ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Desy Parrini, 2007

La previsione normativa di benefici premiali per la collaborazione in materia di criminalità organizzata di tipo mafioso risponde all'esigenza di superare le difficoltà riscontrate nella repressione giudiziaria delle associazioni mafiose, le cui caratteristiche mettono a dura prova i tradizionali strumenti di investigazione e di accertamento processuale. Attraverso le norme premiali l'ordinamento incentiva i membri delle organizzazioni mafiose a dissociarsi e a collaborare con le autorità, promettendo loro in cambio un trattamento sanzionatorio e penitenziario di favore, nonché l'applicazione di misure di protezione.

Altre gravi forme di criminalità organizzata, come i sequestri di persona a scopo di estorsione e le associazioni terroristiche, hanno generato in passato ostacoli simili alle indagini, giustificando il ricorso al premio per la collaborazione, che si è rivelato utile al raggiungimento degli obiettivi. Non si può dire altrettanto nel caso della criminalità mafiosa, per la quale lo strumento premiale si è rivelato necessario ma non risolutivo, dato che il radicamento della mafia nel sistema sociale e istituzionale richiederebbe una strategia di contrasto persistente, da articolare su più piani, da quello socio-culturale preventivo a quello giudiziario-repressivo. In realtà, il legislatore si è preoccupato di regolare la materia solo quando, in seguito al verificarsi di attentati mafiosi eclatanti contro esponenti delle istituzioni, le forze politiche hanno ritenuto che occorresse placare l'allarme sociale anche predisponendo una normativa premiale ad hoc. Non da ora la dottrina giuridica lamenta la natura eccessivamente "emergenziale" della legislazione antimafia, obiettando che l'emergenza sollecita norme non di rado poco compatibili con i principi fondamentali del diritto penale, e per di più non sempre idonee a tutelare i beni giuridici esposti al pericolo.

Il primo mafioso "pentito" della storia si chiama Leonardo Vitale: nel 1973 decide di raccontare tutto quello che sa su Cosa Nostra, ma non viene creduto, infatti gran parte delle persone da lui accusate sono prosciolte, mentre lui viene considerato un seminfermo di mente e rinchiuso nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, prima e in quello di Reggio Emilia poi. Uscito dal manicomio nel 1980, viene ucciso nel 1984 da quella stessa mafia che non ha dimenticato il tradimento. A tale proposito, Giovanni Falcone commenterà amaramente: "Lo Stato, dopo averne sfruttato le debolezze caratteriali, una volta avuta la sua confessione, l'ha rinchiuso in manicomio dimenticandolo". Dopo undici anni dalle dichiarazioni di Vitale e da quella disastrosa vicenda giudiziaria che aveva contribuito a far maturare il convincimento che il mafioso se parla, è un pazzo e quindi non credibile, decide di parlare Tommaso Buscetta, per il quale le cose andranno diversamente: le sue rivelazioni unite a quelle di Salvatore Contorno sveleranno Cosa Nostra agli inquirenti e forniranno i dati necessari per istruire, a partire dal 10 febbraio 1986, il cosiddetto maxiprocesso di Palermo. L'esperienza acquisita sul campo porterà Falcone a sostenere l'utilità processuale dei collaboratori di giustizia e la necessità di una legislazione adeguata in materia. E' noto ai più che solo dopo le stragi del 1992 lo Stato interviene, anche sulla spinta di una mobilitazione popolare senza precedenti: i militari vengono inviati a presidiare le strade della Sicilia, viene definita ed emanata una normativa di rigore per i detenuti responsabili di reati mafiosi (l'art. 41bis dell'ordinamento penitenziario), vengono riaperte le carceri di Pianosa e dell'Asinara e in una notte vi vengono deportati i principali uomini d'onore già reclusi in altri istituti di pena; contestualmente, vengono introdotte nuove norme che prevedono particolari benefici penitenziari per chi decide di collaborare con la giustizia. Da un lato il carcere duro per i mafiosi irriducibili, dall'altro una serie di incentivi per chi passa dalla parte dello Stato: è questa la molla che porterà al pentitismo di massa, alla "fabbrica" dei pentiti. Si è pensato di essere alla vigilia del definitivo scardinamento di Cosa nostra, ma, inspiegabilmente, è arrivato il momento del desiderio di normalizzazione e come per una sorta di automatismo è stato messo in discussione tutto quello che è stato fatto fino a quel momento.

Col nostro studio si è tentato di descrivere il fenomeno dei collaboratori di giustizia, prendendo le mosse dalla legge Cossiga del 1980, con la quale sono state introdotte norme che prevedevano sensibili diminuzioni di pena per i terroristi disposti a collaborare con la giustizia, passando all'analisi del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella legge 15 marzo 1991, n. 82, legge fortemente voluta da Giovanni Falcone e da alcuni settori della magistratura e della polizia giudiziaria, approdando infine alla legislazione del 2001.

Ci siamo tuffati in questo mondo non solo attraverso l'attenta lettura dei testi che lo analizzano e lo descrivono, ma anche mediante il racconto degli addetti ai lavori che hanno un contatto diretto con i collaboratori e, dopo mille peripezie, anche attraverso alcuni incontri face to face con loro.

Collaboratori e testimoni di giustizia, due mondi profondamente diversi accomunati fino al 2001 da uno stesso dettato normativo, che non prevedeva neppure la figura del testimone.

Provenienze opposte, i primi dall'illegalità i secondi dalla legalità, ma entrambi portavoce di informazioni di fondamentale importanza per le indagini dell'autorità giudiziaria, legati da un destino in parte comune, soprattutto per i loro familiari: lo sradicamento dalla propria città d'origine, l'abbandono, per un periodo limitato nel tempo o per sempre, del proprio nome e cognome, così come del proprio posto di lavoro, della scuola, degli affetti, in una sola espressione: della propria vita.

Il collaboratore subisce spesso una duplice etichettatura: infame per i membri dell'organizzazione criminale di appartenenza, parassita per una larga maggioranza della società civile, dimenticando questa che senza le dichiarazioni/rivelazioni dei "pentiti" molti omicidi sarebbero rimasti senza mandanti ed esecutori, molti reati sarebbero stati impuniti e molte sarebbero le pagine buie della nostra storia.

Secondo alcuni è inaccettabile che lo Stato scenda a patti con queste figure repellenti, dei voltagabbana che decidono di rivelare ciò che sanno (o nelle peggiori delle ipotesi ciò che inventano) per mero opportunismo.

A parte il fatto che le primissime collaborazioni, come ad esempio quella di Buscetta, non erano premiate da sconti di pena, né incoraggiate da promesse di benefici, Cosa Nostra, così come le altre organizzazioni criminali, è caratterizzata da un altissimo grado di segretezza e di impenetrabilità e i suoi affiliati fanno dell'omertà un comandamento che difficilmente trasgrediranno. Per cui trovare persone in grado di "rompere la cortina di segreto" che "ontologicamente" avvolge le organizzazioni criminali è di fondamentale importanza per arrivare a conoscere i meccanismi delle stesse e per perseguire penalmente gli illeciti da esse commessi.

Come si evince dal titolo di questo studio, oltre ai collaboratori di giustizia ci siamo occupati dei testimoni di giustizia: persone del tutto estranee alle organizzazioni criminali, cittadini onesti che hanno il coraggio di denunciare ciò che hanno subito o visto, che per questo motivo si trovano in pericolo di vita e quindi bisognosi di tutela. Vengono acclamati come eroi, ma proprio qui risiede il paradosso di queste storie esemplari di uomini e donne: quella società che ha bisogno di testimoni-eroi è una società sconfitta perché per combattere e sconfiggere la mafia non servono eroi, ma uomini e donne normali, cittadini capaci di parlare, reagire, denunciare; serve che, ad esempio, rendere testimonianza su un omicidio cui si è assistito diventi consuetudine, abitudine, normalità appunto.

Osannati come eroi, equiparati poi nel trattamento tutorio e dall'opinione pubblica ai pentiti, soggetti a frustrazioni ed umiliazioni: queste sembrano le caratteristiche del mondo dei testimoni di giustizia, un mondo a cui si è cercato di dar voce e attenzione.

È questo, a nostro avviso, l'aspetto più interessante del nostro lavoro: l'esser passati dalla law in books, imprescindibile punto di partenza, alla law in action. In particolare si è posto attenzione sul programma speciale di protezione, sulla sua attuazione e sull'impatto che ha nella vita dei protetti, così come sul loro reinserimento nella vita "normale". Questa parte del nostro lavoro inizia proprio laddove il tecnicismo giuridico e la storia del diritto lasciano spazio all'indagine etnografica, alla possibilità di studiare le storie, ascoltare le parole, introdursi nei risvolti esistenziali di chi ha scelto di passare dalla parte dello Stato (nel caso dei collaboratori di giustizia) o di chi ha adempiuto ad un dovere civico (nel caso dei testimoni di giustizia).

Questo è stato possibile grazie al racconto degli stessi testimoni e di un collaboratore di giustizia che, con non poca sofferenza, hanno rivissuto la loro esperienza nel momento in cui hanno accettato di condividerla con noi, ma anche grazie al racconto di legali, come l'avvocato Enzo Guarnera e l'avvocato Luigi Li Gotti, attuale sottosegretario alla giustizia, del dottor Giancarlo Bianchini, dirigente del Servizio centrale di protezione, del dottor Capuano dei NOP della Toscana e del dottor Francesco Centofanti, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma.

Abbiamo avuto, infine, il privilegio di raccogliere la testimonianza di due addetti ai lavori di straordinaria caratura: Gian Carlo Caselli, Procuratore generale presso la Corte d'appello di Torino e Piero Luigi Vigna, ex procuratore nazionale antimafia; entrambi hanno dimostrato grande attenzione al presente lavoro, arricchendolo attraverso il loro contributo, la loro importantissima esperienza professionale e umana.