ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Appendice

Desy Parrini, 2007

Intervista a Gian Carlo Caselli

Nella mafia ci sono pentiti storici: Buscetta, Calderone, Marino Mannoia, ecc...i quali parlano senza nessuna normativa di favore nei loro confronti. La legge sui pentiti di mafia, lei lo sa meglio di me, è approvata soltanto dopo le stragi, di fatto, e se lei ha visto i lavori parlamentari ci sono anche delle perplessità tra la morte di Falcone e quella di Borsellino: cominciano alcuni ripensamenti, alcune difficoltà. Dopo la morte di Borsellino, invece unanimità, si va avanti ed è una legge che funziona perché un po' l'impatto delle stragi, un po' la reazione forte dello Stato, un po' questa legge, c'è una slavina di pentiti con conseguenti risultati imponenti. L'altra grossa differenza che c'è è fra la legislazione che chiamiamo "pentiti sul versante terrorismo", e' che, se ricordo bene, sul versante del terrorismo c'era una condizione per poter applicare la normativa di favore, e che la legislazione antimafia, quella originaria non ha ripreso e cioè occorreva una sentenza definitiva che riconoscesse il contributo eccezionale o il contributo di un certo livello. Tant'è che il primo pentito, che dà poi il là a tutto, Patrizio Peci, confessa tutto quello che poteva confessare, con riferimento all'attività delle brigate rosse a Torino e tutto ciò che sapeva anche per le colonne di brigate rosse fuori Torino. Però per far scattare l'applicabilità della legge nei suoi confronti, ricordo che dobbiamo stralciare un fatterello, per la precisione una rapina in un negozio di fotocopiatrici, andare a giudizio in tribunale per questo fatto specifico, celebrare il processo, far condannare Peci, che ovviamente era confesso perché in sentenza, poi non appellata né dal pubblico ministero, né dalla difesa e quindi divenuta definitiva fin dal primo grado, fosse riconosciuto il contributo eccezionale e quindi acquistava grande differenza. Lì c'era una specie di filtro, del giudicante, che in sentenza definitiva doveva ammettere il contributo eccezionale. Questo qui nella legislazione premiale relativa ai pentiti di mafia non c'è e questa è una grossa differenza, anche se volendo più formale che sostanziale perché poi si poteva come in quel caso stralciare un singolo procedimento, però quanto meno non c'era soltanto un rapporto pubblico ministero - giudice istruttore, (allora c'era il giudice istruttore col vecchio rito) e l'imputato; c'era anche un momento di presenza codificata, per così dire, del giudicante.

Nella prefazione che lei ha scritto nel libro "Dalla Mafia allo Stato", lei dice che i collaboratori sono preziosi. Mi può spiegare meglio questa affermazione?

Crimine organizzato, si tratti di terrorismo o si tratti di mafia, significa organizzazione ovviamente improntata a criteri di compartimentazione, riservatezza, segretezza. Per combattere efficacemente qualunque forma di crimine organizzato, terrorismo o mafia non cambia, questi segreti, che sono la blindatura protettiva dell'organizzazione, bisogna conoscerli, scardinarli, farli saltare, bisogna avere la password per entrare dentro. La password può essere ottenuta in due modi: o attraverso le dichiarazioni dei pentiti che conoscono questi segreti e quindi nel momento in cui li rivelano ne fanno partecipi gli inquirenti offrendo loro un grimaldello per entrare, o utilizzando, che è il sistema sempre più frequente, le intercettazioni telefoniche ambientali, ma almeno per quanto riguarda l'inizio della sequenza della catena, dove mettere le microspie, qualcuno lo deve ben dire e nella maggior parte dei casi chi lo dice è ancora una volta il pentito, dopo di che magari lavorano autonomamente. Ecco perché non sono soltanto preziosi, ma, essenziali, decisivi. Senza pentiti, si gira intorno a questa organizzazione e semmai si scalfisce qualcosa in superficie. Non c'è la possibilità di entrare dentro e, entrando dentro, di scavare dall'interno e quindi se tutto va bene determinare un crollo verticale, un afflosciamento proprio con una destrutturazione di questa organizzazione. Questo è secondo logica.

La legge sui pentiti di mafia, come abbiamo detto, arriva soltanto dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio e ciò nonostante Falcone e gli altri magistrati del pool l'avessero ripetutamente chiesta, argomentando, motivando, sulla base della loro esperienza.

Dalla legge del '91 si è poi passati a quella del 2001. C'è chi ha definito la legge 45/2001, Spataro per l'esattezza, come una legge scoraggia - collaborazioni rinvenendo principalmente la causa di ciò nel termine previsto di 180 giorni per la redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione. Lei, a proposito, è in sintonia con il giudizio di Spataro?

Sostanzialmente in sintonia col giudizio di Spataro; ecco, anche i giudizi dei colleghi di Palermo, con i quali ho lavorato per diversi anni in quella procura, va in questa direzione. Che ci fosse bisogno di riflettere sulla normativa alcuni anni dopo la sua entrata in vigore, la sua applicazione, per cercare di stabilire che cosa aveva funzionato, che cosa poteva essere corretto o rettificato è fuori discussione. Che ci fossero alcuni punti, che dovevano essere in qualche modo limati, ecco probabilmente questa nuova legge è andata oltre il perimetro del semplice adattamento sulla base dell'esperienza maturata all'esigenze e diventava un'arma un po' spuntata obiettivamente. Anche la riduzione drastica del numero dei pentiti e della qualità dei pentiti può essere ricondotta alla nuova legge; può dipendere anche da altri fattori perché ogni stagione ha i suoi frutti e c'è stata subito dopo le stragi la stagione dei pentimenti di massa. Questa stagione è durata il tempo che è durata, ma certamente uno dei fattori che ha contribuito, se non a cambiare stagione sicuramente a far sì che le stagioni successive non avessero le caratteristiche delle precedenti, è anche il cambiamento della normativa.

Inserire il limite dei 180 può aver influito negativamente?

Tante cose insieme, adesso lei mi deve scusare ma non sono fresco di studi come lei e quindi dovrei ripassare un po' e vedere. Io, oltretutto, questa legge non l'ho applicata, ma la conosco solo da un punto di vista teorico-astratto attraverso la cronaca e ascoltando i miei colleghi.

Sempre nella prefazione, che abbiamo citato all'inizio, lei rintraccia la stessa reazione che c'è stata da parte dei brigatisti nei confronti dei cosiddetti traditori e quella di Cosa Nostra nei confronti dei propri e purtroppo viene riportato l'episodio della vicenda drammatica del piccolo Di Matteo.

Ho avuto, sono in magistratura da una quarantina d'anni, due momenti, diciamo così, particolarmente significativi della mia esperienza professionale: i dieci anni di lavoro a tempo pieno come giudice istruttore sul versante dell'antiterrorismo e poi i sette anni di lavoro a Palermo come procuratore capo, che naturalmente si occupava, come qualunque procuratore di una grande città di tutto un pò, ma a Palermo principalmente di antimafia. E, in queste due fasi, sono stato protagonista, come dire, sono stato testimone; ho vissuto due esperienze molto simili, sovrapponibili, e terribili l'una tanto quanto l'altra, purtroppo tragiche. È capitato a me, questa volta non ero solo come magistrato, eravamo tre: un pubblico ministero, Alberto Bernardi che attualmente è procuratore della repubblica di Cuneo e due giudici istruttori, Maio Griffei, che attualmente dirige la sezione fallimentare del tribunale di Torino e il sottoscritto. E tutta la storia di Peci: Patrizio Peci viene arrestato, all'inizio si dichiara prigioniero politico, poi il generale Dalla Chiesa un bel giorno viene da me e mi dice che corre voce che Peci possa collaborare; io scrivo, con la mia macchina da scrivere, un bigliettino, che sostanzialmente diceva: "si autorizza il latore della presente, generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ufficiale dell'arma dei carabinieri dal medesimo delegato, ad avere colloqui nel carcere di Cuneo con il detenuto Peci Patrizio senza limitazioni di orario". Ho fatto firmare questo foglio al mio capo, il consigliere Mario Carassi, e al procuratore della repubblica Bruno Caccia; l'ho consegnata a Dalla Chiesa ed è cominciata una serie di colloqui di Dalla Chiesa e i suoi uomini con Peci che però in questa fase era solo confidente. Utilizzando le dichiarazioni di Peci però, i carabinieri fanno una serie di operazioni importanti, in particolare nel biellese, dove Peci aveva detto che erano state seppellite e interrate, trovano armi, documenti, strutture delle brigate rosse. Viene trovata la "nagant revolver 762" che era stata usata a Torino per commettere tutti gli attentati delle brigate rosse sia di gambizzazione sia omicidi. I proprietari del podere in cui era stato interrato l'arsenale delle brigate rosse vengono portati a giudizio davanti al tribunale di Biella, ma non vengono condannati perché Peci non esiste processualmente parlando, era un confidente, e quindi era impossibile incolpare questi individui che dicevano di non averle messe loro. Quando Peci si pentirà, queste persone saranno riprocessate e questa volta condannate: ecco qui l'importanza del pentito. Comunque, ad un certo punto, Peci decide di collaborare nel senso vero del termine, cioè di mettere a verbale tutte le sue rivelazioni e questo comincia il 1ºaprile 1980 presso la caserma dei carabinieri di Cambiano, che è un paesino qui dell'hinterland torinese, dove viene fermato durante il suo trasferimento da Torino (nel frattempo dal carcere di Cuneo era stato portato qua) al carcere di Pescara. La mattina del 1º aprile, in casa mia, ricevo una telefonata dei carabinieri, sostanzialmente un fonogramma telefonico, ordino che sia fermato a Cambiano e andiamo ad interrogarlo. Peci offre un contributo veramente straordinario perché, grazie a lui, si viene a sapere tutto ciò che era necessario sapere della colonna di Torino, individuando e costruendo tutti i delitti che avevano commesso, individuando la responsabilità di fiancheggiatori e via seguitare: è la fine delle brigate rosse di Torino e poi da Peci il discorso si estende ad altri e sarà la fine delle BR anche nelle altre città e soprattutto dell'altra organizzazione pericolosa Prima Linea. Il 1º aprile dell'80, io insieme ad altri due colleghi, come dicevo prima Alberto Bernardi, pm, e Mario Griffei, giudice istruttore come me, cominciamo ad interrogare Peci e c'è questo contributo davvero eccezionale; nei mesi successivi viene sviluppato con altri interrogatori e ad un certo punto le BR reagiscono in una maniera davvero infame: una rappresaglia di tipo nazista nel senso pieno del termine, che consiste nel sequestrare il fratello del pentito, Roberto Peci, tenerlo prigioniero sottoponendolo a maltrattamenti per ottenere, come ottengono, dichiarazioni totalmente false, relativamente ad un ipotetico doppio arresto di Peci che esisteva soltanto nella mente dei brigatisti; nonostante l'estorsione e questa falsa confessione, poi lo uccidono in una discarica e la sua morte viene filmata perché la cassetta possa essere distribuita un po' ovunque e lo scopo è evidente: ottenere da Peci una ritrattazione e al tempo stesso intimidire chiunque altro. Il risultato non l'ottengono, Peci non si sposta di una virgola e i pentimenti continuano nonostante questa gravissima azione compiuta. Ecco, momenti difficilissimi, noi come magistrati continuavamo ad avere contatti con Peci; in questa fase altri contatti gli abbiamo avuti con i familiari e sono stati momenti difficili anche dal punto di vista umano, del rapporto con queste persone. Tutto questo è accaduto soltanto perché Roberto era fratello di Patrizio, essendo Patrizio il primo pentito che ha parlato sul versante dell'antiterrorismo determinando appunto quella slavina, quello smottamento con destrutturazione davvero completa delle BR. Questa reazione atroce, spietata, nazista delle BR, è dovuta al fatto che, se c'è una cosa che nelle organizzazioni criminali organizzate temono, come il diavolo teme l'acqua santa, sono i pentiti, perché si rendono ben conto che il pentito è un siluro sotto la linea di galleggiamento della loro corazzata, nel senso di compattezza, impermeabilità e segretezza, allora faranno di tutto, hanno fatto di tutto per impedire che i pentimenti dilaghino più di tanto.

Dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, faccio domanda per andare a lavorare a Palermo e vengo nominato procuratore; mi capita una vicenda, purtroppo dal punto di vista professionale ha i suoi lati positivi, ma dal punto di vista umano una tragedia. Qua si arrestano moltissime persone, latitanti e non, come non era mai accaduto in precedenza, neppure ai tempi di Falcone e Borsellino; per fortuna una serie: dai Riina, ai Ganci, ai Madonia, ai Brusca, Aglieri, a Bagarella, ai fratelli Graviano, a Mariano Tullio Tronia; e tra gli altri vengono arrestati Santino Di Matteo e Gioè, di cui non ricordo più il nome di battesimo. Gioè morirà suicida in carcere e Santino Di Matteo è invece il protagonista, uno dei protagonisti, della storia che adesso racconterò. Sono i due che vengono individuati, con una intercettazione ambientale, in un appartamento di Palermo e tutta la storia è raccolta in un libro famoso di Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, che s'intitola "L'attentatuni", perché loro parlano degli attentati contro Falcone e Borsellino e ne parlano come dell'attentatuni. Si interviene, si arrestano questi signori ed altri insieme a loro. Piccola parentesi: tutti coloro che hanno avuto parte nella strage di Capaci sono stati arrestati dalla procura di Palermo e poi consegnati alla procura di Caltanissetta che se ne occupava. Santino Di Matteo, esponente di rilievo di Cosa Nostra, appena arrestato chiede di parlare con me: ci vado ma non mi dice assolutamente niente. Una seconda volta, era detenuto in Sardegna, chiede di parlare con me: lo faccio tradurre, ma di nuovo non mi dice niente tant'è che non sapevo cosa voleva, ero preoccupato che volesse studiare i movimenti, i tempi. E mi ero ripromesso che se avesse chiesto ancora una volta di parlarmi non ci sarei neppure andato. Chiama una terza volta, ci vado, arrivo a Roma a tarda notte e cominciamo subito: io penso che voglia parlarmi dei tanti omicidi dei quali era accusato da noi, procura di Palermo, e invece quando si siede dice che vuole raccontare tutto quello che sa, perché lui è uno dei responsabili, della strage di Capaci. E fa nomi, cognomi, indirizzi, ruoli, ricostruiti con estrema precisione ed io scrivo tutto quello che dev'essere scritto. Alle sette del mattino consegno questo verbale ai colleghi di Caltanissetta ed è nuovamente un colpo grosso dal punto di vista investigativo - giudiziario perché per la prima volta si sa, di Capaci, tutto quello che si poteva desiderare di sapere. L'inchiesta dei colleghi di Caltanissetta, che andava avanti molto bene, ma, non aveva nomi, non aveva ancora afferrato nessuna responsabilità individuale, in questo modo può decollare come decolla. Professionalmente è un grande momento per me perché sono il primo magistrato che raccoglie la confessione di uno degli autori della strage di Capaci ma, come per Peci, dal punto di vista umano questa soddisfazione professionale sarà poi avvelenata perché qualche tempo dopo Cosa Nostra sequestra il figlioletto, di tredici anni di Di Matteo, Giuseppe Di Matteo; lo tiene prigioniero per parecchi mesi durante i quali viene torturato letteralmente, maltrattato e sarà ucciso strozzato a mani nude, il suo cadavere sciolto nell'acido e tutto questo perché figlio di suo padre, essendo suo padre il primo pentito che rivela quello che c'è da rivelare sulla strage di Capaci. Un destino terribile, tragico, esattamente parallelo a quello di Roberto Peci. È capitato a me, in un caso o nell'altro, di essere protagonista e testimone di queste vicende: due momenti, ripeto, professionalmente positivi, in una fase iniziale, guastati e avvelenati poi da queste tragedie. Anche in questo caso però si ha la prova che i pentiti sono un veleno, qualcosa di incompatibile con un'organizzazione criminale, la mafia in modo particolare. La storia di mafia è una storia infinita di pentiti e familiari di pentiti uccisi, è una storia infinita di vendette trasversali: a Buscetta ad esempio, non so più quanti familiari sono stati uccisi. Per non parlare di quel protopentito, Leonardo Vitale, che poi pentito non era perché non è stato creduto. Chi dubita dell'importanza, ma dico di più della decisività, dei pentiti parla di altro rispetto alla realtà della lotta contro il crimine organizzato terroristico o mafioso.

E' che quando i pentiti, torniamo a Falcone, prima vanno bene, poi quando cominciano a parlare di certi argomenti non vanno più bene. Allora l'attacco ai pentiti è una maniera efficace per attaccare l'indagine, certe indagini.

Come si rapportavano a lei gli ex affiliati a Cosa Nostra?

Ero procuratore capo e quindi come tutti i procuratori capi avevo come problema principale quello di organizzare e coordinare l'ufficio che si componeva di una sessantina di sostituti. Era ed è il 4º ufficio d'Italia: Roma, Milano, Napoli e poi c'è Palermo. Mentre per quanto riguarda l'antimafia però era ed è il primo ufficio in Italia per cui non c'era materialmente tempo per attività istruttorie. Gli atti più significativi li compivo io, ma mai da solo, sempre con uno o due sostituti che mi affiancavano o due procuratori aggiunti che mi affiancavano. I pentiti che ho sentito, sia in Italia che Stati Uniti, erano ascoltati anche dai miei colleghi che mi accompagnavano; oltre a Di Matteo ho sentito La Barbera sempre sulla strage di Capaci che è stato a sua volta vittima di una vendetta trasversale perché gli suicidano il padre, quasi novantenne; poi ne ho sentiti molti altri, i due fratelli Brusca gli ho sentiti entrambi, Cangemi ripetutamente e molti altri di cui non ricordo il nome.

Qual'era il loro atteggiamento nei suoi confronti?

Le ripeto che andavo sempre con dei colleghi, quindi io avevo il primo rapporto, il secondo, poi toccava a loro proseguire e c'era sempre il filtro dell'interrogatorio, non c'era nome e cognome per quanto mi riguarda, non c'erano momenti discorsivi. C'era solo un momento burocratico - formale: domande e risposte, domande e risposte, domande e risposte, ecco. Quello che accadeva è esattamente consacrato nel verbale, personalmente non avevo margini per altre cose che non fossero il verbale e la verbalizzazione.

Si legge, si dice, si è detto che da parte dei brigatisti ci sia stato un vero e proprio pentimento, se vogliamo anche morale o comunque una rivisitazione critica del proprio vissuto, cosa che invece non verrebbe rintracciata nei pentiti di mafia: cosa pensa Lei a proposito di questa distinzione?

Sia i pentiti di mafia che quelli del terrorismo si pentono perché sono in crisi, diverse sono le motivazioni della crisi: i terroristi si pentono perché non ci credono più nella lotta armata, perché sono stanchi di anni di latitanza inconcludente dal punto di vista degli obiettivi politici e perché c'è una prospettiva di una legislazione di favori di cui abbiamo già parlato. Tutto questo è riassumibile in crisi - ideologico - politica ecco, rivisitazione, ripensamento di quel che è stato e distacco, dissociazione, collaborazione con dissociazione.

Un pentito di mafia è un'altra cosa, anche lui in crisi; dopo le stragi, Cosa Nostra attraversa un periodo di profonda crisi. Sembrava fatta, Cosa Nostra era proprio in un angolo, però ci sono alcuni pezzi dello Stato che preferiscono perdere questa battaglia. E la strategia passa attraverso varie tappe, una di queste è proprio l'attacco ai pentiti.

I pentiti sono in crisi; ce ne sono talmente tanti che sembra davvero di poter mettere la parola fine a questo discorso. Sono in crisi perché c'è tutta una serie di arresti imponenti che li coinvolge in prima persona; la strategia corleonese di attacco frontale al cuore dello Stato; a fronte della massiccia reazione dello Stato si trovano privati della libertà con prove sicure, perché ci sono tanti altri pentiti, con prospettive di condanne severe e con prospettive anche di carcere duro che è la prima volta che vengono adottate (il 41bis viene introdotto dopo le stragi) ed è la prima volta nella storia giudiziaria italiana che i mafiosi vengono arrestati in così gran numero; alle porte ci sono processi che si concluderanno con 650 ergastoli oltre a centinaia di condanne a diversi anni di reclusione. La crisi per loro significa cercare di uscire col minor danno possibile da questa situazione, non è che non ci credono più, non è che hanno ripensamenti ideologici o politici: non ne parliamo neanche. Questi pentimenti sono determinati soprattutto dalla volontà di volerne uscire con appunto il minor danno possibile; uscire con il minor danno era anche una motivazione dei terroristi però la motivazione principale era quella ideologica; sono in crisi anche perché si trovano in galera; gli altri cessano di essere terroristi anche mentalmente, mentre loro non cessano di essere mafiosi mentalmente. Cessano di essere mafiosi perché la situazione data li ha portati altrove e cercano di muoversi altrove nel miglior modo possibile.

Uno degli aspetti più criticati della vecchia normativa erano i famosi articoli 13bis e ter i quali consentivano ai collaboratori di godere dei benefici penitenziari senza neppure scontare il minimo di pena e questo ha suscitato grande scalpore...

Non dimentichiamo che questa legge l'ha pensata e voluta Falcone, è impregnata della sua intelligenza, esperienza e purtroppo intrisa del suo sangue. Dopo le stragi, per rispondere ad una situazione di assoluta emergenza, visto che il nostro paese era in ginocchio, il nostro paese stava diventando uno Stato "Mafio", c'è stata una sintonia di istituzioni pubbliche, politica, forze dell'ordine, magistratura, società civile, proprio un momento magico di grande unità, compattezza. Non fossimo riusciti a invertire la tendenza non saremmo qui a parlare di Mafia, probabilmente saremmo qui a parlare di narcostato; la situazione italiana sarebbe cambiata Dio sa solo come. La direzione era questa. A questa situazione di emergenza, di pericolo tragicamente incombente sul nostro paese, si è reagito con una normativa veramente molto forte. La possibilità di recuperare la libertà, anche subito se pure a determinate condizioni, è un beneficio davvero grande. E questo è uno dei punti dei quali sicuramente alcuni pentiti ne hanno approfittato. Sappiamo che ci sono pentiti che sono tornati a delinquere, è un fatto grave, negativo, che non deve assolutamente accadere. Questo è uno dei punti che giustamente sono stati rettificati e corretti con la nuova normativa perché passato il momento di necessità, verificate alcune prove negative su questo versante in alcuni casi circoscritti ma pur sempre gravissimi l'istituto aveva dato correggerlo, modificarlo: mai più liberazioni troppo anticipate quale che sia il contributo dato, questa è la parola d'ordine ed è la parola d'ordine giusta.

Il fatto che la nuova normativa preveda questa distinzione netta tra collaboratori e testimoni di giustizia è sicuramente uno dei meriti indiscussi della legge?

Si, però credo che sia più teorico - astratto che altro. Questi sono un'altra categoria perché non hanno niente da farsi perdonare, di cui pentirsi, sono soltanto persone che danno un contributo per senso civico senza aver mai commesso dei reati e meriterebbero un'attenzione, un riguardo, una sensibilità molto maggiore di quella che, nei fatti, nel concreto, oggi c'è. È difficile e complicato ma se non funziona questo versante perdiamo un'opportunità di avere dei contributi antimafia che non siano soltanto dettati da interesse, ma dettati proprio da nobiltà d'intenti che non è retorica ma sarebbe importante come simbolo perché la lotta alla mafia si fa anche con i simboli. Se sono importanti i pentiti che sono il simbolo che la mafia non è impenetrabile ancor di più lo sono i testimoni di giustizia che rompono quell'omertà che è uno dei punti di forza, storicamente, tradizionalmente, strutturalmente di Cosa Nostra e delle mafie in generale. Non si fa mai abbastanza su questo versante, basta sentire quelli che si occupano di questa materia e i racconti dei testimoni di giustizia.

I testimoni di giustizia, professionalmente parlando, non gli ho mai incrociati.

Cosa pensa del fatto che la Commissione centrale sia presieduta da un sottosegretario di Stato?

Chi si pente contro questa o quell'altra mafia, in particolare Cosa Nostra, non dovrà mai dimenticare che letteralmente si condanna a morte. Condanna a morte se stesso e i suoi familiari. Ora, se io Stato, faccio una legge per incentivare i pentimenti, offrendo misure di favore, e poi non mi preoccupo anche di tutelare la sicurezza di chi pentendosi collabora con me e la sicurezza dei suoi familiari, sarei schizofrenico, con una mano spingo e con l'altra non faccio nulla per proteggere dalla condanna a morte che è assolutamente sicura. Questo significa: soldi, il problema di misura giusta, ecco, perché i pentiti hanno bisogno di ricostruirsi una vita con la propria famiglia, hanno bisogno di ricostruirsi la faccia, nel senso proprio chirurgico del termine, hanno bisogno di essere economicamente sostenuti per un certo tempo affinché non trovano, e non è facile, è difficilissimo, perché molte volte non è compatibile con l'esigenza di sicurezza, reinserimento in attività economico - sociali che consentono loro di essere autonomi. Tutte queste sono decisioni che non sono più di competenza della magistratura; devono necessariamente coinvolgere o per lo meno ci vuole un raccordo con l'autorità che presiede ai problemi di ordine pubblico; quindi un sottosegretario, un governo, perché è lui che ha le leve finanziarie e di gestione della forza pubblica su questi versanti che la magistratura giustamente non deve più avere. Negli Stati Uniti d'America c'è questa struttura detta "Marshall" che non c'è nessuno che le possa dire cosa fare e cosa non fare, neppure il magistrato: gli si dice quali sono gli obbiettivi ma poi le modalità di conseguimento sono riservate a loro...Più o meno è la stessa cosa con il sottosegretario, che nella commissione, valutando gli elementi prospettati dalla magistratura, procura nazionale antimafia in primis, dice: questo deve essere protetto in questo modo, questo in quest'altro, questi familiari... e deve poi impartire le direttive necessarie sia dal punto di vista logistico che dal punto di vista economico. È proprio un discorso che deve uscire dal perimetro della magistratura. La magistratura inquirente può avere dei momenti di coinvolgimento con la procura nazionale antimafia, che ha la funzione di coordinamento, in modo fisiologico. Alla magistratura inquirente che ha fatto le indagini deve poi subentrare un'altra autorità, diversa, terza.

Adesso si dice che la mafia stia attuando una politica "di inabissamento" e del cosiddetto "figliol prodigo".

Si, sicuramente fallisce la strategia di attacco frontale allo Stato elaborata e praticata da Riina, dai corleonesi con le stragi di Capaci di via D'Amelio e quelle sul "continente" del '93. Cosa Nostra subisce dei colpi durissimi; gli arresti che abbiamo detto prima, i 650 ergastoli, le centinaia di anni reclusione, i 10000 miliardi di vecchie lire di valore complessivo dei beni che soltanto la procura di Palermo ha sequestrato ai mafiosi; è una finanziaria, una montagna di soldi. Cerca di ristrutturarsi e la strada che sceglie è quella di non fare più notizia; quindi per fortuna non uccidono più o per lo meno non uccidono più in modo che si venga a sapere, continuano a praticare le tecniche della lupara bianca e della cementificazione dei cadaveri, non fanno più stragi e cercano di inabissarsi, di nascondersi, di uscire dalle luci della ribalta per far credere di non esistere più, di non essere più pericolosi o quanto meno di non essere più un problema così grave da meritare attenzione e trattazione prioritaria. Qualcuno ci crede e la guardia si abbassa obiettivamente e tutto questo si intreccia con le furibonde polemiche contro l'antimafia perché c'erano problemi coi pentiti, sui processi degli imputati eccellenti quindi il problema si era spostato dalla mafia ai magistrati antimafia. Quindi non considerare più prioritaria la mafia fa anche comodo a chi strumentalmente alimenta queste polemiche sui pentiti e sui magistrati antimafia perché si sono permessi d'ispezionare anche il lato oscuro del pianeta mafia e cioè delle relazioni esterne e i rapporti con gli imputati eccellenti.

Allora, inabissandosi, approfittando di un certo abbassamento di guardia, prima cicatrizzano le ferite e si riorganizzano ripresentandosi sul territorio di nuovo con le estorsioni, ma con una nuova tecnica: pagare meno ma pagare tutti, per affermare la loro egemonia. Poi c'è, il traghettatore, che sarebbe stato Bernardo Provenzano, il passaggio della mafia negli affari e la presenza massiccia negli appalti. Comincia anche un nuovo atteggiamento nei confronti dei pentiti: prima li uccidevano o cercavano di ucciderli o costringevano i familiari a pubbliche dissociazioni, madri, sorelle, che facevano a gara per dichiarare pubblicamente che il loro figlio o fratello era un'infame, che loro non c'entravano niente. Questo la mafia lo pretendeva perché non ci fossero rappresaglie ma nel tempo stesso era un modo, all'epoca, per dare addosso ai pentiti e cercare di frenare l'emorragia. Adesso non più, ma ponti d'oro a coloro che minaccino un possibile pentimento e cambiano idea, ponti d'oro anche a chi essendosi pentito torna indietro, ponti d'oro nel senso di aiuti alle famiglie, aiuti carcerari, tutto quello che solitamente fa della mafia, per quanto riguarda i suoi affiliati, una organizzazione di forte presenza, di assistenza e di sostegno. Quindi non più le saette vendicatrici per sterminare il pentito e i suoi familiari ma le braccia aperte al figliol prodigo.

Nel momento in cui ci scateniamo, come istituzione, come Stato, come opinione pubblica, come certi media, contro i pentiti, perché i pentiti parlano anche di mafia e politica c'è maggior difficoltà ad avere delle collaborazioni.

Intervista a Piero Luigi Vigna

Non abbiamo potuto riportare l'intervista integrale a causa di un guasto del nastro, le nostre scuse all'intervistato.

[...]

Nel processo di revisione previsto dal codice di procedura, la revisione viene chiesta dal condannato quando ci sono, quando sopravvengono prove nuove che lo scagionano, a favore e qui viene un pochino ribaltata, non è a favore questa revisione, ma si può rivedere il processo per infliggere una pena maggiore al collaboratore che magari ha fruito delle attenuanti previste o dal decreto legge del 1979 se si parla di terrorismo o dall'art. 8 della legge del maggio 1991 se si tratta di mafioso e quindi vedergli aumentata la pena. Questo direi è il quadro che la legge ha ritenuto di modificare, in più la legge, anche qui secondo me, giustamente ma con un piccolo aggiustamento, dice che questo soggetto non deve parlare solo dei delitti ma deve parlare anche dei beni acquisiti attraverso i delitti.

Allora il principio in se è molto positivo perché se la ideologia, per così dire, della mafia è quella del profitto, nella sostanza, è giusto che questi beni non rimangono nelle mani dei mafiosi, ma vengano come dice la legge sequestrati e confiscati.

Deve dichiarare anche i propri beni e anche di altri, se sa che hanno una provenienza mafiosa. Ora questo qui, proprio perché l'ideologia della mafia è quella del profitto è probabilmente un elemento che ha scoraggiato alcune collaborazioni che potevano nascere perché se uno ha vissuto tutta la sua vita sia pure attraverso delitti per fare un capitale, il mafioso è un capitalista, a differenza del brigatista, è per questo che non sono mai andati d'accordo in carcere, non sono mai riusciti i brigatisti in carcere a fondersi con i criminali. Ci fu un'esperienza, i NAP Nucleo Armati Proletari che però furono subito arrestati perché sono di due ideologie diverse, insomma voglio dire uno è la rivoluzione, è marxista quindi origini marxiste, l'altro è un capitalista, insomma non si può andare d'accordo. Allora questo qui ha scoraggiato ora, nelle procure circolava questo racconto che non so se sia vero o no, penso di si che uno è andato nella stanza di un sostituto per collaborare allora il magistrato gli dice: "Cominci a dirmi quali sono i suoi beni" e pare che questo tale abbia detto: "Guardi io non pensavo di venire all'ufficio delle imposte quindi lasciamo fare" ed è andato via, non so se sia una favoletta o se un racconto veritiero come potrebbe essere. Io avevo pensato, avevo suggerito che fermo che si dovesse parlare dei beni, fermo che i beni dovessero essere confiscati, quelli di provenienza illecita, una parte di questi recuperati dovesse essere lasciata sotto la gestione del servizio centrale di protezione al collaboratore per il suo reinserimento nella attività lavorativa; perché questo è stato un pochino sempre il punctum dolens sia della prima che della seconda legge.

In una Italia dove la disoccupazione anche se tendenzialmente diminuita ma ha ancora fasce elevate, in un paese dove si richiede sempre una maggiore professionalizzazione, è difficile che la generalità dei collaboratori, che hanno sparato, possa immettersi nel sistema lavorativo anche perché l'immissione nel sistema lavorativo richiede poi, se uno è collaboratore, esigenze di riservatezza e di segretezza. Allora alcuni anche attraverso il cambiamento delle generalità o prima con il documento di copertura, sono riusciti a svolgere qualche attività anche perché parecchi mafiosi o camorristi erano imprenditori quindi dopo sono potuti rientrare in altri luoghi nella loro attività, ma per la generalità questo è stato un pochino il punto dolente di tutte queste leggi: non si è riusciti a dargli uno sbocco lavorativo, o per la difficoltà del soggetto, la sua incapacità. Lei metta un mafioso insomma che deve andare a fare il manovale, non ci sta proprio come prestigio, insomma è onorato nel quartiere, nella via, quindi ci sono state queste difficoltà che sono permanenti.

Ora la commissione negli ultimi anni, sia per diminuire quelli che sono sotto protezione, sia per dare questa possibilità a loro, sia pure con un aiuto, finché è possibile dei NOP del servizio centrale, cosa fa? Ad un certo momento dice: "Va beh io ti dovrei proteggere, si fa un giudizio, poi i processi sì sono finiti però c'è ancora pericolo oppure i processi non sono finiti ancora, ti dovrei proteggere ancora per tre anni o cinque anni, faccio un calcolo di quanto mi costi, mi costeresti in questi cinque anni. Se tu mi proponi un progetto di reinserimento verificato e attendibile, io ti do ora tutti questi soldini perché tu intraprenda questa attività, tu esci dal programma di protezione, ma sarai protetto egualmente quando vai in Tribunale, quando devi fare gli spostamenti.

Questo denota già un momentino come non c'è stata una riuscita da parte dello Stato.

Un altro punto, ma questo indipendentemente dalla legge, sono i minori.

Il minore naturalmente subisce dei traumi più del maggiorenne, dei traumi perché viene sradicato dal suo luogo di nascita, di abitudini, gli viene dato un altro nome. Ora un ragazzino di 6 - 7 anni che sempre si è chiamato Rossi, che quando uno dice Rossi deve stare fermo e dice Neri: "Sono io"; insomma non sono problemi facili da affrontare.

Il sostegno psicologico è garantito?

C'è un sostegno psicologico. Nel servizio centrale di protezione ci sono degli psicologi che cercano di affrontare con i ragazzi questo problema però è un problema che si protrae nel tempo, soprattutto se il ragazzino è piccolo, non è facile superarlo, abitudini, nomi.

Io per esempio, poi c'è la richiesta fatta al padre, io mi ricordo che un collaboratore mi diceva: "Veda io faccio finta di andare a lavorare! Quindi prima che il bambino esca di casa per andare a scuola io vado via; dopo sto attento a quando rientra".

Misure di assistenza economica.

Lo Stato garantisce gratuitamente queste cose: l'alloggio (naturalmente se non ha possibilità sue), poi gli garantisce l'assistenza legale la salute gratuitamente o attraverso il Servizio Sanitario Nazionale oppure se per motivi di segretezza o perché lì non c'è un particolare specialista, andando da uno specialista, invece con l'assegno di mantenimento deve provvedere a tutti gli altri bisogni. Questo assegno di mantenimento non so ora quanto possa essere, è relazionato come lei sa, al numero di membri della famiglia, io ho l'impressione che una famiglia di 3 persone, delle vecchie lire prenderà 1.500.000 - 1.600.000 - 1.700.000 o simile, o poi è prevista anche la possibilità di contributi straordinari: ad esempio se uno si sposa c'è un contributo straordinario per la cerimonia nuziale, naturalmente non potrà invitare 1000 persone ma quelle giuste. Poi sono stati utilizzati vari sistemi di integrazione anche attraverso le assicurazioni sociali.

Poi c'è il cambiamento delle generalità, prima al collaboratore viene dato un documento di copertura poi, in casi particolari, alla fine del programma il ministro dell'interno della giustizia dispongono il cambiamento delle generalità, cambio che non è solo delle generalità. Si parte dal titolo di studio, al catasto, quindi si ricostruisce una identità del soggetto completamente diversa da quella precedente. Si fa capo a particolari uffici che hanno dei registri riservati per fare tutte queste operazioni.

Qual è il suo parere sulla legge attuale?

Sulla legge del 2001 do un giudizio positivo. Naturalmente tutte le leggi poi sta come vengono gestite per esempio: la revoca. Allora, lei pensi che uno venga denunciato per un reato, un collaboratore, qui noi ci siamo posti il problema: in Italia esiste la presunzione di non colpevolezza, quindi lo revochi? Bisognerebbe aspettare la sentenza definitiva, certo se questo è stato arrestato in flagranza per rapina, si revoca perché c'è la flagranza, la prova sicura altrimenti si chiedono informazioni alla procura.

Un altro problema che si pose fu questo: uno del nucleo familiare commette una scorrettezza e veniva revocato il programma di protezione a tutti. Già e che c'entra? La responsabilità è individuale, quindi lui sarà estraniato dal programma di protezione mentre resta per gli altri; non è una obbligazione solidale, no? Questo è il punto e quindi si esclude quello lì con riflessi psicologici perché lui non potrà più frequentare poi il nucleo familiare. Però resta il programma di protezione per lui e questa fu già una conquista perché sennò tutti questi venivano revocati e quindi messi sulla strada.

Possiamo analizzare il ruolo del Procuratore Nazionale?

Per capire il ruolo di Procuratore Nazionale Antimafia, su questa materia bisogna partire da questa considerazione, secondo me.

Alla Procura Nazionale esiste un sistema informatico molto evoluto, un sistema informatico che si chiama "SIDDA - SIDNA", cosa vuol dire? Il primo vuol dire Sistema Informativo) Direzione Distrettuale Antimafia, il secondo Sistema Informativo Direzione Nazionale Antimafia. Cosa succede? Succede che nella Direzione Nazionale Antimafia esiste un elaboratore, un centro dati nel quale vengono innanzitutto raccolte, dalle ventisei procure distrettuali, telematicamente, tutte le notizie sulla criminalità organizzata. In poche parole: verbali di interrogatori, di imputati, testimoni, verbali di sequestro, posizioni finanziarie estratte da banche durante un'indagine, perquisizioni, intercettazioni telefoniche, reati per i quali una persona è indagata o rinviata a giudizio o è condannata in primo grado o in secondo grado o in cassazione e allora cliccando il nome Piero Vigna le esce una videata dalla quale lei può vedere: Piero Vigna, questo è indagato da queste procure per questi reati, fa parte di questa associazione, di questa associazione fanno parte anche queste centoventi persone, di lui hanno parlato queste persone, lui ha rapporti di lavoro o ha avuto persone, questo con cui ha avuto rapporti di lavoro è anche lui indagato per questo, fa parte di questa associazione criminale, ha questi movimenti finanziari, ha partecipato e ha vinto questi appalti per la ditta prestanome ecc. di questa entità, non solo, lei legge queste notizie, ma può avere gli atti stampati dai quali provengono le notizie. Allora diciamo che è una banca dati giudiziaria e questa si differenzia dalle banche dati della polizia. Le banche dati della polizia di regola sono fondate sul sospetto, Tizio identificato in questa via, denunciato per questo, ma non seguono tutto l'iter giudiziario. Quindi c'è questa banca dati dove si sa o si dovrebbe sapere perché a volte le procure distrettuali ritardano, allora io scrivevo, poi c'è un sistema ora dal quale immediatamente si vedono i ritardi con cui automaticamente vengono trasmessi gli atti. Allora sollecitazione a trasmettere altri atti. La DNA è deputata a dare una certa serie di informazioni in certe occasioni: ammissione al programma di protezione, benefici penitenziari e quindi cosa fa il magistrato se deve fare un giudizio di attendibilità, ad esempio? In questa banca dati ha la possibilità di avere notizie non solo da quella procura, ma da tutto l'universo italiano, su questo soggetto e quindi assembla tutte queste notizie richiedendone poi, anche con lettere trasmesse per fax alle varie procure se non è convinto, il loro patrimonio informativo o il loro giudizio, quello che si sta svolgendo nel procedimento e in esito a questa esprime il suo parere.

Le è capitato di raccogliere le dichiarazioni di un collaboratore? Qualcuno ha chiesto di poter parlare con Lei?

Si è verificato questo in certi casi, ad esempio nell'epoca del terrorismo rosso. E' capitato che un terrorista dicesse di voler parlare con un certo magistrato perché riteneva che questo avesse una visione politica non uguale alla sua, ma che fosse strutturato politicamente in modo da intenderlo meglio. Quando mi sono occupato di terrorismo russo avevo teorizzato e poi l'ho utilizzato anche per i mafiosi e quelli che stanno al 41 bis, la teoria dell'interrogatorio a dialogo. Al grosso terrorista non puoi andargli a dire: "Prego, si accomodi. Vuole un caffè, fuma? Allora parliamo di questo omicidio. Non ti relazioni così. Da qui la lettura di testi, Marx, Lenin, Engels, lettura molto attenta di tutti i documenti trovati nei copy per instaurare un dialogo di tipo politico diciamo che poi portava alla domanda finale che era questa: ma te chi ti ha legittimato a fare queste cose? È il problema della legittimazione.

Io mi ricordo ancora di uno giovanissimo, un brigatista che aveva un appuntamento strategico a Firenze, appuntamento strategico vuol dire questo: ci sono degli appuntamenti cadenzati, se non ci si vede in quelli c'è un appuntamento per una data più lontana in un certo luogo con certe modalità. Questo era con una rivista con un certo titolo da tenere sotto il braccio, un altro collaboratore ci aveva detto che aveva un appuntamento strategico con questo in piazza San Lorenzo; ovviamente ci mandai la polizia come lo vede lo prende. Questo era giovanissimo, quindi io gli offrii un cappuccino, una brioche e poi cominciai questo interrogatorio dialogo, alla fine gli dissi: "Guarda (gli davo del tu perché era giovane) io domattina ti mando libero alla Galileo dove ci sono gli operai, naturalmente metterò intorno 50 agenti in borghese perché tu non scappi e tu vai ai cancelli e cominci a parlare delle brigate rosse; voglio vedere cosa ti succede. Allora questo discorso sulla mancanza di legittimazione ha portato veramente qualcuno a ripensare, a ripensare in che senso? Il terrorista rosso, formato politicamente, rivedeva le cose che aveva fatto come un errore politico e allora quando ti parla dice la verità.

Anche l'opinione pubblica sembra credere di più ai terroristi pentiti piuttosto che ai collaboratori provenienti da Cosa Nostra.

Probabilmente si capisce anche non ragionandoci che quelli lo fanno per un ideale politico anche la collaborazione, quest'altri lo fanno per utilità. Utilità che può essere: non essere ammazzati, avere gli sconti di pena o usare a volte lo Stato contro una cosca vincente. Meno linearità nelle dichiarazioni di un collaboratore proveniente dalla mafia, che è meno acculturato.

Sono stati pubblicati dei "pizzini" di Provenzano.

Allora su Provenzano ci sono i miti. Ora si fa il mito di chi l'ha preso. Il covo di Riina non si va nemmeno a perquisirlo se non dopo 30 giorni, quello di Provenzano si porta via anche la sabbia; questa è l'Italia meravigliosa nella quale viviamo.

Sappia che Liggio, che è stato il padre di Provenzano diceva: "Ha un cervello da gallina".

Provenzano era da sempre il capo di Cosa Nostra?

Probabilmente sì, cioè era uno che secondo me a parte le protezioni che sicuramente ha avuto per stare 43 anni a spasso poi nel luogo dove stava. Ha avuto questa funzione, dopo l'epoca stragista nel '92 - '93, di riuscire a mediare soprattutto la conflittualità che c'era tra quelli al 41bis e i mafiosi liberi. Lei ricorderà che nel 2003 dai carceri vennero certi messaggini. Si rivolsero ai loro avvocati che erano diventati deputati e dissero loro: "Allora? Quando eravate nostri avvocati dicevate che il 41bis andava eliminato e ora che siete deputati, che fanno?. Quindi ci fu questo pericolo e alcuni furono protetti. Provenzano è riuscito a mediare. Lui rappresentava poi l'ala più affaristica di Cosa Nostra, anche attraverso omicidi, ma più dedito agli affari che non alla lotta militare con lo Stato.

Quindi la funzione, come lei sa, la funzione è quella di risolvere eventuali contrasti, cioè vale a dire che se più procure sono interessate ad un collaboratore, ad un soggetto, può darsi (per la verità non è mai avvenuto), loro devono fare una richiesta congiunta, ma può darsi che proprio il Procuratore Nazionale con questa banca dati gli arriva una richiesta di ammissione al programma da parte di Palermo, vede che questo è indagato anche a Milano, dice a Milano: "Guarda che questo a chiesto il programma di protezione o le misure di protezione. Le chiedi anche te?". Allora il Procuratore Nazionale acquisisce gli atti (se non li ha già) dall'uno e dall'altro e formula il suo giudizio sulla sua ammissibilità o meno.

Però il parere non è vincolante, vero?

No, non è vincolante, è sempre la commissione e stabilire l'ammissione o meno al programma di protezione.

Per tornare al discorso iniziale sull'intimismo investigativo, la nuova legge ha anche qui disposto una norma: mentre prima della commissione poteva far parte qualunque magistrato, ora solo magistrati che non svolgono indagini, ma non su quel soggetto, bensì in generale. Si è voluto evitare che il magistrato che fa le indagini possa interferire nel momento protettivo.

Accesso alle misure alternative: pensa che sia giusto l'iter previsto dalla legge?

Lì si entra in un altro concetto, c'è, come lei sa, chi critica molto le misure alternative dicendo che incidano sulla cosiddetta certezza della pena, cioè il principio della certezza della pena vede tre gradi: la pena prevista dalla legge, omicidio da 21 a 24 anni, la pena irrogata dal giudice e la pena espiata. Ora venendo solo all'ultimo, il giudice ti ha dato 15 anni e non solo i collaboratori ma anche gli altri, possono fruire delle misure alternative alla detenzione. Qual è la ragione? La ragione è questa: la nostra Costituzione all'articolo 27 dice che "la pena deve tendere alla rieducazione, anche alla rieducazione del condannato". Allora per uno che ha collaborato, la cui collaborazione è stata accertata in gradi di giudizio, collaborazione che è comunque un indice di distacco dal gruppo criminoso quindi quantomeno l'inizio di una nuova vita, quindi è giusto che ne possano fruire dopo aver scontato un certo periodo di pena.

Competente è il Tribunale di Sorveglianza di Roma e ho visto che per lo più tende a concedere la detenzione domiciliare.

Certo perché c'è sempre una sorveglianza.

Si è tentato, ma, per testimoni di fare una protezione in loco ed è stata fatta e per alcuni è andata bene, per altri male per comportamenti scorretti, proprio per dare una dimostrazione dello Stato vincente. Naturalmente anche perché se tu fai l'estorsione ad una panetteria, se io lo porto via, poi nella panetteria chi ci andrà? Allora protezione in loco, la quale però come lei capisce non può avere dimensioni estensive perché comporta una vigilanza costante della persona, della casa, quindi la nostra legislazione ha seguito la via della mimetizzazione, non è possibile che io metta le mascotte davanti a tutte le case anche perché è come dire: qui ci sta un pentito. Allora quella delle mimetizzazione, nascondimento. L'Italia purtroppo è un paese piccolo, questo sistema va benissimo negli Stati Uniti e purtroppo un'altra deficienza di questa legislazione che non si sia riusciti, anche se la legge lo permette, a stipulare accordi con altre nazioni per inviare là il nostro collaboratore e tenere qui il loro, il che dà una sicurezza assoluta. Tenga anche presente che moltissimi di questi collaboratori in certi paesi stranieri, hanno parenti, allora li reinserisci in un luogo sicuro dopo aver accertato cosa fanno i parenti naturalmente e prendi quello lì. Questo è stato soprattutto penalizzante perché lei pensi la tratta a fine di prostituzione, ha avuto tante donne che non parlano e dicono di non poter parlare per paura delle ritorsioni soprattutto che gli albanesi fanno alla famiglia in Albania, allora da tempo avevo proposto che a questi congiunti venisse dato un permesso di soggiorno e potessero essere inseriti anche loro nel programma di protezione. Quindi un altro fallimento, se così si può dire, è stata la mancata attuazione a livello internazionale con scambi di collaboratori o con l'ammissione, con permessi di soggiorno speciali, di nuclei familiari di un collaboratore che vorrebbe collaborare in Italia ma non collabora perché ha paura di quello che può succedere alla famiglia all'estero.

Intervista al testimone di giustizia Giuseppe Carini

Nasci in questo ambiente dove respiravi aria....

Mafiosa. L'aria si tagliava col coltello.

Con la voglia di diventare anche te uno di loro?

Sì, esattamente. Poi una sera incontrai un mio carissimo amico di infanzia e parlando, ricordando i vecchi trascorsi in parrocchia quando io ero ancora un chierichetto e gli dissi: "Sai, mi sento un po' a disagio rispetto alla situazione qua nel quartiere, c'è qualcosa in me che non mi piace". E lui mi raccontò che era appena arrivato da Brancaccio un sacerdote, appunto padre Pino Puglisi, che era un sacerdote diverso da quello precedente e diverso da tutti gli altri che lo avevano preceduto. E me lo fece conoscere. Io allora frequentavo la facoltà di Medicina e chirurgia. Padre Puglisi arrivò nel '90-'91. Quindi conobbi questo prete, il quale mi chiese se potevo impegnarmi nelle attività sportive con i ragazzi. Non c'erano dei luoghi dove far giocare i bambini, non c'era una campo di calcetto, una struttura sportiva per loro. Mi chiese se potevo farli giocare nel salone parrocchiale. Io inizialmente accampai delle scuse dicendo: "Ma no, ho da fare, sono uno studente in Medicina, ho degli impegni con i miei amici", che poi i miei amici erano quelli che ruotavano intorno al mondo di Cosa Nostra come ti dicevo. Poi però alla fine accettai, accettai per un'ora a settimana. E fu così che mi fregò, diciamo.

La tua famiglia era contenta che tu andassi...

In parrocchia? Sì, molto. Il problema è che rimasero meno contenti quando l'impegno della parrocchia, di padre Puglisi e il mio, cominciò a trasformarsi in un impegno di riscatto del quartiere e di richiesta al Comune e al Consiglio di Quartiere di interventi a favore, che ne so, di una mancanza di fognatura, una zona per gli anziani, un centro sportivo per i bambini, un'attenzione da parte delle forze politiche nella città e nel quartiere, alle donne e un impegno anche da parte della parrocchia nel cercare di superare quelle situazioni di estrema povertà e miseria che c'erano nel quartiere Brancaccio Ciaculli rispetto alle quali l'Amministrazione Comunale e il Consiglio di Quartiere erano stati da tempo latitanti perché devi capire che più c'è miseria e più c'è voglia di mafia, più c'è miseria e più l'organizzazione criminale è in grado, come dire, di attecchire perché chiaramente laddove l'unico punto di riferimento in un quartiere è l'organizzazione criminale e non le istituzioni, beh è chiaro, ti rivolgi all'organizzazione criminale.

Dopo che è morto Don Puglisi le cose a Brancaccio sono tornate come erano prima?

No. Dopo che è morto c'è stato un momento di forte angoscia da parte dei più stretti collaboratori, anche perché l'omicidio di padre Puglisi era stato preceduto da una serie di attentati intimidatori. Avevano bruciato le porte di casa a tre componenti del Comitato Intercondominiale, avevano minacciato alcuni ragazzi della parrocchia, anch'io avevo avuto i miei bei problemi. C'era un momento di forte tensione. La stessa gente che frequentava le persone più attive in parrocchia cominciò a tenerci alla larga. Ricordo che avevo un gruppetto di amici che appunto dopo l'omicidio di padre Puglisi si rifiutarono di uscire con me in giro perché pensavano che fra le probabili vittime ci sarebbero stati altri collaboratori di padre Puglisi. Insomma si respirava un clima di forte tensione, però eravamo determinati, eravamo convinti anche che lasciare perdere tutto sarebbe significato tradire tutto quello che padre Puglisi non solo aveva fatto, ma tutto quello che ci aveva dato. In fin dei conti, per quello che riguarda la mia scelta di vita personale io con lui avevo intrapreso un certo cammino di cambiamento, non parlando apertamente della mia condivisione per cultura e mentalità con Cosa Nostra però, insomma, lui aveva capito il mio disagio. Quindi io non volevo rinunciare a tutto questo; soprattutto avevo percorso con lui un certo tratto, lui era venuto a mancare e adesso toccava a me. Quindi la mia scelta di continuare a stare a Brancaccio e a continuare il lavoro con più determinazione era anche un modo per onorare la sua morte. Credo che il modo per onorarlo meglio era di continuare quel cammino che ho intrapreso con lui, quel cammino che poi alla fine è sfociato nella scelta di collaborazione con la Magistratura, una scelta quasi automatica, naturale ecco. Non è stata forzata, quindi naturale. Evidentemente il mio percorso di vita doveva essere questo. Perché devi sapere che io prima e dopo l'omicidio di padre Puglisi avevo un piede qui e un piede là; io continuavo a frequentare la parrocchia e però continuavo a frequentare anche queste amicizie con queste altre persone. Ero confuso, avevo un profondo disagio. Pensa che a volte, siccome mi vergognavo di questo mio piccolo cambiamento, quando per andare in parrocchia dovevo attraversare un locale, un barbiere laddove si riunivano tutte queste persone io per potere evitare i loro sguardi di rimprovero aspettavo sotto casa mia il passaggio dell'autobus, di un amico col motorino in modo tale che mi portasse direttamente in parrocchia senza passare a piedi da loro sennò mi avrebbero guardato con sguardo di rimprovero, come per dire ma guarda che stai facendo, sei cambiato, hai tradito la nostra fiducia. Questo rimorso, questa sensazione di colpa io l'ho provata per moltissimi anni anche dopo l'omicidio di padre Puglisi, questa sensazione di tradimento nei loro confronti.

Poi hai deciso di "raccontare" quello che sapevi: quando?

Era già passato un po' di tempo, nel senso che padre Puglisi fu assassinato il 15 settembre del '93. Io, come ti dicevo, frequentavo la facoltà di Medicina e chirurgia e frequentavo l'Istituto di Medicina Legale, ero interno dell'istituto di Medicina Legale prima della morte di padre Puglisi. Lui sapeva che tipo di attività faceva l'istituto tant'è vero che mi chiese che se fosse stato ammazzato di non lasciarlo solo e che avrei dovuto fargli questo trattamento di favore. Ricordo ancora quel momento brutto. Lui fu ammazzato la sera del 15 settembre intorno alle nove di sera circa, io l'ho saputo l'indomani mattina perché quella sera andai a giocare a pallone con i ragazzi della parrocchia. L'indomani mattina, erano le sette sette e mezza, mi ero appena svegliato per andare all'Istituto di Medicina Legale, uno dei miei fratelli scende per andare a lavoro, risale e mi dice che è stato ammazzato padre Puglisi. Ed io, me lo ricordo ancora, mi sedetti sul letto e la mia prima riflessione fu quella che non mi aspettavo, come dire, un salto di qualità. Sì, è vero, c'erano stati gli attentati intimidatori con le porte bruciate, le gomme bucate della macchina di padre Puglisi, il fatto che era stato anche picchiato, il fatto che egli avesse fatto una durissima omelia nei confronti di chi avesse appiccato il fuoco alle porte di questi tre amici del Comitato Intercondominiale. Non mi aspettavo però il suo omicidio ma, vedi, il problema non era che effettivamente non c'erano le condizioni per cui uno potesse pensare "stavolta fanno sul serio", ero io troppo impegnato in questo mio percorso di trasformazione, troppo preso dagli impegni con i ragazzi, da quello che mi davano, dal desiderio di cambiare, dal fatto di sentirmi una persona diversa che avevo perso per un attimo quel modo di ragionare che invece mi ero portato avanti negli anni. Questo è un piccolo rimorso che mi è rimasto. Ero così, come dire, "troppo in trasformazione" che non mi sono reso conto che invece si erano separati dei confini enormi. Insomma, la mattina vado all'Istituto di Medicina legale e lì c'era in attesa il mio professore di medicina legale e altri medici specializzandi che sapevano che lavoravo in parrocchia, sapevano che la parrocchia era in difficoltà, che aveva avuto degli attentati e mi chiesero di non scendere giù in cella frigorifera perché mi dissero: "Giuseppe non è una cosa bella da vedere, noi ci siamo passati perché il nostro direttore di medicina legale Paolo Giaccone era stato assassinato perché non aveva voluto cambiare un referto di impronte digitali". Io non ascoltai. Per cui scesi giù negli scantinati, andai lì, aprii la cella frigorifera e lo trovai: fu una cosa brutta. Io ancora me lo ricordo che c'era questa bara di legno aperta, lui era lì, nudo, con la testa fasciata. La cosa che mi colpì era il fatto che lui sorrideva, c'era questo sorriso sulla sua faccia. Perché non è una mia immaginazione, davvero aveva il sorriso in faccia, una serenità dentro il volto che io rimango scioccato ancora a pensarci. Rimasi lì qualche minuto in cella frigorifera, poi chiusi la cella e mi misi a piangere come un bambino e piansi cinque, dieci minuti in totale silenzio perché nessuno era sceso.

Parlami del tuo ingresso nel programma di protezione.

L'inizio è stato che la Procura della Repubblica di Palermo, il dottor Caselli, ha fatto richiesta alla Commissione Centrale di applicazione del programma speciale di protezione. Era il 1995. Innanzitutto, come prima cosa, la Questura di Palermo mi fece prelevare da un ispettore della polizia nel mese di Aprile, vicino alla domenica delle Palme, venne questo ispettore di Polizia con l'auto in borghese, mi portò in Questura e lì un funzionario della Questura mi spiegò che io dovevo lasciare Palermo e io ribattei che non volevo andar via, anche perché avevo i miei impegni in parrocchia con i miei ragazzi, i miei bambini e volevo continuare a fare quello che facevo con padre Puglisi. Da parte mia non c'era nessuna intenzione di lasciare la città. Di fatto venni costretto perché, a dire dalla Questura della Repubblica, non c'era nessuna alternativa. Dopo alcune settimane la Procura decise che io dovevo andar via quindi mi prelevarono alcuni agenti della Questura e mi portarono all'interno di una caserma di polizia di Palermo.

Avevi già rilasciato dichiarazioni?

Sì, esattamente. Mi portarono in questa caserma di polizia, in questa scuola di polizia, e rimasi lì quasi due mesi, anzi forse più di due mesi. Non avvisai i miei genitori, né la Procura né la Questura dissero ai miei genitori che non sarei mai più tornato a casa. Infatti i miei familiari furono avvisati da un sacerdote che li chiamò in parrocchia e gli raccontò la storia. I miei familiari comunque non hanno mai avuto alcun contatto col Ministero dell'Interno, nessuno. E qui la cosa lascia un po' a desiderare.

Rimasi chiuso per 60 giorni in questa caserma perché, ma questo l'ho saputo qualche annetto dopo, erano sorti dei problemi tra la Procura della Repubblica e la Prefettura credo. Credo che ci fosse stato un problema su chi era deputato a formulare la richiesta di applicazione di programma di protezione, se il Comitato Provinciale per l'Ordine e la Sicurezza oppure la Procura della Repubblica. Di fatto loro discutevano e io rimasi chiuso due mesi in una caserma, senza uscire. E non è stato per niente facile. Dopodiché, quando queste difficoltà burocratiche furono superate, mi fecero partire per una località protetta. Prima di partire però mi ricordo che un ispettore di polizia mi fece firmare un documento dove io chiedevo che, una volta partito da Palermo, potessi continuare gli studi di Medicina e chirurgia in quanto io frequentavo il quarto anno. Partii e fui portato a Firenze.

In aereo?

Sì, in aereo. Mi accompagnò un poliziotto e all'areoporto mi venne a prendere la scorta. Mi portarono in Questura a Firenze e lì mi assegnarono ad una sezione della Questura, allora era la sezione antidroga perché il NOP in Toscana ancora non era costituito per cui se ne occupava, per ciò che mi riguarda, la Questura. (Per altri casi probabilmente se ne saranno occupati i carabinieri, la guardia di finanza per quanto mi riguarda la Questura.) Per cui mi fecero conoscere l'ispettore, che era il referente del Ministero per me, qualche altra persona e mi alloggiarono in un albergo. In quest'albergo rimasi un mese e qualche giorno perché probabilmente la Questura non era preparata al mio arrivo per cui l'abitazione, l'alloggio non era ancora stato trovato. Gli agenti prima di portarmi in questo albergo parlarono col direttore che era informato su questi nuovi clienti che venivano portati lì dalla Questura tant'è vero che mi ricordo che, in questo residence oltre a me c'erano sicuramente dei camorristi, dei pentiti provenienti dal mondo della camorra ed altro.

Il giorno potevi uscire?

Le uniche condizioni che mi hanno dato portandomi in questo residence sono state di non aprire a nessuno se non si fosse presentato come l'agente di polizia che avevo conosciuto, ma potevo fare quello che volevo: potevo uscire. Però mi ricordo che già all'indomani mattina del mio arrivo in questo residence sorsero dei problemi perché, quando scesi dall'appartamento, il direttore del residence mi chiese i documenti per la registrazione e io gli dissi che non li avevo perché mi erano stati sequestrati dalla Questura, che me li aveva ritirati al mio arrivo. E lui mi disse "quando arriverà il personale lei si deve far dare la carta d'identità perché io devo registrarla perché è previsto per legge". Però gli agenti della Questura non portarono i documenti e io ebbi dei problemi grossi con il direttore il quale si risentì con me perché lui voleva registrarmi. Insomma alla fine questi agenti della Questura parlarono con il direttore, gli spiegarono il motivo per cui ero lì e che ero una persona sottoposta al programma di protezione. Ti devo dire che quando io arrivai a Firenze in Questura, fui presentato semplicemente come un collaboratore di giustizia. Non un testimone, ma un collaboratore di giustizia, quindi automaticamente pentito di mafia. La mia permanenza in questo residence, ma anche tutto l'anno, furono piuttosto duri e pesanti perché fui scaricato in questo residence. Per mangiare mi dovevo recare ad un ristorante vicino alla Questura, semplicemente presentarmi lì e mangiare, dicendo al proprietario del ristorante che sarebbero passati i miei colleghi della Questura a pagare poi il tutto. Al ristorante fui presentato semplicemente come un collega di polizia che era lì in servizio e mangiava lì. Mangiavo al ristorante a pranzo e a cena quando il locale era aperto; quando il locale era chiuso no, cioè saltavo il pranzo, saltavo la cena, la domenica era chiuso quindi non mangiavo. Ricordo che fui lasciato lì in quel residence. Mi ricordo ancora la prima sera: uscii e andai in giro per Firenze, ma ero completamente annebbiato, confuso, camminavo per Firenze, così, pieno di pensieri, pensavo a mio padre, a mia madre, ai miei fratelli, all'impegno in parrocchia, ai ragazzini, alla mia ragazza che avevo dovuto lasciare...

Lei sapeva della tua decisione?

Sì. Le avevo detto che di lì a poco sarei andato via per sempre, e che quindi bisognava lasciarci. Questo mese di permanenza durò così. Non sapevo nulla. La mattina qualche volta sono andata in Questura a parlare con questo funzionario che era il mio referente, a chiedere spiegazioni, a chiedere "adesso cosa faccio una volta qui", e lui mi diceva "bisogna aspettare che il Servizio di protezione ci comunichi il da farsi". Io gli chiesi che cos'era il servizio di protezione perché non ero a conoscenza, lui mi disse che era un Ufficio del Ministero. Gli chiesi tutta una serie di informazioni, se avrei potuto parlare con il personale, come dovevo fare per l'iscrizione universitaria, perché io pensavo che una volta arrivato qui avrei cominciato subito a studiare e invece nulla. Gli chiedevo la carta d'identità e non me la davano. Gli chiedevo che fare perché ero solo, dentro un residence, senza fare nulla, senza poter parlare con nessuno, questi della Questura non ti cercavano. Mi sentivo perso, abbandonato e perso. Fu molto brutto. Allora dato che loro non si decidevano di darmi informazioni sull'università, chiesi se loro potevano comunicare a Roma il mio desiderio di proseguire gli studi universitari di medicina e chirurgia. Allora scrissi una lettera, e feci la fotocopia, dove chiedevo di proseguire gli studi in medicina e chirurgia. Dopo molti e molti giorni arrivò una risposta del Ministero dove si diceva che per motivi di sicurezza io non potevo più studiare medicina e chirurgia, che dovevo rinunciare. Io rimasi sorpreso perché a Palermo la Procura e la Questura mi avevano detto che io potevo continuare gli studi di medicina e chirurgia, e invece no. E mi costrinsero a scrivere una lettera al magnifico rettore dell'università di Palermo dove io chiedevo la rinuncia agli studi di medicina e chirurgia e la rinuncia agli esami sostenuti. Il personale poi della Questura di Firenze mi disse "ora ti iscriviamo a giurisprudenza" e mi iscrissero a giurisprudenza con le mie stesse generalità. Mentre nella lettera chiedevo non solo di proseguire gli studi, ma anche con generalità fittizie, per motivi di sicurezza non potevo più studiare medicina però automaticamente mi iscrissero a giurisprudenza con le mie vere generalità. E io non riuscivo a capire il senso di tutto questo. Io volevo fare il medico. Però loro mi dissero che non potevo e quindi ero obbligato a seguire scrupolosamente le loro disposizioni perché poi arrivarono i moduli per la firma del programma speciale di protezione, mi fecero vedere dei fogli dove si diceva la Commissione Centrale aveva deciso per l'applicazione del programma di protezione e che io dovevo rispettare una serie di regoline comportamentali. C'era scritto di non parlare mai con i giornalisti, di non tenere diario e fotografie personali in casa, di non parlare con gli estranei, di non rubare e altre regole tra le quali la più importante era di eseguire scrupolosamente le indicazioni del personale addetto.

Hai una copia di questo?

L'ho chiesta ma loro mi hanno detto che non danno questi documenti. Ero costretto obbligatoriamente a firmare sennò il programma di protezione non sarebbe scattato. Quindi la copia non me la diedero e all'interno di questo codice comportamentale c'era un articolo dove io mi impegnavo a non rubare. E io quando ho letto quella frase sinceramente non volevo firmare perché mi sembrava una presa in giro rispetto alla mia posizione. Intanto non è che i cittadini per essere tali firmano documenti dove c'è scritto di rispettare le leggi, a me sembrava un controsenso che a un testimone di giustizia gli chiedessero di firmare. Solo che mi dicevano "tu lo devi firmare obbligatoriamente, o lo firmi o te ne torni a Palermo".

Nessuno ti ha mai mostrato riconoscenza, gratitudine per quello che hai fatto?

No, anzi. Io ho trovato inizialmente moltissima diffidenza da parte del personale della Questura tant'è vero che poi riuscii a capire il perché della loro diffidenza, cioè loro mi ritenevano un pentito di mafia, gli dissi: "guardate signori che io non ho ucciso nessuno, io sono un testimone, voi mi capite".

Non sapevano la tua condizione processuale?

Loro non sapevano niente. Fui io che, per cercare di ottenere da parte loro un atteggiamento non di consenso ma semplicemente un po' più disteso, gli spiegai bene la situazione. La cosa più pesante furono questi mesi in totale abbandono, dimenticato da tutti, fino a quando non trovarono un alloggio per me, mi portarono in un quartiere di Firenze, mi lasciarono lì e se ne andarono. Io mi accorsi poi che in questo piccolo appartamento c'era il materasso che era sporco di urina, il cuscino sporco di urina, la luce semplicemente nel bagno e in cucina, il frigorifero che non funzionava, c'era una vasca piccola piccola e non riuscivo a fare la doccia, non c'entravo fisicamente, non c'era un armadio dove poter mettere i miei vestiti tant'è vero che rimasero per tutto il tempo della mia permanenza dentro la valigia. Rimanevo tutto il giorno dentro casa, non uscivo. Uscivo la sera, giravo per tutta Firenze la notte, così a vuoto, senza una meta, vagavo.

A me mancava tutto, capisci, non avevo con chi parlare, un dramma. Avevo un senso di vuoto, di desolazione, di confusione terribile.

Hai pensato di tornare a casa? Di lasciare tutto e di tornare giù?

Eh, ci ho pensato ma cosa dovevo fare, capivo anche che se tornavo a casa...

Temevi per la tua vita?

Eh, e poi chi mi avrebbe ricevuto in casa. Mio padre e mia madre mi avrebbero fatto entrare in casa?

Andai in Questura e dissi che non era possibile vivere in quella casa, che volevo un materasso pulito, volevo un frigorifero che funzionasse, volevo fare la doccia, volevo pulire perché i piatti e le pentole erano tutti sporchi, pieni di calcare, erano inservibili. E loro mi dicevano che non ci potevano fare nulla. Allora io mi ricordo che andai in un supermercato vicino a dove abitavo, alla loro casa - perché non era la mia casa - e comprai una di quelle macchine fotografiche usa e getta. Feci le fotografie, telefonai per disperazione ad un mio carissimo amico di Palermo, gli dissi "io qui ci sto veramente male, mi sento veramente un uomo distrutto". Gli spiegai la situazione dove vivevo e lui mi fece prendere contatto con un giornalista di Rai due il quale fece un servizio telefonico su di me, dove io denunciavo questo trattamento, denunciavo che mi avevano impedito di studiare medicina e tante altre cose. Non avevo niente, telefonai dalla cabina telefonica con quei miei pochi spiccioli che avevo che ero riuscito a portar via da Palermo, tipo 200, 300 mila lire. Poi Rai due trasmise questo servizio e l'indomani successe il casino. Venne un colonnello dell'arma dei carabinieri da Roma il quale non era venuto perché era preoccupato che dormissi in un materasso sporco di urina ma era furioso perché io avevo osato parlare con i giornalisti, dicendo quelle cose del servizio centrale di protezione. Ricordo che quella mattinata fu terribile perché ci misero dentro un ufficio della Questura e le urla si sentivano dal piano terra, le mie urla. Lui continuava ad essere molto arrogante e provocatorio, gli dissi "se lei non crede a quello che le sto dicendo io, guardi le fotografie, e gliele buttai lì sul tavolo, "e si faccia portare dalla polizia dove abito e si rende conto di persona", ma lui se ne fregò altamente. Se ne andò via, se ne tornò a Roma, io me ne tornai in quell'appartamento e ripresi a fare quello che facevo prima, di giorno chiuso in casa e la notte a girare a vuoto per Firenze.

Hai conosciuto qualcuno nel periodo di Firenze?

No, non avevo testa capisci. Poi dopo qualche mese da questa intervista su Rai due arrivarono credo sulle 300 mila lire che dovevano servire a comprare il materasso, il cuscino, le pentole, i piatti, e acquistai questo materiale alla presenza dei poliziotti. Loro pensavano che magari me li tenessi quei soldi quindi di fatto la spesa la fecero loro, dopodiché si presero lo scontrino e basta. Io potei avere la pentola pulita, i piatti puliti, riparare il frigorifero, misero la luce nelle altre stanze, la vasca per lavarsi era sempre la stessa tant'è vero che io dato che era estate per fare la doccia mi lavavo sul terrazzino dell'appartamento con l'acqua fredda perché lì l'acqua calda non funzionava ancora. E durò per molto tempo questa storia. Nel frattempo continuavo a scrivere lettere e lettere nelle quali chiedevo di studiare medicina e chirurgia e non giurisprudenza, e in ogni caso anche l'iscrizione a giurisprudenza era un casino perché all'università mi chiedevano il diploma di maturità, giustamente.

Nel frattempo ti avevano dato un documento di copertura?

No, il documento di copertura non ce l'avevo ancora e non avevo nemmeno il documento. Solo che loro avevano mandato un uomo della Questura alla segreteria dell'Università degli studenti, aveva parlato con il responsabile della segreteria, Dottor Degli Innocenti, dicendogli che io mi chiamavo Giuseppe Carini, che ero un collaboratore di giustizia e che dovevo essere iscritto all'università e che tutto teoricamente doveva essere mantenuto riservato. Il Ministero era convinto che bastasse questo per iscrivere una persona, invece avevo bisogno del diploma di maturità. Avevo fatto l'odontotecnico e poi l'anno integrativo di maturità. Questa storia che io ero un collaboratore di giustizia e che ero iscritto all'università fu trasmessa un po' dappertutto: dalla segreteria principale questa informazione, che doveva essere riservata, fu invece di dominio pubblico con l'altri esponenti della segreteria, con il resto del personale, persino con i professori universitari tanto che sostenni l'esame di diritto pubblico con Zaccaria.

Nessuno in Questura mi aveva spiegato che cos'era il programma di protezione, io non sapevo che esisteva una Commissione Centrale, che esisteva un servizio di protezione, non sapevo che cosa faceva il servizio di protezione, a che serviva, non sapevo nemmeno cosa avrei fatto io in questo programma di protezione, quale sarebbe stata la mia vita presente e futura. E quando chiedevo informazioni alla Questura, loro non sapevano darmi spiegazione; chiedevo se potevo avere il programma di protezione, cioè dettagliatamente che c'è scritto? Andai alla facoltà di Giurisprudenza a cercare se c'era un libro che spiegava queste cose. Andai anche nelle librerie della città fin quando non trovai in una libreria un libro di Silvio D'Amico, il collaboratore di giustizia. Comprai due copie del libro e una la regalai all'ispettore di polizia, cioè dato che non sai bene, perché la leggi sul programma di protezione, la legge 82/91, io ti faccio questa cortesia, ti regalo questo libro, io ce l'ho, tu ce l'hai, anche per una cultura personale così te la fai.

Ha gradito?

Molto, ha apprezzato. Perché in fin dei conti era una brava persona questo ispettore, era un povero cristo. A lui era stato dato questo compito ingrato. Anche gli scontri che ho avuto con lui nei mesi avvenire erano dovuti al fatto che per me lui era il rappresentante istituzionale, il mio referente in questo programma di protezione. Non avevo contatti né col servizio centrale di protezione, né con la Commissione e io in cinque anni ho avuto solo una possibilità di incontrare un rappresentante del servizio e la Commissione. In cinque anni una volta sola. Quindi per me l'unico punto di riferimento era lui, io a lui facevo le istanze e lui sua volta le rigirava a Roma, io a lui esponevo i miei problemi e lui li riportava.

Il problema era che, ad una mia richiesta, scritta per altro in perfetto italiano, soggetto predicato e complemento, chiara nell'esposizione e nel contenuto, molto spesso la risposta che ricevevo non era del tutto esauriente alla domanda per cui per superare l'impasse io chiedevo un incontro con un funzionario del servizio di protezione o in Commissione Centrale per chiarire per esempio la difficoltà dell'iscrizione universitaria, per chiarire se io domani potevo riprendere i miei studi perché io non avevo accettato questa imposizione, perché loro mi avevano detto che io potevo studiare medicina e io invece avevo buttato tutto all'aria, volevo capire se potevo avere i documenti di copertura. Io ho saputo che esistevano i documenti di copertura perché avevo comprato quel libro, capisci, ciò quello che ho saputo sul programma di protezione e su quello che ruota intorno al programma l'ho saputo soltanto comprando quel libro, altrimenti sarei stato completamente ignorante in materia. E fu grazie a questo libro che cominciai a capire che questa era una situazione davvero difficile e che la legge non parlava minimamente dei testimoni di giustizia.

Eravamo tutti dei pentiti. Cominciai a chiedere il rilascio del porto d'armi per difesa personale, nell'istanza scrissi che per motivi di sicurezza legata alla mia collaborazione chiedevo il rilascio del porto d'armi. E il ministro mi rispondeva che per motivi di sicurezza non me lo dava. E io non riuscivo a capire anche in questo caso il senso.

Chi era il presidente della Commissione quando sei stato ammesso al programma?

Credo che fosse il prefetto Rossi. Dico prefetto perché Rossi che ricopriva l'incarico di Sottosegretario agli Interni quindi presidente della commissione, era stato a Palermo prefetto e io l'avevo conosciuto quando era a Palermo perché venne a Brancaccio in parrocchia, e io ebbi l'occasione di parlare con lui un'ora e mezzo, due quando ero libero cittadino e gli rappresentavo le difficoltà di lavoro a Brancaccio, le minacce che avevamo avuto, le intimidazione mafiose. Quindi scrissi a lui una lettera, un'istanza ma non ho ricevuto risposta da parte sua. Né da lui nel dal direttore del servizio di protezione, Manganelli allora. Anche qua, insomma.... Poi ne volevo sapere sempre di più su questa storia perché rendevo conto che più passavano i giorni e più ero finito in una rete infernale. Riuscii a trovare in libreria un libro che raccontava la storia di Piero Nava, testimone dell'omicidio del giudice Rosario Livatino. Comprai il libro e mi sono reso conto che quelli che erano i miei problemi con la Questura, col servizio di protezione, e con quel mondo in generale, era già stato vissuto da questo testimone di giustizia Piero Nava. In questo libro si racconta il dramma familiare e lì cominciai a farmi un po' più furbo. Ogni qualvolta scrivevo una lettera ne facevo sempre una copia e la tenevo per me, perché se il Ministero comunicava con me e io chiedevo una copia delle comunicazioni il Ministero non me le lasciava. E io non capivo il senso. Se tu mi fai una notifica ufficiale fammi una copia, ma loro non me la volevano dare, assolutamente. Poi mi ricordo il primo sussidio mensile, mi diedero un milione e centomila lire o duecentomila lire e in più cinquecentomila lire.

Mi diedero queste cinquecentomila lire in più e io chiesi all'ispettore cosa fossero e lui mi disse: "Queste cinquecentomila lire rappresentano un premio per la tua collaborazione" e io anche lì mi infuriai e chiesi: "Perché mi date un premio, non è una lotteria oppure ho fatto la mia buona azione quotidiana e al bimbo gli dai la caramella". Io ho fatto quello che mi sentivo di fare, vero che avevo fatto il mio dovere civile ma io lo vivevo come un diritto, il mio diritto a pretendere che delle persone che avevano commesso dei reati finissero in galera, quindi era sia un dovere che un diritto.

Viene offerto un sostegno psicologico? A me hanno detto che a Roma il servizio centrale manda degli psicologi se vengono richiesti dai NOP.

Intanto ti ricordo che non c'era il NOP. Poi questo sostegno psicologico non mi pare ci fosse allora e se c'è oggi è in relazione con la nuova legge sui testimoni. Ad ogni modo, a mio avviso, non ha molto senso che uno psicologo da Roma si sposti per andare a Milano, a Bologna o in Trentino Alto Adige. Un sostegno psicologico occasionale, una tantum, non credo possa sortire degli effetti terapeutici. Comunque, confrontandomi anche con altri testimoni, questo sostegno, né per me né per gli altri, compresi i loro familiari e i bambini, c'è stato. Totale abbandono e disinteresse. Questa è la mia realtà.

Una tessera sanitaria provvisoria te l'avevano data?

No non ce l'avevo. Se avevo qualche problema sanitario lo rappresentavo all'ispettore di polizia ed eventualmente mi portavano dal medico della polizia di Stato.

A Firenze per quanti anni sei rimasto?

Sono arrivato i primi di giugno del '95 e sono partito, o per meglio dire scappato, intorno a settembre-ottobre del '96 per motivi di sicurezza.

Scappato ma scortato?

Scortato per motivi di sicurezza perché era una situazione un po'...

Avevano scoperto dove eri?

A quanto pare sì. Credo che abbiano minacciato anche la segreteria dell'università e il Dottor Degli Innocenti.

E da Firenze dove ti hanno portato?

In Piemonte. Una mattina mentre stavo per uscire da casa mi chiama il NOP, che si era già costituito. Mi chiamano e mi dicono: "Giuseppe dove sei? Non devi andare all'università, stai fermo dove sei a casa, prepara tutte le valigie che ti veniamo a prendere e dobbiamo andar via di corsa di corsa. Devi andar via perché ti hanno scoperto". Arrivarono con questa macchina, io preparai i miei bagagli - ben poco un po' perché avevo poco e nulla con me, poi perché alcune valige le tenevo già belle e pronte sempre - e andai via. Per strada mi raccontarono questa situazione, che c'erano state delle telefonate alla segreteria dell'università, che avevano anche telefonato a casa al Dottor Degli Innocenti, che avevano minacciato la famiglia e mi portarono in Nord Italia. Tieni conto che io in questo periodo, dal giugno '95 all'ottobre '96, avevo scritto lettere a deputati, senatori, al Presidente della Repubblica, informandoli appunto che la legge non prevedeva distinzioni tra testimoni e pentiti, chiedevo loro un intervento, una modifica della legge, cercando di suggerire loro quali erano i punti più sensibili della situazione. Cercavo di riportare il programma di protezione su un piano di diritto e soprattutto di riportare sullo stesso piano diritti e doveri del testimone e diritti e doveri dello Stato. Quindi non tanto una legislazione ad hoc per favorire, ma quantomeno sullo stesso piano.

Risposte?

In quell'anno nessuna, tra senatori e deputati. Sia di destra che di sinistra, non ne ricevetti nessuna.

In Piemonte dove ti portano?

A Torino. Inizialmente in un residence per alcuni giorni e poi in una abitazione.

Quando hai iniziato a fumare?

Dopo sei mesi dall'ingresso nel programma di protezione. A Palermo lavoravo d'estate in un bar ristorante e vendevo anche le sigarette, e non avevo mai toccato una sigaretta in vita mia. Ero una persona che faceva molto sport, con i bambini, pesavo 71 chili adesso ne peso 105. E non fumavo nulla. Ero una persona diversa e non lo dico con retorica, molto aperta, socievole, allegra, felice, impegnata...

Hai mai sentito la tua famiglia?

Il programma di protezione è chiaro su questo punto. Non devi avere contatti.

A Torino come ti sei trovato?

A Torino dopo qualche giorno in questo residence mi portarono in un alloggio, in un condominio grande. Dopo la prima notte le portinaia suonò, io abitavo al primo piano, aprii la porta e notai il viso di questa signora che mi guardava completamente terrorizzata. Farfugliò alcune cose e poi andò via di corsa. Rimasi così, scioccato. E anche negli altri giorni notai da parte degli altri condomini un atteggiamento freddo, andavano via di corsa non si fermavano a conoscermi, a presentarsi. Niente, fuggivano. Quell'alloggio fino a qualche giorno prima era stato utilizzato da un pentito di mafia, il quale si era fatto conoscere dal condominio, perché picchiava la moglie, picchiava i figli, aveva minacciato alcuni condomini ma anche alcuni negozianti intorno. E quando poi incontrai il marito della portinaia, che abitava sul mio stesso pianerottolo, la prima cosa che mi disse questo signore, che era anziano, fu "lei abita nella casa dei pentiti, quindi è un pentito di mafia" e io rimasi così, di ghiaccio. E allora gli dissi "perché mi dici questo?". E lui mi raccontò tutta questa storia di questo pentito che picchiava i figli e ogni tanto queste bambine poverine scappavano a casa di questa signore per nascondersi, che erano stati costretti a scrivere ai giornali per lamentarsi di questo pentito e io lì dissi che in realtà non ero un pentito di mafia, che ero un funzionario del Ministero dell'Interno che voleva scusarsi in qualche modo con tutto il condominio per la presenza di questa persona che si era dimostrata sconsiderata a che voleva riportare nel condominio una certa serenità e tranquillità. Spiegazione che poi diedi io agli altri condomini e per cercare di avvalorare questa informazione cominciai a comportarmi in un certo modo: prima di tutto chiesi alla portinaia se loro avevano una persona che facesse pulizie negli appartamenti, lei mi disse di sì allora io contattai questa persona e il giorno prima che questa arrivasse andai in edicola a comprare riviste sui carabinieri, la polizia, mi avevano regalato una maglia della polizia e poi misi negli angoli della casa le riviste, il calendario della polizia, il cappellino, la canottiera questa qui che usano con la polizia di stato e lascia tutto in bella vista. Dopodiché consegnai le chiavi per fare pulire questa casa ogni qualvolta venivano queste persone per cercare di dare sostegno alla cosa. Oppure per esempio ero andato in una libreria e avevo ordinato gli atti della commissione parlamentare antimafia oppure la relazione della polizia o della guardia di finanza sulla criminalità... tutti documenti che leggono gli addetti ai lavori e che io lasciavo in bella vista, in cucina, il cappellino sul tavolo, capito?

Allora ti avevano fornito dei documenti di copertura o ancora no?

Questo ti volevo spiegare. I primi documenti di copertura che ho avuto a Firenze... ritorno un po' indietro scusami. Ad un certo punto, ancora non c'era il NOP, l'ispettore mi dice che da lì a poco sarebbe arrivato il funzionario del Comune di Firenze il quale mi avrebbe rilasciato questo fantomatico documento di copertura. Mi precisarono che con il documento di copertura non potevo farci assolutamente nulla e che serviva solo nella cosiddetta "fase di occultamento passivo", per usare un loro termine, un documento non valido naturalmente per l'espatrio. Arrivò questo funzionario del Comune, eravamo diverse persone ad aspettare il proprio turno. Sapevamo tutti ognuno chi fosse l'altro, nel senso che la nostra ragione di essere lì era chiara, ma nessuno spiccicò una parola con l'altro. Ci guardavamo e basta. Io poi entrai nell'ufficio, c'era il funzionario con un libro enorme dove annotava che Carini Giuseppe prendeva questa nuova carta di identità e io dovevo firmare sia come Carini Giuseppe sia come il nome di copertura che era scritto sulla carta di identità nuova. Dopodiché questi dati venivano riportati al Comune di Firenze. Questa procedura, per chi ha studiato bene la legge 82 del '91, è una cosa assurda perché in ogni caso tu sai che c'è una persona, che non fa parte del Ministero dell'Interno, che è a conoscenza non solo della mia vera identità ma anche del nome di copertura e della mia residenza vera lì a Firenze.

A Torino sei arrivato con il documento di copertura?

Sì. Che poi però mi fu tolto un'altra volta. Perché a Torino mi dettero un altro nome di copertura. A Torino la notte stessa che arrivai il mio unico pensiero rimase quello, intanto chiedevo spiegazioni su questo trasferimento, come si erano svolti i fatti, come erano riusciti a trovarmi perché avevo paura, capisci, e poi richiedevo sempre informazioni sulla mia situazione universitaria di medicina perché io volevo fare medicina perché era inutile che mi lasciavano a giurisprudenza. Io con la mente continuavo a scrivere "voglio fare medicina", aiutatemi, fate quello che vi pare ma fatemi tornare a fare medicina, se volete farmi fare gli esami a Palermo con la scorta e poi vado via. Insomma fate quello che vi pare, ma io voglio la mia vita. Nessuna risposta.

A Torino c'era il NOP e quindi mi fanno conoscere il personale, non tutti, due persone. Anche qui non sanno che sono un testimone, sanno che sono un collaboratore di giustizia, e quindi diffidenza al massimo.

Durante questi anni hai reso testimonianze in processi?

Sì, io andavo a testimoniare. In alcuni casi sono tornato giù a Palermo con la scorta, in altri tramite videoconferenza dal carcere.

A Torino si ripetevano le stesse problematiche di Firenze, il totale isolamento e la solitudine, cose che hanno inciso per tutta la durata del programma di protezione e che ha inciso anche dopo la cessazione del programma quindi questa profonda solitudine e isolamento in cui vive il testimone dura anche dopo perché le indicazioni sono quelle appunto di non parlare con gli altri della propria situazione. E' una solitudine che poi ti accompagna per moltissimi anni, cioè diventa sistema della tua vita: isolamento, evitare luoghi affollati, evitare soprattutto persone provenienti dalla Sicilia, ridurre il numero delle relazioni a quelle indispensabili e quest'ultime comunque non devono essere a conoscenza della tua situazione. A Torino cosa faccio? A Torino trovo l'appoggio di don Ciotti e questo sostegno mi ha aiutato moltissimo perché è in collaborazione con il gruppo Abele che ho cercato io senza essere autorizzato dal ministero dell'interno, senza chiedere il permesso al NOP. Don Ciotti è stato ben felice di accogliermi e per tutto il periodo di permanenza mi ha permesso da un lato di sentirmi utile, utile innanzitutto a me stesso perché ero impegnato in una delle strutture del gruppo Abele.

Di cosa ti occupavi?

Ero al centro studi di documentazione e ricerche, dove appunto si raccoglie materiale sulle tematiche di disagio sociale, dell'emarginazione, della giustizia politica ed io mi occupavo di quello che riguardava la criminalità organizzata, quindi catalogavo tutti i libri, articoli o convegni che riguardavano questo tema.

Avevi dei contatti con i ragazzi che venivano lì a studiare?

Venivano lì a studiare, sì, magari facevano le tesi universitarie o anche i docenti universitari o semplici ricercatori che necessitavano di materiale ed io gli fornivo per quello che era nella mia conoscenza questo tipo di collaborazione. C'era invece chi era preparato sul problema delle droghe e tossicodipendenza e quindi si rivolgeva ad un'altra persona. Lì ho potuto affinare, in maniera particolare, la conoscenza del mondo della criminalità organizzata e avevo la possibilità di accedere alla banca dati per quanto riguarda il problema dei testimoni di giustizia tant'è vero che attraverso un motore di ricerca europeo sono riuscito a trovare questa risoluzione del consiglio dell'UE in cui ci sono delle linee guida per i paesi dell'unione europea sul problema della collaborazione di giustizia e sui testimoni ovvero diritti e doveri degli stati nei confronti di questi individui. Solo che in quella risoluzione il problema era che aldilà dei principi generali poi l'applicazione pratica e i vari articoli sulla strutturazione di questi sistemi di protezione era rimandata agli stati nazionali; quindi erano semplicemente delle linee di indirizzo e non specifiche mentre io speravo di trovare in quelli articoli una soluzione al problema dei testimoni; comunque il problema era stato sollevato anche a livello europeo quindi questo per me era un punto di partenza, qualche notizia in più da poter utilizzare sia per i miei problemi con il ministero dell'interno che quell'altri testimoni di giustizia. E' stato lì, grazie al centro studi, che ragionando con una persona cominciai a pensare a scrivere ai vari ministri dell'interno, grazia e giustizia per suggerire quali, a mio avviso, potevano essere gli interventi da fare sulla legislazione del '91; per cui sfruttai questa esperienza del tutto negativa di collaborazione esterna con lo Stato scrivendo queste lettere e inviandole al ministro di grazia e giustizia Flick, al ministro Napolitano, alla Iervolino successivamente ecc...una sorta di proposta di legge sui testimoni di giustizia. Queste lettere indirizzate a queste persone, anche al ministro Diliberto, non hanno mai avuto risposta. Ho scritto due o tre volte alle stesse persone ma mai da nessuno è arrivato qualcosa nonostante il problema fosse serio. Purtroppo il nostro sistema politico, sia di destra che di sinistra e non faccio distinzioni, non percepiva ...ci si preoccupava dei collaboratori pentiti, dei collaboratori non pentiti e dei pentiti non collaboratori mentre dei testimoni di giustizia non si discuteva affatto. Ogni qualvolta si provava a parlare di testimoni dalla parte dello Stato e dagli addetti ai lavori, da parte della società civile e dal movimento antimafia ci si preoccupava che la questione del testimone di giustizia non venisse utilizzata o non fosse come dire il tentativo di declassare o di sminuire l'importanza del fenomeno dei pentiti di mafia. Come sappiamo tutti per alcune forze politiche i pentiti venivano denigrati e tutte le ragioni che tu sai, parlare dei testimoni veniva identificato per assurdità come un modo per sminuire i pentiti di mafia per cui per non danneggiare quest'ultimi che aiutavano la magistratura per scardinare le organizzazioni criminali non se ne parlava più dei testimoni. Il problema è che c'è tuttora la mentalità di molti degli addetti ai lavori e di chi si occupa di antimafia. L'ultimo colloquio l'ho avuto per esempio con una persona che ha scritto molti libri sui pentiti di mafia che per certi versi come dire è sensibile anche ai problemi dei testimoni e ogni qual volta che il discorso prendeva una certa piega, lei metteva le mani avanti come per dire che i pentiti non vivono tutti nel lusso, i pentiti soffrono, hanno anche loro i loro problemi. Io per quanto mi riguarda credo nell'istituto di collaborazione di giustizia, credo nei pentiti di mafia, credo che sia uno degli strumenti importantissimi per la lotta contro la mafia, quello che mi preme però dire è che desidero parlare dei testimoni di giustizia, quindi vorrei anche ideologicamente, idealmente pensare a chi di potere parlare dei testimoni di giustizia senza che ogni qualvolta qualcuno mi dica che i pentiti hanno un lavoro di importanza, non è vero che vivono nel lusso ecc...a me sta pure bene però io voglio poter discutere dei testimoni di giustizia perché questo è il mio problema e quello degli altri testimoni di giustizia. Questo è per spiegare i dubbi sul fatto che io possa in qualche modo come dire insultare o denigrare questo fenomeno di pentitismo. Quindi ebbi l'occasione attraverso questo mio intento di poter scrivere a trenta deputati e senatori, al presidente del senato Nicola Mancino il quale molto gentilmente mi rispose che aveva inviato la mia lettera con le mie piccole proposte all'allora commissione di giustizia del senato dov'era depositato da circa un paio d'anni il disegno di legge di riforma sui collaboratori Flik-Napolitano.

Avevano iniziato a lavorarci già dal 1997.

A lavorarci, ma se tu vai a prendere il disegno di legge vedrai che praticamente non vi era nessun riferimento al testimone di giustizia se non al fatto che esisteva questa categoria nulla di più, nulla di meno. Non c'era alcun articolo, nessuna distinzione e discussione né ci si poneva il problema se esistevano i testimoni e avevano dei problemi. Era un disegno di legge veramente vergognoso, scrissi anche ai vari presidenti delle commissioni antimafia, ai vari sottosegretari, a qualche deputato che mi sembrava più sensibile; come ti dicevo anche l'altra volta ho scritto migliaia di lettere per tutte le varie legislature quindi ai vari presidenti del consiglio che si sono alternati, ai vari ministri che si sono alternati, i vari sottosegretari ecc...Da queste lettere ho ricevuto penso una decina forse anche meno di risposte, questa era l'attenzione. C'erano poi situazioni molto particolari che ogni qualvolta la stampa tirava fuori articoli denigratori nei confronti dei pentiti di mafia quindi questo rendeva anche il mio tentativo di aprire un varco sui problemi testimoni molto difficile, non era affatto semplice.

Cosa proponevi nelle tue lettere?

Proponevo gran parte di quelle proposte che adesso sono presenti sulla nuova legge sui testimoni ovvero la 45/2001 tanto è vero che questa nuova legge è venuta fuori a seguito di un intervento che ho fatto io in questi anni insieme ad altri otto testimoni quindi se c'è una nuova legge che riguarda i testimoni di giustizia si deve al sottoscritto, si deve all'impegno di un altro testimone, all'impegno di Lumia e dello stesso Mantovani.

Durante quegli anni a Torino richiedevo continuamente questa iscrizione universitaria; nell'attesa periodicamente il ministero degli interni mi comunicava attraverso i NOP se volevo intraprendere un'attività lavorativa. Arrivavano sostanzialmente queste comunicazioni ed io rispondevo sì perché volevo lavorare. Rispondevo continuamente che volevo lavorare, che volevo l'iscrizione alle liste di collocamento, che volevo il libretto di lavoro. Da parte dei ministri non ho mai ricevuto risposta, quindi nonostante loro stessi mi chiedessero se avevo intenzione di lavorare non scattava quel meccanismo di iscrizione all'ufficio di collocamento e rilascio del libretto di lavoro. Non ho mai avuto un libretto di lavoro e non sono mai stato iscritto...

L'assegno di mantenimento per i testimoni di giustizia è maggiorato del 50%; anche ai tuoi tempi...?

No, il mio assegno mensile era unmilionecento - unmilionecentocinquanta milalire, che si modificava a seconda dell'andamento dell'ISTAT. Comunque il massimo della cifra che sono arrivato a prendere è unmilioneduecento milalire.

Dovevi pagare anche l'affitto con questi soldi?

No, l'affitto era pagato dal ministero degli interni; io pagavo luce, acqua, telefono, riscaldamento e cibo.

Erano sufficienti?

Non sempre però riuscivo ad ovviare a questo problema perché a pranzo e cena mangiavo alla mensa del gruppo Abele; quindi riuscivo ad ammortizzare un po' le spese. Quando sono partito da Palermo avevo con me pochi vestiti, sono ingrassato, ho preso il vizio del fumo e poi se avevo bisogno di qualcosa me la dovevo comprare da me, c'era poco da fare.

Al gruppo Abele avevi stretto delle amicizie?

Avevo cominciato ad avere dei rapporti con queste persone e devo dirti che gli anni di Torino sono stati i migliori per le amicizie e per l'alone di normalità; sai uscendo da lì ripiombavi nei tuoi problemi e nella vita che era quella che era... fino a quando insistendo nella scrittura di queste lettere per quella benedetta "medicina" si riuscì a recuperare gli esami che avevo perso e da qui è nata tutta una serie di problematiche. Il ministero dell'interno, così come aveva fatto per Firenze, aveva mandato una lettera alla segreteria universitaria di Torino chiedendo l'iscrizione del sottoscritto.

Con il nome di copertura?

Sì, con il nome di copertura. Mi incontrai con la responsabile della segreteria degli studenti e questa mi disse che il ministero gli aveva comunicato che ero un collaboratore di giustizia, sottoposto al programma speciale di protezione (qui i miei dubbi sulla sicurezza si fecero avanti); aggiunse inoltre che per poter iscrivermi a medicina e recuperare l'anno accademico da dove l'avevo abbandonato aveva bisogno del mio diploma di maturità e quindi le scuole medie superiori frequentate, di sapere quali materie avevo sostenuto in medicina e la votazione riportata, quali corsi avevo frequentato e che attestati di frequenza avevo visto che questa era obbligatoria. Per cui scrissi un'istanza al NOP che a sua volta girò al ministero dove dicevo che da parte della segreteria degli studenti mi si richiedeva questo. Passarono due mesi ed il ministero rispose che secondo le loro informazioni la lettera che avevano inviato era più che sufficiente per potermi iscrivere a medicina. Quindi tornai alla segreteria degli studenti comunicando questa risposta e ottenni la richiesta di tutta la documentazione che già mi era stata fatta altrimenti non sarei stato iscritto. Non potevano prendersi questa responsabilità dal punto di vista amministrativo, penale, di dichiarazioni; insomma tutto un iter burocratico. Scrissi nuovamente al ministero dell'interno consegnando questa istanza al NOP; questi a loro volta la inviarono a Roma e passano ancora dei mesi. Il tempo passava ed io ero sempre lì con i miei problemi finché arrivò un momento in cui mi ero rotto totalmente le scatole e dissi: "Questo è il nome del responsabile della segreteria degli studenti: voi (ministero) mi dite che ho torto, allora questo è il nome e cognome, parlateci voi; mandate un funzionario del servizio a Torino, si incontrano queste due persone, discutono e non se ne parla più... perché devo stare nel mezzo a fare da ping-pong? Quello che mi interessa è iscrivermi a medicina e se non credete che quello che dico sia vero e sia frutto della mia invenzione e non una normale esigenza dell'università di avere tutta la documentazione, parlateci voi!".

Dopo mesi e mesi risolvo la situazione inviando all'università il numero degli esami sostenuti a medicina, la votazione riportata ecc...cioè tutta quella documentazione necessaria. Adesso bisognava pagare le tasse di iscrizione. Come si fa a pagare le tasse? Sia a Torino che a Firenze il problema era che nel modulo di pagamento per quantificare la cifra erano richiesti sia il reddito economico dello studente che dei familiari. Non potevo scrivere il reddito dei miei familiari perché il nome di copertura usato era fasullo quindi cosa avrei dovuto scrivere. Passarono altri mesi su questa problematica e su come dovevo compilare questo modulo per stabilire poi la reale portata dell'iscrizione universitaria. Passarono altri mesi in cui facevo da spola tra la segreteria dell'università e il NOP passando da tutti gli uffici; dall'ufficio dove c'è la registrazione dell'iscrizione universitaria per il pagamento delle tasse, ecc... per cui incontravo tutta una serie di persone le quali erano informate di tutta la mia situazione. Questa è una cosa molto importante sulla quale mi voglio soffermare un attimino. Sia a Firenze che Torino si è ripetuto lo stesso meccanismo e quale? Tutti coloro, dal rettore al preside della facoltà, dal consiglio dei corsi di laurea alla segreteria dell'università e persino ai docenti, tutta questa fila di persone sono state ripetutamente e periodicamente informate della mia situazione, non solo di collaboratore di giustizia ma anche di nomi reali e nomi di copertura utilizzati; venivano persino informati dell'avvenuto cambiamento delle generalità, di quello che è l'atto con classifica di segretezza che è rigidamente vincolato dall'ispezione di legge e che però era stato comunicato come se niente fosse a tutto questo personale che a mio avviso metteva in discussione tutto il regime di riservatezza e di sicurezza attorno alla mia persona. Non solo, ma metteva me in profondo disagio perché in tutti questi anni mi è stato inculcato che la sicurezza e la riservatezza assoluta era una parte imprescindibile della mia sicurezza personale. Nel momento in cui è il ministero stesso a procedere ed informare di tutti questi dati sensibilissimi è chiaro che mi sento male, perché secondo me è una cosa assurda. A Torino conosco una ragazza della quale mi innamoro e dopo un po' di tempo ero entrato in crisi perché ritenevo giusto informarla della mia situazione. Ero molto confuso perché non sapevo se fosse giusto o meno dire la mia situazione, cioè se dovevo essere onesto con lei fino in fondo o se continuare a recitare una parte. A lei avevo detto che facevo il dipendente del gruppo Abele. Poi le spiegai la situazione; un giorno la invitai a casa e ci sedemmo a tavolino e gli spiegai. Le dissi: "Guarda, ho bisogno di parlarti perché ti devo dire alcune cose importanti di me che finora non ti ho detto". Le spiegai che ero un testimone di giustizia, di avere testimoniato contro la mafia, che le mie generalità non erano quelle che gli avevo detto ma erano altre; le feci vedere una copia della mia vecchia carta d'identità; vecchia, nel senso originaria. Rimase scioccata, pianse in continuazione per parecchio tempo e le dissi: "Se per te la cosa non è accettabile sentiti libera di scegliere anche di non vedermi più. D'altronde qualcuno l'ha già fatto prima di te e capisco che non sarebbe facile". Invece no, rimase lì con me, anzi mi aiutò tantissimo. Era una relazione alla quale tenevo tanto...poi finì male perché quando ho ottenuto il cambiamento delle generalità e quindi avrei dovuto sostituire quella mia identità con un'altra, non volevo andare via. Il ministero mi disse che inevitabilmente dovevo lasciare Torino perché ero conosciuto con un nome e poi, con un altro, non potevo rimanere più lì. Per cercare di superare questo inconveniente avevo chiesto di agire in modo differente e più intelligente. In che senso: le generalità che avrei dovuto acquisire per tutta la vita fossero quelle che già utilizzavo a Torino. Questo mi avrebbe aiutato a non ricominciare da capo, in un altro luogo; mi avrebbe permesso di poter continuare il mio rapporto con questa ragazza, di ritornare ad avere una vita normale, per cui bastava che io continuassi con quelle generalità. Il ministero dell'interno non volle sentir ragioni, non ha voluto che utilizzassi le stesse generalità e mi ha costretto a lasciare Torino. Come potevo dire alla mia ragazza che me ne dovevo andare nonostante fossi profondamente innamorato di lei? Ho deciso per una terapia d'urto, nel senso che ho cominciato a creare dei finti problemi con lei, facevo finta che ci fossero delle differenze caratteriali, che non fossi più innamorato di lei e dovetti lasciarla. Quella è stata una cosa molto terribile per me perché mi costringeva a negare i sentimenti che provavo nei confronti di quella ragazza che tanto aveva fatto per me. Mi costringeva a ritrasferirmi in un'altra città e a ricominciare tutto da capo.

Per la terza volta?

Per la terza volta! A riabbandonare la facoltà di medicina un'altra volta!

Nel frattempo ti avevano iscritto a medicina?

Mi avevano iscritto però erano sorti altri problemi.

Qualche esame l'hai dato?

Sì, sono riuscito a darlo, a strapparmi un attimo di serenità per mettermi seduto e studiare.

Questo sistema di protezione non deve essere inteso come una fase di occultamento ma se si vuol pensare ad un vero reinserimento o ad un approccio per un futuro reinserimento, tutto questo non c'è mai stato; è tutto campato per aria, improvvisato e male perché incontravo difficoltà burocratiche, l'impossibilità di poter avere un colloquio con il ministero. Le mie problematiche non erano inventate, ma erano realtà oggettiva eppure non venivano prese in considerazione oppure venivano prese come capricci. Durante la permanenza a Torino continuavo questo mio impegno per far conoscere queste problematiche ai testimoni di giustizia. Cercavo sui quotidiani che qualche altro testimone avesse i miei stessi problemi e avesse trovato il coraggio di parlare perché, vedi, il problema era anche questo: io stesso parlavo ai testimoni ma non sapevo chi erano, dove erano, come poterli rintracciare, confrontarmi con loro per capire se i miei problemi erano anche i loro; oppure sono stato io sfigato nel vivere una situazione terribile. Un giorno mi ricordo che lessi un articolo, non ricordo se su "Repubblica" o "Famiglia Cristiana", insomma attraverso queste situazioni riuscii tramite la stampa a parlare con un giornalista che aveva raccolto le testimonianze di un altro testimone e attraverso esso riuscii a contattarlo. Così ho conosciuto Mario Nero per esempio, questo testimone di giustizia; conobbi le sorelle Castiglione, Giuseppina Cordopadri, Giuseppe Masciari, Salvatore Cassarà ...tutti testimoni di giustizia; chi più chi meno aveva avuto problemi in parte simili ai miei e in parte ancora più complicati perché io ero solo in quanto i miei familiari non avevano aderito al programma di protezione mentre loro avevano la moglie, i figli. Quindi pensa te il danno familiare che c'era dentro: magari la moglie che rimproverava il marito per una scelta pazzesca; i figli che volevano vedere i nonni, gli zii e quindi che piangevano tutto il giorno, problemi di disagio psichico oppure la figlia diciottenne che si ribellava al padre che l'aveva portata via dai suoi compagni di scuola, dalle sue relazioni. Continuavo attraverso questo tentativo disperato di riuscire ad agganciare altri testimoni.

A Torino sei rimasto per diversi anni?

Sì, poi allora c'era come sottosegretario all'interno, cioè alla commissione centrale, Gian Nicola Sinisi al quale nonostante avessi scritto più volte non ho mai ricevuto risposta. Poi illuminato da don Luigi Ciotti feci una sorta di documento in cui annotavo i casi di testimoni di giustizia dei quali ero venuto a conoscenza. La consegnai a don Luigi Ciotti perché appunto lui cercava di venire a capo della mia situazione e delle realtà che conosceva. Portò questa relazione sui testimoni di giustizia nel 1997; ebbe un incontro con Sinisi, Rita Borsellino, il presidente dell'associazione antimafia Rita Atria. Questa relazione raccoglieva tutte le difficoltà. L'incontro non ebbe comunque esito favorevole e finì lì la cosa. Ed io continuavo a scrivere: ministri, sottosegretari, alla CEI, ad Amnesty International che, ad esempio, mi disse che non era un problema di loro competenza.

Quindi nel frattempo avevo letto sempre sui giornali che c'era un parlamentare dell'opposizione, di Alleanza Nazionale, un certo Alfredo Mantovano che si stava occupando di un testimone, in particolare di Mario Nero, e quindi riuscii a parlare con questo il quale si dimostrò molto attento alle problematiche. La commissione antimafia allora era presieduta da Del Turco. Alfredo Mantovano e Giuseppe Lumia dei DS in commissione antimafia costituirono un comitato antiracket, antiusura e riciclaggio. Questo comitato era presieduto da Mantovano e attraverso questo, con la collaborazione della commissione antimafia, quindi anche dei parlamentari della maggioranza, ovvero del centro-sinistra nonostante però ci fosse come sottosegretario Sinisi, ebbe il coraggio di costituire questo comitato, di sentire alcuni testimoni di giustizia e venne fuori un documento poi approvato all'unanimità da parte della commissione antimafia, (più che all'unanimità, con l'astensione solamente della LEGA).

La tua no?

No, c'era quella di Mario Nero, quella delle sorelle Castiglione, quella di Canfora e non ricordo l'altro nome. Venne fuori questo documento che fu poi approvato nel giugno del '98. Se ne parlava su tutti i giornali; la stampa diceva che la commissione antimafia aveva redatto questo documento in cui si vedeva tutte le vessazioni a cui erano sottoposti i testimoni, ci fu insomma parecchio scandalo. All'indomani dell'approvazione di questa relazione da parte della commissione antimafia, e ripeto all'indomani, il NOP...anzi no aspetta...prima ancora di questo fatto volevo dirti che, se non sbaglio, il 23 o 21 marzo del '98 a casa si presentò il personale del NOP che mi lesse un comunicato dove era scritto che la commissione centrale, di concerto col servizio centrale di protezione, aveva deciso che dovevo uscire fuori dal programma speciale e avevano stabilito una capitalizzazione per il mio reinserimento alla vita normale pari a venticinquemilioni di vecchie lire. Da questi bisognava però poi detrarre il sussidio mensile e l'affitto dell'appartamento durante tutto il tempo necessario, che mi serviva, per trovare una nuova casa.

Allora scrissi alla commissione centrale e al servizio centrale di protezione e alla Procura della repubblica ai quali chiedevo: 1) in base a quale patti avevano deciso di chiudere il programma di protezione per me; 2) cosa avrei fatto nella mia vita; 3) cosa sarebbe stato dei miei studi universitari; 4) che volevo il porto d'armi, ottenere il cambiamento delle generalità; e soprattutto chiedevo cosa sarebbe stato della mia vita, dove andavo? Non potevo tornare in Sicilia, non potevo tornare dai miei familiari, non conoscevo nessuno, non avevo lavorato né avevo un titolo di studio. Questi si svegliano una mattina e mi dicono che me ne devo andare e quindi scrivo questa lettera. Dopo l'approvazione del documento quindi, approvazione con la quale mi sentivo un po' più forte perché mi dicevo che forse si erano svegliati, che avevano capito che in questi anni si erano sbagliati, che volevano rimediare la situazione e che avevano preso coscienza del problema nonostante le resistenze del sottosegretario e finalmente avevano deciso di fare sul serio. Invece all'indomani dell'approvazione ritornò il NOP, il quale mi disse che la commissione centrale di concerto con il servizio centrale di protezione aveva deciso che da venticinquemilioni di vecchie lire si passava a trentaduemilioni di vecchie lire e da quest'ultimi sarebbero stati decurtati il sussidio mensile, nuovamente, e l'affitto dell'appartamento. Così, molto nervoso, scrissi un'altra lettera alla commissione, al servizio, alla Procura della repubblica dove chiedevo per quale motivo avevano deciso di mettermi fuori dal programma di protezione, dicendo che comunque i processi non erano terminati, ma c'erano state semplicemente le sentenze di primo grado, chiedevo la possibilità di poter lavorare, di poter proseguire gli studi in medicina, del porto d'armi che da anni chiedevo insistentemente. Ero avvilito, nervoso, disperato: venivo buttato in mezzo alla strada senza che loro avessero minimamente pensato a cosa sarebbe stato della mia vita. Questo famoso reinserimento sociale di cui tanto si parlava, dov'era? Perché poi reinserimento? Io non sono stato un criminale ed ero pienamente inserito nella società.

Nel frattempo mi confrontavo anche con qualche altro testimone.

Che era sempre lì a Torino oppure...?

Ci telefonavamo oppure qualche volta di nascosto andavo a trovarli, mi spostavo senza chiedere l'autorizzazione. Mi confrontavo con altri testimoni ma il confronto era caricato ancor più di drammi perché, per esempio, avevo conosciuto un testimone che per la fuoriuscita dal programma speciale di protezione aveva ottenuto solo cinquemilioni di lire. Cinquemilioni, una persona che era partita, per esempio dalla Sicilia, con la moglie che si era stancata della situazione, lui che non aveva un contributo mensile come il mio ma molto più basso; il maresciallo dei carabinieri del paesino dove abitava gli faceva persino la spesa; la moglie disperata alla fine lasciò il marito dopo un anno di matrimonio e se ne andò in stato di gravidanza; questo testimone non sa se è padre di un bambino o di una bambina, perché ha perso i contatti con questa donna. Leggevo, ad esempio, che l'altro testimone Mario Nero aveva fatto ricorso al TAR di Firenze, attraverso l'avvocato Andrea Pettini, e che con questo era riuscito per la prima volta ad entrare in possesso del famoso contratto da lui firmato con lo Stato, ma non solo, era riuscito, visto che l'avvocatura dello Stato cercava di sminuire le sue accuse producendo una serie di documenti, a visionare questi di cui fino allora non sapeva nulla. E tra questi ve n'era uno di fondamentale importanza che gridava giustizia: la DDA di Foggia, il distretto di provenienza di questo testimone, aveva comunicato quattro anni prima al ministero dell'interno che era stata messa una taglia sulla sua testa e che si trovava in pericolo di vita, chiedendo quindi la prosecuzione del programma di protezione. Per cui non solo questo testimone era stato buttato fuori dal programma di protezione (senza capitalizzazione e senza documenti), ma neppure gli era stato comunicato un fatto di così importanza. Uno dei due figli aveva frequentato la scuola elementare con nome di copertura e quando questa persona fu buttata fuori dal programma, la commissione centrale, presieduta dall'On. Sinisi, attraverso il servizio centrale di protezione gli comunicò che avrebbe dovuto ripetere tutti gli anni della scuola elementare con il vero nome. Ecco un'altra assurdità del programma di protezione, uno dei tanti scandali che vengono ancora perpetrati e a cui non si viene a capo semplicemente perché non si ha voglia di mettere in discussione un'intera politica antimafia nei confronti dei testimoni di giustizia. Purtroppo la responsabilità sulla negligenza, l'indifferenza, le vessazioni, lo stillicidio della dignità del testimone, si è tramandata da diverse legislature che hanno avuto ministri, sia di centrodestra che di centrosinistra, con la complicità dei vari direttori del servizio centrale di protezione che si sono susseguiti (Manganelli, Cirillo e dei colonnelli dei carabinieri che si sono succeduti). Nessuno vuol fare chiarezza. Ho avuto conferma di ciò anche da un ministro di grazia e giustizia, di cui non ti voglio fare il nome, il quale nel rispondere ad una mia lettera dove facevo presente i problemi dei testimoni di giustizia, mi diceva che come uomo capiva la situazione, ma che come ministro non sapeva quale strada percorrere per cambiare le cose. Questo me lo ha detto un ministro, non un droghiere o un panettiere: ma non è assurdo? Ma il buon senso dove sta?

Dopo il '98 cosa succede?

Finalmente fui convocato dalla commissione centrale, per la prima ed unica volta. La commissione era presieduta dall'On. Sinisi, ma non era presente: peccato perché avrei voluto incontrarlo per dirgliene quattro. Poi c'erano due magistrati (tra questi Grasso, l'attuale procuratore nazionale antimafia), Nino Abate (l'ex segretario, ormai morto, dell'associazione nazionale magistrati), l'allora direttore del servizio centrale di protezione Cirillo, più una serie di funzionari delle forze dell'ordine.

Presentai alla commissione il problema dell'università, perché prima che parlassi io ascoltai la relazione su di me da parte del dottor Cirillo, il quale sosteneva che ero stato io ad abbandonare gli studi di medicina e che sempre io mi ero iscritto a giurisprudenza con le mie vere generalità.

Mi ero consultato con questo mio amico, il quale mi ha suggerito di fare una proposta perché tanto non c'era più nulla da fare per cui chiedo 150.000.000 delle vecchie lire per poter proseguire gli studi universitari.

Dal ministero dell'interno, per quanto riguarda il lavoro, niente, non riesco ad ottenere nulla. La commissione propone 90.000.000 di lire. Io non volevo accettare per il discorso del cambiamento delle generalità, volevo rimanere lì, avevo la mia ragazza, stavo cominciando a sentirmi un po' meglio; alla fine comunque accetto questa situazione, accetto 90.000.000 di lire, mi hanno detto che si sarebbero impegnati per il discorso dell'università, del cambiamento delle generalità. Fu così che uscii fuori dal programma speciale di protezione nel '99 impegnandomi a lasciare l'appartamento quanto prima possibile e cercando disperatamente un posto letto da qualche parte. Volevano l'appartamento, volevano che lo lasciassi, dovevo andarmene via per forza, voglio dire. Allora chiesi ad un amico dell'università se poteva ospitarmi. Poi ricevo appunto i 90.000.000 di vecchie lire, ricevo il porto d'armi, la nuova carta d'identità con i documenti definitivi e basta e mi mandano via, arrivederci e grazie, anzi addio.

Senza grazie

Niente e finisce qui parte della storia. Rimango ancora a Torino per alcuni mesi perché non sapevo che fare, non sapevo dove andare, ero perso, ero perso fino a quando non chiedo aiuto ad un altro amico mio, sacerdote di un'altra regione, il quale mi aveva già seguito qualche anno precedente. Insomma queste le ultime notizie; vieni da me e vediamo quello che possiamo fare, vediamo di trovare insieme un qualche posto di lavoro, di trovarti un alloggio, per adesso dormi in canonica e quindi andai via, feci la mia valigia, salutai tutti, mi misi in treno e andai via.

Intervista all'Ispettore Balena

Com'è l'ingresso di un collaboratore di giustizia all'interno di un istituto penitenziario?

All'ingresso, fatte le operazioni di rito, immatricolazione, perquisizione, visita medica, vengono effettuati degli accertamenti riguardanti la presenza di persone all'interno del carcere che potrebbero recarli dei problemi. Nel frattempo l'individuo viene collocato nella cella d'isolamento nell'attesa che il DAP provveda a mandarci l'assegnazione di "vita in comune". I tempi di attesa di tale provvedimento sono 2-3 giorni, dopo di che passa nelle sezioni comuni insieme agli altri. A volte succede che anche nel corso di questa assegnazione la persona possa riscontrare problemi con altri individui all'interno della medesima sezione, magari perché in passato hanno avuto dei problemi oppure erano di clan opposti. Succede magari, vedi Napoli, la camorra è divisa in diversi clan, quindi anche se ormai sono collaboratori e quindi dalla stessa parte rimangono degli attriti per i trascorsi passati; se ne veniamo a conoscenza segnaliamo il tutto al centro di protezione che provvede al trasferimento dell'uno o dell'altro: questi sono magari i problemi principali, poi nel corso della detenzione ci possono essere problemi a livello verbale, nella vita quotidiana, gelosie e si tenta di tenerli sotto controllo per evitare che vengano commessi gesti inconsulti. Questo è quanto riguarda la prima fase, mentre se qualcuno viene assegnato ad altro istituto, si parla sempre di status di collaboratore di giustizia, il ministero in calce al provvedimento scrive di assegnare in sezione di vita in comune insieme agli altri. Prima di assegnare un individuo da una struttura per collaboratori di giustizia ad un'altra il ministero verifica sempre le persone che ci sono all'interno per evitare appunto che si verifichino gli episodi già citati.

Quindi le celle non sono singole?

Nel nostro penitenziario abbiamo 24 celle, quindi quando abbiamo un numero inferiore di collaboratori, cerchiamo di metterli da soli; casi particolari, magari persone anziane che vogliono stare un po' più tranquille, oppure casi di individui con patologie particolari vengono locati in celle singole. La prima cosa che si fa nel corso dell'assegnazione è cercare di valutare fumatori e non fumatori; se però il numero dei collaboratori è intorno a 30 l'assegnazione del compagno di cella adottata con questo criterio può risultare complicata.

E' vero che i collaboratori sono chiamati con una sigla?

Sì, per motivi di riservatezza; anche per quanto riguarda la cartella clinica si adotta una sigla, questa prassi viene adottata in tutti gli istituti.

Quindi vuole dire che ad ogni lettera, ogni numero, corrisponde quella persona?

Sì, anche se un individuo, dopo che è stato da noi, si reca in un altro istituto al suo ritorno riprende la stessa sigla.

Allo stato attuale a che lettera siete arrivati?

Alla T, poiché le sigle vengono assegnate in progressione ed una sigla può corrispondere ad una sola persona.

Com'è la Sezione? Le celle sono aperte? Hanno più ore d'aria rispetto agli altri detenuti?

Al piano terra abbiamo 2 celle piccole e delle celle più spaziose che vanno bene anche per tre persone. Sono di colore blu e sono dotate dei vari suppellettili. A seconda delle persone che vi stanno dentro ci sono degli armadi per metterci roba, un tavolino, degli sgabelli e delle brande metalliche. La tv è situata nella parte superiore interna della porta: tv a colori 14 pollici. Da circa sette anni tutte le celle di tutte le sezioni sono state dotate di frigorifero. Possono tenere dei portafrutta e tutto l'occorrente per farsi autonomamente da mangiare, fornellino da campeggio ecc....possono avere due bombolette a testa che possono ordinare tutti i giorni e così possono cucinare tutto quello che si comprano. Il water è presente all'interno delle celle, mentre per le docce si devono recare al loro esterno ma pur sempre all'interno della sezione. La doccia la possono fare tutti i giorni mentre prima c'erano dei giorni stabiliti; all'interno della sezione collaboratori, visto che ha una superficie limitata possono farla quando vogliono ma nell'orario di apertura delle celle. I collaboratori rispetto agli altri detenuti hanno più libertà; anche nel momento della vita in comune c'è chi lavora, chi passeggia, chi va nella saletta ricreativa dove c'è la tv più grande; oppure si ritrovano nella saletta del gioco delle carte, del biliardo...possono accedere sia al piano terra che al primo piano mentre negli altri reparti di reclusione non c'è tutta questa libertà di movimento. L'apertura delle celle avviene di solito alle 8 e mezzo del mattino e tutte le attività svolte avvengono all'interno della struttura; non c'è la sveglia ma per esempio chi lavora in cucina alle 7 e mezzo si reca in questa. La pulizia della cella spetta alla persona che la occupa quindi in gergo carcerario lo scopino è quello che pulisce le docce, l'aria di passeggio, insomma tutte le aree adiacenti alla sezione. Le attività lavorative sono in piena regola perché vengono versati i contributi e c'è una tutela assicurativa. Per lavorare si effettua una richiesta di ammissione dopo di che prestano la manodopera per due mesi alla fine dei quali c'è la sospensione ad eccezione di coloro che hanno delle mansioni specifiche, per esempio il barbiere, perché in un gruppo così ristretto è difficoltoso trovare chi può svolgere questa attività. Una mansione particolare è quella dello scrivano; questa figura era molto importante quando c'erano persone che non sapevano né leggere né scrivere perché preparava le domandine, scriveva lettere alle famiglie.

Ci sono anche universitari all'interno?

Da quando sono qui solo un ragazzo è stato un universitario; faceva economia e commercio. Tornando ai lavori, di cui stavamo parlando prima, devo citare il ruolo del giardiniere. Questa mansione consiste nel curare un piccolo spazio verde dove sovente i collaboratori si ritrovano con i familiari; inoltre sono presenti dei giochi per bambini, altalene, scivoli. Questo spazio è molto sfruttato nei mesi che vanno da maggio a settembre, fin quando il tempo lo permette, per fare colloqui all'aperto mentre nei mesi più brutti vengono sfruttate le stanze interne. Per quanto riguarda la libertà abbiamo detto che i collaboratori ne hanno più che gli altri detenuti, infatti possono pranzare con i familiari ed i colloqui non avvengono col classico separé in mezzo.

Hanno più colloqui rispetto agli altri detenuti?

Si, hanno i sei colloqui ordinari previsti dall'ordinamento penitenziario più i sei colloqui straordinari che vengono concessi dalla direzione; in altri istituti ne possono avere di meno come di più. Quelli ordinari sono sempre sei mentre quelli straordinari possono variare in base alle decisioni della direzione. Sono dodici ore di colloquio in tutto.

I familiari vengono accompagnati dal servizio centrale o dalla polizia?

I familiari vengono accompagnati dai cosiddetti NOP (nucleo operativo provinciale); quest'ultimi sono responsabili del trasporto dei familiari dall'abitazione al penitenziario e viceversa; si devono informare sulla durata del colloquio, dato che possono trovare sull'istanza, e quindi farsi trovare pronti per il ritorno. La durata del colloquio viene concordata tra collaboratore e familiari in base anche alla distanza del penitenziario dall'abitazione. Più la distanza è elevata minori sono i colloqui ma maggiore e la loro durata. L'orario dei colloqui va dalle 9:00 alle 15:00.

Tutti i mesi i detenuti hanno un ausilio economico dallo stato; prima erano 500 milalire. Ora la cifra ammonta attorno ai 260 euro e viene accreditata sul loro conto corrente.

Questa cifra è per il collaboratore detenuto?

Per il detenuto che ha già il programma di protezione stabilito dalla commissione centrale.

Alle 8:30 avviene l'apertura...?

L'apertura delle celle, almeno per quanto riguarda Prato, avviene alle 8:30. La prima chiusura è alle 11:20 per la somministrazione del pranzo. Fino alle 13 rimangono chiuse ma in questo intervallo di tempo si può fare la cosiddetta socialità a celle chiuse, cioè i detenuti si possono riunire in altre celle per pranzare insieme. Per fare questo non c'è bisogno di un'autorizzazione speciale ma basta che sia fatto presente, di modo che l'annotiamo su un modulo del tipo: "in data odierna, nella cella x, Tizio, Caio e Sempronio hanno fatto socialità"; alle 13 vengono di nuovo aperte fino alle 17:50 dove ha inizio la fase della somministrazione della cena. C'è il detenuto con mansione di porta vitto che distribuisce il cibo nelle celle; tanti detenuti preferiscono cucinarsi qualche pietanza particolare, magari pesce od altro, quindi si organizzano; sono molto indipendenti per quanto riguarda il cibo; si fanno la pizza, dolci, ecc...Quello che cucinano lo possono portare anche ai colloqui e consumare con i familiari. Per quanto riguarda le bevande queste devono essere conservate in contenitori di plastica e non vetro onde evitare che qualcuno in escandescenza possa creare dei problemi.

Durante i colloqui con i familiari è presente l'agente?

Non c'è un agente fisso perché ci sono le telecamere accese 24 ore su 24, quindi qualsiasi movimento o manovra non consentita viene ripresa e questo scoraggia azioni di tale genere. Anche per motivi di privacy è preferibile che l'agente non sia presente; inoltre spesso sono presenti bambini.

Dalle 17:50 fino alle 19:20 ci sono due ore di socialità a celle chiuse, mentre dalle 19:20 alle 19:50 le celle vengono riaperte. Quest'ultimo orario nei periodi estivi può essere spostato alle ore 21:00; quindi in questo caso c'è un prolungamento dell'orario di passeggio, della permanenza in palestra.....possono muoversi liberamente sia all'interno della sezione che in giardino. Il cortile passeggio è stato adibito a calcetto, tennis e pallavolo anche se la superficie asfaltata provoca facilmente sbucciature e lesioni superficiali. Tutte queste attività sportive vengono coordinate da due operatori. Inoltre da non dimenticare sono le attività scolastiche: qui si può ottenere sia il titolo di studio delle medie inferiori che superiori. Ci sono diverse attività culturali per coloro che arrivano e non sanno né leggere né scrivere ed anche corsi di disegno, pittura, computer, essendo la nostra sezione una struttura piccola con un numero contenuto di detenuti si cerca di renderla il più funzionale possibile cosicché l'individuo può usufruire a pieno di tutte le attività per accrescere se stesso. Nessuno ha del tempo libero morto perché c'è sempre qualcosa ad fare. Da non dimenticare sono le attività musicali e di teatro. Abbiamo un cappellano che celebra la messa il sabato pomeriggio; tutte le religioni vengono rispettate e ci sono delle aree apposite dove si fanno assemblee e funzioni in genere. La religione dà un apporto morale importante soprattutto nel superare i problemi ai quali i detenuti vanno incontro e che spesso sono di natura familiare. Bambini, ragazzi minorenni sbattuti a destra e sinistra, spostamenti dall'abitazione dove vivono per motivi di sicurezza, problemi con i NOP impegnati in altri servizi e che quindi non possono accompagnare i familiari. Ormai sappiamo come comportarci in queste circostanze, specie nel caso in cui i NOP non possono trasportare i familiari e i detenuti si preoccupano perché quest'ultimi mancano al colloquio. In questo caso chiamiamo il servizio centrale (non possiamo chiamare direttamente i NOP) e cerchiamo di capire come mai i familiari non sono presenti per poter così tranquillizzare il detenuto. Molti familiari dei collaboratori hanno problemi psicologici dovuti allo spostamento dai paesi d'origine, culture nuove, scarsa libertà di movimento, ecc...La scelta che fa il collaboratore è una scelta che compromette la vita di tutti i suoi familiari, molti la condividono, altri meno, alcuni arrivano ad un punto che non ce la fanno più ed abbandonano il detenuto.

Si verificano atti di autolesionismo?

Raramente.

Quando arrivano come sono con voi? Sono diffidenti?

No, la diffidenza faceva parte dei primi collaboranti; si parla degli anni '92-'93. Al tempo appena arrivavano venivano gestiti da personale inviato dal ministero ed erano un po' viziati. Poi a questo personale siamo subentrati noi, individui abituati a gestire normali detenuti. Questo ha fatto sì che in principio il collaborante avesse diffidenza nei nostri confronti perché eravamo chiusi e freddi, solo in seguito quando abbiamo appreso l'importanza della collaborazione e quindi della loro scelta abbiamo cominciato ad aprirci e a comunicare. Ogni collaboratore ha fatto questa scelta per un preciso motivo: per vendetta perché gli è stato ucciso un familiare; perché sapevano che sarebbero stati uccisi; perché si sono pentiti umanamente per quello che hanno fatto e per i delitti che hanno commesso; per ottenere vantaggi economici.; perché gli è stato imposto oppure è stato arrestato il suo capo del clan che gestiva tutto. Dal '94 al '98 c'è stato il boom della collaborazione. Dal 2000 in poi la cosa è andata attenuandosi. Con la legge 45/2001 è stata varata una linea molto rigida per quanto riguarda la collaborazione soprattutto nella fase degli accertamenti fatti dalla procura sui riscontri. C'è l'isolamento del detenuto per 180 giorni nei quali agli interrogatori si susseguono le fasi di riscontro; in seguito la commissione centrale si riunisce e decide se dare lo stato di collaboratore o no...ci sono collaboranti che arrivano ad avere 70-80 persone tra conoscenti e familiari sotto protezione. Una volta finita la fase collaborativa a qualcuno viene chiesto se vuole uscire dal programma e questo garantisce un grosso indennizzo economico che può essere utilizzato per aprire un'attività o per trovare un alloggio fuori...questo comporta una maggiore libertà di movimento anche nell'ambito lavorativo, la possibilità di spostarsi da un paese ad un altro, essere utili per la famiglia. Dal momento che aderisci al programma di protezione ci sono degli obblighi da rispettare, in caso contrario ti può essere revocato il permesso di libertà. Anche nella detenzione domiciliare ci sono degli orari che devono essere rispettati e nei quali si deve essere all'interno dell'abitazione. Il beneficio può essere revocato anche per 5 minuti di ritardo. Anche il rispetto della provincia in cui possono muoversi è importante perché alcuni si sono visti revocare il beneficio per aver oltrepassato il confine di soli 500 metri. I controlli vengono effettuati dai NOP, gli stessi che hanno la tutela dei familiari. E' importante instaurare un buon rapporto tra forze di polizia e familiari. A volte ci sono stati dei contrasti perché non portano la famiglia a colloquio. Nel corso dei colloqui quando arriva il capo scorta alcuni collaboratori chiedono di parlare con lui per avere dei chiarimenti sui problemi verificati. Se il capo scorta è d'accordo, noi gli concediamo cinque o dieci minuti di tempo. Instaurare un buon rapporto è importante perché quando chiedono il beneficio della detenzione domiciliare oltre al parere della direzione, del GOT, del procuratore nazionale antimafia e del magistrato con cui collaborano c'è quella dei NOP. Quest'ultimi fanno una relazione dove dicono se i rapporti tra congiunto e famiglia sono buoni, si tratta di un rapporto informativo. Per i permessi invece c'è la relazione che viene fatta dalla direzione e che ha una valenza dell'80%. Oltre al parere del magistrato che dice che è un detenuto meritevole, che ha fatto un percorso lineare, uno che si è sempre prestato, che ha sempre chiesto colloqui con educatori e psicologi, che ha avuto buoni rapporti con gli operatori della sicurezza, che ha un buon comportamento con gli altri detenuti, è importante la parola dello psicologo che mette in risalto l'autocritica del detenuto per quello che ha commesso in passato. Il collaboratore si apre nel momento in cui gli dai la possibilità di aprire questo dialogo, cioè questo muro che c'è tra l'agente che porta la divisa e loro non ci deve essere perché se c'è un muro non si aprono e quindi tante cose non te le dicono. Nel corso dei colloqui, ne ho fatti tanti, qualcuno si è aperto per raccontare le origini della mafia, della 'ndrangheta, come funziona il sistema politico in Italia, cose di cui sono molto appassionato. Tante cose le ho apprese durante i viaggi, spesso in aereo, mentre li accompagnavo a Palermo, Roma, Napoli o in posti dove dovevano testimoniare e proprio in questi viaggi loro si aprivano ancor di più ed io apprendevo. Mi sono arricchito anche a livello giuridico perché ho conosciuto PM ed anche detenuti con il regime 41bis che mi hanno raccontato i duelli tra di loro, duelli da farwest. I detenuti con il regime 41bis sono solo a Firenze, Roma e Spoleto, a Prato non ce n'è...solo una volta ricordo che c'è stato uno. Per il 41bis Prato come carcere è un po' ristretto; il detenuto con questo regime deve stare solo in cella e deve attenersi a delle regole alle quali noi non siamo pronti.

Hanno bisogno sotto il profilo psicologico?

Per quanto riguarda la famiglia si rivolgono al servizio centrale tramite i NOP che arruolano degli individui che danno ausilio in special modo ai bambini; per i collaboratori invece all'interno del carcere c'è un'assistenza da parte di psicologi specializzati che nella maggior parte dei casi per seguire questi hanno bisogno di conoscere i familiari per capire con chi hanno a che fare.

Il permesso di necessità è un permesso che viene chiesto direttamente al magistrato circondariale ovvero il magistrato di sorveglianza, mentre i permessi premiali si fanno esclusivamente al tribunale di sorveglianza di Roma; liberazione anticipata e remissione del debito è di competenza del magistrato del circondario, in questo caso di Firenze. Questa premessa è stata fatta per spiegare che quando viene fatta una istanza per chiedere un permesso di necessità, molti hanno messo come problema principale, lo status psicologico dei familiari. Quindi a volte gli è stato concesso un giorno, a volte due; la durata del permesso dipende dalla distanza del carcere dall'abitazione familiare. Gli educatori insieme agli psicologi rivestono un ruolo importante e a volte ci ritroviamo tutti (educatori-psicologi, agenti e collaboratori) per discutere della liberazione anticipata e dei permessi premio. Le figure professionali degli educatori e degli psicologi sono molto ricercate ed anche chi viene a fare attività di volontariato svolge un ruolo decisivo per il rapporto di fiducia che istaura con i detenuti. L'unica figura che non entra a contatto con il collaboratore o difficilmente è l'assistente sociale perché potrebbe creare una relazione socio-familiare, ma visto che non può sapere per motivi di sicurezza dove è ubicata la famiglia, il suo ruolo nella sezione collaboratori non ha motivo di esistere contrariamente a quelli che sono di "seconda fascia", vale a dire quelli che non aderiscono al programma di protezione. Seconda fascia non vuole dire che sono detenuti con reati minori, la scelta del programma è loro.

Quindi hanno fruito dell'attenuanti...

Delle attenuanti ne usufruiscono quasi tutti, infatti a volte a riguardo delle persone indagate nelle fase finale dei vari processi il magistrato può anche decidere di convertire gli anni di detenzione in detenzione domiciliare. La maggior collaborazione ce l'hanno con il magistrato con cui collaborano anche se c'è qualcuno che ce n'ha più di uno a seconda dei reati commessi.

I colloqui investigativi vengono effettuati con i collaboratori?

Si questo avviene nella fase dei 180 giorni. Inizialmente c'era anche qualcuno che prendeva lo status di collaboratore solo per sentito dire ovvero questo acquisiva le notizie tramite i giornali, la tv ed altre persone. Ecco perché con la legge 45/2001 si è data una linea rigida e non è stata una cosa restrittiva ma ha tutelato anche chi veniva accusato perché ci sono stati individui accusati che poi si sono dimostrati innocenti o persone accusate solo perché erano antipatiche. Le fasi d'indagine sono lunghe quindi anche una persona accusata ma innocente ci mette anni per scagionarsi e anche un numero di targa sbagliato può essere deleterio. Poi inoltre per la persona accusata e innocente che si fa anni di carcere è difficile spiegare quando esce quello che gli è accaduto perché il prossimo ti guarda sempre con quell'ottica di negatività e non ha più fiducia in te.

Diversi hanno l'ergastolo che sono i famosi trent'anni e possono godere dei benefici. Dopo cinque o sei anni partono con i permessi mentre per la normale detenzione ci vuole più tempo. I benefici si acquisiscono in base alla collaborazione cioè più dichiarazioni e aiuti dai, più permessi ottieni. Durante la collaborazione un altro obbligo che hanno è l'abbandono di tutti i beni materiali. In seguito viene verificato se tali provengono da attività lecite o non e quindi avviene una restituzione parziale proporzionata a questo. Lo stato dà un sussidio a chi sta dentro e poi ai parenti che stanno sotto il programma dà la possibilità di avere un lavoro e una locazione. Ho ricevuto molte lettere di individui che grazie ai contributi statali hanno avuto l'opportunità di aprire attività commerciali, negozi alimentari, di abbigliamento ed edicole.