ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Desy Parrini, 2007

Dell'utilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia da un lato e dei testimoni dall'altro non abbiamo mai dubitato, né abbiamo maturato perplessità alcuna di fronte al ricorso da parte dell'autorità giudiziaria alle dichiarazioni rilasciate da tali soggetti nel corso del presente studio. I collaboratori di giustizia, vessati dall'opinione pubblica e spesso dalla classe politica, hanno dato in passato e potrebbero dare in un futuro prossimo un contributo di eccezionale rilevanza nella lotta contro la criminalità organizzata, ma soltanto se lo Stato volesse combattere questa guerra fino in fondo e vincerla. A tale proposito sosteneva Giovanni Falcone: "Se è vero, com'è vero, che una delle cause principali, dell'attuale strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti col mondo della politica e con centri di potere extra-istituzionale, potrebbe sorgere il sospetto, nella perdurante inerzia nell'affrontare i problemi del pentitismo, che in realtà non si voglia far luce sui troppo inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti". Mettendo da parte il piano politico della questione, passiamo ad esporre gli aspetti, positivi e negativi della normativa del 2001 emersi nel corso di questo studio, ponendo particolare attenzione alle modifiche che si potrebbero apportare alla stessa.

E' già emerso nel secondo capitolo, ma giova ripeterlo, che gli aspetti positivi della legge del 2001 sono principalmente due: l'aver introdotto la netta separazione tra il profilo premiale e quello tutorio e l'aver distinto in modo netto il pentito dal testimone di giustizia. Mentre uno dei punti deboli della legge 45/2001, che ha finito per intaccare l'efficienza dello strumento, è costituito dalla norma che, pur nel comprensibile intento di limitare il fenomeno delle cosiddette "dichiarazioni a rate", fissa a sei mesi il termine massimo in cui il collaboratore di giustizia deve rendere le proprie confessioni, rischiando di trasformarsi in una sorta di "censura" del contenuto delle rivelazioni. L'articolo "incriminato" è il 16quater 1 comma della legge 82/91 e riteniamo che si debba portare allo stesso delle modifiche, se non addirittura arrivare alla sua abrogazione poiché se portiamo alle estreme conseguenze la previsione contenuta in questo articolo, sarebbero inutilizzabili anche le dichiarazioni, rese oltre il termine dei 180 giorni, che scagionassero un innocente, ad esempio detenuto, accusando il vero colpevole magari in libertà. Questo è in netto contrasto con le regole elementari della giustizia e quindi occorre un intervento da parte del legislatore per ovviare a ciò.

La stagione felice dei processi a Cosa Nostra, quella in cui si catturavano latitanti, si evitavano ulteriori crimini e spargimenti di sangue sembra lontana mille miglia, dal 1997 si è registrato un progressivo calo del numero e delle qualità delle collaborazioni, arrivando ai minimi storici del presente. Gli ultimi dati provenienti dal ministero dell'Interno riferiscono che i collaboratori di giustizia sono 904, mentre nel 1996 erano 1214. L'ultimo capomandamento divenuto collaboratore di giustizia è Antonino Giuffrè, la cui collaborazione risale al 2002.

C'è dunque un futuro per i collaboratori di giustizia provenienti dal mondo della criminalità organizzata?

Ad affossare definitivamente il fenomeno delle collaborazioni interviene il mutamento di strategia di Cosa nostra che, col sopraggiungere del nuovo millennio, abbandona la scelta delle vendette trasversali e del terrore, e imbocca la strada indolore che gli inquirenti hanno definito "di recupero del figliol prodigo". I collaboratori di giustizia e le loro famiglie non vengono più "condannate a morte", ma si preferisce intervenire con la comprensione, con il perdono al posto della punizione estrema. Cosa nostra ha optato per la via dell'inabissamento e del silenzio per offrire all'organizzazione condizioni di maggiore agibilità, con l'obiettivo di puntare ad una sorta di "patto di coesistenza" con lo Stato, finalizzato a far sì che le due realtà (quella dello Stato e quella di Cosa nostra) possano convivere.

Gli aumentati obblighi per i collaboratori, il maggior potere sanzionatorio in caso di violazione delle regole comportamentali, la consegna dei beni, l'obbligo di scontare in carcere una congrua parte della pena e i 180 giorni di tempo per raccontare tutto agli inquirenti sembrano un prezzo eccessivo richiesto per entrare nel programma di protezione, tanto che persino il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso ha commentato così, provocatoriamente, la vigente normativa: "Se io fossi un criminale, con questa legge non mi sognerei mai di collaborare. Con questa legge, il collaboratore deve dire tutto e subito. Deve dare tutto e subito. Deve stare in carcere".

Lo studio condotto sull'attuazione del programma di protezione ha avuto una finalità esplorativa e ci consente di offrire qualche spunto di riflessione sulla gestione quotidiana della vita sotto protezione, nella consapevolezza che i risultati ottenuti non esauriscono l'interpretazione del complesso fenomeno della collaborazione di giustizia che coinvolge questioni di carattere politico, sociale e normativo.

Addetti alla protezione e protetti non dipingono lo stesso scenario, al contrario sembrano appartenere a due mondi opposti: è evidente che le rappresentazioni che istituzioni e utenti danno di sé e dell'altro sono influenzate dal ruolo che ricoprono. Nelle interviste rilasciate dai funzionari del Servizio centrale di protezione, così come in quelle dei membri della Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione, emerge una valutazione positiva del proprio operato, basata prevalentemente sul conseguimento dell'obiettivo della sicurezza garantita dai soggetti protetti; quanto appena detto viene puntualmente smentito da coloro che sono entrati nel programma di protezione, sentendosi vittime di una condizione che non risponde alle aspettative precedenti all'ingresso in protezione. Le difficoltà legate al cosiddetto reinserimento sociale e il disagio psicologico vengono attribuiti a limiti normativi e a scarse disponibilità finanziarie e umane, delle quali il Servizio centrale di protezione non è direttamente responsabile.

A questo riguardo si può muovere un appunto alla legge 45 del 2001, la quale pur individuando la necessità di introdurre nel programma di protezione misure per il reinserimento lavorativo, non determina obblighi specifici per il Servizio centrale di protezione, che svolge per lo più funzioni burocratiche. Si può rilevare, in particolare, come la soluzione proposta dalla normativa sia la capitalizzazione sociale, senza l'obbligo di un'analisi di fattibilità preventiva, né del monitoraggio dell'andamento delle attività avviate dai collaboratori o dai testimoni di giustizia e dai loro familiari che restano gli unici responsabili del successo o del fallimento delle iniziative.

Secondo il Servizio centrale di protezione la fuoriuscita dal programma da parte dei collaboratori e dai testimoni è un indice positivo del funzionamento del sistema che in tal modo riuscirebbe a garantire quel necessario turn over che ne evita l'implosione. Tuttavia, dai racconti che abbiamo raccolto, tale provvedimento non è sempre sufficiente a risolvere i problemi delle persone che fuoriescono dal programma, le quali si imbattono in molti problemi che rendono arduo un effettivo reinserimento nella vita "normale". Occorrerebbe, dunque, un intervento legislativo volto a introdurre misure di sostegno per attuare un effettivo reinserimento degli ammessi a programma di protezione e misure anche di controllo e di verifica dell'avvenuto o meno reinserimento.

Un altro punto dolente del programma di protezione, a cui va posto rimedio, è il grande disagio psicologico e relazionale che vivono i "protetti" a causa del trasferimento in località protetta, dall'assenza di un progetto di vita e dalla paura in cui tali soggetti piombano, disagio affrontato dal Servizio centrale di protezione con un esiguo numero di personale specializzato, per la precisione ci sono soltanto due psicologi all'interno del Servizio che dovrebbero occuparsi di tutte le persone sotto protezione. In molti lamentano di non avere un adeguato sostegno psicologico, sostegno che riteniamo di fondamentale importanza soprattutto per i minori, che inevitabilmente rimarranno segnati da un'esperienza simile. Bisognerebbe, quindi, che all'interno dei NOP fosse introdotto del personale specializzato volto alla supervisione e alla cura psicologica di coloro che sono ammessi al programma, di protezione, ponendo particolare attenzione ai bambini.

Le lamentele e le doglianze raccolte attraverso le nostre interviste, ci portano a sostenere che il contenuto delle speciali misure di protezione elencato dall'art. 16ter della legge 15 marzo 1991, n. 82, ineccepibile da in punto di vista formale, rischia di rimanere lettera morta. In particolare un punto critico è rappresentato dal fatto che le misure di assistenza, a cui i testimoni di giustizia hanno diritto, non sembrano garantire un tenore di vita personale e familiare non inferiore a quello esistente prima dell'avvio del programma. Oltre a ciò, la condizione di testimone delineata dalla legge in esame presenta due paradossi. Il primo, il più grave, riguarda il possibile cambio di città e generalità: cittadini esemplari che si mettono al servizio dello Stato sono costretti a cambiare vita e identità per salvaguardare la loro incolumità. A questo proposito è stata avanzata proprio da parte di alcuni testimoni la proposta di predisporre misure di protezione da effettuarsi in loco, evitando in questo modo lo sradicamento dalla propria città d'origine e dando anche un forte messaggio alle organizzazioni criminali da parte dello Stato che si ergerebbe a difensore supremo dei propri cittadini. L'altro grande paradosso attiene alla perdita di diritti, in primo luogo il fondamentale diritto al lavoro. Com'è emerso da questo studio, durante i primi anni del programma di protezione, ma spesso anche oltre, al testimone non è permesso di portare avanti la propria attività lavorativa, il che ne rende difficile la ripresa all'uscita dal programma. Pur consapevoli della complessità della condizione dei testimoni di giustizia è necessario evidenziarne le criticità e avviare una scrupolosa e attenta riflessione per garantire loro l'effettivo, concreto e dignitoso reinserimento sociale ed economico, ma non solo, che l'intera permanenza nel programma di protezione sia caratterizzata dal loro rispetto e non da una serie infinite di umiliazioni e mortificazioni.

La complessità del fenomeno rende difficile individuare delle soluzioni a breve termine e ardua una lettura univoca, senza il rischio di cadere in facili semplificazioni. Descrivere la vita sotto protezione nei suoi aspetti quotidiani e contraddittori rappresenta un tentativo per costruire una base conoscitiva che permetta interventi e approfondimenti futuri, che riteniamo essere necessari per rendere meno difficile la vita sotto protezione di tutti, ma in particolare dei testimoni di giustizia e dei loro familiari. Ci pare un atto dovuto.