (e resta) fuori dalle sue sfere e dalle sue orbite acquisiva immediatamente lo status giuridico-politico di insicuro. Il rischio di insicurezza è, quindi, il rovescio catastrofico del Welfare State delegittimato, in esso stesso giace quel potenziale degenerativo che si dispiegherà quando nella società globalizzata la nozione di sicurezza verrà declinata come safety, la sicurezza sociale si prolungherà in sicurezza dal crimine (141), e lo Stato sociale diventerà conseguentemente Stato penale.

Questa è la nuova sicurezza, questi sono i nuovi apparati preposti alla sua “produzione”, edificati sulle ceneri del Welfare State delegittimato, che, in un certo senso, ne surrogano struttura e funzione.

4.3 Fattore di crisi: Polizei/Rischio

Credo la connessione tra Polizei e la categoria sociale del rischio risieda nel fatto che l'operazione di inglobamento sociale totale della Polizei, come stadio della governamentalizzazione biopolitica, per la realizzazione del benessere collettivo, sia resa possibile, e tocchi la sua akmè istituzionale nella società moderna, grazie alla tecnologia assicurativa dei rischi, quella stessa tecnologia che funge da supporto imprescindibile per il funzionamento del Welfare State, in specie della sua dimensione biopolitica.

Per Polizei, chiaramente, non s'intende una specifica tecnica interna all'apparato dello Stato, ma la modalità produttiva che assume il suo governo in tutti i settori dell'esperienza individuale e collettiva- dalla giustizia alla finanza al lavoro, alla sanità, al piacere. Von Justi, nei suoi Elementi di polizia si spinge anche oltre: se l'oggetto della polizia è definito come la vita in società di individui viventi, il suo intendimento è quello di creare un circolo virtuoso tra sviluppo vitale degli individui e potenziamento della forza-Stato.

Nella lettura foucaultiana la polizia appare contraddistinta da tre elementi originari: l'operatività dell'amministrazione di polizia di concerto con giustizia e gli eserciti; il carattere di inglobamento totale della polizia, dal particolare punto di vista della relazione tra uomini e cose; la qualificazione dell'intervento di polizia come totalitario. Nell'interpretazione di Oestreich (142) polizia significa governo (Regiment) che deve produrre una comunità cittadina o territoriale bene ordinata. Lo scopo è di mantenere nella prosperità un buon ente in cui i sudditi crescano in beni ed averi e in cui possa essere evitato tutto ciò che è d'ostacolo all'utile comune. Storicamente sono i nuovi problemi originatisi dal contatto più stretto tra gli uomini, le maggiori possibilità di attrito e non da ultimo le disastrose ondate di epidemie cittadine produssero l'esigenza dell'attività di polizia avvolgente. Si trattava di ridefinire attraverso nuovi ordini e prescrizioni le forme della socializzazione, l'igiene e il comportamento etico-sociale ma anche quello economico.

L'uomo doveva essere preparato per la nuova società di scambio intensivo con i suoi compiti e le sue pretese. Dal mutamento quantitativo derivò la trasformazione delle categorie sociali. Il concetto di polizia coprì l'esigenza di comando e divieto dell'autorità.

La polizia e la scienza di polizia (Polizeiwissenshaft) ha come obiettivo il benessere della popolazione e attraverso questo la potenza dello Stato. La Polizeiwissenshaft consiste nell'analisi e nella teoria di tutto ciò che tende ad affermare ed aumentare la potenza dello Stato a fare buon uso delle sue forze e procurare la felicità dei suoi sudditi. A questo sapere lo Stato affidava le sue possibilità di determinare e migliorare la sua posizione nel gioco delle rivalità e delle concorrenze tra gli Stati europei a garantire l'ordine interno con il benessere degli individui. L'interesse di uno Stato di polizia riguarda ciò che fanno gli uomini la loro attività, la loro occupazione. L'obiettivo della polizia è il controllo e la presa in carico dell'attività degli uomini in quanto tale attività può costituire un differenziale nello sviluppo delle forze di uno Stato. La polizia è, infatti, l'insieme delle tecniche degli interventi e dei mezzi che assicurano che il vivere, il coesistere il comunicare saranno realmente convertibili in forze statali. Con la Polizei il processo di riconversione affermativa dell'antico diritto sovrano di morte tocca il suo apice. Se il significato di Politik restava quello, negativo, di difesa da nemici interni ed esterni, la semantica della Polizei è eminentemente positiva. Essa è ordinata a favorire la vita in tutto il suo spessore, lungo tutta la sua estensione, attraverso tutte le sue articolazioni: “è la vita l'oggetto della polizia: l'indispensabile, l'utile, il superfluo. Che la gente sopravviva, viva e faccia anche di meglio, questo è ciò che deve garantire la politica” (143).

Perché quella particolare modalità produttiva di governo, la Polizei appunto, dovrebbe essere legata al Welfare State, come sostenuto apoditticamente in principio di paragrafo? E la categoria del rischio, poi, assunta nelle sue trasformazioni strutturali come fattore critico della biopolitica welfarista, come s'inserisce in tale discorso?

Il punto di connessione sinaptica tra Polizei, Welfare State e fattore critico del rischio, ritengo consista nel paradigma assicurativo. Prima di giustificare tale posizione, e analizzare tale paradigma, urge impiegare qualche riga per capire, preliminarmente, cosa intendo quando parlo di rischio, in questo contesto. Nelle scienze sociali il concetto di rischio viene declinato secondo prospettive teoriche molto diverse (144). Dalla classica distinzione tra rischio e incertezza di Knight (145) (rischio riferito ad indeterminatezza calcolabile al contrario dell'incertezza) alla distinzione di Luhmann (146) tra rischio e pericolo, senza trascurare la Risikogesellshaft di Beck nella quale si opera l'ormai classica differenziazione concettuale tra rischi premoderni e moderni (frutto della modernizzazione e caratterizzati da una dimensione di globalità).

Mi interessa sottolineare come la nozione di rischio riveli chiaramente i suoi legami con la società moderna, e rimarchi significative differenze con il mondo premoderno: il rischio prende il posto del fato o della divinazione per evitare l'ira degli dei, successivamente arriva inglobare il concetto di pericolo, sublimandolo. La sublimazione del pericolo nel rischio, ha implicato rilevanti conseguenze sociali: pensare il pericolo in termini probabilistici del rischio significava accettare l'impossibilità che esso potesse essere neutralizzato integralmente e per sempre. Tale categoria ha a che fare con qualcosa che riguarda l'incertezza rispetto al futuro, prima assumendo un riferimento prettamente spaziale (navigazione nelle acque ignote), successivamente assumerà anche un riferimento temporale, il cui oggetto saranno gli investimenti economici (147). Al concetto di rischio si affianca la nozione di assicurazione che nasce anch'essa in relazione alle spedizioni marittime: l'assicurazione è la base di sicurezza dalla quale il destino viene spodestato a favore di un impegno attivo verso il futuro (148). Tuttavia all'inizio l'assicurazione è il risultato delle valutazioni basate sull'esperienza dei viaggi precedenti il contratto sulla fortuna. Solo in seguito il calcolo matematico e statistico serviranno a quantificare l'eventuale risarcimento. L'assicurazione è una tecnologia del rischio (149) una forma di razionalità basata sul calcolo delle probabilità. Nel mondo contemporaneo invece l'assicurazione “produce rischi” attraverso la definizione di alcuni eventi come rischi, che pertanto si trasformano da “ostacoli” in “possibilità”. In questo senso qualsiasi evento potrebbe diventare un rischio purché il tipo di minaccia sia compatibile con la tecnologia assicurativa, ovvero sia un rischio calcolabile, collettivo e capitalizzabile, ovverosia quantificabile in danaro. Più in generale la nozione di rischio sembra aver costituito un vero e proprio caposaldo dei vari regimi governamentali che si sono formati attraverso la definizione della pericolosità e della difesa sociale o nell'ambito dei problemi della salute come pure nel campo più vasto dell'imprevedibilità dell'esistenza individuale e collettiva. Su quest'ultimo terreno, alla fine del XIX secolo, viene prefigurata di fatto la razionalità governamentale del Welfare State (150). In questo contesto più che come un dato oggettivo il rischio è assunto come uno strumento tecnico-politico che consente di pensare in modo nuovo la realtà, rendendola governabile attraverso il calcolo probabilistico degli eventi, mediante la definizione di tecniche assicurative per ridurne le conseguenze sociali. Ne risulta ridefinito il rapporto degli individui con la sfera economico-finanziaria attraverso il risparmio, la loro attitudine morale verso il futuro, attraverso la previdenza e l'idea di responsabilità individuale mediante la redistribuzione collettiva degli oneri imprevisti. Robert Castel (151) osserva altresì, come tali nuove strategie di assicurazione sociale, operino nel senso della dissoluzione del soggetto concreto e individuale, surrogato da una combinazione di fattori: i fattori di rischio attuariale. (152)

L'introduzione del principio assicurativo nella gestione dei problemi sociali s'impone progressivamente. Passando dal concetto soggettivo di comportamento e di responsabilità individuale alla nozione oggettiva di rischio il principio assicurativo invitava a considerare la questione sociale in modo diverso, consentendo di superare le aporie nell'applicazione dei diritti sociali. L'approccio in termini di rischio rinvia, in effetti, innanzitutto ad una dimensione probabilistica e statistica del sociale che permette di relegare in secondo piano il giudizio sugli individui (153). Questo comporta naturalmente una nuova concettualizzazione della giustizia: puramente contrattuale, regime d'indennizzazione.

Ne momento in cui l'assicurazione verrà resa universale per obbligo, inizierà a svolgere il ruolo di trasformatore morale e sociale, funzionando come una mano invisibile che produce sicurezza e solidarietà senza intervento della volontà individuale, generando altresì una forte interdipendenza tra uomini.

Il presupposto della tecnologia assicurativa (la categoria di rischio nella sua formulazione originaria) va incontro però a trasformazioni macro che ne mutano profondamente la struttura: il rischio, quell'idea di rischio su cui si fondava il paradigma assicurativo, è “in crisi”. Questo il problema centrale. Prima di tutto rileva in proposito, la configurazione del rischio moderno come rischio globale, risultato di una natura pienamente socializzata (dell'ambiente creato dall'intervento umano) la cui quantità e intensità mette in evidenza i limiti del sapere esperto e del calcolo statistico in specie.

I nuovi scenari di rischio della tarda modernità, dissolventi il soggetto e globali, sembrano ormai proiettati in una dimensione di radicale incalcolabilità. Il calcolo statistico risulta ormai inadeguato a cogliere la dimensione pervasiva del rischio e i nuovi e molteplici statuti della conoscenza. Pervasività dunque, secondo carattere critico del rischio tardo-moderno. Su tale nuovo carattere del rischio si potrebbe a lungo discutere. Beck ad esempio, argomenta persuasivamente la perfetta sovrapponibilità tra rischi globali e percezione di rischi (154), fenomeno che moltiplica la pervasività (forse solo apparente) del rischio stesso:

“Non è mai chiaro se sono i rischi ad essersi acutizzati, o se è il nostro sguardo su di essi ad essersi fatto più attento. I due aspetti convergono, si condizionano e si rafforzano a vicenda; e poiché i rischi sono rischi nel sapere, la percezione dei rischi e i rischi stessi coincidono, sono un'unica e medesima cosa” (155).

Sempre secondo Beck, i rischi prodotti nella e dalla tarda-modernità, comportano conseguenze irreversibili, rimanendo per di più spesso indecifrabili, realizzando l'effetto paradossale di una proliferazione ad libitum di interpretazioni esperte, o sedicenti tali, dei rischi globali.

La tarda-modernità vede poi, il modificarsi profondo sia della distribuzione oggettiva dei rischi (sempre meno oggettivi) sia il modo di esperirli soggettivamente. Aumenta il numero di eventi contingenti che coinvolgono un numero sempre maggiore di individui, si diffondono ambienti istituzionalizzati caratterizzati nel loro funzionamento da presenza elevata di rischi, emergono lacune del sapere esperto nella previsione degli stessi rischi. Quello a cui si assiste è, in sintesi, la transizione dagli external risks ai manufactured risks (156). Gli external risks erano i rischi calcolabili con margini di errore bassi, contrastabili attraverso degli strumenti assicurativi, con il Welfare State: disoccupazione, invalidità, malattia ecc. La categoria dei manufactured risks, contempla invece i rischi tipici della tarda-modernità. Essi sono molto più difficilmente prevedibili e misurabili e per questo è possibile solo disegnare scenari previsionali impostati per gradi di plausibilità. Innescati dai recenti sviluppi tecnologici e scientifici, i manufactured risks si riferiscono a sfere della vita umana, sia psicologica che sociale, nonché a catastrofi naturali, ecologiche, la cui sussunzione nei clusters statistici dell'assicurazione stile Welfare State, è davvero poco fattibile.

Riportando queste considerazioni nell'alveo stretto dell'analisi del Welfare State, risulterà chiaro come la stessa forza dell'idea originaria di sicurezza sociale, che derivava dal suo essere una formula sintetica dalla considerazione di una vasta gamma di problemi sociali ricondotti alla categoria di rischio (157), vada inevitabilmente incontro a mutamenti qualitativi intensi, meglio: a processi critici destrutturanti. E tutto questo perché la categoria unificatrice del rischio, nel suo significato tradizionale, è divenuta meno cogente, meno performante, semplicemente tardo-moderna. Le distinzioni tra malati invalidi da una parte e lavoratori sani dall'altra, presupponevano che gli individui corressero rischi della stessa natura (158). Il principio implicito di giustizia e solidarietà soggiacente il Welfare State, si fondava sull'idea che i rischi fossero al tempo stesso egualmente ripartiti e di natura ampiamente aleatoria (159). Oggi le cose non stanno più così. Il sociale non può più essere concepito unicamente in termini di rischio. Esclusione e disoccupazione di lunga durata non sono più configurabili come “incidenti sociali” sono invece realtà permanenti e spesso irreversibili. Tutta una parte della popolazione tende ad uscire dal campo assicurativo. In materia sociale, oggi il concetto chiave è assai più quello della precarietà-vulnerabilità, che quello del rischio, scoprendosi in questo modo un'allarmante obsolescenza tecnologica dei dispositivi di gestione welfarista del sociale.

Altro ostacolo rispetto la sopravvivenza del Welfare State, così come siamo abituati ad intenderlo, è il carattere collettivo dei rischi della società tecnologicamente avanzata. Le catastrofi che colpiscono intere popolazioni richiedono meccanismi diversi di assunzione della responsabilità, non più centrati sulla socializzazione ma, paradossalmente, sulla individualizzazione e personalizzazione (si pensi allo sviluppo della medicina predittiva genetica, che lega a determinismi biologici individuali le traiettorie di vita, mettendo altresì in discussione approcci statistici al sociale). Il concetto classico di rischio sociale dunque, su cui si fondava il Welfare State, tende a perdere così il suo carattere unificatore, si disgrega. Apparendo contestualmente, anche agli occhi dei più tradizionali (e conservatori) studiosi di quel regime socio-politico, l'interrogativo circa la possibile trasformazione del Welfare State, in un'istanza di gestione “onnivora” e di controllo dei comportamenti (si pensi a programmi assistenziali made in USA come il workfare il learnfare e il wedfare). Peccato per tali studiosi, che tale tendenza totalizzante, sia stata intuita proprio nel momento in cui iniziava a sfaldarsi, impietosamente. Si assiste, infatti, al dispiegarsi di un processo di fragilizzazione dell'edificio sociale espresso dai mutamenti proprio del fattore rischio, processo agevolato, tra l'altro, dall'evoluzione della percezione sociale dell'insicurezza (160). Emergono nuove forme d'insicurezza sociale: delinquenza urbana, disgregazione nuclei familiari, ecc., che richiedono a gran voce (la voce stridula degli opinion makers da salotto e dei comitati di quartiere) l'intervento muscolare, pregnante simbolicamente inefficace pragmaticamente, dello Stato-Leviatano, che in un impeto di forza, per ricordare a sé stesso che c'è, che ancora esiste, punisce i socioeconomicamente deprivati, i disaffiliati (161), la marginalità.

Ovviamente sulla dissoluzione del paradigma assicurativo, come trait-d'union tra Polizei e Welfare State, incidono ulteriori fattori di decomposizione istituzionale, endogeni ed esogeni, diversi dalla crisi del rischio tradizionale, variabili che vanno dalla rivoluzione demografica alle distorsioni retributive del Welfare State, passando per le trasformazioni che investono profili strutturali e funzionali delle organizzazioni sindacali. Per motivi di spazio e di tempo, non mi soffermo sull'analisi di tali variabili, pur riconoscendone la centralità, limitandomi a rinviare alla corposa e ormai risalente letteratura storico-sociologica che a lungo si è esercitata sul tema (162).

Tali fattori conducono in sintesi, alla fluidificazione tra sfera statale e sociale e alla pluralizzazione di regimi governamentali, che relativizzano la centralità stessa dello Stato come agenzia di governo. Si sviluppano, in questo contesto, forme di auto-governamentalizzazione che maturano attraverso l'enfatizzazione dell'autonomia e la sollecitazione degli individui e dei gruppi all'auto-responsabilizzazione nella gestione dei rischi e dei problemi sociali (163), questo mi sembra essere lo scenario inedito e ancora tutto da decifrare che si profila ambiguamente, all'indomani dell'eclissi del bio-norm del Welfare State.

5. Conclusione provvisoria sui processi critici del bio-norm del Welfare State e scenari attualmente emergenti

Popolazione, legittimazione e rischio. Tre fattori di crisi del Welfare State, tre variabili determinanti una trasformazione qualitativamente intensa, si potrebbe dire con Bergson, una differenza di natura, nell'esercizio effettivo della funzione bio-norm. Di questa variazione ho provato a definire il profilo, le implicazioni socio-politiche, analizzarne le conseguenze.

L'analisi fin qui condotta, ha mostrato come la complessa trama di dispositivi denominati bio-norm del Welfare State, abbia funzionato (fino all'emergenza storica dei fattori critici) non tanto come sistema di valvole di decompressione di tensioni e conflitti sociali più o meno latenti (164), bensì come concreta applicazione della strategia di gestione positiva/preventiva di conflitti sociali, potenzialmente deflagranti, attraverso la costruzione ed orientamento dei bisogni della collettività, la soggettivizzazione collettiva, “integrando” la collettività tramite il doppio registro della individuazione e della massificazione (il software pastorale), attraverso il potenziamento dell'apparato statale nella sua “laica” materialità, tramite l'inglobamento poliziesco del “sociale”.

Si trattava di dispositivi che chiaramente si risolvevano nel riconoscimento della fine del ruolo fondativo del soggetto trascendentale nei processi conoscitivi e del soggetto decisore responsabile nei processi normativi (165), dispositivi la cui analisi lacerava “il velo” giuridico-discorsivo “calato” dalla sovranità classica sui rapporti effettivi di potere e dominazione, sovranità intesa come modalità teleologica di organizzazione e funzionamento del potere, idonea a garantire la fittizia aggregazione stipulativa della hobbesiana moltitudine in corpo sociale organizzato. In sintesi, un paradigma “laico”, o meglio, ateo (166) quello foucaultiano-biopolitico, di “funzionamento” e integrazione lato sensu sociale.

Il Welfare State biopolitico, di cui ho genealogicamente tracciato il profilo, rappresentava un'espressione fenomenologica nitida, di come l'esercizio del potere potesse funzionare in assenza di una vocazione interdittivo-repressiva, al contrario: seducendo, orientando, plasmando la moltitudine. Non senza conati di resistenza di quest'ultima, più o meno efficaci, produttivi di quella dimensione relazionale del potere bio-norm, precedentemente discussa. Non era dunque la possa del Levitano, sostanziata in un ordine normativo trascendente la contingenza terrena dei subjecti, ma, limitatamente al fenomeno in trattazione, processi di assoggettamento bio-norm, che preformavano e normalizzavano le esigenze sociali, nella loro quantità e qualità, prevenendo l'esplosione di conflitti per le risorse “da” Welfare State.

Questo poco maestoso ma terribilmente performante meccanismo, ad un certo punto inizia a dis-funzionare. Cosa accade? Proprio perché non riposava su supporti trascendentali, proprio perché non era una proiezione di un volere divino, di un ordine naturale, di una volontà decisionistica, al mutare delle condizioni macrosociali, economiche e culturali che, queste sì, ne rappresentavano la piattaforma, l'edificio del Welfare State biopolitico inizia ad incrinarsi, vacilla, progressivamente si disgrega.

Ho provato ad isolare i fattori critici tra di essi collegati strettamente, la cui inter-azione muta la natura del bio-norm del Welfare State. Mi sono servito di un “ambientamento” foucaultiano e sono pervenuto all'identificazione delle trasformazioni qualitative che investono la popolazione, dei processi di delegittimazione eudaimonistico-sociale del Welfare State, del superamento della tradizionale tecnologia del rischio, come determinanti della “fine” della biopolitica del Welfare State.

A questo punto, mi sembra di poter dire che ciò che è davvero terminato, superato irrecuperabilmente in forza di quelle macro-trasformazioni critiche, nella biopolitica “tradizionale” del Welfare State, sia la sua componente disciplinare, con tutte le conseguenze “strutturali” e “funzionali” che questo comporta. Se è vero che biopolitica e discipline si articolano performativamente le une sulle altre, in assenza di discontinuità, il dato che voglio sottolineare è l'esaurimento di quelle tecniche di controllo disciplinare inverate in dispositivi e istituzioni, operative preliminarmente all'assoggettamento/soggettivazione biopolitico (comunque meno cogente di quanto sostenuto da Foucault), a livello sociale e individuale. Non è il superamento del paradigma disciplinare, transizione ormai più che compiuta, ma ripeto, dell'elemento disciplinare della biopolitica.

Provo, a suffragio di queste ultime affermazioni, ad indicare alcune espressioni di biopolitica non-tradizionale o post-disciplinare.

È possibile rilevare ad esempio, elementi di una nuova biopolitica nelle forme e nell'utilizzo dei database elettronici, che permettono di coordinare attività sociali attraverso un aumento di conoscenza e di cooperazione “dal basso”, con l'effetto immediato di una responsabilizzazione (e obbligazione) del soggetto, “promuovendo una forma governamentale di potere” (167), che irreggimenta le “forme” cognitive, linguistiche e comunicative dei singoli.

Si pensi poi, all'uso di categorie etniche e biologiche che inducono prima alla dequalificazione di gruppi umani, e poi alla legittimazione circa l'uso della violenza nei loro confronti, fino ai casi estremi del genocidio e della pulizia etnica. Si consideri la ri-emersione ostinata della categoria di razza, ed alla sua funzionalizzazione immediatamente politica e discriminante, consentendo di ascrivere un individuo ad un determinato gruppo sociale facendolo diventare membro di una comunità (spesso fittizia) in forza di un criterio biologico immodificabile (168), codificando prescrizioni, imponendo obblighi, orientando condotte.

Da un'altra angolazione, il processo di de-civilizzazione (169) “razziale”, rileva anche a livello di problema di gestione delle minoranze o dei flussi migratori: i processi di astrazione politico-giuridica volti all'egualitarizzazione dei cittadini si scontrano (e soccombono) con le differenze etniche e razziali irriducibili (costruite biopoliticamente), produttive a loro volta di quelle pratiche di filtro, selettive e discriminatorie, che non attestano tanto il superamento integrale del paradigma biopolitico tout court, quanto della variazione qualitativamente intensa, di natura del medesimo paradigma, conseguenza di un adattamento alla variazione della struttura sociale, culturale, tecnologica e dunque produttiva di nuovi (e ancora poco decifrabili) modelli di integrazione sociale.

Ulteriore esempio: la neo-biopolitica del lavoro (170). La progressiva sostituzione del motore umano con macchine informatiche crea nuove forme di integrazione che mette sotto controllo non solo il processo di lavoro ma anche, in certa parte, il comportamento degli operatori. In un sistema che si basa su flessibilità, responsabilità individuale e facoltà cognitive, che ha superato (o sta superando) la rigidità e le gerarchie della fabbrica “disciplinare” fordista, l'esito di quel processo non sembra essere la formazione di un'autorità centralizzata e accentrata, da una parte, e del corpo docile dall'altra, bensì un sistema produttivo aperto, basato sulla collaborazione, sulla rete e su soggettività adattabili ad ogni contesto.

L'importanza del lavoro vivo, altamente comunicativo perché fondato su capacità linguistiche, la dimensione, sempre più rilevante nella creazione del valore, della cooperazione tra cervelli al di là delle separazioni tra azienda e territorio, tra sfera privata e pubblica, tra individuo e organizzazione, rappresentano i termini essenziali della neobiopolitica del lavoro contemporaneo. In specie, l'accento credo vada posto su come le risorse comunicative e relazionali, risorse “sociali” produttive di “comunità” par exellence, tenute fuori dai processi produttivi disciplinari/fordisti, divengono, nel nuovo contesto biopolitico, il nuovo mezzo per produrre ricchezza. È il lavoro dei sentimenti messi a lavoro (171) che porta a “sfumare fino a completa evanescenza il confine tra lavoro e non lavoro” (172), cosicché il modo di vivere della persona diventi condizione del suo lavoro e del suo reddito.

Proprio perché la biopolitica è relativamente indipendente dalle istituzioni statali (173), essa si può riprodurre in molti altri contesti, in forme inedite, anche al di là dei limiti dello statalismo welfarista e attraverso i meccanismi de-centrati e più “innocenti” della ricerca scientifica, delle sue applicazioni, ecc. È in atto una transizione da una biopolitica politicamente ed istituzionalmente imputabile, ad una biopolitica quasi sempre inavvertita o accettata come ineluttabile, che giace inesplorata in un complesso eterogeneo di questioni: nelle lotte interetniche, nei problemi posti dalle biotecnologie, dalla manipolazione genetica, dalle epidemie imprevedibili, dalle malattie provocate dall'irresponsabilità dei soggetti economici, dalla questione ecologica, dalle violazioni dei diritti del corpo e della vita che si consumano nei nuovi lager per immigrati.

Emerge in sintesi, una struttura biopolitica del potere, direi tardo-moderna, dove il problema fondamentale è l'individualizzazione del sociale nella società del rischio, attraverso l'assunzione di questioni bio- come principi di decifrazione e regolazione sociale: malattie, disgrazie, inadattabilità inducono all'autoesclusione, prima ancora che si determinino conflitti o si attuino pratiche di discriminazione sociale (174) su larga scala, prima ancora delle forme di nuova selezione naturale di gruppi sociali attraverso sistemi statalizzati di discriminazione nell'attribuzione dei diritti (come accadeva nel caso del Welfare State biopolitico).

Questa nuova biopolitica, intesa come “un processo antropologico di portata generale” che individualizza il sociale prescindendo dalle forme di protezione collettiva tradizionali, sostituisce l'identità individuale con processi di identizzazione (175), di autocostruzione identitaria senza riferimenti stabili, anzi incerti e continuamente rigenerabili.

L'azione biopolitica nel contesto del Welfare State declinante, è poi una biopolitica non più agita da apparati di Stato, non opera tanto nella direzione della prevenzione “positiva” di conflitti sociali, ma, questa la novità conseguente al superamento della componente disciplinare, nel senso della de-socializzazione della moltitudine, della singolarizzazione delle responsabilità, per disinnescare il potenziale sovversivo di quella stessa popolazione, le cui trasformazioni qualitative avevano messo in crisi la biopolitica “tradizionale”.

Empiricamente, un esempio dell'inveramento della biopolitica tardo-moderna del Welfare State, credo possa essere considerato il trend generalizzato delle amministrazioni politiche locali ad orientare le politiche sociali locali verso la contrattualizzazione dei servizi di Welfare (176).

Come scrive Castel:

“l'insieme dei dispositivi della protezione sociale sembra oggi attraversato da una tendenza all'individualizzazione, o alla personalizzazione, dal momento che punta a collegare la concessione di una prestazione alla considerazione della situazione specifica e della condotta personale dei beneficiari. Un modello contrattuale di scambi reciproci fra chi richiede risorse e chi le procura si sostituirebbe così, al limite, allo statuto incondizionato dell'avente diritto” (177).

I contratti, nei servizi sociali, sarebbero finalizzati a riconoscere ed alimentare le capacità dei cittadini stessi di entrare nelle arene decisionali; di partecipare alla definizione del sistema di offerta locale e dei suoi standard di qualità; di co-produrre il proprio ben-essere (178).

In altre parole, questi processi vogliono favorire, nell'insieme, una più attiva partecipazione dei cittadini al disegno e all'operatività delle politiche sociali, ed un loro coinvolgimento per il proprio ed altrui benessere. Tuttavia, i processi di localizzazione del Welfare State (crescente importanza che rivestono nelle arene di policy una pluralità di attori, pubblici e privati, i contesti e i governi locali) lasciano aperti molti interrogativi rispetto a se, e come, lo statuto d'attoredei cittadini sia costruito e riconosciuto nei contesti e negli assetti della governance locale (179).

L'introduzione di contratti nelle politiche sociali definisce nuove e inedite posizioni dei destinatari, legate strettamente al variare del modello di agency (la concezione dello statuto sia dell'attore che dell'azione implicato in ogni strumento di azione pubblica) informante l'ipotesi specifica di contrattualizzazione. Astrattamente è possibile individuare quattro matrici di agency.

La prima è direttamente collegata a criteri di giustizia di mercato (180), e declina l'agency come libertà di scelta e di acquisto dei cittadini/consumatori nei quasi-mercati. La seconda è basata su criteri di giustizia di tipo domestico (181), imperniata sulla responsabilizzazione. E' la matrice “moralizzante” del welfare e condiziona l'accesso a beni e servizi sociali a contropartite obbligate: il lavoro, o la cura del proprio benessere e di quello dei membri dipendenti della propria famiglia. La terza matrice si fonda su criteri di giustizia di carattere civico (182), che enfatizzano la partecipazione alle scelte collettive, vuoi come impegno verso la comunità e dovere morale a prendere parte alla sua costruzione, secondo una prospettiva di tipo neo-comunitario (183), vuoi in una direzione più consonante con le elaborazioni in tema di diritti politici alla partecipazione. (184) Infine, un'ultima matrice è basata su criteri di giustizia “attraverso progetti” (185) finalizzati ad accrescere l'attività delle persone ed a moltiplicarne i legami.

Se escludiamo l'ultima matrice, ancora in nuce, notiamo come la prima determini una posizione dei destinatari assimilabile a quella del soggetto che domanda sul mercato ad un provider in posizione asimmetrica rispetto al destinatario, la seconda richiami il bio-norm tradizionale, la terza rappresenti un ibrido tra la prima e la seconda. Il dato che intendo sottolineare, è come soprattutto la prima matrice, dominante ideologicamente ed ampiamente diffusa, informi chiaramente dispositivi contrattuali nell'ambito della implementazione delle politiche sociali locali, realizzanti (mi sembra) quella responsabilizzazione dal basso e individualizzazione del sociale che discutevo astrattamente poc'anzi, con le conseguenze sociali sopra analizzate.

Un'ultima, rilevante conseguenza dell'esaurimento “disciplinare” della biopolitica, mi sembra possa essere considerata l'evasione della domanda di regolazione di conflitti sociali emergenti proprio dall'effetto individualizzante della nuova biopolitica: la nuova biopolitica non previene conflitti, semmai li crea e non li gestisce, limitandosi (poco efficacemente) a mantenerli entro certi argini.

I conflitti di seconda generazione (186), sono questi i nuovi conflitti che esigono regolazione, conflitti che interessano la grammatica delle forme di vita (187), che si sviluppano nella de-socializzazione, e nella riproduzione culturale. A questi si aggiungono inveterati problemi di integrazione sociale, conflitti macro una volta gestiti dal bio-norm, oggi, anch'essi, alla disperata, erratica ricerca di soluzione. Vedremo poi, chi raccoglierà questa domanda.

Per concludere, potrei dire che nella transizione baumaniana da una struttura pesante (Stato-nazione, classi sociali, fabbrica fordista) ad una liquida (188) (individualizzazione, economie di rete), la crisi della biopolitica welfarista corrisponde alla fine della minaccia del modelling sociale statalizzato; è invece l'ascesa di quella scomposizione prismatica delle identità che rende l'individuo non meno vulnerabile davanti alle altre forme di potere economico, medico e tecnologico, che s'insidiano subdolamente nel corpo sociale, senza disciplinarlo, semmai depoliticizzando le società umane, “passivizzandone” la nuda vita (189), intervenendo su abilità cognitive, abitudini al consumo, attitudini psico-affettive, “dimensioni” umane in passato non qualificate politicamente, cioè non assunte come bersaglio di forme specifiche di potere, oggi invece intensamente investite dall'azione politica, tardo bio-politica.

Negare la persistenza di un residuo forse ineliminabile, di biopolitica nei nuovi paradigmi di potere e integrazione sociale, potrebbe significare privarsi se non di una “griglia di intelligibilità del presente” (190), quantomeno di un fattore esplicativo dotato di una certa funzionalità euristica, utile dunque, a facilitare la comprensione del mondo in cui viviamo.

È evidente che le categorie biopolitiche tradizionali, quelle foucaultiane, a causa dei mutamenti “strutturali” delle società tardo-moderne, siano sottoposte ad un'intensa trazione, urge allora un'opera di riconcettualizzazione per adeguare il paradigma al mutamento, operazione che è quasi tutta da fare, questo è indubbio.

A me sembra che non sia finita la biopolitica ma una biopolitica: quella immanente alla struttura del Welfare State, quella disciplinare e statalizzata.

Queste le ragioni che mi inducono a parlare più che di fine della biopolitica, di mutazione qualitativamente intensa, variazione di natura, di un paradigma hard to die, queste le ragioni che mi spingono ad indagare le forme di regolazione dei conflitti sociali che sostituiscono (e in un certo senso originano da) i dispositivi biopolitici tradizionali.

Note

1. In epigrafe a Th. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino, 1994.

2. R. Dahrendorf, Il conflitto sociale nella modernità, Laterza, Roma-Bari, 1989.

3. Ibidem.

4. E. Santoro, Le antinomie della cittadinanza, in D. Zolo (a cura di), La Cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari, 1994.

5. W. Beveridge (report by), Social Insurance and Allied Services, Presented to Parliament by Command of His Majesty, November 1942, London, Majesty's Stationery Office, 1944 (I ed. McMillian, London, 1942).

6. R. Dahrendorf, Il conflitto sociale nella modernità, cit.

7. Mi riferisco agli scritti di M. Foucault: La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1978; “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano, 1998; Sicurezza popolazione territorio, Feltrinelli, Milano, 2004; La Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano, 2005.

8. F. Ewald, L'État Providence, Seuil, Paris, 1986.

9. J. Donzelot, L'invention du social, Fayard, Paris, 1984.

10. R. Castel, Les métamorphoses de la question salariale, Fayard, Paris, 1996.

11. P. Rosanvallon, La crise de l'État Providence, Seuil, Paris, 1981.

12. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari, 1982.

13. A. Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, Cappelli, Bologna, 1980.

14. L. M. Friedman, Il Sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, il Mulino, Bologna, 1978.

15. G. Teubner (ed.), Juridification of Social Spheres, De Gruyter, Berlin, 1987.

16. A. Garapon, I custodi dei diritti, Einaudi, Torino, 1995.

17. Cfr. A. Pandolfi, Progressismo e Biopolitica, 2003.

18. M. Foucault, Dits et Ecrits, III, Gaillemard, Paris, 1994.

19. A. Pandolfi, Progressismo e Biopolitica, cit.

20. P. Rosanvallon, La crise de l'État Providence, cit.

21. A. Pessina, Introduzione a Bergson, Laterza, Roma, 1994.

22. C. Messner, Mediazione penale e nuove forme di controllo sociale, in “Dei Delitti e Delle Pene”, VII, 3, pp. 93-111, 2000.

23. R. Abel (ed.), The Politics of Informal Justice, Academic Press, Los Angeles, 1982.

24. M. Pavarini, Dalla pena perduta alla pena ritrovata? Riflessioni su una “recherche”, in “Rassegna penitenziaria e criminologia”, 1/3, pp. 113-141, 2001.

25. Cfr. per una definizione sintetica di metodo storico genealogico M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma, 1997.

26. P. Rosanvallon, La crise de l'État Providence, cit.

27. Foucault definisce governamentalità la nuova tecnologia di potere, declinandola in questi termini: “L'insieme costituito dalle istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma molto specifica sebbene molto complessa di potere, che ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l'economia politica, per strumenti tecnici essenziali i dispositivi di sicurezza”.

28. Oggi in M. Foucault, Sicurezza, popolazione, territorio cit., e Nascita della biopolitica, cit.

29. P. Rosanvallon, La crise de l'État Providence, cit.

30. Th. Hobbes, Il Leviatano, Laterza, Roma-Bari, 1974.

31. J. Locke, Secondo trattato sul governo civile, UTET, Torino, 1960.

32. Th. Hobbes, Il Leviatano, cit.

33. O. Mazzoleni, Del dominio dello Stato - appunti per una teoria critica libertaria del potere statuale.

34. O. Mazzoleni, Del dominio dello Stato, cit.

35. Th. Hobbes, Il Leviatano, cit.

36. J. Locke, Secondo trattato sul governo civile, cit.

37. Th. Hobbes, Il Leviatano, cit.

38. M. Senellart, Nota del curatore, in M. Foucault, Nascita della Biopolitica, op. cit.

39. M. Foucault, La nascita della biopolitica, cit.

40. O. Marzocca (a cura di), Biopolitica e liberalismo, Feltrinelli, Milano, 2001.

41. M. Bertani, Postfazione, in M. Foucault, L'ordine del discorso, Einaudi, Torino, 2004.

42. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit.

43. M. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2002.

44. M. Bertani, Postfazione, cit.

45. R. Dahrendorf, Il conflitto sociale nella modernità, cit.

46. R. Dahrendorf, Il conflitto sociale nella modernità, cit.

47. Cfr. G. Esping-Andersen, Fondamenti sociali delle economie post-industriali, il Mulino, Bologna, 2000.

48. Cfr. S. Lipset, Le radici della democrazia, Bologna, il Mulino, 2003.

49. F. Ewald, L'État Providence, cit.

50. Ibidem.

51. A. Petrillo, Immigrazione e strategie dell'insicurezza. Genealogia di una politica. Duelli, razze, paure, rischi, febbri, di prossima pubblicazione in un volume collettaneo (sotto la direzione di L. D'Alessandro e A. Marino), per i tipi de L'Hammartan Italia.

52. Ibidem.

53. P. Rosanvallon, La crise de l'État Providence cit.

54. F. Ewald, L'État Providence, cit.

55. Ibidem.

56. Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano, 2004.

57. Per la distinzione concettuale tra i due termini francesi cfr. F. Ewald, L'État Providence, cit.

58. Z. Bauman, In Search of politics, Polity Press, Cambridge, 1999.

59. Ibidem.

60. Cfr. E. Santoro, Le antinomie della cittadinanza, cit.

61. P. Rosanvallon, La crise de l'État Providence cit.

62. Ibidem.

63. A. Pandolfi, Progressismo e Biopolitica, cit.

64. M. Foucault, La nascita della biopolitica, cit.

65. Ibidem.

66. Cfr. O. Marzocca, Biopolitica e liberalismo, cit.

67. Cfr. per il concetto di opposizione estatica in Nietzsche, F. Masini, Prefazione in F. W. Nietzsche, Al di à del bene e del male, Newton & Compton, Roma, 2002.

68. W. Beveridge, Social Insurance and Allied Services, cit.

69. P. Rosanvallon, La crise de l'État Providence, cit.

70. O. Marzocca, Biopolitica e liberalismo, cit.

71. M. Foucault, Sorvegliare e Punire, Einaudi, Torino, 2005.

72. M. Foucault, Dits et Ecrits, cit.

73. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit.

74. cfr. P. Amato (a cura di), La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività, Mimesis, Milano, 2004.

75. F. Ewald, D. Kessler, Tipologia e politica dei rischi, in “Il Rischio”, 22-24, p. 15-39,2000.

76. A. Pandolfi, Progressismo e biopolitica, cit.

77. R. Titmuss, Saggi sul “Welfare State”, Edizioni Lavoro, Roma, 1986.

78. M. Foucault, Archivio III, Feltrinelli, Milano, 1998.

79. Cfr. R. Castel, Les métamorphoses de la question salariale cit.

80. A. Pandolfi, Progressismo e biopolitica, cit.

81. Ibidem.

82. Ibidem.

83. Ibidem.

84. F. Ewald, L'État Providence, cit.

85. Z. Bauman, La Società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari, 2005.

86. M. Foucault, L'ordine del discorso, cit.

87. E. Santoro, Le antinomie della cittadinanza, cit.

88. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit.

89. G. Orwell, 1984, Einaudi, Torino, 2001.

90. A. Huxley, Mondo nuovo e ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano, 2000.

91. M. Foucault, Archivio III, cit.

92. A. Pandolfi, Progressismo e biopolitica, cit.

93. cfr. O. De Leonardis, Un approccio istituzionale ai processi di esclusione sociale, Relazione non pubblicata, Università di Torino, 20 novembre 2002.

94. R. Esposito, Bios, Einaudi, Torino, 2004.

95. M. Foucault, Omnes et singulatim, in O. Marzocca, Biopolitica e liberalismo, cit.

96. M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et Ecrits, IV, cit.

97. M. Foucault, Omnes et singulatim, cit.

98. Ibidem.

99. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit.

100. D. Padovan, Popolazione, lemma in AA. VV., Lessico della biopolitica, manifestolibri, Roma, 2006.

101. D. Padovan, Popolazione, cit.

102. E. Santoro, Dalla cittadinanza inclusiva alla cittadinanza escludente: il ruolo del carcere nel governo delle migrazioni.

103. Ibidem.

104. J. Revel, Michel Foucault, un'ontologia dell'attualità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003.

105. M. Foucault, Sicurezza popolazione territorio, cit.

106. Ibidem.

107. E. Santoro, Dalla cittadinanza inclusiva alla cittadinanza escludente: il ruolo del carcere nel governo delle migrazioni, cit.

108. Ibidem.

109. Ibidem.

110. Ibidem.

111. P. Rosanvallon, La nuova questione sociale, Ed. Lavoro, Roma, 1997.

112. Ibidem.

113. Ibidem.

114. R. Esposito, Bios, cit.

115. Ibidem.

116. Ibidem.

117. M. Foucault, Omnes et Singulatim, cit.

118. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, cit.

119. A. Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, cit.

120. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, cit.

121. A. Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, cit.

122. M. Weber, Economia e Società, Ed. Comunità, Milano, 1961.

123. V. Cesareo, Consenso e legittimazione nello Stato assistenziale, in CNPDS (a cura di), La società industriale metropolitana e i problemi dell'area milanese, Franco Angeli, Milano, 1981.

124. V. Cesareo, Stato Assistenziale, legittimazione e rischi degenerativi, in F. Ferrarotti (a cura di), La crisi dello stato sociale in Italia, Dedalo, Bari, 1983.

125. A. Gehlen, Studien zur Antropologie und Soziologie, Neuwied-Berlin, Luchterhand, 1963.

126. P. Rosanvallon, La nuova questione sociale, cit.

127. P. Rosanvallon, La nuova questione sociale, cit.

128. Ibidem.

129. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, cit.

130. Ibidem.

131. J. Habermas, Introduzione, in AA. VV., Stichworte zur Geistigen Situation der Zeit, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1980/1979, tr. it La colonizzazione del quotidiano, in “Quaderni piacentini”, XIX, 74, 1980.

132. Z. Bauman, Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2005.

133. Z. Bauman, Vite di scarto, cit.

134. Ibidem.

135. L. Wacquant, Parola d'ordine: Tolleranza Zero, Feltrinelli, Milano, 2000.

136. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000.

137. A. Petrillo, Immigrazione e strategie dell'insicurezza, cit.

138. Ibidem.

139. Ibidem

140. Ibidem.

141. A. Petrillo, Immigrazione e strategie dell'insicurezza, cit.

142. G. Oestreich, Filosofia e Stato moderno, Bibliopolis, Napoli, 1989.

143. M. Foucault, Omnes et singulatim, cit.

144. R. Brandimarte, Rischio, lemma in Lessico di biopolitica, cit.

145. F. Knight, Rischio, incertezza, profitto, La Nuova Italia, Firenze, 1960.

146. N. Luhmann, Sociologia del rischio, Bruno Mondadori, Milano, 1996.

147. A. Giddens, Il mondo che cambia, il Mulino, Bologna, 2000.

148. Ibidem.

149. F. Ewald, Insurance and Risk, in G. Burchell, C. Gordon, P. Miller (eds), The Foucault effect. Studies in Governamentality, The University of Chicago Press, Chicago, 1991.

150. C. Gordon, Governamental Rationality: An Introduction, in B. Burchell, C. Gordon, P. Miller (eds), The Foucault Effect, cit.

151. R. Castel, From Dangerousness to Risk, in B. Burchell, C. Gordon, P. Miller (eds), The Foucault Effect, cit.

152. Ibidem.

153. P. Rosanvallon, La nuova questione sociale, cit.

154. U. Beck, La Società del rischio, Carocci, Roma, 2000.

155. Ibidem.

156. A. Giddens, Risk Society: the context of British Politics, in J. Franklin (ed.), The Politics of Risk Society, Polity Press, Cambridge, 1998; cfr. U. Beck, A. Giddens, S. Lash, Modernizzazione riflessiva: politica, tradizione ed estetica nell'ordine sociale della modernità, Trieste, Asterios, 1999.

157. P. Rosanvallon, La nuova questione sociale, cit.

158. Ibidem.

159. Ibidem.

160. P. Rosanvallon, La nuova questione sociale, cit.

161. R. Castel, De l'indigence à l'exclusion, la dèsaffiliation. Precarisation du travail et vulnerabilité ralationelle, in J. Donzelot, Face à l'exclusion, Edition Esprit, Paris, 1991.

162. Cfr. P. Donati, Risposte alla crisi dello Stato sociale, Angeli, Milano, 1984; A. Baldassarre, A. A. Cervati (a cura di), Critica dello Stato sociale, Laterza, Roma-Bari, 1982.

163. A. Barry, T. Osborne, N. Rose (eds), Foucault and political reason, UCL Press, London, 1996.

164. E. De Cristofaro, Sovranità in frammenti, Ombre Corte, Verona, 2007.

165. Ibidem.

166. M. Senellart, Michel Foucault, governamentalità e ragion di stato, in S. Chignola (a cura di), Governare la vita, Ombre Corte, Verona, 2006.

167. M. Poster, The Second Media Age, Polity Press, Cambridge, 1997.

168. A. Heller, S. Puntscher Riekmann (eds), Biopolitics. The politics of the Body, Race and Nature, Aldershot, London Thorson, 1996.

169. C. Offe, Barbarie moderna: un microstato di natura?, in P. Chiantera-Stutte, L. Cedroni (a cura di), Questioni di biopolitica, Ed. Bulzoni, Roma, 2003.

170. A. Rabinbach, La biopolitica del lavoro, in P. Chiantera-Stutte, L. Cedroni (a cura di), Questioni di biopolitica, cit.

171. A. Bonomi, Il trionfo della moltitudine, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.

172. B. Perret, G. Roustang, L'economie contre la societé. Affronter la crise de l'integration sociale e culturale, Seuil, Paris, 1993.

173. Ibidem.

174. P. Chiantera-Stutte, L. Cedroni (a cura di), Questioni di biopolitica, cit.

175. A. Melucci, Il gioco dell'Io, Feltrinelli, Milano, 1991.

176. Cfr. T. Vitale, Attivazione e contrattualizzazione nel welfare locale: cambia la posizione dei destinatari?, in “La Rivista delle Politiche Sociali”, 1, pp. 291-323, 2005.

177. R. Castel, L'insicurezza sociale. Cosa significa essere protetti?, Einaudi, Torino, 2004.

178. T. Vitale, Attivazione e contrattualizzazione nel welfare locale: cambia la posizione dei destinatari, cit.

179. Ibidem.

180. L. Thévenot, Les justifications du service public peuvent-elles contenir le marché?, in A. Lyon-Caen, V. Champeil-Desplats (a cura di), Services publics et droits fondamentaux dans la construction européenne, Dalloz, Paris, 2001.

181. Ibidem.

182. T. Vitale, Attivazione e contrattualizzazione nel welfare locale: cambia la posizione dei destinatari, cit.

183. T. Mileva, Local Participatory Democracy in Britain's Health Service: Innovation or Fragmentation of a Universal Citizenship?, in “Social Policy & Administration”, 2, pp. 240-252, 2004.

184. L. Bifulco, O. de Leonardis, Sulle tracce dell'azione pubblica, in L. Bifulco (a cura di), Le nuove politiche sociali: temi e prospettive emergenti, Carocci, Roma, 2005.

185. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Feltrinelli, Milano, 2006.

186. A. Ceretti, Vita offesa: lotta per il riconoscimento e mediazione, in F. Scaparro (a cura di), Il coraggio di mediare, Guerini e Associati, Milano, 2001.

187. J. Habermas, Kampf um Anerkennung im Demokratischen, tr. it. in J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 1998.

188. Z. Bauman, Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge, 2001.

189. G. Agàmben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995.

190. O. Marzocca, Biopolitica e Liberalismo, cit.