ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo quarto
Collaboratori e testimoni di giustizia secondo un approccio sociologico

Desy Parrini, 2007

1. Renna Incoronata e la sua vita nel programma di protezione

Incoronata è nata a Foggia l'11/06/72, a venti anni è già sposata con Mario Nero e ha due figli: Gianfranco e Valeria. Il suo ingresso nel programma di protezione avviene perché suo marito si imbatte fortuitamente nell'assassino di Giovanni Panunzio, un imprenditore foggiano, che aveva denunciato all'autorità giudiziaria di aver ricevuto una richiesta estorsiva di due miliardi di lire, e decide di recarsi in Questura per raccontare ciò che ha visto. Mario Nero individua il killer di Panunzio mediante riconoscimento fotografico: si tratta di Donato Delli Carri, esponente di spicco della mala foggiana impegnata nelle estorsioni a danno di commercianti e di imprenditori. Il dovere civile a cui Mario adempie espone lui e i suoi familiari ad un rischio ed un pericolo tali da comportare il loro ingresso nel programma di protezione: inizia così la tormentata e triste vicenda che Incoronata ha deciso di raccontarci, dieci lunghissimi anni vissuti in uno stato di morte civile e presto vedremo perché.

L'omicidio di Panunzio avviene il 6 novembre del 1992 ed il 9 il marito di Incoronata si reca in Questura, il 22 dello stesso mese a casa Nero si presentano un ispettore e un agente della Polizia di Stato: è l'inizio di una nuova vita, quella "sotto protezione". Incoronata non sapeva che cosa avesse fatto il marito, per cui all'arrivo della polizia e all'invito a preparare le proprie cose rimane "agghiacciata" (1), ma segue le indicazioni che le vengono date. Da Foggia vengono condotti a Roma, il viaggio avviene di notte e Incoronata inizia a sentirsi "messa da parte, come un bagaglio in attesa di essere spostato...Non si preoccupavano neppure di chiedermi se volessi bere o se avessi bisogno di qualcosa, assolutamente niente. Per fortuna avevo degli omogeneizzati per i bambini". Dopo la tappa a Roma presso il Servizio centrale di Protezione in via Paolo di Dono, la destinazione successiva è Pistoia, presso la Locanda degli elfi. E' qui che iniziano i primi guai perché "la polizia di Pistoia ci aveva proibito in modo categorico di utilizzare i nostri documenti, per qualsiasi problema avremmo dovuto rivolgerci a loro e ci lasciarono i loro numeri di telefono. Queste erano le loro raccomandazioni. Scendiamo così nella hall dell'albergo per mangiare e la prima cosa che ci viene richiesta sono proprio i nostri documenti poiché non era avvenuta la nostra registrazione presso l'albergo. Noi non sapevamo cosa rispondere se non che i nostri documenti li avevano le persone che ci avevano accompagnato: questa risposta è stato il nostro biglietto da visita perché i proprietari dell'albergo sapevano che quelle persone che ci avevano accompagnato erano della Digos di Pistoia. Iniziano allora i primi commenti: - Ah, ma tutti qua li portano questi pentiti? -".

E' accaduto, dunque, che la famiglia di Incoronata fosse presa per una famiglia di pentiti: niente di più errato, ma a parte questo emerge immediatamente come ciò che ha giustificato lo spostamento dalla loro città, vale a dire la loro sicurezza, non fosse garantito poiché in molti sapevano, anche se ciò non corrispondeva al vero, che erano persone "strane" (2). Iniziano dunque le prime umiliazioni, ma a queste se ne aggiungono delle altre nel momento in cui il marito di Incoronata sottoscrive il "contratto" relativo alla protezione, poiché quest'ultimo contiene una clausola (3) sui generis per una persona onesta e totalmente estranea al mondo della criminalità: l'impegno a non commettere reati. Il fatto di sentirsi trattati come pentiti e la conseguente indignazione che da ciò scaturisce è un tratto comune a tutte le esperienze che abbiamo raccolto e a quelle che abbiamo appreso dai giornali e ascoltato (4).

Per cinque mesi circa Incoronata e i suoi sono rimasti nel residence, percependo in questo lasso temporale l'assegno di mantenimento in modo discontinuo, poi è stato assegnato loro un appartamento sempre a Pistoia dove sono rimasti fino al 2000 con non poche difficoltà visto che nella seduta dell'11 settembre 1996 la Commissione centrale deliberò (5) di non prorogare ulteriormente il programma di protezione e conseguentemente il servizio centrale di protezione inviò l'intimazione a lasciare l'appartamento. Lo sfratto non è avvenuto solo perché Mario Nero ha impugnato davanti al giudice amministrativo il provvedimento di "non proroga" del programma di protezione e questa impugnazione ha avuto esito positivo accogliendo le sue richieste.

Ma facciamo un passo indietro e poniamo attenzione alla vita che Incoronata, Mario e i due piccoli bambini hanno condotto durante la loro permanenza nel programma di protezione, soffermandoci in particolare sul versante dell'assistenza sanitaria, dei documenti di copertura (6) e dell'iscrizione scolastica dei figli.

Gli abitanti di Pistoia non hanno tenuto un comportamento encomiabile nei loro confronti, tanto che "non ero libera neppure di scendere per portare fuori il cane per evitare di essere insultata; venivamo apostrofati con dei termini schifosi e questo mi portava a stare sempre di più in casa. A causa dello stress in cui vivevo ero passata, nel giro di tre mesi, da 50 chili a 90, proprio perché il programma di protezione porta all'annullamento totale della persona: tu non hai più un'identità, non sei niente. Eravamo in balia della Digos di Pistoia e dico in balia perché quando siamo arrivati lì eravamo il primo caso di testimoni, anzi addirittura credo che il nostro sia stato il primo programma di protezione. Noi eravamo un esperimento per loro, per come comportarsi poi con gli altri. Spero e immagino che per altre famiglie di testimoni di giustizia le cose siano andate meglio perché noi abbiamo fatto da cavie".

L'assistenza sanitaria rappresenta uno dei capitoli più infelici non solo della vicenda della famiglia Nero, ma in generale delle storie di tutti i testimoni di giustizia, poiché è correlata all'impossibilità di adoperare i documenti e, quindi, anche i libretti sanitari. Al momento dell'arrivo a Pistoia, un sovrintendente della Questura del luogo raccomanda al marito di Incoronata di conservare gli scontrini relativi all'acquisto delle medicine per fruire poi del rimborso; quando la somma da "recuperare" arriva a circa 600.000 £ Nero presenta la documentazione in Questura. Oltre alla risposta tardiva, passano sette mesi, il ministero dell'Interno fa presente che gli scontrini da soli non sono sufficienti per rimborsare la cifra richiesta, ma devono essere accompagnati dalla prescrizione del medico. Con questa precisazione il ministero sembra dimenticare che la famiglia di Incoronata, non potendo adoperare il libretto sanitario in quanto privi della documentazione di copertura, è priva del medico di base e, dunque, della possibilità di avere le prescrizioni richieste.

Dopo poco l'arrivo a Pistoia si verifica un primo episodio di mancata assistenza sanitaria nei confronti di Valeria, di appena 11 mesi; Incoronata chiede con insistenza un medico che però non arriva, mentre arriva dalla Questura l'ordine di non portare la bambina in ospedale poiché non hanno né i documenti né i libretti sanitari, dopo tre giorni si presenta un pediatra che diagnostica una broncopolmonite.

Un'altra vicenda di mancata assistenza sanitaria riguarda il marito di Incoronata, il quale durante una mostra canina viene morso da un cane alla gamba sinistra, si forma un grande ematoma che va rimosso con un intervento chirurgico. Dal giorno dell'incidente a quello dell'operazione trascorrono undici giorni: all'inizio riceve costanti rassicurazioni dalla Criminalpol di Firenze, cui non segue niente; poi viene invitato a recarsi in un determinato ospedale e a rivolgersi al Direttore sanitario, che sarebbe stato al corrente della situazione. Il giorno successivo Mario Nero si reca in ospedale, ma non può ottemperare alla richiesta da parte dei medici di esibire la prescrizione del medico di base e della tessera sanitaria: documenti dei quali non può disporre a causa del mancato perfezionamento del procedimento del cambio di generalità e del divieto impostogli, all'inizio dell'ingresso nel programma di protezione, di presentarsi con la propria identità. Di fatto, la famiglia Nero è priva di qualsiasi assistenza di carattere sanitario; le poche cure ricevute nel corso degli anni si devono alla disponibilità di alcuni medici che hanno acconsentito a prestarle, gratuitamente e senza alcun riferimento al servizio pubblico.

Ecco dalle parole di Incoronata com'era la sua vita sotto protezione: "...facevo sempre più i conti con la realtà dei fatti: mentre una persona normale poteva andare a fare la spesa, io non potevo; anche per uscire avevo bisogno dell'autorizzazione, dovevo chiamare la polizia e dovevo essere accompagnata dalla polizia. Diventava umiliante anche andare al supermercato per comprare i pannolini e gli assorbenti perché mi servivano. Dovevo essere accompagnata sempre da loro e li vedevo attraverso gli scaffali che controllavano...sembrava dovessero scortare Al Capone. Questo mi feriva sempre di più perché mi domandavo come mai, cosa avessi fatto e non riuscivo a darmi una spiegazione. A questo si aggiungeva anche la paura, l'insicurezza. Io chiedevo solo di essere trattata come una cittadina italiana e questo non avveniva. Ovunque andavo già sapevano chi fossi ancora prima che mi presentassi".

Altro punto dolente è stato rappresentato dall'iscrizione alla scuola materna del figlio di Incoronata, ancora una volta il sistema tutorio sembra fallire poiché a scuola tutti sanno chi è Gianfranco: il figlio di una persona sottoposta a programma di protezione. Prima che l'iscrizione avvenga trascorrono dei mesi e, una volta superati gli ostacoli formali, ad anno scolastico quasi concluso, il bambino non viene accompagnato all'asilo soltanto dal padre, ma anche da alcuni poliziotti. Con un biglietto da visita del genere il bambino è guardato con diffidenza da tutti, l'idea, ancora una volta sbagliata, è quella di avere a che fare col figlio di un pentito e quindi da tenere lontano. "I ragazzi non riuscivano a socializzare, non riuscivano ad ambientarsi bene, non riuscivano ad avere degli amici con cui uscire al di là della scuola perché la notizia si diffondeva a macchia d'olio e venivano definiti come i figli dei pentiti". Ad anno scolastico avviato si verifica un brutto episodio che porterà Incoronata a iscrivere Gianfranco in un'altra scuola "ho dovuto cambiargli scuola perché un'insegnante gli ha detto di stare zitto perché figlio di un pentito. [...] Il cambiamento non è stato però rapido come io mi aspettavo: sono passati tre mesi prima che potesse frequentare la nuova scuola".

Ma questo non è stato l'unico problema che Incoronata ha dovuto affrontare, infatti Gianfranco frequenta la scuola elementare col cognome di copertura (Manfredi), quando arriva il momento dell'iscrizione alla scuola media il mancato completamento del cambio delle generalità e la mancata proroga del programma di protezione costringono ad adoperare il cognome originario. Ma come si fa a iscrivere nei registri della scuola media Gianfranco Nero, se la scuola elementare è stata frequentata da Gianfranco Manfredi? La risposta, sconcertante, provenuta dal ministero dell'Interno è stata quella di iscrivere col nome originario un ragazzo di undici anni alla scuola elementare. La condizione dei figli di un testimone di giustizia è estremamente delicata, a parte la scuola, che comunque rappresenta il problema principale, l'anormalità si riflette nella vita quotidiana: non si possono invitare i nonni il giorno del compleanno, così come per le altre festività, non si possono invitare i compagni o gli amici a causa dell'isolamento a cui sono costretti; è un'infanzia negata, privata della spensieratezza che la dovrebbe caratterizzare e, come ci ha raccontato Incoronata, sostituita da frequenti incubi notturni purtroppo ancora oggi presenti. In particolare è traumatico per un bambino dover cambiare il proprio cognome, tratto essenziale di identificazione, per cui "ho dovuto spiegargli io che non doveva più dire di chiamarsi Gianfranco Nero, ma Gianfranco Manfredi. Gli ho fatto una violenza psicologica; risultato? Tutte le notti si svegliava terrorizzato, aveva incubi atroci e urlava in un modo spaventoso. Nonostante questo non avevo nessun aiuto da nessuno, nessun sostegno psicologico. L'unico aiuto che ho avuto è stato quello di una dottoressa che si è prestata per molti anni ad aiutarci senza chiederci nessun compenso. [...] Ho sviluppato io delle capacità di aiuto nei suoi confronti e comunque gli è rimasta in sé quella rabbia, tuttora ha degli attacchi di panico e la notte, nonostante abbia 19 anni, lo sento spesso urlare. Per Valeria era normale essere circondata dalla polizia, aveva come punto di riferimento proprio questa, per lei era normale non avere nonni e zii. Ricordo un episodio di quando aveva 5 anni: doveva mascherarsi per la festa di carnevale alla scuola materna, ma io non potevo comperarle il vestito e glielo dissi, la sua risposta fu quella di rivolgermi alla Digos perché è lei che pensa a tutto. La normalità sua era questa, noi non eravamo nulla e questo feriva e ferisce ancora. Al momento della fuoriuscita dal programma per lei è stato più difficile accettare di non chiamarsi più Manfredi, come difficile è stato accettare di doverci muovere da soli".

Dopo Pistoia la famiglia Nero è stata trasferita in Lombardia, dove vi è rimasta per circa sei mesi e prima della fuoriuscita dal programma di protezione, avvenuta nel 2002, hanno vissuto in un'altra località per un anno e mezzo.

Adesso Incoronata vive con i suoi due figli e cercano di condurre una vita normale, il sorriso è da poco riaffiorato sulle loro labbra.

2. Masciari Giuseppe: un testimone di giustizia

Abbiamo conosciuto Giuseppe Masciari, Pino per gli amici, Marisa, sua moglie, Francesco e Ottavia, i loro bambini, durante gli Stati generali dell'antimafia a Roma nel novembre del 2006 ed è in quella sede che abbiamo appreso quanto ci apprestiamo a scrivere.

Il sig. Masciari è un imprenditore edile di Serra San Bruno (VV) che è stato sottoposto al programma speciale di protezione il 18-10-1997, poiché esposto a rischio concreto a seguito della decisione di rendere testimonianza all'autorità giudiziaria in ordine alle richieste estorsive di cui era stato vittima. A partire dal 1988, anno in cui diviene amministratore della società in accomandita semplice "Masciari Francesco s.a.s.", deve fare i conti con le richieste estorsive provenienti non solo dalla criminalità organizzata, ma anche da parte di pubblici amministratori locali. La prima denuncia formale avviene nel novembre del 1994, cui ne hanno fatto seguito altre che hanno portato al rinvio a giudizio 42 persone, nei confronti delle quali sono stati instaurati 6 procedimenti nei quali il sig. Masciari risulta parte offesa e si è costituito parte civile.

Sono passati dieci anni dall'ingresso nel programma di protezione, Giuseppe Masciari vive in una località segreta lontano dalla sua Calabria, tenta di condurre una vita normale, ma ci racconta che le giornate trascorse in assoluta solitudine sono monotone e difficili da sopportare. Lui e i suoi familiari soffrono per questa condizione in cui si trovano costretti a vivere e per di più si sentono abbandonati dallo Stato. Ecco le parole dello stesso Masciari (7): "La mia vicenda ormai è nota a tutti, pertanto non ho alcuna intenzione di rimarcare quelle che sono state, e che purtroppo continuano ad essere, le inadeguatezze dei servizi di tutela predisposti dal Servizio centrale di protezione durante i miei spostamenti in Calabria e non solo, e non starò qui a parlare delle carenze dello stesso Servizio commesse in ordine alla mancata documentazione identificativa di copertura, o al mancato riconoscimento di un serio programma di protezione dal quale, addirittura, sia io che mia moglie ed i miei figli siamo stati letteralmente buttati fuori il 27 ottobre 2004- mentre ancora oggi svolgo il ruolo di testimone in processi, in aperta contraddizione con la legge 45/2001 secondo cui i testimoni di giustizia hanno diritto a misure di protezione fino all'effettiva cessazione del pericolo per sé e i familiari- e se oggi continuiamo a beneficiarne è solo grazie al ricorso al Tar presso il quale ho impugnato il predetto provvedimento. Sia ben chiaro che sia io sia la mia famiglia siamo dalla parte dello Stato, per questo riconfermiamo la scelta fatta undici anni fa e per la quale non abbiamo mai avuto ripensamenti ed anzi voglio ribadire che provo stima e riconoscenza per quanti, nelle istituzioni si sono, ieri come oggi, prodigati ad hanno fatto tutto quello che era nelle loro possibilità per far funzionare questo sistema. La mia azione ha ora il significato della denuncia della sofferenza non fine a se stessa ma come proposta di riflessione da parte degli apparati dello stato affinché l'attività dello stesso sia improntata al miglioramento della normativa e della sua applicazione soprattutto da parte di organismi specializzati e puntualmente formati a ciò e non lasciati ad improvvisazione di sorta".

I maggiori problemi denunciati (8) da Masciari sul programma di protezione sono i dispositivi di tutela, la documentazione di copertura e la capitalizzazione delle misure di assistenza. Tralasciamo quest'ultimo aspetto, non perché irrilevante, ma, poiché richiederebbe una trattazione talmente specifica che non saremmo in grado di soddisfare per mancanza sia di strumenti conoscitivi sia di atti volti ad illustrare questo aspetto. Tanto per inquadrare il problema della capitalizzazione in termini generali, facciamo presente che una delibera in ordine a questa è avvenuta nel 2004. Nella delibera della Commissione centrale sono indicate le seguenti somme: 1.293. 418 euro per la chiusura del concordato fallimentare, 267.400 euro a titolo di capitalizzazione delle misure di assistenza, 18.870 euro a titolo di risarcimento del danno biologico e 29.670 euro a titolo di risarcimento del danno biologico sofferto dalla moglie; mentre la richiesta formulata dal testimone era del tutto diversa: indicava un milione di euro per il mancato guadagno, un altro milione per le somme in concreto erogate agli estorsori e un milione e mezzo per il lucro cessante. A tale proposito possiamo avanzare una riflessione: l'articolo 10, comma 15, del regolamento del 2004 stabilisce che la capitalizzazione delle misure di assistenza economica consiste nell'erogazione di una somma di denaro pari all'importo dell'assegno di mantenimento di dieci anni, ma l'articolo 16ter, introdotto dalla legge n. 45 del 2001, stabilisce che l'assistenza prevista per i testimoni sia volta a garantire un tenore di vita personale e familiare non inferiore a quello esistente prima dell'avvio del programma di protezione. Emerge un'incongruenza tra la lettera del regolamento e quella della legge. Non è stato effettuato (9) alcun accertamento sulla ricostruzione dell'effettivi tenore di vita goduto dal testimone prima dell'ingresso nel programma di protezione, come, invece, espressamente previsto dalla legge vigente. Giusto per voler dare una serie di indicazioni su quello che dovrebbe essere il computo del tenore di vita, risulta che la famiglia Masciari aveva una casa al mare nella località d'origine ed una baby sitter si prendeva cura dei figli minori.

In ordine all'inadeguatezza dei dispositivi di tutela asserita dal sig. Masciari, il Servizio (10) centrale di protezione ha affermato che il predetto "...durante le sue trasferte nella località d'origine, non sempre motivate da esigenze di giustizia, ha fruito di adeguate misure consistenti nell'accompagnamento con scorta, predisposte dalle autorità di P.S. competenti, con l'impiego di un congruo numero di personale e di automezzi in condizioni di perfetta efficienza... ...ha sempre fruito di autovettura specializzata...". Di segno totalmente opposto a riguardo sono le affermazioni del testimone di giustizia, il quale lamenta non solo una generica inidoneità delle misure di sicurezza adottate, ma riferisce una serie considerevole di casi, volti a rappresentare emblematicamente le sue doglianze. In particolare ciò che lo ha profondamente ferito è il fatto che: "in passato è avvenuto che si pretendeva che andassi in aula a testimoniare dopo aver affrontato un lungo viaggio e senza darmi la possibilità di riposare o di avere un colloquio preliminare con il legale che mi sta rappresentando nella mia veste di parte civile; oppure sono stato lasciato solo in alberghi senza tutela alcuna e quindi costretto a chiudermi nelle camere correndo seri rischi di vita; sono stato scorazzato con mezzi di fortuna, non blindati, addirittura, più di una volta con veicoli riportanti la targa della Regione della località protetta; sono stato costretto a pernottare in strutture alberghiere di Crotone dove non mi sentivo pienamente tutelato". Ha inoltre riferito di aver cercato il personale della scorta, nella notte del 23/11/2003, poiché accusava dei malesseri e voleva farsi accompagnare in una farmacia scoprendo che non era previsto alcun servizio di protezione della notte e di essere stato esposto alle minacce degli imputati nel corso delle udienza dibattimentale del 7/6/2001 nell'aula bunker di Catanzaro, perché fatto posizionare in prossimità di essi. Queste differenze tra quello riferito dal Servizio centrale di protezione e quello riportato da Masciari può essere il frutto del loro diverso punto di vista: da una parte vi è il Servizio con un punto di vista amministrativo, gestionale e tecnico, dall'altra quello del testimone, "un punto (11) di vista assai più sofferto di chi ha una componente psicologica assai sensibile rispetto a queste vicende e quindi anche un soggetto che si porta dietro quella sindrome di assoluta innocenza rispetto agli eventi che si stanno determinando intorno a lui, quindi una sorta di perpetuarsi dell'ingiustizia alla quale egli è sottoposto".

Proprio in questi giorni si è verificato un fatto, riportato anche sui quotidiani (12), che ben si ricollega a quanto detto finora: il 14 marzo 2007 Giuseppe Masciari doveva testimoniare presso il tribunale di Catanzaro, ma non era stato attivato nessun sistema di tutela. Racconta Masciari a riguardo: "mi hanno detto di non lasciare il Nord, di non scendere in Calabria. Ma il tribunale mi intima di presentarmi e io devo partecipare". Così dopo aver inviato un fax alle autorità preposte all'organizzazione dell'accompagnamento scortato dei testimoni di giustizia, nel quale faceva presente la sua intenzione a recarsi in aula per testimoniare, il 12 marzo, Masciari è partito alla volta della Calabria accompagnato però, non da poliziotti o carabinieri, come ci si aspetterebbe, bensì da due ragazzi di Libera, mentre la scorta è arrivata il giorno dopo: due fuoristrada blindati e 5 carabinieri. Era impossibile provvedere un giorno prima? Uno Stato che agisce in questo modo è in grado di tutelare i suoi cittadini? La classe politica deve interrogarsi e porre rimedio a questa grave situazione.

In ordine alla mancanza fornitura della documentazione identificativa di copertura, il Servizio (13) centrale di protezione riferisce del reiterato rifiuto avanzato dal sig. Masciari di ricevere tale documentazione. Anche a tale proposito la posizione riferita dal testimone di giustizia non concorda con quella appena riportata del Servizio, infatti Masciari dice di aver ricevuto una carta d'identità con nome di copertura non valida per l'espatrio e di aver rifiutato tale documento chiedendone uno senza tale limitazione; di aver ricevuto, nell'aprile del 1999, una patente di guida di copertura e di averla restituita dopo qualche mese perché recante un nominativo diverso dalla sua licenza di porto di pistola, richiedendo che tutti i suoi documenti recassero la stessa identità di copertura, ritenendo tale elemento essenziale per una corretta mimetizzazione sociale.

3. Il caso Antonino Miceli

Nino Miceli (14) è un commerciante di automobili a Gela: è un concessionario della Lancia, ha un'azienda in crescita, nel 1992 raggiunge un fatturato di quattro miliardi e mezzo, con dieci dipendenti. Riceve quindi "le attenzioni" del racket, ma denuncia (15) i suoi estorsori per cui iniziano una serie di attentati e intimidazioni che lo portano ad essere ammesso al programma di protezione. Il primo impatto traumatico per Miceli col sistema di protezione arriva quando alcuni funzionari del Servizio gli sottopongono il cosiddetto "contratto" con lo Stato, che, al primo articolo (16) del codice di comportamento da rispettare per essere ammessi al programma di protezione, stabilisce che il soggetto "si impegna a non commettere reati". E' una clausola che umilia il testimone di giustizia poiché si sente assimilato alla "categoria dei pentiti". Miceli è una persona onesta che rischia la vita perché ha il coraggio di non piegarsi alle estorsioni, grazie alla sua testimonianza viene scardinata un'organizzazione criminale dedita al racket e lo Stato cosa pretende da lui? La promessa scritta che non delinquerà: sembra fuori da ogni logica di buon senso.

Il "caso Miceli" è interessante rispetto agli altri, perché rappresenta l'esempio di un ingresso, di una permanenza all'interno del sistema di protezione e di una fuoriuscita da esso positiva, infatti nel 1997 è uscito dal programma con le nuove generalità e, nel complesso, si può ritenere che il suo reinserimento (17) sociale sia avvenuto. Oggi ha una nuova attività imprenditoriale, resa possibile grazie al finanziamento stanziato dalla Commissione centrale che ha valutato positivamente la sua proposta, ma il suo attuale tenore di vita è ben lontano da quello antecedente al suo ingresso nel programma di protezione, il reddito che percepisce è notevolmente inferiore del suo fatturato in qualità di concessionario Lancia: il bilancio economico della sua ribellione al racket non è positivo.

4. Giuseppe Carini e il suo programma di protezione

La vicenda del testimone di giustizia Giuseppe Carini è singolare perché non è stato una vittima che ha denunciato i suoi estorsori, come nel caso di Giuseppe Masciari o di Antonino Miceli, ma è il risultato di un percorso interiore che ha vissuto in quanto come sostiene lui (18) stesso: "sono nato in un ambiente dove respiravo aria mafiosa...con la voglia di diventare uno di loro". La chiave di volta è data dall'arrivo a Brancaccio, il quartiere di Palermo dove abitava Giuseppe, di don Puglisi e dall'incontro con quest'ultimo. Così lo descrive il nostri intervistato: "e quindi conobbi questo prete, questo padre Puglisi il quale mi chiese se potevo impegnarmi nelle attività sportive con i ragazzi. Non c'erano dei luoghi dove far giocare i bambini, non c'era una campo di calcetto, una struttura sportiva per loro. Mi chiese se potevo farli giocare nel salone parrocchiale. Io inizialmente accampai delle scuse dicendo: -ma no, ho da fare, sono uno studente in medicina, ho degli impegni con i miei amici-, che poi i miei amici erano quelli che ruotavano intorno al mondo di Cosa Nostra come ti dicevo. Poi però alla fine accettai, accettai per un'ora a settimana. E fu così che mi fregò, diciamo". Sarà proprio l'uccisione di don Puglisi, avvenuta il 15 settembre del 1993, a determinare in Giuseppe la volontà di rendere testimonianza circa i mandanti e gli esecutori di tale assassinio. Facciamo ricorso ancora alle sue parole: "quindi la mia scelta di continuare a stare a Brancaccio e a continuare il lavoro con più determinazione era anche un modo per onorare la sua morte. Credo che il modo per onorarlo meglio era di continuare quel cammino che ho intrapreso con lui, quel cammino che poi alla fine è sfociato nella scelta di collaborazione con la magistratura, una scelta quasi automatica, naturale ecco. Non è stata forzata, quindi naturale. Evidentemente il mio percorso di vita doveva essere questo. Perché devi sapere che io prima e dopo l'omicidio di Padre Puglisi avevo un piede qui e un piede là; io continuavo a frequentare la parrocchia e però continuavo a frequentare anche queste amicizie con queste altre persone. Ero confuso, avevo un profondo disagio".

Il programma di protezione ha inizio (19) nell'aprile del 1995 e, dopo aver trascorso un paio di mesi all'interno di una caserma a Palermo, "mi portarono in questa caserma di polizia e rimasi lì quasi due mesi, anzi forse più di due mesi. Non avvisai i miei genitori, né la Procura né la Questura disse ai miei genitori che non sarei mai più tornato a casa. Infatti i miei familiari furono avvisati da un sacerdote che li chiamò in parrocchia e gli raccontò la storia. I miei familiari comunque non hanno mai avuto alcun contatto col Ministero dell'Interno, nessuno. E qui la cosa lascia un po' a desiderare. Rimasi chiuso per 60 giorni in questa caserma perché, ma questo l'ho saputo qualche annetto dopo, erano sorti dei problemi tra la Procura della Repubblica e la Prefettura (20) credo. Credo che ci fosse stato un problema su chi era deputato a formulare la richiesta di applicazione di programma di protezione, se il Comitato Provinciale per l'Ordine e la Sicurezza oppure la Procura della Repubblica. Di fatto loro discutevano e io rimasi chiuso due mesi in una caserma, senza uscire. E non è stato per niente facile. Dopodiché, quando queste difficoltà burocratiche furono superate, mi fecero partire per una località protetta". Viene, quindi, condotto a Firenze e portato in un residence, frequentato da collaboratori di giustizia e quindi anche lui, come abbiamo visto essere accaduto per la famiglia Nero, viene confuso per uno di loro. I disagi vissuti e le problematiche raccontateci si sovrappongono in parte con quelle già esposte per gli altri testimoni di giustizia, in particolare Carini ha sempre lottato per poter proseguire i suoi studi universitari di medicina, ma questa sua aspettativa è sempre stata disillusa. A Firenze, a onor del vero, è stato iscritto all'università, ma non a medicina bensì a giurisprudenza e per di più col suo vero nome. Ecco un altro problema comune alle varie storie che abbiamo riportato: il ritardo del rilascio dei documenti di copertura alle persone ammesse al programma di protezione, documenti espressamente previsti dalla legge e fondamentali per la loro sicurezza.

Anche Giuseppe Carini ha vissuto in diverse località durante il programma di protezione, dopo Firenze, Torino e poi altre città che non ha voluto riferire. Pur cambiando le destinazioni, i problemi sono sempre i medesimi e "a Torino si ripetevano le stesse problematiche di Firenze, il totale isolamento e la solitudine, cose che hanno inciso per tutta la durata del programma di protezione e che ha inciso anche dopo la cessazione del programma. Quindi questa profonda solitudine e isolamento in cui vive il testimone dura anche dopo perché le indicazioni sono quelle appunto di non parlare con gli altri della propria situazione. E' una solitudine che poi ti accompagna per moltissimi anni, cioè diventa sistema della tua vita: isolamento, evitare luoghi affollati, evitare soprattutto persone provenienti dalla Sicilia, ridurre il numero delle relazioni a quelle indispensabili e quest'ultime comunque non devono essere a conoscenza della tua situazione".

Un altro aspetto da sottolineare è la richiesta accorata e frequente che egli ha, nel corso dei vari anni, avanzato: di essere ascoltato dagli organi deputati alla concessione del programma di protezione e dai rappresentanti politici dei diversi partiti per far presente la drammatica vicenda dei testimoni di giustizia, ma come lui stesso riferisce: "ho scritto ai vari ministri dell'interno, grazia e giustizia per suggerire quali, a mio avviso, potevano essere gli interventi da fare sulla legislazione del '91; per cui sfruttai questa esperienza del tutto negativa di collaborazione esterna con lo Stato scrivendo queste lettere e inviandole al ministro di grazia e giustizia Flick, al ministro Napolitano, alla Iervolino successivamente ecc...una sorta di proposta di legge sui testimoni di giustizia. Queste lettere indirizzate a queste persone, anche al ministro Diliberto, non hanno mai avuto risposta. Ho scritto due o tre volte alle stesse persone ma mai da nessuno è arrivato qualcosa nonostante il problema fosse serio".

5. La storia di A.

La storia che proponiamo (21) è quella di A., un collaboratore di giustizia che nelle lettere inviate all'avvocato denuncia i continui trasferimenti della famiglia da una località all'altra e teme le conseguenze dell'annunciata revoca del programma, avvertita come una risposta ingiusta al contributo offerto con la sua collaborazione: "Mi (22) è stato promesso il mondo intero [...]. Ho reso piene dichiarazioni ho portato a conoscenza della giustizia gravissimi fatti delittuosi che senza la mia collaborazione non si potevano mai scoprire, devo pensare che io sono stato usato e adesso mi vogliono buttare. Io credo che questo non è giusto. [...] Io sono sicuro che lei non permette che io e la mia famiglia veniamo buttati in mezzo a una strada perché se così fosse sarebbe una vittoria per quelli del mio gruppo Ercolano Santa Paola".

Dalle parole del collaboratore emerge la sensazione di essere stato abbandonato dallo Stato da cui si aspettava protezione e che, al contrario, revocando il programma, scrive A., "ci manda a morire". Ancora una volta l'eccessiva burocratizzazione e le oggettive difficoltà in cui si trova ad operare il Servizio centrale di protezione non favoriscono tempi rapidi per un sereno reingresso nella società. Oltre al giudizio sull'operato dello Stato, dettato dalla disillusione delle proprie aspettative, A. descrive i problemi quotidiani della vita sotto protezione. Le esigenze di sicurezza, determinate dall'essere stati riconosciuti in località protetta, determinano trasferimenti urgenti e repentini che comportano l'abbandono degli affetti personali, una nuova identità di copertura, la difficoltà per i bambini di riconoscersi in un nuovo nome e/o cognome e d'integrarsi in un nuovo contesto scolastico. I frequenti spostamenti causano la scelta di alloggi d'emergenza, non sempre ritenuti, dal collaboratore, adeguati ad una famiglia, né rispondenti a opportuni criteri di sicurezza: "Ci hanno buttati in un albergo, siamo ridotti come degli zingari, siamo senza vestiario, è rimasto tutto a M. Mia moglie il bucato che lava lo mette da per tutto sulle sedie per asciugare, i miei figli si vergognano a uscire perché non hanno i vestiti".

Il collaboratore appare in sospeso tra un passato che continua a ripresentarsi con le minacce del gruppo criminale contro "l'infame" e un futuro incerto che non consente progetti (23).

Ai problemi di sicurezza si associano, ancora una volta, quelli determinati dalle carenze burocratiche. L'uomo dichiara di essere senza documenti di copertura e di dover pagare, per questo, le medicine. Ma i problemi più gravi riguardano i figli: il ragazzo è terrorizzato perché pedinato una sera, all'uscita dalla palestra, da un'auto con targa siciliana; la bambina "ha cambiato due volte scuola, una volte si chiamava Bianchi, nella seconda scuola un altro cognome, dove siamo adesso un altro ancora. A volte mi chiede qual è il suo vero nome e si sta chiudendo in se stessa e non vuole parlare con nessuno. Vuole andare a scuola qua e i Nop non la vogliono scrivere. Mi dicono lei deve parlare con il suo magistrato e si fa dire una volta per tutti se gli dà il programma. Mi dicono se non avete il programma e neanche la casa è inutile che la iscriviamo a scuola [...] è tempo perso".

Una volta fuori dal carcere, A. scrive al Servizio centrale di protezione e all'avvocato, di considerarsi in pericolo.

Trovandosi solo nello sforzo di ricostruire la propria identità, l'ex mafioso ha paura, teme per la propria vita e per quella dei suoi cari. Non più sorretto dalla forza e dai valori dell'appartenenza al gruppo mafioso, scopre la fragilità interiore. La scelta di collaborare lo pone dinanzi alle sue debolezze, alla sua umanità (24) che lo accomuna a tutti.

Note

1. Le parole scritte in corsivo sono quelle di Renna Incoronata che abbiamo intervistato a Roma il 13 marzo 2007.

2. Così A. Mantovano, Testimoni a perdere, Piero Manni, Lecce, 2000, p. 21.

3. Dobbiamo tenere presente che la testimonianza di Mario Nero è avvenuta nel 1992, perciò quando era in vigore la legge 82/91, che, come sappiamo, non prevedeva la distinzione tra collaboratori e testimoni di giustizia. Ci auguriamo che con l'entrata in vigore della legge 45/01 questa clausola non compaia più nel "contratto" che firmano i testimoni di giustizia.

4. A Roma il 15, 16 e 17 novembre del 2006 si sono tenuti gli Stati generali dell'antimafia, promossi e organizzati da Libera, associazioni nomi e numeri contro le mafie, in quell'occasione abbiamo preso parte ad un gruppo di lavoro che affrontava il tema dei collaboratori e testimoni di giustizia, al quale erano presenti numerosi testimoni di giustizia, alcuni dei quali hanno raccontato la propria vicenda.

5. Il programma di protezione era scaduto il 31 dicembre 1995 e la Commissione centrale decise di non prorogarlo "in relazione alla condotta tenuta dal Nero, contrastante con gli obblighi assunti con la sottoscrizione del programma in questione, e in considerazione dello stato raggiunto dai procedimenti in cui il predetto aveva reso le proprie dichiarazioni". In questi termini l'On. Sinisi, sottosegretario di Stato all'Interno con delega al Servizio centrale di protezione, spiega in una nota allegata ad una lettera inviata al presidente della Commissione antimafia recante la data del 24/4/1998, le ragioni della mancata proroga del programma di protezione in favore di Nero. Nella nota il rappresentante del Governo, che aveva presieduto la seduta della Commissione centrale nella quale era stata deliberata la "non proroga", a proposito della "valutazione della persistenza dei presupposti che, a suo tempo, avevano giustificato l'adozione del programma", fa presente che la "Procura di Bari, con nota del 15 giugno 1996, aveva rappresentato che il processo nel quale il Nero aveva reso la sua deposizione si era esaurito, con il passaggio in giudicato della sentenza per omicidio emessa sulla base delle dichiarazioni testimoniali del predetto". Gli stralci delle note dell'On. Sinisi sopra riportate si trovano in A. Mantovano, Testimoni a perdere, cit., p. 38.

6. I primi documenti di copertura sono stati rilasciati solo nel 2000, mentre il programma di protezione è iniziato nel 1992. Il "caso Nero" è stato oggetto di analisi da parte dell'On. Mantovano in Commissione Parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, Relazione sui testimoni di giustizia, doc. XXIII, n. 11, XIII legislatura, Roma 1998.

7. Comunicato stampa di Giuseppe Masciari, Antimafia Duemila.

8. Giuseppe Masciari ha denunciato alla Commissione Parlamentare Antimafia le disfunzioni del sistema di protezione che ha vissuto insieme ai suoi familiari, il suo caso è stato analizzato in seduta plenaria il 14 giugno del 2005 e ha dato luogo ad una relazione di minoranza contenuta nel documento XXIII 16bis della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare - XIV legislatura - Senato della Repubblica - Camera dei Deputati.

9. E' quanto emerge dal Resoconto stenografico della 69 seduta martedì 14 giugno 2005, cit., p.9.

10. Stralcio riportato nella relazione di minoranza della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare già richiamata.

11. Così l'On. Sinisi in Commissione Parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, Resoconto stenografico della 69 seduta martedì 14 giugno 2005, XIV legislatura, Roma 2005.

12. Lodovico Paletto, Testimone contro boss, gli negano la scorta, in "La Stampa" del 13/03/2007.

13. Anche questo è riportato nella relazione di minoranza della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata o similare della XIV legislatura.

14. La storia del testimone di giustizia Antonino Miceli è raccontata da A. Mantovano, Testimoni a perdere, cit. p. 69 ss.

15. La collaborazione con l'autorità giudiziaria è tale che i responsabili del giro di estorsioni da lui denunciati sono condannati complessivamente a più di 400 anni di reclusione.

16. Lo stesso è avvenuto, come emerso nel § 1 del presente capitolo, per il testimone di giustizia Mario Nero e anche per tutti gli altri testimoni di giustizia ammessi al programma di protezione.

17. Nonostante il reinserimento nella società sia avvenuto mediante una nuova attività imprenditoriale, Antonino Miceli ha subito notevoli perdite sotto il profilo economico, avendo perso l'intero patrimonio immobiliare e la sua attività. Il danno economico subito da Miceli non è stato risarcito poiché non ha potuto fruire delle somme previste annualmente dalla legislazione antiracket con il Fondo di solidarietà, poiché le norme in vigore fino al 1999 collegavano l'elargizione al ripristino dell'attività economica nel medesimo luogo nel quale essa si svolgeva in precedenza: una condizione in netto contrasto con l'esigenza di sicurezza che ha portato ad ammettere Miceli al programma di protezione. La nuova disciplina antiracket, che ha dato luogo alla legge 23 febbraio 1999 n. 44, ha rimediato a queste e ad altre anomalie, relative al funzionamento del Fondo.

18. L'intervista che abbiamo effettuato a Giuseppe Carini è riportata nella versione integrale in appendice.

19. La proposta di ammissione al programma di protezione è avvenuta dal procuratore della Repubblica di Palermo, ai sensi dell'art. 11 della legge 82/91.

20. Sotto la legislazione previgente infatti anche il prefetto era titolare della proposta di ammissione allo speciale programma di protezione, oltre al procuratore della Repubblica e al Capo della polizia- direttore generale della pubblica sicurezza; con la riforma operata dalla legge 45/2001 i soggetti legittimati a presentare la proposta di ammissione sono rimasti il procuratore della Repubblica e il Capo della Polizia.

21. Per raccontare la vita sotto protezione di questo collaboratore utilizzeremo alcune lettere che lo stesso ha scritto al proprio avvocato riportate in A. Dino, Pentiti. I collaboratori di giustizia, le istituzioni, l'opinione pubblica, cit., p. 106 ss. Come osserva l'autore: "le lettere sono mezzi d'espressione dell'interiorità, strumenti di definizione soggettiva degli eventi; nel documento epistolare entra in gioco la relazione tra i soggetti che comunicano, mediante i simulacri dell'enunciatore e dell'enunciato inscritti nel testo. La lettera non esprime solo il mondo dello scrivente, ma anche la percezione dello scrivente da parte del destinatario. Dando diritto alla parola a chi altrimenti per noi non esisterebbe, osserveremo come si descrivono parenti e collaboratori, la loro immagine dello Stato e delle istituzioni, la loro idea del ruolo dell'avvocato, i problemi e le difficoltà affrontati durante la vita sotto protezione".

22. Parte di una lettera contenuta in A. Dino, Pentiti. I collaboratori di giustizia, le istituzioni, l'opinione pubblica, cit., p. 107.

23. Scrive Renate Siebert: "Da una parte il mondo della mafia: un unico mondo, un orizzonte chiuso, un contesto coatto che non ammetteva l'espressione della soggettività, non ammetteva il dissenso. Non creava, forse, consistenti problemi psicologici finché appariva unico, chiuso e integro. Un mondo ormai alle spalle di chi ha deciso di saltare il fosso, un mondo, tuttavia, che rappresenta pur sempre un pezzo di se stessi e che reclama in modo contorto una signoria sulla psiche che queste persone ormai non vogliono più concedergli. Dall'altra parte, l'apertura: la promessa della modernità come pluralizzazione dei mondi della vita, come urbanizzazione della coscienza. La promessa della soggettività come invito alla dimensione della scelta, come garanzia di poter dire di no, come accesso ad una democrazia, per così dire psichica e esistenziale, prima ancora che istituzionale e dei diritti". in G. Lo Verso - G. Lo Coco, La psiche mafiosa. Storie di casi clinici e collaboratori di giustizia, Franco - Angeli, Milano, 2003, p. 10.

24. Scrive ancora R. Siebert: "ora, dopo la scelta della collaborazione - qualunque sia la portata reale di un loro esame di coscienza - questi uomini umanizzati hanno paura, si scoprono vulnerabili, somatizzano, soffrono d'insonnia. [...] Ritornare o arrivare per la prima volta al principio dell'alterità, alla dialettica del riconoscimento nelle relazioni interpersonali, significa percorrere la strada della conquista della soggettività, fatta di relazioni con gli altri, ma anche di relazioni con le altre parti di se stessi. Quindi di solitudine. Nelle condizioni attuali fare tale percorso da collaboratore di giustizia non è facile, e sono soprattutto i magistrati, gli avvocati e il personale addetto al servizio di protezione che sono in contatto con loro, a conoscere le difficoltà e le tentazioni regressive di tali storie" in G. Lo Verso - G. Lo Coco, La psiche mafiosa. Storie di casi clinici e collaboratori di giustizia, cit., p. 17.