ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo IV
Ordinamento penitenziario portoghese

Gennaro Santoro, 2006

4.1 Introduzione e profilo storico dell'esecuzione penale portoghese (1844-1974) - 4.2. La 'legge penitenziaria' (DL 265/79) - 4.2.1. Diritto al lavoro - 4.2.2. Libertà condizionale e (inesistenti) misure 'alternative' - 4.2.3. Misure disciplinari e mancata tutela giurisdizionale - 4.2.4. Il Tribunale dell'esecuzione penale (TEP) e la tenue tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei ristretti portoghesi

4.1. Introduzione e profilo storico dell'esecuzione penale portoghese (1844-1974)

Già a partire dalla prima metà del XIX secolo in Portogallo comincia a sorgere una discussione sulla questione penitenziaria a sostegno di un miglioramento delle condizioni di vita in carcere e comincia a diffondersi in dottrina l'idea della funzione “correttiva” della pena. Nel 1844 la Camera dei Deputati discute di un progetto di legge per introdurre in Portogallo un sistema penitenziario simile a quello di Auburn; nel 1864, il relatore della commissione incaricata di revisionare il Codice Penale del 1852, pone particolare attenzione alla regolamentazione dell'esecuzione penale in carcere e “nelle istituzioni complementari del regime penitenziario”, (1) orientando l'esecuzione penitenziaria nel senso di “migliorare il reo [e] e restituirlo rigenerato alla società”. (2) Sebbene il progetto non fu approvato, la parte relativa alle pene e all'esecuzione penale acquistò cittadinanza giuridica grazie alle seguenti leggi: lei 6 Giugno 1893 (Libertà condizionale), il decreto del 27 Maggio 1911 (Colonie per i minori infrattori), lei 1 Giugno 1867. (3) In particolare, in questa ultima legge si segue il così detto sistema di Filadelfia, nonostante le accese critiche in dottrina contro l'isolamento che caratterizzava tale sistema; già nel 1913 tale regime è mitigato dal Silent System, che prevedeva isolamento notturno e lavoro diurno in comune, ma in silenzio. Bisogna attendere il 1936 per avere una riforma organica della materia che affermi la centralità del principio rieducativo della pena e abbandoni gli eccessi della corrente correzionista; ed è il decreto 26/643, del 26 maggio 1936 che, grazie all'ingegno di Josè Beleza, porta a questo cambiamento di rotta. Secondo Eduardo Correia tale decreto può considerarsi come la “più esaustiva articolazione legale di scienza penitenziaria dell'epoca” (4) e Jescheck la considera “di alta importanza nel campo della penologia” (5). È a partire da questo momento che il Portogallo si presenta all'avanguardia rispetto al contesto internazionale dove la funzione rieducativa della pena viene abbandonata a favore della prevenzione e della sicurezza. (6)

Tale ideale prende forma grazie all'ingegno di Eduardo Correia, che,

su richiesta del governo di Salazar, presentò negli anni '60 un progetto di Codice penale 'rivoluzionario' per l'epoca e per il regime fascista vigente, perché assicurava una prospettiva rieducativa, proponendo, come misure essenziali, un'ampia depenalizzazione di condotte considerate senza dignità penale (per es., l'aborto terapeutico), (7) un più che sostanziale abbassamento delle pene, e anche una nuova concezione della politica criminale, proponendo la sostituzione della detenzione carceraria di breve durata con un ricco 'ventaglio' di pene alternative, pene non istituzionali, tutte orientate a fini rieducativi, residuando la pena del carcere per i crimini di maggior allarme sociale, e anche in questo caso, senza perdere di vista il fine del reinserimento inteso come corollario della dignità umana.

È evidente che un progetto di connotazione tanto umanista non poteva essere attuato, ed effettivamente non fu attuato, dal regime fascista dell'epoca; bisognava attendere tempi migliori che, (apparentemente) sopraggiunsero dopo la rivoluzione del 25 Aprile, quando fu ripreso il progetto sopra menzionato che diede vita, dopo alcune revisioni, al CP del'82 che, sostanzialmente, è quello che ancora oggi regge l'ordinamento portoghese. (8)

4.2. La 'legge penitenziaria' (DL 265/79) e successive modifiche

Il decreto-lei 265/79, opera dell'ingegno del penalista Eduardo Correia, allora Ministro di Giustizia, istituisce l'ordinamento penitenziario della giovane repubblica portoghese. (9) Già nel preambolo di apertura, dove si delinea un quadro storico dell'esecuzione penale in Portogallo, si sottolinea la continuità della nuova legge rispetto alle precedenti, “a partire dall'idea della corregibilità di tutti i detenuti”, senza sacrificare l'idea della prevenzione imposta dalla difesa sociale. Le fonti al quale il sopramenzionato decreto si ispira sono citate al num.4 del preambolo, e sono: regole minime per il trattamento dei detenuti dell'O.N.U.(1955) e del consiglio d'Europa(1973), le risoluzioni del consiglio dei ministri del consiglio d'Europa, in particolare, R(73)17 relativa al trattamento dei delinquenti adulti, R(73)24 relativa al trattamento di gruppo o in comunità, R(76)2, riguardo il trattamento di detenuti condannati a pena lunga.

Allo stesso modo si tengono esplicitamente presenti le allora recenti riforme dell'esecuzione penale francese del '75, la proposta di legge spagnola del '78, la 354/75 italiana e reg. esec. del '76, la legge 'penitenziaria' tedesca del '77.

La caratteristica maggiormente opinabile della legge penitenziaria portoghese è rappresentata dalla mancanza, quasi assoluta, della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei ristretti. Già nel preambolo si legge: “resta intatto integralmente il sistema semi-giurisdizionale, già previsto nella nostra legge, di protezione del ristretto, attraverso la facoltà di esporre denunce e rimostranze e, in ultimo, consacrando, espressamente, la possibilità di ricorrere al Tribunale Internazionale dei Diritti dell'Uomo.”

Al punto 5 del preambolo, infine, è prevista una lunga vacatio legis, e la eventuale possibilità di modifiche, “attraverso una desiderabile e considerevole partecipazione pubblica.”

L'ambito di applicazione è circoscritto ai penitenziari dipendenti dal ministero di giustizia (titolo I, art. 1).

Il titolo II è dedicato ai principi generali dell'esecuzione penale.

Si enunciano alcuni principi di grande rilievo, tra i quali, prioritariamente, la consacrazione del reinserimento sociale e della prevenzione come linea di orientamento della pena detentiva (art. 2), (10) dà lì decorrendo la necessità di “rispettare la personalità del recluso e i suoi diritti e interessi giuridici non specificamente limitati dalla condanna” (art. 3, n.1, principio di 'umanizzazione' della pena) e di, “tanto quanto possibile, approssimare l'esecuzione alle condizioni di vita libera, evitandosi le conseguenze nocive della privazione della libertà” (art. 3, n.2). (11)

I principi dell'esecuzione sono recepiti, nello stesso ordine sistematico della legge penitenziaria, dall'art. 43 del CP del 1995.

Risulta 'intollerabile' l'ordine sistematico delle leggi sopra menzionate perché pospongono il principio della 'umanizzazione' della pena (art. 3) a quello del reinserimento (art. 2), in aperta collisione con la 'prospettiva umanista' propria della CRP (art. 1,2).

Tali previsioni legislative ordinarie, oltre a rendere in effettivo il principio fondante della Costituzione portoghese, potrebbero portare, in una democrazia 'politica' e senza la garanzia di una riserva rafforzata di codice (vedi 1.1.b), a trattamenti 'degradanti', per così dire, forzati, che travalicano la dignità umana. (12)

In altre parole, Legislatore e Amministrazione sarebbero legittimati, formalmente, a considerare 'il reinserimento' come la 'giustificazione esterna' del sistema e, interpretando formalmente -ossia, ignorando il contenuto e i valori della Costituzione -la legge ordinaria, 'l'umanizzazione' come uno dei tanti altri principi sussidiari che assistono l'esecuzione delle pene (come ad es., prevenzione esterna, ordine e disciplina interni). Tale dato è confermato dal fatto, ancora più opinabile, che, al comma 2 dell'art. 2 decreto-lei 265/79 -quindi, prima dell'art. 3 che recepisce il principio della 'umanizzazione' delle pene- si legge: “L'esecuzione delle misure privative della libertà serve anche alla difesa della società, prevenendo la pratica di altri fatti criminosi.”

Per esseri più corretti, quindi, da un'interpretazione formale - ossia, ribadiamo, ignorando il contenuto e i valori della Costituzione - la dignità umana, sulla quale si fonda l'intero ordinamento portoghese, nel sistema totale (e non ordinamento interno, nel senso di Santi Romano) carcere detto principio è subordinato non solo al reinserimento, ma anche alla prevenzione.

Si ribadisce, il discorso qui proposto, non ha valenza meramente formale, in quanto, isolamento, carcere duro, maltrattamenti sono aspetti comuni dei sistemi penali portoghese e italiano, ma, in Portogallo, addirittura, tali 'regimi' trovano giustificazione nei principi (non costituzionali!) della legge, rectius, nel decreto-lei istitutivo del sistema totale penitenziario. Si auspica un doveroso intervento del Tribunal Constitucional.

L'art. 4 recepisce gli art. 30, N.5 (13) e 18, n 3 (14) della CRP: è intitolato “Posizione [giuridica] del ristretto”: “Il recluso mantiene la titolarità dei diritti fondamentali dell'uomo, salvo le limitazioni contenute nella sentenza di condanna, ben come quelle imposte in nome dell'ordine e della sicurezza dell'istituto. Deve aver diritto ad un lavoro remunerato, (15) ai benefici della sicurezza sociale, (16) così come, nella misura possibile, di accedere alla cultura e al pieno sviluppo della sua personalità”. (17)

All'art. 5 si favorisce il senso di corresponsabilità del ristretto. L'art. 6 è dedicato all'ingresso negli istituti penitenziari: deve aver luogo, nella misura possibile, senza la presenza di altri ristretti; il neo recluso deve essere informato delle disposizioni legali e regolamentari che interessano la sua condotta e di quelle che definiscono il regime dell'istituto; immediatamente dopo l'ingresso deve essere garantito al recluso il diritto di informare la famiglia, o chi legalmente lo rappresenti, della sua situazione, e la telefonata è a carico della direzione quando il recluso sia impossibilitato; i detenuti devono essere presentati, nel più breve tempo possibile al direttore, ed essere sottoposti ad esame medico entro 72 ore dall'ingresso; dopo l'ingresso in istituto, il ristretto deve essere aiutato, nella misura possibile, nella risoluzione di problemi personali urgenti. (18)

L'art. 7 prevede le ipotesi in cui può avvenire l'internamento in istituto.

Le attività di osservazione, preposte alla redazione del piano individuale di trattamento, sono disciplinate dall'art. 8. Quando la durata della pena lo giustifichi, ma a patto che restino da scontare, anche per pena residua, più di 6 mesi, o nel caso della pena relativamente indeterminata, (19) si dà inizio all'osservazione della personalità, dello stato sociale, economico e familiare del recluso. L'osservazione ha per oggetto la verifica di tutte le circostanze ed elementi necessari alla 'pianificazione' del trattamento, durante l'esecuzione, al reinserimento sociale, dopo la liberazione. Il tribunale procedente invia copia dell'ordinanza o della sentenza al direttore del carcere; il direttore può prendere visione degli atti del processo nel quale è stata proferita la condanna.

L'art. 9 statuisce il contenuto minimo del “piano individuale di ‘riadattamento’ redatto sulla base dei risultati dell'osservazione. Deve tassativamente essere indicato il regime (aperto o chiuso) cui è destinato il ristretto; la destinazione ad un istituto o sezione; il lavoro, la formazione, il perfezionamento professionale, l'attività scolastica, la partecipazione ad attività formative; l'occupazione nel tempo libero e le forme speciali di trattamento o assistenza; le (eventuali) forme di flessibilità dell'esecuzione; le ‘misure’ da adottare per la ‘preparazione’ alla libertà. Sono sempre possibili variazioni dovute a miglioramenti o altre circostanze rilevanti; il piano di ‘riadattamento’ e sue modifiche sono sempre comunicate al recluso”.

Altri principi cardini dell'esecuzione, in maniera simile alla legislazione italiana, sono rappresentati dai criteri di “distribuzione” e “separazione” dei ristretti nei diversi istituti e sezioni (art. 11 e 12), i criteri che regolamentano i trasferimenti da un istituto all'altro (art. 13), i criteri di scelta del regime (art. 14), le modalità di “preparazione alla libertà” (art. 15 e 16).

L'inadempimento sistematico di detti principi, sarà palesato nel paragrafo 5.1.2 dedicato al rapporto del Provedor de Justiça del 2003 sulle condizioni di vita materiale negli istituti di pena. Come anticipazione può dirsi che: spesso, per non dire quasi sempre, al momento dell'ingresso in istituto il ristretto non è sotto posto a visita medica e non è accolto dal direttore (art. 4) bensì da un rappresentante della polizia penitenziaria; le attività di osservazione (art. 8) e la redazione del piano individuale di “riadattamento” (art. 9) sono sistematicamente inattuate; il sovraffollamento impedisce la separazione (art. 12) e la distribuzione dei ristretti (art. 11) nei diversi istituti e la 'differenziata sottoposizione' ai regimi “chiuso” e “aperto” (20) (art. 14); il trasferimento è usato nelle maggior parte dei casi come illegittima misura disciplinare (art. 13).

Passando dai “principi generali” alla concreta positivizzazione delle regole penitenziarie, è opportuno rammentare l'inesistenza di un regolamento esecutivo della legge penitenziaria (21) così come il cattivo costume delle Direzioni dei singoli istituti di non adottare i c.d. 'regolamenti interni': l'esecuzione delle pene, al di là dei principi costituzionali e delle direttive della legge penitenziaria, non solo sono lasciate all'arbitrio delle varie amministrazioni, ma sono caratterizzate dalla pre-moderna inconoscibilità del lecito e dell'illecito, contrariamente a quanto sancito dall'art. 6, n.2 (22) del decreto-lei (e non legge) 265/79.

Altra nota negativa è il disinteressamento della dottrina giuridica portoghese riguardo il mondo parallelo dell'esecuzione penale: non esiste, infatti, alcun manuale di diritto penitenziario, né lo specifico insegnamento del diritto dell'esecuzione penale, il che non ha certo contribuito ad una seria discussione del problema (oltre a rendere quasi impossibile lo studio qui proposto).

Per quest'ultima ragione, la seguente trattazione non sarà la simulazione di un 'compendio' o di un 'manuale' di diritto penitenziario portoghese, ma, molto più semplicemente, l'analisi dell'attuazione concreta di alcuni aspetti legislativi dell'ordinamento penitenziario. In particolare, nei prossimi capitoli, saranno oggetto di attenzione: il diritto al lavoro; la libertà condizionale e le (inesistenti) misure alternative; le misure disciplinari e la mancata tutela giurisdizionale; il Tribunale dell'esecuzione penale (TEP) e la tenue tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei ristretti portoghesi.

In via di eccessiva sintesi, continuiamo la nostra breve 'panoramica' dei (restanti e numerosi) titoli del decreto lei 265/79.

Il Titolo III (art. 17 ss) è dedicato agli alloggi, al vestiario e all'alimentazione.

Il Titolo IV (art. 29 ss.) è dedicato alla disciplina delle visite e della corrispondenza.

In questa sede, l'art. 30, n.2, prescrive: “devono essere autorizzate le visite che favoriscano il trattamento e il reinserimento sociale del ristretto o che siano necessarie per la risoluzione di questioni personali, giuridiche o economiche, insuscettibili di essere trattate per carta, per il tramite di terzi o di essere rinviate alla data della liberazione” (Cfr. art. 17, n.2 legge italiana 354/75).

Sul piano comparativo, degna di nota è la norma -senza equivalenti nell'ordinamento italiano - sancita dall'art. 39 che autorizza specificamente le visite, negli istituti di pena, da parte dei funzionari superiori degli istituti di criminologia e dei docenti di diritto penale; quest'ultimi possono farsi accompagnare dai propri studenti in occasione di “visite di studio” (art. 39, n.3).

Il Titolo V (art. 49 ss.) è dedicato ai permessi d'uscita dall'istituto. Opinabile è l'impossibilità di ricorrere avverso la decisione, del Direttore o del Magistrato (competenti della concessione, rispettivamente, dei permessi di breve e di lunga durata), di diniego del permesso. (23)

Il Titolo VI (art. 63 ss) è dedicato al lavoro, alla formazione e al perfezionamento professionale (vedi 4.2.1.).

Il Titolo VII (art. 80 ss) è dedicato alla scuola; Il Titolo VIII (art. 83 ss) al tempo libero; il Titolo IX (art. 89 ss) all'assistenza morale e spirituale; Il Titolo X (art. 95) all'assistenza medico-sanitaria; Il Titolo XI (art. 108 ss) all'ordine e alla sicurezza interna; Il Titolo XII (art. 122 ss) ai mezzi coercitivi. Il Titolo XIII (art. 128 ss) alle misure disciplinari (vedi 4.2.3);

il Titolo XIV (art. 138 ss) al diritto di rimostranze, di denuncia e di interposizione di ricorso (vedi 4.2.3); il Titolo XV (art. 152 ss) al momento della liberazione; il Titolo XVI (art. 156 ss) ai servizi penitenziari; il Titolo XVII (art. 199) agli assessori; il Titolo XVIII (art. 200) all'investigazione criminale; il Titolo XIX (art. 201 ss) alle “regole speciali”; il Titolo XX (art. 217 ss) all'esecuzione di misure di sicurezza detentive; il Titolo XXI (art. 223 ss) alle disposizioni finali e transitorie

4.2.1. Diritto al lavoro

L'art. 58 CRP consacra il diritto al lavoro. (24) Non viene riconosciuta, sul piano costituzionale, nessuna differenza esplicita tra lavoro di un cittadino libero e lavoro di un soggetto privato della libertà personale.

Si evince che, anche nella istituzione totale carcere, vige quindi, almeno sul piano formale e giuridico-costituzionale, il principio scaturente dall'art. 18, n.1 CRP, ossia, le entità pubbliche e private sono “vincolate” alla diretta applicazione “dei precetti costituzionali riguardanti i diritti, le libertà e le garanzie”; ne consegue che, tassativamente, la legislazione ordinaria e l'amministrazione penitenziaria devono riconoscere tale diritto, sulla 'carta' e nella pratica, ai ristretti.

Il decreto lei 265/79 disciplina il lavoro, la formazione e il perfezionamento professionale dei reclusi agli art. 63 ss. Il primo di questi articoli delinea i principi generali cui deve ispirarsi l'occupazione dei soggetti ristretti nella libertà personale. (25) L'64 prescrive che il detenuto è “obbligato” a realizzare il lavoro e le altre attività a lui destinate, tenendo in conto il suo stato fisico e mentale, accertato da un medico, e le sue capacità d'apprendimento; nel n.2 dell'art. 64 si prevede un ancor più specifico “obbligo” a realizzare servizi ausiliari nell'istituto fino a tre mesi l'anno, o, con il consenso del ristretto, per un periodo superiore. (26) Può essere esonerato da attività lavorative il ristretto con età superiore ai 65 anni, le donne nel periodo di gravidanza e allattamento, e in altre situazioni previste da leggi. Il lavoro presso enti privati è invece subordinato al consenso del ristretto, questa volta in coerenza al dettato degli art. 58 e 18, n.1 CRP. L'art. 65 sancisce che il lavoro dei detenuti deve approssimarsi, per quanto possibile, alle condizioni del lavoro libero; deve essere inoltre stimolata la partecipazione del ristretto nell'organizzazione dello stesso. Particolare e ambigua è la norma scaturente dal comma 3 dell'art. 65, che specifica: “Lavoro, formazione, perfezionamento professionale, non devono essere subordinati all'idea di ottenere un beneficio economico”.

L'art. 66 disciplina il lavoro per conto proprio e quello svolto fuori dell'istituto. È favorito maggiormente il lavoro a favore dell'amministrazione penitenziaria di quello per entità, pubbliche o private, esterne all'istituto; quando è prestato a favori di terzi, il dovere di controllare i ristretti continua a spettare all'amministrazione penitenziaria. Il n.4 dell'art. 67 riconosce esplicitamente la parificazione al salario del lavoratore libero, nonché della tutela previdenziale, del ristretto a servizio di un ente privato. Chi lavora a favore di un amministrazione pubblica o impresa ha diritto ad una retribuzione normale, a seconda della natura del lavoro e del suo rendimento. (27)

L'art. 68 parifica le condizioni del lavoro penitenziario (durata, sicurezza, igiene, incidenti sul lavoro, malattie, diritti) a quello del lavoratore libero; in particolare al n.4 dell'art. 68 è riconosciuto il riposo settimanale e nei giorni festivi, cosi come è garantito il tempo necessario per l'istruzione e la pratica di tutte le attività con finalità rieducative. L'art. 69 è intitolato “esenzione dal dovere di lavorare”: il ristretto che lavora, o partecipa ad attività formative, o di perfezionamento professionale o attività ergoterapeutiche per un anno, può richiedere di esserne esonerato per 20 giorni liberi, mantenendo il diritto alla retribuzione “che gli deve essere pagata per l'ultima volta”; se il ristretto non può lavorare per 30 giorni, di seguito o intervallati, nell'arco di un anno, non perde il diritto alla retribuzione “che gli deve essere pagata per l'ultima volta”; è decurtato dai 20 giorni di “esenzione dal dovere di lavorare” il tempo trascorso in permesso di uscita, salvo che tale licenza non sia stata concessa per motivi speciali, o per comparire in giudizio, o per altro motivo giustificato.

La remunerazione è disciplinata dagli art. 71e s.; è equitativa ed è stabilita dal ministro della giustizia con parere del DGSP; è calcolata sulla base del lavoro libero, natura del lavoro e qualifica professionale; può essere ridotta fino al 75% per scarso rendimento e viene decurtato il prezzo di internamento (alimenti, vestiti, servizi, installazioni); il ristretto ha diritto di essere informato per iscritto della retribuzione percepita.

La ripartizione, cosi come prevista nell'art. 72, è per metà al fondo disponibile, e per metà alla riserva, se non ci sono altre obbligazioni. Se vi è solo l'obbligazione familiare, metà alla famiglia e il resto due parti uguali ai due fondi. Se vi sono obbligazioni come indennizzi, multe, imposte di giustizia, metà per queste obbligazioni e il resto due parti uguali ai due fondi. Se il ristretto ha obbligazioni familiari e giudiziali, metà alla famiglia e l'altra parte metà al fondo disponibile, e la restante metà equamente ripartita tra riserve e altre obbligazioni.

Il ministro della giustizia può stabilire un minimo sotto al quale non è possibile ridurre i due fondi e può autorizzare, in fondati casi particolari, una ripartizione differente.

L'art 75 prevede l'impignorabilità della remunerazione, ma dal fondo disponibile può essere detratto il prezzo degli indennizzi dovuti ad altri ristretti, o funzionari, o allo stato, per pregiudizi causati con colpa grave o dolo.

L'art. 76 è rivolto a tutela del recluso che non può lavorare, per età o invalidità: chi si trova in questa situazione di svantaggio, riceve una quantità determinata, in denaro, da destinare ai “piccoli acquisti”.

Il fondo di riserva è destinato a facilitare l'ingresso del ristretto in società a seguito della sua liberazione. L'amministrazione penitenziaria può autorizzare l'uso della riserva quando utile al fine della rieducazione, o per necessità urgenti del ristretto o della sua famiglia, e a patto che ci sia richiesta del recluso.

Questa la disciplina sulla carta. Passiamo ora a verificare le condizioni di lavoro dei ristretti secondo quanto documentato dal Provedor de Justiça nella relazione sulle prigioni effettuata nel I semestre 2002 (RSP2003).

I primi dati che si incontrano nella rubrica “Ocupacao” riguardano il lavoro, la formazione professionale e l'insegnamento scolastico.

8546 ristretti, il 65% della popolazione totale, ha un'occupazione, in aumento, in termini relativi, rispetto ai dati del'98 (RSP99), quando la popolazione 'occupata' rappresentava il 55% del totale.

6558 ristretti (68,7%) negli istituti centrali e speciali, 1988 negli istituti regionali (54,8%). Più alto il tasso di occupazione delle ristrette (82%) rispetto quello maschile (63,4%)

1998 2002 Variazione
Popolazione totale Popolazione con occupazione % Popolazione totale Popolazione con occupazione % Lavoratori Popolazione con occupazione
EPCE 10057 6160 61,3% 9540 6558 68,7% +6,5% +12,2%
EPR 4499 1838 40,9% 3628 1988 54,8% +8,2% +34,1%
Totale 14556 7998 54,9% 13168 8546 64,9% +6,9% +18,1%

EPCE: stabilimenti centrali e speciali
EPR: stabilimenti regionali

Si segnala la creazione di 500 unità di lavoro in più rispetto al 1999.

Se riferissimo i seguenti dati ai soli ristretti condannati avremo, in termini relativi, che il 91% della popolazione condannata ha un'occupazione. Quest'ultimo dato fa facilmente comprendere quanta poca importanza sia data al lavoro dei ristretti in custodia cautelare, trascurando la lunga permanenza in carcere di questi soggetti e il loro diritto, in quanto cittadini, al lavoro e all'insegnamento. (28) In termini relativi, ha una occupazione il 33,3% dei ristretti in via preventiva, di cui il 37,4% nei EPCE, IL 28,4% nei EPR. Molte le denunce presentate dai soggetti in custodia cautelare che, invano, richiedevano un'occupazione alla direzione dell'istituto di appartenenza. Per questo motivo il Provedor raccomanda che “ai ristretti preventivi sia garantito l'accesso ad attività lavorative, insegnamento e formazione professionale in termini equiparabili a quelli offerti ai ristretti in via definitiva”. (29)

Custodie cautelari Preventivi con occupazione % dei preventivi con occupazione Totale ristretti con occupazione % dei preventivi occupati rispetto al totale dei ristretti con occupazione
EPCE 2051 768 37,4% 6558 11,7%
EPR 1704 484 28,4% 1988 24,4%
Totale 3755 1252 33,3% 8546 14,7%

EPCE: stabilimenti centrali e speciali
EPR:stabilimenti regionali

Passando ora ai dati che riguardano esclusivamente il lavoro, risulta che 6680 ristretti hanno un lavoro, in termini relativi, il 51% dell'intera popolazione. La seguente tabella riporta i dati sui posti di lavoro creati o venuti meno tra il'96 e il 2002 nei diversi istituti, centrali speciali e regionali.

1996 1998 2002 Variazione
1996/1998 1998/2002 1996/2002
EPCE 42% 47,4% 55,6% +12,9% +17,2% +32,3%
EPR/CA/EPPJ 30% 39,3% 38,0% +31,0% - 3,3% +26,8%
Totale 39% 44,9% 50,7% +15,1% +13,0% +30,1%

EPCE: stabilimenti centrali e speciali
EPR: stabilimenti regionali

Ben 2463 ristretti svolgono attività di pulizia, il che fa comprendere come i dati fin qui declamati non fotografano la verità sulle possibilità lavorative concretamente offerte nella fase esecutiva della pena: più di un terzo della popolazione carceraria con un lavoro (6680), semplicemente svolge le pulizie degli ambienti comuni e degli uffici dell'amministrazione penitenziaria. Dato ulteriormente allarmante perché chi gode del regime aperto “RAVI” (30), è occupato principalmente come addetto alle pulizie alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, allo stesso modo di chi è sottoposto a regime chiuso, vanificando la differenza assiologica tra i due regimi.

Nella tabella seguente sono riportati i numeri e le percentuali dei mestieri maggiormente diffusi nei penitenziari portoghesi.

Popolazione maschile
EPCE EPR
N. di lavoratori % sul totale dei ristretti lavoratori % sul totale dei ristretti N. di lavoratori % sul totale dei ristretti lavoratori % sul totale dei ristretti
Addetti alle pulizie 1658 34,9% 18,9% 546 46,1% 16,4%
Falegnami 222 4,7% 2,5% 28 2,4% 0,8%
Fabbri 134 2,8% 1,5% 11 0,9% 0,3%
Meccanici 94 2,0% 1,1% 0 0,0% 0,0%
Artigiani 138 2,9% 1,6% 136 11,5% 4,1%
Ceramica 39 0,8% 0,4% 10 0,8% 0,3%
Pittura e costruzione civile 373 7,8% 4,3% 87 7,3% 2,6%
Agricoltura “industriale” 398 8,37% 4,54% 38 3,2% 1,1%
Tipografia 48 1,01% 0,54% 3 0,3% 0,1%
Informatica 33 0,69% 0,37% 29 2,4% 0,9%
Altro 1615 33,98% 18,43% 296 25,0% 8,9%
Popolazione femminile
N. di lavoratori % sul totale delleristrette lavoratrici % sul totale delle ristrette
Addette alle pulizie 259 34,8% 24,2%
Artigianato 31 4,2% 2,9%
Ceramica 4 0,5% 0,4%
Pittura e costruzione civile 4 0,5% 0,4%
Agricoltura 6 0,8% 0,6%
Informatica 13 01,7% 1,2%
Altro 427 57,4% 39,9%

“Non credo che l'occupazione estensiva nelle pulizie sia sufficiente ad assicurare ai reclusi le condizioni perché, in futuro, possano optare per un cammino diverso da quello che giustificò la loro reclusione”: (31) questo il commento amaro del Provedor che denuncia l'inadempimento della RPE 71.4: il lavoro deve avere in vista di “mantenere in vita o aumentare la capacità del ristretto a guadagnarsi da vivere dopo la sua liberazione”.

Le ragioni delle scarse opportunità lavorative offerte sono ravvisate nella remunerazione “poco invitante” offerta ai ristretti, e nella mancanza di “condizioni gratificanti” per i lavoratori specializzati; in alcuni istituti, inoltre, dove mancano officine, laboratori, si critica l'abitudine di adibire gli spazi comuni, o addirittura le stesse celle, come ambienti di lavoro; in altri stabilimenti esistono locali specificamente adibiti al lavoro, ma, mancando il personale di vigilanza, gli stessi non sono utilizzati.

Anche la sicurezza e la salubrità dei locali destinati al lavoro dei ristretti, e dei dipendenti dell'amministrazione, sembra inadeguata agli occhi del Provedor. In particolare viene denunciato l'inadempimento di quanto disposto dall'art. 68 decreto lei 265/79, nonché dal decreto lei 441/91, per quanto concerne la prevenzione di rischi, sicurezza e igiene sul lavoro, che non sono organizzati in maniera simile al lavoro libero. (32) In particolare, le misure protettive in dotazione degli stabilimenti sono insufficienti, e, quando esistenti, spesso, non sono utilizzate. Ma, cosa ancora più grave, il ristretto che lavora alle dipendenze dell'amministrazione non è protetto e tutelato dall'iscrizione nel libro della “sicurezza sociale”, ossia, non è 'coperto' dall'assicurazione sociale. Un eventuale incidente sul lavoro, di conseguenza, è accertato dall'amministrazione penitenziaria e, in caso di riconoscimento, l'indennizzo è pagato dalla stessa, ma sempre come 'adempimento' rientrante nella generica obbligazione del “trattamento penitenziario”: in altre parole, anche nei casi di incidenti, il ristretto alle dipendenze dell'amministrazione non è riconosciuto e tutelato come cittadino, come “soggetto” di un contratto di lavoro, ma come “oggetto” di trattamento, in aperta collisione con i principi costituzionali di universalità e uguaglianza (art. 12 e 13 CRP): urge un doveroso intervento del TC che attesti l'incostituzionalità di detta legge/prassi per omissione. (33) Al contrario, per il lavoro a servizio di entità esterne, la competenza a riconoscere e indennizzare incidenti sul lavoro è attribuita, alternativamente, al Tribunale del lavoro o al Tribunale amministrativo, secondo quanto statuito nella convenzione o protocollo stretto dall'amministrazione penitenziaria con il partner esterno. (34)

Nella tabella che segue sono riportate il numero di inchieste aperte su incidenti sul lavoro e il numero degli incidenti riconosciuti.

1999 2000 2001
Inchieste aperte Incidenti riconosciuti % Inchieste aperte Incidenti riconosciuti % Inchieste aperte Incidenti riconosciuti %
EPCE 65 46 71% 91 74 81% 70 56 80%
EPR 8 8 100% 11 9 82% 6 4 67%
Totale 73 54 74% 102 83 81% 76 60 79%

EPCE: stabilimenti centrali e speciali
EPR: stabilimenti regionali

Passiamo ora ad esaminare “l'apertura all'esteriore” del lavoro penitenziario. I prodotti realizzati dai ristretti sono messi in vendita, in appositi locali, in soli tre istituti. (35) In altri stabilimenti, per mancanza di appositi locali, i prodotti sono posti in vendita in alcuni mercati locali di artigianato, nelle scuole, nei municipi e nelle sale di visita o attesa di alcuni istituti penitenziari.

Per quanto concerne protocolli o convenzioni con entità esterne che offrono lavoro ai ristretti, sono cinque gli istituti che non figurano come partner di nessun accordo. (36) Il maggior numero delle convenzioni è stretto con l'industria di calzature, di costruzione civile, imprese nel settore dell'alimentazione, club sportivi, imprese di materiale elettrico. (37) Dato allarmante è il mancato coordinamento centralizzato del DGSP sulle offerte di lavoro delle entità private a favore dei ristretti: vi sono casi in cui la direzione dell'istituto rifiuta il contratto perché nel proprio istituto non sono 'ospitati' ristretti che usufruiscano del regime aperto; in altri istituti il rifiuto è dovuto dalla mancanza di mezzi di trasporto o di personale di vigilanza; in altri ancora, perché il personale specializzato richiesto non è ospitato nell'istituto che riceve l'offerta. La raccomandazione del Provedor e nel senso di costituire tale coordinamento perché non siano sprecate le sopra menzionate offerte lavorative. Non solo. Il Provedor critica apertamente la preferenza accordata dalla legge vigente (e confermata nel PCREP) al lavoro svolto a servizio dell'amministrazione a discapito di quello fferto da entità esterne. Questa giustificazione legale ha permesso a diverse direzioni di rifiutare interessanti proposte di lavoro offerte da privati; (38) è inoltre evidenziato come il lavoro per entità diverse dall'amministrazione sia più stimolante e meglio retribuito. Per queste ragioni il Provedor raccomanda che siano creati incentivi, di natura fiscale e non, a favore delle imprese che richiedano mano d'opera dei ristretti. E' inoltre raccomandato di realizzare studi per introdurre il telelavoro penitenziario, al fine di attribuire ai ristretti in regime chiuso alternative occupazionali.

Una raccomandazione a parte è finalizzata “affinché sia garantito, in situazioni in cui si abbia identità con il lavoro in libertà”, il diritto ad essere iscritti nel registro di Segurança social, e il diritto alle ferie senza perdere la remunerazione; si raccomanda, ancora, che negli istituti siano create attività di corta durata per offrire un impegno ai ristretti durante il godimento delle ferie. (39)

Si passa specificamente alla remunerazione: il primo dato denuncia l'inadempimento dell'art. 71 del decreto lei 265/79 (40) là dove prevede che la retribuzione è calcolata sulla base del lavoro libero, natura del lavoro e qualifica professionale, decurtate le spese di internamento. Tenendo in conto che il salario mensile minimo garantito per i lavoratori liberi è di 348,01 euro e quello orario è di 2,01 (41) i seguenti dati riportati in tabella dimostrano come “lo stipendio” giornaliero previsto (a seconda della mansione svolta) dalla tabella aggiornata annualmente dal DGSP, sia lontano dal concretizzare l'eguaglianza salariale del cittadino ristretto e del cittadino libero.

Categoria Stipendio giornaliero Variazione
1998 1999 2000 2002 1998/1999 1999/2000 2000/2002 1998/2002
Cuoco 2,69€ 2,94 € 3,09€ 3,10 € 9,29% 5,10% 0,32% 15,24%
Barbiere 2,29€ 2,54€ 2,69€ 2,70 € 10,91% 5,91% 0,37% 17,90%
Sarto 2,29€ 2,54€ 2,69€ 2,70 € 10,91% 5,91% 0,37% 17,90%
Calzolaio 2,29€ 2,54€ 2,69€ 2,70 € 10,91% 5,91% 0,37% 17,90%
Operaio 2,29€ 2,54€ 2,69€ 2,70 € 10,91% 5,91% 0,37% 17,90%
Lavaggio panni 1,80€ 2,04€ 2,19€ 2,20 € 13,33% 7,35% 0,46% 22,22%
Impiegato alla biblioteca o all'archivio 1,80€ 2,04€ 2,19€ 2,20 € 13,33% 7,35% 0,46% 22,22%
1º aiutante 1,80€ 2,04€ 2,19€ 2,20 € 13,33% 7,35% 0,46% 22,22%
2º aiutante 1,69€ 1,95€ 2,09€ 2,10 € 15,38% 7,18% 0,47% 24,26%

Il Provedor così raccomanda che la categoria meno pagata del lavoro penitenziario abbia un salario eguale alla retribuzione minima garantita dalla legge, decurtate le spese di internamento. (42) Da rammentare è che in alcuni istituti non è rispettata neanche la previsione minima giornaliera della tabella salariale fissata dal DGSP. Al contrario, quasi tutti i partner diversi dall'amministrazione penitenziaria, elargiscono una retribuzione almeno uguale al salario minimo. Un'ulteriore critica è rivolta alle differenti modalità, seguite dalle diverse direzioni, di ripartire la retribuzione tra fondo disponibile e fondo di riserva. Si raccomanda la uniformità delle ripartizioni, come previste dall'art. 72 decreto lei 265/79, “senza il pregiudizio di clausole di salvaguardia teleologicamente ben definite” (43)

In definitiva, lavoro penitenziario e lavoro a favore di entità esterne comportano situazioni giuridiche diametralmente opposte: il primo, non crea un vero e proprio rapporto di lavoro, essendo un rapporto che rientra nel più vasto ambito del trattamento penitenziario (non è prevista un assicurazione sociale, non c'è tutela giurisdizionale, non viene rispettato il salario minimo garantito); il secondo è parificato a tutti gli effetti al lavoro libero, quindi ricomprende l'assicurazione sociale, la tutela giurisdizionale dei diritti, il salario minimo garantito e tutte le ulteriori garanzie contenute nei contratti collettivi. Si auspica un intervento del TC affinché venga data attuazione dell'art. 59 CRP anche a favore del lavoro penitenziario.

Dall'analisi dei dati 'ufficiali' sopra riportati, non può non scaturire una adesione piena alla critica del Provedor riguardo la previsione legislativa di accordare preferenza al lavoro a favore dell'amministrazione, e auspicare una riforma del Legislatore nel più breve tempo possibile.

4.2.2. Libertà condizionale e (inesistenti) misure 'alternative'

Le misure alternative al carcere sono quasi del tutto inesistenti in Portogallo, prendendo forma solamente in due istituti: libertà condizionale e detenzione per giorni liberi. (44)

Il numero di persone che beneficia di tali misure è, praticamente, trascurabile: secondo il RSP2003, ad es., nel I semestre 2002 la detenzione per giorni liberi riguarda solamente 14 ristretti.

Per quanto concerne la flessibilizzazione della pena, questa, essenzialmente, prende forma nel regime aperto, il quale, come visto, si suddivide in RAVE e RAVI (vedi sopra); è previsto inoltre l'istituto della 'preparazione per la libertà' che prevede una uscita prolungata prima della concessione della (eventuale) liberazione condizionale.

La disciplina della libertà condizionale (45) è prevista nel CP agli art. 61 e ss, e nel CPP, art. 483,484,485. La competenza a concedere, negare e revocare tale beneficio, ai sensi del decreto lei 783/76, è attribuita al Tribunale de execuçao das penas competente territorialmente sull'istituto penitenziario in cui è ristretto l'interessato, al momento della presentazione della domanda.

L'art. 61 CP prevede che la concessione della libertà condizionale dipende, anzitutto, dal consenso del condannato.

Il Tribunale rimette il condannato in libertà condizionale quando è stata compiuta metà della pena e siano stati scontati sei mesi di detenzione e se: a) è giustificato sperare, tenendo conto della vita anteriore del reo, della sua personalità e dell'evoluzione della stessa durante l'esecuzione, che il condannato, una volta in libertà, conduca una vita in modo socialmente responsabile e non pratichi crimini; b) la liberazione sia compatibile con la difesa dell'ordine e della pace sociale.

Il Tribunale rimette il condannato in libertà condizionale quando siano compiuti i 2/3 della pena e già siano scontati 6 mesi, e si verifica il requisito della linea a).

Se si tratta di condannato a pena superiore ai 5 anni per crimini contro la persona o di crimini di pericolo comune, la libertà condizionale potrà essere concessa solo dopo che siano gia compiuti i 2/3 della pena, e si verifichino i requisiti della linea a) e b).

Senza pregiudizio della precedente disposizione, il condannato a pena superiore ai 6 anni, è posto in libertà condizionale dopo aver scontato i 5/6 della pena. (46) È previsto infine che, qualsiasi siano le modalità di tale beneficio, la durata della stessa sarà uguale alla pena che residua da scontare, ma mai superiore ai 5 anni.

La revoca ha luogo nel caso in cui il condannato non adempia le obbligazioni impartite dal Giudice, o si renda responsabile di un crimine.

L'effetto della revoca è il ritorno in carcere; il giudice del TEP “determina l'esecuzione della pena non ancora compiuta”, senza che sia specificato nulla di predeterminabile sulle 'regole' del computo della pena residua.

Il CPP, in sintesi, prevede che entro due mesi prima della data che permette di usufruire della libertà condizionale, il TEP riceve dai servizi penitenziari una relazione sul comportamento del recluso; il direttore da parere motivato sulla concessione; IRS (47) invia, nello stesso termine, una relazione sull'analisi degli effetti della pena sulla personalità del delinquente, il suo ambiente familiare e professionale, la sua capacità e volontà a riadattarsi alla vita sociale, altri elementi utili ai fini della decisione.

Ufficiosamente, o per richiesta del pm o del condannato, il TEP sollecita la spedizione di qualsiasi documento o relazione utile ai fini della decisione; può inoltre richiedere la realizzazione di un piano individuale di riadattamento da parte dell'IRS; quest'ultimo è obbligatorio per il condannato che sta scontando una pena da almeno 5 anni.

L'art. 485 prevede che fino a 10 giorni prima dell'ammissibilità, il pm emette il suo parere sulla concessione del beneficio.

Prima dell'ordinanza il TEP deve ascoltare il condannato per ricevere il suo consenso.

L'ordinanza che concede la liberazione condizionale deve essere motivata, deve specificare la durata, le regole di condotta e le obbligazioni cui deve attenersi il beneficiario, al quale va consegnata copia dell'ordinanza prima della sua liberazione.

L'ordinanza che non concede il beneficio è notificata al recluso.

L'ordinanza è trasmessa anche ai servizi penitenziari, all'IRS, e ad altre istituzioni che il TEP determini.

L'art. 486 sancisce che, quando è revocata la concessione e la carcerazione deve proseguire per più di un anno, sono posti in essere nuove relazioni e pareri, ex 484, entro 2 mesi prima che sia decorso il termine da cui dipende la concessione.

L'ordinanza che nega o revoca il beneficio è notificata al ristretto, e sono rimesse copie all'IRS e ai servizi penitenziari.

Complessa è la questione inerente alla possibilità di ricorrere avverso l'ordinanza che neghi la libertà condizionale.

Il diritto a ricorrere è esplicitamente escluso dalla disposizione dell'art. 127, n.1, del decreto lei 783/76 che statuisce: “Non è ammesso ricorso delle decisioni che concedano o neghino la libertà condizionale, l'uscita precaria prolungata e la sua revoca, ben come dei ricorsi riferiti al n.3, dell'art. 23” (48). Fuori dubbio è invece la possibilità di ricorrere contro l'ordinanza che revochi il beneficio; in caso di ricorso, il tribunale competente è il Tribunal de relaçao (In Italia, la corte d'appello) dello stesso distretto del TEP interessato.

Nella decisione n.321/93 del 5/5/93, (49) Il TC giudica non incostituzionale la norma prevista nell'art. 127, del decreto lei 783/76. Oggetto della questione di legittimità era la libertà condizionale facoltativa. (50) Le motivazioni di questa decisione sono ravvisate nel fatto che il principio del diritto a ricorrere contro decisioni dell'autorità giudiziale “non è assoluto, lo stesso [valga] in materia penale.” La Corte richiama esplicitamente tre precedenti decisioni dello stesso Tribunale, per giustificare la propria posizione. La 31/87, nella parte in cui prevede che la “facoltà di ricorrere sia ristretta o limitata in certe fasi del processo e che, relativamente a certi atti del giudice, possa anche non esistere, quando non attinga al contenuto essenziale della stessa facoltà, ossia, il diritto alla difesa dell'indagato”. Oggetto di questa decisione era la questione di legittimità di una norma del CP del 1929, (51) che precludeva la possibilità di ricorrere avverso l'ordinanza che designa il giorno del giudizio nel processo “correzionale”, allorquando il p.m. non abbia dedotto l'accusa. Il richiamo a questa decisione è “illegittimo”, (52) in quanto detta decisione è interlocutoria e non comporta conseguenze immediate a discapito della libertà dell'indagato. “L'illegittimità” riguarda anche la seconda decisione richiamata, la 259/88: non è giudicata incostituzionale la norma (53) che dispone che il decreto che contenga l'accusa del crimine di emissione di assegno senza provvista non è suscettibile di ricorso potendo, comunque, essere impugnato nel ricorso, che venga ad essere interposto, della decisione finale. Aldilà del “parallelismo discutibile” (54) tra la decisione qui presa in analisi e le due decisioni ivi richiamate, da sottolineare è che in queste ultime viene affermato anche che il diritto alla difesa impone che si “preveda il ricorso degli atti giudiziali che, durante il processo abbiano come effetto la privazione o la restrizione della libertà o di altri diritti fondamentali dell'indagato”. Si potrebbe dire, sulla punta della penna, che il richiamo a queste sentenze sarebbe parso più opportuno se la Corte avesse legittimato il diritto di ricorrere ad atti che hanno come effetto immediato quello di mantenere in vita la privazione della libertà.

Anche il terzo rimando, alla 211/93, è opinabile: è giudicata non incostituzionale la norma dell'art. 74, codice del processo del lavoro, che subordina il ricorso delle decisioni giudiziali, in materia di lavoro, al valore della causa. In questo caso, il parametro costituzionale di riferimento non è il diritto alla difesa, (55) ma il diritto di accesso ai Tribunali consacrato dall'art. 20, n.1 CRP.

Di conseguenza, sarebbe auspicabile che la Corte prestasse attenzione alle parole di Gomes Canotilho e Vital Moreira, i quali affermano che, tra le garanzie di difesa, “la protezione contro atti giurisdizionali assume un'importanza autonoma e rilievo speciale, visto che sono in causa gli stessi Giudici e Tribunali, cioè, gli organi costituzionalmente abilitati a difendere e a garantire i diritti e gli interessi legittimi dei cittadini”. (56) A questo si aggiunga che la difesa contro atti giurisdizionali “solo puo' spettare ad un altro tribunale, con il potere di revocare la decisione offensiva dei diritti [...] è da qui che il diritto di ricorso per un Tribunale superiore deve essere visto come uno delle più importanti garanzie costituzionali”. (57) Si auspica quindi, che l'atteggiamento del Giudice delle leggi muti in un futuro quanto più prossimo, anche alla luce della riformulazione dell'art. 32 CRP, avvenuta in occasione della revisione del 1997 della Carta Fondamentale, che al primo comma ha aggiunto alla preesistente previsione “Il processo penale assicura tutte le garanzie di difesa”, la specifica garanzia del ricorso.

Bisogna porre attenzione al fatto che, la possibilità di ricorrere avverso la mancata concessione della libertà condizionale è l'unico rimedio, l'unica arma di difesa, contro una decisione eventualmente infondata; negare al ristretto quest'ultima arma vuol dire “non solo restringere le garanzie della difesa, ma pure e semplicemente annullare il diritto di difesa.” (58) Il bene costituzionalmente rilevante, offeso dalla norma in questione è, oltre ad altri, il diritto alla libertà. Il diritto al riesame è espressione dello Stato di diritto, e forse, consacrare sul piano normativo il diritto di ricorrere a chi si veda negata la concessione della libertà condizionale è corollario dello Stato sociale di diritto, in altre parole, la promessa dello Stato di impegnarsi nel rimuovere iniquità e impedimenti nell'attuazione dell'eguaglianza sostanziale, nelle situazioni dove detti ostacoli attecchiscono con maggiore facilità - come, normalmente, avviene nelle istituzioni totali carcerarie.

È pur vero che la decisione del TEP non è definitiva, in quanto è prevista una rivalutazione dei requisiti; (59) è pur vero che un'eventuale richiesta, e, nel caso, l'accoglimento di una domanda di habeas corpus rimetterebbe il condannato in libertà ed obbligherebbe lo stato ad indennizzare la vittima dell'ulteriore, illegittimo prolungamento della restrizione nella libertà. Ma si tratta, tuttavia, di riparazioni, eventuali, e, comunque, successive.

Abbiamo fin qui trattato della libertà condizionale facoltativa. Dubbi ancora più forti riguardano la previsione dell'impossibilità di ricorrere avverso l'ordinanza che neghi al libertà condizionale c.d. obbligatoria. L'istituto è previsto dall'art. 61, n.5 CP, dove è statuito che, chi è condannato ad una pena maggiore di sei anni, usufruisce della libertà condizionale una volta scontati i 5/6 della pena (la stessa previsione riguarda la pena relativamente indeterminata). Questa modalità dell'esecuzione è destinata a facilitare il reinserimento sociale del ristretto. La ratio della norma in esame, secondo gli atti preparatori della riforma del CP del '95 (60) è da ravvisarsi nella necessità di permettere una graduale reinserimento del ristretto alla piena libertà e, di evitare gli effetti nocivi di un allontanamento prolungato dalla vita in libertà, effetto presumibilmente tipico delle condanne a pene lunghe. La concessione di detta misura dipende dal consenso del condannato e non esige la verifica dei presupposti formali e soggettivi propri della l.c. facoltativa. (61) L'automatismo della misura, tuttavia, non esclude il previo intervento del Juiz del TEP competente, ai sensi della disposizione dell'art. 22, n.8 del vetusto decreto lei 783/76.

Nella decisione 370/2000 (62) il TC, incidentalmente, dichiara l'impossibilità di ricorrere avverso l'ordinanza che non concede la liberazione condizionale obbligatoria. Oggetto della decisione della Corte è l'incostituzionalità della interpretazione, fatta propria dal STJ, del combinato disposto degli art. 61, n.5 CP e dell'art. 222, n.1e 2 CPP, (63) ovvero, il mancato riconoscimento della domanda di habeas corpus di un ristretto che si era vista negare dal TEP il beneficio della libertà condizionale obbligatoria. (64) La motivazione addotta dal STJ è che la mancata interposizione del ricorso contro la decisione del TEP, che è “questione a fondamento della richiesta di applicazione della garanzia dell'habeas corpus, preclude irrimediabilmente la possibilità di richiedere detta garanzia”.

Orbene. A giusto titolo, la Corte Costituzionale portoghese confuta detta interpretazione proprio perché quest'ultima parte dall'idea che “la carcerazione del ricorrente, solo potrebbe essere giudicata illegale, per eccedere i 5/6 della pena, se lo stesso avesse interposto ricorso alla decisione del giudice del TEP, che la stessa legge dice essere non passibile di ricorso e che, come tale, è stata considerata dalla giurisprudenza, senza meritare censura costituzionale; e, poi, giustamente perché non oppose ricorso, la sua carcerazione è considerata compimento di pena - e, così, come carcerazione non illegale.” La Corte sancisce l'incostituzionalità dell'interpretazione fatta propria dal STJ, in quanto in contrasto con il n.1 dell'art. 31CRP.

La Corte, dunque rivaluta l'habeas corpus come misura di carattere eccezionale, destinata a proteggere la libertà individuale, nei casi in cui non si abbia altro mezzo legale per far cessare una (eventuale) offesa illegittima a detta libertà.

Rebus sic stantibus, l'apprezzamento della Corte, sembra plausibile, anzi, è salutato dal plauso di quella dottrina portoghese contraria all'atteggiamento costante della giurisprudenza del Supremo Tribunale, che, difficilmente concede detta garanzia, essendo estremamente esigente quanto alla verifica dei presupposti. (65)

Questa decisione, tuttavia, e ai fini che qui interessa, sancisce, ancora una volta, l'impossibilità di ricorrere avverso la decisione che neghi la libertà condizionale, e richiama esplicitamente la norma dell'art. 127 del vetusto decreto lei 783/76 che in tal senso dispone.

Per fortuna, il STJ, in alcune decisioni successive al 2000, assume una posizione - contraria a quella del TC - che afferma il diritto del ristretto a ricorrere contro la mancata concessione della libertà condizionale obbligatoria.

Nella sentenza 1569/02 del 24/4/2002, il STJ osserva giustamente che “Quell'art. 127 [decreto-lei 783/76], dovrà essere combinato con il disposto dell'art. 399 CPP, che prescrive la possibilità di ricorrere avverso tutte le decisioni proferite nell'ambito del codice, e che lo stesso non dichiari non passibili di ricorso (400 CPP), il che non è il caso della concessione o negazione della libertà condizionale.” (66) Abbiamo già visto che, la libertà condizionale obbligatoria è “dettagliatamente” disciplinata nel CPP negli articoli 484,485,486 (in particolare, si prevede un obbligo di notifica della decisione al condannato). Se a ciò si aggiunge il fatto che detta decisione non è compresa nella tassativa elencazione ex art. 400CPP, dovrebbe essere naturale concludere per la possibilità di ricorrere contro la decisione del giudice del TEP inerente la libertà condizionale obbligatoria e, la conseguente tacita abrogazione dell'art. 27 decreto lei 783/79. La sentenza del STJ n. 1569/02 del 24/4/2002 è richiamata esplicitamente nella decisione n.2702/03 del 3/7/2003 (67) dello stesso Tribunale dove si aggiunge che, detta interpretazione, non collide con la decisione 321/73 del TC (analizzata all'inizio del paragrafo), in quanto quest'ultima riguarda la mancata concessione della libertà condizionale facoltativa (mentre nei due ultimi giudizi del STJ ora richiamati, è bene ribadirlo, oggetto della decisione è la libertà condizionale obbligatoria) ed è stata adottata dal TC prima della revisione costituzionale (1997) dell'art. 32, n. 1 (vedi sopra).

La giurisprudenza del STJ, quindi, consacra la possibilità di ricorrere, quantomeno, avverso l'ordinanza che dinieghi la libertà condizionale obbligatoria.

Ma non è tutt'oro ciò che luccica. Ed infatti, in entrambi le decisioni per ultimo citate, non viene concessa né la liberazione condizionale, né l'habeas corpus. E ciò perché i ricorrenti non hanno scontato i 5/6 della pena ininterrottamente, in quanto non sono rientrati a seguito di una “uscita precaria” e sono stati successivamente ricatturati. E pure, l'art. 61 n.5 non fa riferimento alcuno alla pena eseguita ininterrottamente, anzi, definisce questo istituto come “obbligatorio” per sottolineare che non devono essere verificati ulteriori requisiti oltre l'esecuzione dei 5/6 della pena. Vi è da aggiungere, come già detto, però, che la ratio di questa norma, secondo gli Atti della Commisao Revisora del CP del 1995, è da rivelarsi nel prolungato disadattamento alla vita in libertà. Potrebbe non ravvisarsi tale disadattamento nei casi delle due decisioni per ultimo analizzate, dove gli imputati si sono assentati illegittimamente per più di un mese. Ma se l'assenza riguardasse un solo giorno e, ad es., il reo si presentasse spontaneamente alle forze dell'ordine presentando un giustificato motivo del ritardo, quale dovrebbe essere la conseguenza? Di certo, non potrebbe affermarsi che il disadattamento alla vita in libertà sia venuto meno per un solo giorno in più in libertà.. Quel che qui s'intende criticare è l'assenza di una norma che chiarisca quando il beneficio ex art. 61 n.5 sia effettivamente operante, e le ipotesi tassative che comportino la decadenza da tale beneficio. D'altronde, un ristretto, non è tenuto a conoscere gli atti preparatori di una legge, né, in concreto, la stragrande maggioranza delle volte, li conosce. La certezza della pena è quindi svilita, perché, stando al tenore letterale della norma, si parla di beneficio “obbligatorio”, e nessun riferimento è fatto alla continuità o meno dell'esecuzione dei 5/6 della pena. Non è poi detto che chi evada non abbia problemi di disadattamento alla vita in libertà. Quindi, l'unica ratio che potrebbe essere invocata - nel prevedere l'obbligo della continuità dell'esecuzione dei 5/6 della pena al fine di usufruire dell'istituto ex art. 61, n.5 CP - potrebbe essere ravvisata nella forza deterrente della “minaccia” normativa di non concedere il beneficio a chi non rientri da un uscita precaria, senza giustificato motivo.

Sembra ora opportuno approfondire l'ultima sentenza richiamata, del 3/7/2003: l'analisi di questa decisione permetterà anche di verificare, analiticamente, la posizione del Supremo Tribunale riguardo al controllo nel merito dell'ordinanza del TEP che non concede la libertà condizionale obbligatoria, e la ratio di questo beneficio.

Oggetto della decisione è una richiesta di habeas corpus di un soggetto che ha compiuto i 5/6 della pena (non ininterrottamente, ribadiamo, in quanto non è rientrato da un permesso precario di uscita, ed è stato arrestato 35 giorni dopo), e si è visto rifiutare la concessione del beneficio della libertà condizionale da parte del giudice del TEP due volte: il 18 dicembre 2000 e il 1 febbraio 2002; (68) nel primo caso il giudice dell'esecuzione motiva la scelta a causa della condotta del condannato, ma, soprattutto, per la interruzione volontaria (evasione) della misura privativa della libertà e la conseguente non realizzazione, a suo avviso, dei presupposti ex art. 61.5; nella seconda decisione, viene negato il beneficio perché non si ritengono verificati i presupposti generali, senza nessun riferimento ai 5/6 della pena; in questo secondo caso, quindi, ciò che viene negata è la liberazione condizionale facoltativa.

Il Supremo Tribunale afferma, anzitutto, che la detenzione è legale in quanto discende da una sentenza passata in giudicato, ossia, la sentenza emanata dal Tribunale di condanna che ha determinato il nuovo computo della pena da eseguire, a seguito del nuovo arresto; proprio per questa ragione, conclude affermando che si è al di fuori della possibilità di promuovere l'habeas corpus. Non entra nel merito della decisione del TEP e aggiunge “non può motivare una richiesta di habeas corpus, la restituzione della libertà del recluso che abbia concluso i 5/6 di pena superiore ai sei anni. La funzione del STJ nel verificare domande di habeas corpus consiste, nel dominio della legalità, nel verificare se la carcerazione ha una sua legalità assicurata da chi di diritto, ed è compiuta nei limiti di questa decisione. Ora, è al TEP che spetta concedere o non la libertà condizionale. D'altronde, l'interpretazione del TEP dell'art. 61 n.5 è che i 5/6 della pena siano compiuti ininterrottamente, poiché il fondamento della libertà condizionale obbligatoria lì prevista è da ravvisarsi nell'allontanamento prolungato dalla comunità alla quale il condannato stava soggetto e per dare risposta alle situazioni di disadattamento alla vita in libertà, originate da pene molto lunghe”. La conclusione è che, essendoci stata un'interruzione nell'esecuzione, la concessione del beneficio diviene facoltativa. “Non spetta a questo Tribunale discutere del merito di questa interpretazione, ma solo constatare che non c'è abuso di potere o violazione flagrante o ostativa della legge.”

Questa decisione, quindi, attribuisce piena libertà al giudice del TEP nel concedere o meno il beneficio ex art. 61, n.5 CP: potrà esserci un giudice dell'esecuzione che non dia rilevanza all'interruzione volontaria della restrizione, in quanto la parola ininterrottamente, non compare nel testo della legge, ma solo negli atti preparatori della riforma del CP del '95; potrà esservi un altro 'juiz' del TEP, che interpreterà restrittivamente la norma in questione, suffragata dagli atti preparatori e dalla giurisprudenza del TSJ, e, non concederà il beneficio, ad es., anche a chi è rientrato in ritardo da un uscita precaria dopo solo 24 ore. Fatto sta che, a prescindere da quale tesi sia più rispondente a ragioni di giustizia sostanziale, l'eguaglianza (oltre che la certezza) nell'applicazione della legge e lungi dall'essere raggiunta.

La prassi giurisprudenziale della Suprema Corte è nel senso di non entrare nel merito della decisione del TEP nel computo dei 5/6 della pena ai fini della concessione del beneficio. Normalmente però, come avviene nelle ultime due decisioni richiamate, almeno implicitamente, il TSJ consacra la posizione giurisprudenziale dominante dei giudici del TEP, ravvisando che, una volta che il soggetto non rientri da un uscita precaria, cade la ratio dell'obbligatorietà della liberazione condizionale ex art. 61 n.5. Ma esiste una sentenza, seppur isolata, in cui detta prassi viene ribaltata: la n.2042/03, del 23/5/2003: (69) “Non contemplando la legge l'interruzione del compimento della pena come fondamento per la concessione della libertà condizionale nei termini degli art. 61, n.5 e 62, n.3 CP, non può il TEP considerare impeditivi di tale libertà la circostanza che il recluso sia stato illegittimamente assente dall'istituto di pena durante un periodo di tempo. Compiuti i 5/6 di pena, il recluso deve obbligatoriamente essere rimesso in libertà condizionale. La rilevanza di quest'aspetto del suo comportamento durante l'esecuzione della pena, penalizzandolo, solo rileverà ai fini della concessione della libertà condizionale facoltativa”. Il Supremo Tribunale si dichiara incompetente nel concedere la libertà provvisoria. “Tale difficoltà non può, tuttavia, ostacolare la liberazione dell'imputato” essendo sufficiente determinare che il TEP provveda alla liberazione immediata del richiedente, “che sarà posto in libertà condizionale, fissando il rispettivo regime nei termini dell'art. 63 CP”. Nella decisione analizzata, l'assenza illegittima del ricorrente è di 3 mesi e 9 giorni: il periodo è maggiore di quello riferito nella decisione precedentemente analizzata (n.2702/03, dove il nuovo arresto avviene dopo 35 giorni dal mancato rientro). Questo dato drammatizza ulteriormente l'iniquità di trattamento che scaturisce da prassi giurisprudenziali non uniformi, frutto di una legislazione (ma anche di una giurisprudenza) frammentaria, episodica, e non coordinata. A ciò si aggiunga che vi sono nuove decisioni del STJ, successive all'ultima analizzata che ripropongono la tesi dominante. (70) La soluzione del problema non può non provenire da un intervento del legislatore; ma non soltanto chiarendo definitivamente, alla luce del nuovo CPP, la possibilità di ricorrere avverso l'ordinanza di diniego del beneficio della liberazione condizionale obbligatoria (ma, per la tesi esposta all'inizio del paragrafo, anche di quella facoltativa) o chiarendo quando tale beneficio sia effettivamente obbligatorio. Si auspica che la riforma sia globale e riguardi l'intera esecuzione penale, nel senso di estendere la tutela giurisdizionale all'intera vicenda esecutiva della pena, al fine di evitare che l'ordinamento penitenziario sia un quid, un'istituzione estranea alle garanzie consacrate della Legge Fondamentale e proprie di uno Stato Costituzionale di Diritto.

4.2.3. Misure disciplinari e mancata tutela giurisdizionale

In questo paragrafo saranno analizzati preliminarmente i titoli XIII e XIV (dedicati, rispettivamente, alle misure disciplinari il primo, al diritto di rimostranza, di denuncia e d'interposizione di ricorso il secondo) del decreto-lei 265/79, per poi passare all'indagine specifica dell'intervento giurisdizionale del TEP allorquando il Direttore dell'istituto commini la misura disciplinare dell'internamento in cella di isolamento.

Il Titolo XIII si apre con l'art. 128, disposizione che prescrive i presupposti dell'applicazione delle misure disciplinari: “Se il recluso infrange con colpa i doveri che gli sono imposti o che risultano dalla legge possono essere adottate misure disciplinari. Non sono applicate tali misure quando sia sufficiente il semplice rimprovero.” (71) L'art. 130 prescrive il rispetto del principio di proporzionalità (rispetto la gravità dell'infrazione, la condotta e la personalità del recluso) nell'applicazione delle sanzioni disciplinari; al n.2 dello stesso articolo, è prevista una norma di chiusura, diretta emanazione del principio di dignità umana, dove è prescritto che dette misure non possono mai essere applicate “in modo da compromettere la salute del recluso”. Si passa quindi alla regolamentazione del processo disciplinare. (72) L'art. 131 sancisce: nessun recluso puo' essere punito senza essere informato dell'infrazione oggetto dell'accusa (n.1), “il direttore, prima di applicare una misura disciplinare, deve ascoltare il recluso, per iscritto” (73) (n.2), “nel caso delle infrazioni più gravi, il direttore deve ascoltare le persone che collaborano al trattamento del recluso” (n.3), “il direttore, quando lo giudichi conveniente, puo' ascoltare il consiglio tecnico e ordinare di procedere a investigazioni” (n.4), “la decisione che ordina l'applicazione di misure disciplinari sarà comunicata oralmente dal direttore al recluso, e sarà trascritta e accompagnata dalle motivazioni” (74) (n.5).

L'art. 132 prospetta quale siano le fattispecie sanzionabili:

Le misure disciplinari sono applicate, in generale, e senza pregiudizio di quanto disposto dall'art. 128, a tutti i detenuti la cui condotta sia contraria all'ordine e alla disciplina dell'istituto e ai fini tenuti in vista nell'esecuzione della misura privativa della libertà, ben come ai reclusi che siano dichiarati responsabili, specificamente per:

  1. negligenza nella pulizia e nell'ordine della propria persona e del proprio alloggio;
  2. abbandono ingiustificato del luogo al quale gli stessi erano stati destinati
  3. inadempimento volontario di obbligazioni lavorative
  4. condotta nociva a discapito dei compagni
  5. linguaggio ingiurioso
  6. giochi e altre attività simili non consentite dal regolamento interno, o per le quali il recluso non sia stato autorizzato
  7. simulazione di malattie
  8. possesso o traffico di soldi o oggetti non consentiti
  9. comunicazione fraudolenta con l'esteriore o, in caso di isolamento, con l'interiore
  10. atti osceni o contrari al decoro
  11. intimidazione dei compagni o abuso grave a discapito degli stessi
  12. appropriazione, o danno dei beni dell'amministrazione
  13. condotta offensiva contro il direttore, funzionari o altre persone che entrino nell'istituto, sia in virtù delle funzioni esplicate, sia ai fini di visita
  14. inosservanza agli ordini ricevuti o ritardo ingiustificato nel loro compimento
  15. istigazione e partecipazione in disordini, rivolte e insurrezioni
  16. contratti non autorizzati dal direttore con altri reclusi, funzionari, o persone estranee all'istituto
  17. evasione
  18. fatti previsti dalla legge come reato.

L'art. 133 contiene un elenco tassativo delle sanzioni irrogabili:

  1. rimprovero
  2. perdita parziale o totale delle concessioni fatte
  3. privazione della ricreazione e degli spettacoli per un periodo non superiore ai due mesi
  4. proibizione di bere vino e birra per un periodo non superiore ai tre mesi
  5. proibizione di disporre del fondo disponibile per conto proprio per un tempo non superiore ai tre mesi
  6. conversione del fondo disponibile in fondo di riserva per un tempo non superiore ai tre mesi
  7. perdita del denaro o di altre cose in suo possesso in contravvenzione con le norme regolamentari, (75) dandosene la destinazione che dette norme prescriveranno
  8. internamento in cella individuale fino ad un mese
  9. internamento in cella disciplinare fino ad un mese. (76)
  1. Il denaro e le cose riferite alla linea g) del numero anteriore non sono perse sempre che il recluso dimostri la legittimità della loro provenienza, che non siano destinate a fini illeciti, la loro detenzione costituisca mera infrazione formale di disciplina.
  2. I reclusi in compimento delle misure disciplinari previste alle lettere h) e i), n.1, possono presentare superiormente, per iscritto, le loro pretese e rimostranze.
  3. Sono proibite le sanzioni collettive, ma il direttore potrà determinare alterazioni al regime dell'istituto quando non possano essere individuati gli autori delle infrazioni disciplinari che pongano a rischio la manutenzione dell'ordine e della disciplina relativamente ad un gruppo di reclusi, o se sarà questo il caso, a tutta la popolazione reclusa nell'istituto. (77)

L'art. 134, in maniera rigorosa, determina le caratteristiche della cella disciplinare. (78) L'art. 135 chiarisce che l'applicazione di sanzioni non impedisce ai funzionari dei servizi penitenziari di poter “orientare il recluso in ordine al suo reinserimento sociale.”

L'art. 136 attribuisce la competenza in materia disciplinare al Direttore dell'istituto.

E' quindi disciplinato l'intervento del medico nell'art. 137: “Prima di eseguire una misura disciplinare e quando la sua natura lo giustifichi, il recluso è sottoposto a visita medica. I reclusi sottoposti alle misure disciplinari riferite alle lettere h) e i) sono sotto controllo medico rigoroso, dovendo essere osservati quotidianamente dal medico, quando questi lo ritenga opportuno. Considerando il pericolo per la salute, l'integrità fisica e morale del recluso, il medico può proporre al direttore, con relazione motivata, che la sanzione sia interrotta, o non vi sia data esecuzione sostituendola con un'altra. Il medico deve essere sempre ascoltato quando, al momento dell'applicazione di una sanzione, il recluso si trovi sotto osservazione medica o, se si tratta di donna incinta, nel periodo di allattamento o dopo l'interruzione della gravidanza. Il recluso in compimento delle sanzioni cui si riferisce il n.2 [internamento], potrà ricevere, con la frequenza considerata indispensabile dal direttore, la visita di altri funzionari, in particolare dei servizi dell'educazione e dell'assistenza sociale. Quando il direttore l'autorizzi, i reclusi in compimento delle sanzioni riferite al n.2 possono ricevere le visite dei familiari, del proprio avvocato e del ministro di culto.”

Prima di passare all'analisi del Titolo XIV, sembra opportuno spendere qualche parola in più sul regime disciplinare. Tale analisi ci permetterà di dimostrare, ancora una volta, l'aspetto forse più drammatico dell'istituzione penitenziaria, ossia, la sua caratteristica 'fisiologica' (genetica?) di sistema totale, al tempo stesso assorbente -nel senso che annienta il diritto alla volontaria adesione del ristretto (principio di autodeterminazione e correlativo principio di tolleranza) alle regole (minuziose, a volta extra ordem) penitenziarie -e impermeabile al mondo (libero ed) esteriore.

A questo proposito, su un piano comparativo, è utile rammentare, preliminarmente, che anche in Italia il 'regime disciplinare' costitutisce un aspetto del trattamento in quanto è diretto a stimolare il senso di responsabilità e la capacità di autocontrollo del soggetto. (79) I destinatari del regime -nel cui novero si ricomprende anche quello disciplinare: art. 36 ss. -sono dunque tutti i detenuti, a prescindere dalla loro posizione processuale e dalle conseguenti statuizioni sul versante della presunzione di non colpevolezza degli imputati di cui all'art. 27, n.2 della Cost.

In riferimento a ciò, preme sottolineare come vi sia una sorta di pedagogia autoritaria nei confronti dei detenuti - finanche di quelli in attesa di giudizio - cui, ai sensi dell'art, 36, si cerca di stimolare il senso di responsabilità e la capacità di autocontrollo rispetto alla trasgressione di regole esterne -e per certi versi derogatorie -rispetto a quelle che regolano la vita nella società libera.

Si pensi, tanto per fare un esempio, alla sanzione disciplinare comminabile per la negligenza nella cura della camera e della persona: esiste sia nell'ordinamento italiano sia in quello portoghese. Ma qual è il parametro di valutazione dell'ordine e della diligenza nella cura, se il sovraffollamento ed il caos penitenziario creano solo dis-ordine? E, a maggior ragione, quale parametro potrà mai essere adottato per configurare il tentativo di tale infrazione? In altre parole, come si fa a percepire in un contesto contraddittorio e 'totale' come il carcere quali sono gli 'atti idonei diretti in modo non equivoco'?

Continuando la comparazione a margine, si può osservare che le fattispecie di cui all'art. 132 del decreto -lei 265/1979, coincidono sostanzialmente con quelle italiane, anche se determinate ipotesi portoghesi rientrano nel novero di quelle contemplate dall'art. 14 bis della legge 354/75- L'art. 132 della legge penitenziaria portoghese coincide quindi, a grandi linee, all'art. 77 del dpr 230/2000. La presenza di quest'ultima norma nel regolamento di esecuzione si giustifica per la espressa previsione contenuta nell'art. 38, n.1 della 354/75 in cui sembrerebbero affermati i principi di legalità e tassatività delle fattispecie. Il condizionale è però d'obbligo, perché la loro portata garantistica è svilita dalla riserva di regolamento -emanato dall'esecutivo - e non di legge in senso stretto quale espressione della volontà popolare in ambito parlamentare -. A ciò si aggiunga il rilievo che alcuni illeciti disciplinari, pur essendo previsti dalla legge in senso stretto, peccano di genericità (es. il ritardo ingiustificato nel rientro del semilibero lascia ampia discrezionalità nella valutazione delle giustificazioni); infine, si osservi la 'genericità' del regolamento esecutivo del 2000 là dove le fattispecie sanzionabili in esso contemplate consentono di ricondurvi (sussumervi in senso tecnico) fatti e condotte non espressamente tipizzati.

Un ultima annotazione va fatta riguardo il procedimento de plano del Direttore (e l'eventuale intervento de plano del Magistrato di Sorveglianza) sulle decisioni inerenti condotte sanzionabili. In Italia -in maniera simile anche in Portogallo -l'atto d'impulso è rappresentato dal rapporto circostanziato redatto da un operatore penitenziario (generalmente un addetto alla custodia) al direttore dell'istituto (suo superiore gerarchico nonché giudice nel procedimento per la valutazione dei fatti, ad es., violazione delle disposizioni da lui emanate per regolare la vita penitenziaria); il direttore, ricevuto il rapporto, contesta l'addebito alla presenza del comandante degli agenti penitenziari e avverte l'accusato del diritto ad esporre le proprie discolpe - fino a prima dell'emanazione del dpr 230/2000 il regolamento di esecuzione faceva riferimento ad una facoltà con buona pace dei principi costituzionali di cui all'art. 24 -. Ma a prescindere dalla qualificazione giuridica il diritto alla difesa è comunque compromesso perché il soggetto non ha le necessarie cognizioni tecnico -giuridiche, né tantomeno una adeguata assistenza tecnica per la comprensione del procedimento.

Il direttore, poi, può svolgere o far svolgere accertamenti sul fatto. Insomma si fa un suo bel pre -giudizio e decide se giudicarlo lui, ovvero demandare la valutazione dei fatti ad un organo collegiale, il Consiglio di disciplina, di cui è presidente.

Durante l'udienza l'accusato ha la facoltà di essere sentito ma la mancata terzietà dell'organo deliberante vulnera la genuinità e le garanzie del procedimento.

La deliberazione della sanzione, stando alla lettera della legge, dovrebbe avvenire secondo criteri di proporzionalità ed adeguatezza rispetto al fatto oggetto di valutazione.

Il procedimento disciplinare si è esaurito ma i suoi effetti non ancora: ad es., la condotta del detenuto, così come valutata dall'organo giudicante, rileva ai fini della concessione dei 45 gg a semestre di liberazione anticipata. Dalla comparazione a margine sulle misure disciplinari, possono, a mio avviso, evincersi le seguenti conclusioni, comuni sia all'ordinamento italiano che a quello portoghese: il sistema penitenziario si caratterizza per un regime disciplinare prevalentemente derogatorio alle regole della vita libera; le condotte sanzionabili non garantiscono la certezza della pena; il procedimento amministrativo e l'esecuzione della sanzione non sono assistiti da nessuna delle garanzie giurisdizionali. In altre parole, il regime penitenziario è, per troppi versi, un regime extra costituzionale.

Ritorniamo alla legge penitenziaria portoghese, per passare all'analisi del Titolo XIV: “Diritto di rimostranza, di denuncia e d'interposizione di ricorso.”

L'art. 138, n.1, recita: “I reclusi possono rivolgersi, per esporre osservazioni nel loro interesse o per denunciare qualche ordine illegittimo: al direttore dell'istituto; ai funzionari dell'istituto; agli ispettori dei servizi penitenziari”. Al n.2 viene fatto un rimando al regolamento interno per disciplinare le modalità formali della presentazione delle osservazioni e delle denuncie ai funzionari; al n.3 si statuisce che sono gli ispettori a determinare le modalità in cui verranno recepite le osservazioni o le denunce dei ristretti. (80)

Si passa ora alla disciplina dell'intervento del magistrato del tribunale dell'esecuzione delle pene (TEP).

L'art. 139 recita: “Durante le visite che il Giudice dell'esecuzione delle pene, ai sensi dell'art. 23 del decreto-lei 783/76, del 29 Aprile, deve fare, almeno mensilmente, agli istituti, i detenuti in via preventiva e i condannati che, a questo fine, si siano iscritti nell'apposito libro, possono presentare a quel magistrato le loro pretese. Il Giudice del TEP deve cercare di risolvere le pretese riferite nel numero anteriore d'accordo con il Direttore dell'istituto. Quando non vi sia accordo tra Giudice e Direttore, la questione sarà esaminata dal consiglio tecnico dell'istituto (81) che risolverà per maggioranza. Il consiglio tecnico riferito nel numero anteriore, sarà presieduto dal Magistrato del TEP, (82) ma con voto meramente paritario. Delle deliberazioni del consiglio tecnico qualcuno dei membri può interporre ricorso, con effetto sospensivo, al Ministro de Justiça.”

L'art. 140 prescrive che durante il consiglio tecnico riferito nel numero anteriore possono essere ascoltati i funzionari o altre persone che il Giudice determini. Al recluso è notificata la deliberazione che lo riguardi nel termine di 10 giorni (art. 141). Gli atti delle sessioni del consiglio tecnico sono raccolti in un apposito libro (art. 142).

Art. 143: “Il recluso cui sia stata applicata la sanzione dell'internamento in cella disciplinare per un tempo superiore agli otto giorni può dichiarare di voler ricorrere al Giudice del TEP, oralmente o per iscritto, nei due giorni successivi alla notifica della sanzione. Dell'interposizione del ricorso è redatto documento dove il recluso può aggiungere l'esposizione dei motivi a fondamento delle proprie ragioni”. Art. 144: “il ricorso ha effetto sospensivo a partire dall'ottavo giorno, se fino a quel momento non sia stato apprezzato.”. Art. 145: “L'interposizione del ricorso è, in seguito, comunicata d'ufficio al giudice del TEP. La segreteria del Giudice esegue l'ufficio e fa processo conclusivo al Giudice, il quale convoca il consiglio tecnico dell'istituto e delibera l'audizione del ricorrente entro le quarantotto ore seguenti. Il consiglio tecnico riferito nel numero anteriore ha funzioni meramente consultive ed è presieduto dal giudice.” Art. 146: “Il giudice può determinare che l'audizione del recluso sia fatta solamente in sua presenza.” Art. 147: “Il giudice può confermare, ridurre o annullare la sanzione oggetto del ricorso”. L'art. 148 sancisce che la decisione può essere proferita oralmente, ma dovrà essere trascritta nel termine di ventiquattro ore; è previsto l'obbligo di notificare la decisone al recluso e di consegnare una copia del provvedimento al Direttore dell'istituto. Art. 149: “Non è consentito il ricorso delle decisioni del giudice che confermano o alterano le sanzioni disciplinari.”

L'art. 150 prevede la possibilità di presentare, singolarmente o collettivamente, agli organi di potere o a qualsiasi autorità, petizioni, denunce o pretese volte alla tutela dei diritti dei detenuti, al rispetto della Costituzione o della legge. L'art. 151, infine, prevede la possibilità di ricorrere alla Corte Europea, rimandando agli art. 25 e ss. della CEDU.

Questa la disciplina sulla carta, che conferma la connotazione semi-giurisdizionale (83) dell'esecuzione penale portoghese. Infatti, per quanto concerne le misure disciplinari, come visto, tranne che in una sola ipotesi, tutte le decisioni sono adottate de plano dal Direttore dell'istituto, con intervento discrezionale del giudice del TEP. La semi-giurisdizionalità riguarda il solo internamento in cella disciplinare superiore agli otto giorni; è una tutela eventuale, in quanto dipende dalla denuncia del sanzionato; il ricorrente non è assistito dall'avvocato ed è ascoltato dal Giudice (organo terzo ed imparziale) solo nell'eventualità che questi così disponga; la decisione del giudice non è ulteriormente ricorribile.

Non mancano, però, posizioni giurisprudenziali e dottrinali volte ad estendere la tutela giurisdizionale a favore del ristretto quantomeno in quelle ipotesi (internamento in cella individuale, disciplinare e di sicurezza) in cui la restrizione ulteriore della libertà del recluso necessità di maggiori garanzie.

A questo proposito, si propone, di seguito, un'analisi della sentenza della Corte Costituzionale (TC) n.161/95 (84) che ha ad oggetto la questione di legittimità sollevata riguardo la disposizione del decreto-lei 265/79, art. 132 lettera r), ossia, la possibilità del Direttore di infliggere una sanzione disciplinare alla mera dichiarazione del recluso come responsabile per fatti previsti dalla legge come reato, senza che la responsabilità criminale sia stata accertata nel rispettivo processo penale. In sintesi, i fatti sono i seguenti: il soggetto A viene sanzionato con l'internamento in cella disciplinare per aver aggredito un altro recluso e aver procurato il ricovero in ospedale dello stesso. Il recluso, ai sensi dell'art. 143, interpone ricorso al TEP. Il giudice, dopo l'audizione del ricorrente, conferma la sanzione, e rimette gli atti al p.m. competente per l'esercizio dell'azione penale.

Il Pubblico Ministero del TEP ricorre per il TC sollevando la questione di legittimità dell'art. 132, lettera r, in relazione all'art. 32, n.2 (85) e 4, (86) CRP. Anche la difesa del recluso presenta ricorso alla Corte, ponendo la tesi di incostituzionalità della norma in esame anche nei confronti del principio del ne bis in idem (art. 29, n.5 CRP). Il TC rigetta la questione, statuendo che “Le garanzie del processo penale, previste nell'art. 32, n.2 e 4, CRP, non sono direttamente applicabili al processo disciplinare, limitandosi, quanto a questo, la Costituzione a prescrivere che siano garantite all'indagato l'audizione e il diritto alla difesa (art. 269, n.3)”. (87)

Il Tribunale giustifica tale posizione, sulla base delle seguenti considerazioni: l'illecito disciplinare è distinto dall'illecito penale, (88) in quanto tutelano beni giuridici diversi, per cui la duplice responsabilità, e “la considerazione autonoma della responsabilità disciplinare -anche prima del giudicato penale - e la successiva imposizione all'indagato di sanzioni di natura diversa” non viola il principio del ne bis in idem, consacrato nell'art. 29, n.5, CRP; l'internamento in cella disciplinare è una tipica sanzione disciplinare, analoga alle sanzioni sospensive che sorgono nel diritto disciplinare della funzione pubblica; il processo disciplinare è sufficientemente garantistico e, per altro verso, autonomo rispetto il processo penale, motivi per i quali non si verifica violazione di quando disposto nell'art. 32, n.2 (89) e 4 (90), CRP.

Di conseguenza, è stato rigettato il ricorso, confermata la decisione di condanna.

In questa decisione, la Consigliera Fernanda Palma formulò un voto “vencido” nel senso dell'incostituzionalità della norma considerata per violazione del disposto dell'art. 32, n.2 e 4, CRP, là dove detta norma fa dipendere l'applicazione di misure disciplinari dalla dichiarazione del recluso come responsabile per fatti previsti dalla legge come reato, senza che la responsabilità criminale sia stata accertata nel rispettivo processo penale. Nelle motivazioni del voto vencido la norma impugnata viene inoltre considerata in aperta violazione del principio del “ne bis in idem, nella misura in cui non si prevedono con autonomia i fondamenti dell'applicazione di misure disciplinari e della responsabilità criminale, né si delimita la responsabilità in funzione del bene giuridico rilevante sul piano disciplinare.”

Nel commento di questa sentenza, (91) di seguito concisamente riproposto, l'autore concorda con il voto vencido, e, per giustificare tale posizione, si propone di analizzare le seguenti questioni:

  1. verificare se la misura dell'internamento del ristretto in cella disciplinare sia, effettivamente, una sanzione disciplinare.
  2. analizzare la posizione giuridica del ristretto, in particolare in relazione al riconoscimento e alla tutela dei suoi diritti fondamentali.
  3. verificare se questa sanzione non sia contraria alla proibizione costituzionale di pene disumane.

A) Afferma il TC che la sanzione di internamento in cella disciplinare è una mera sanzione disciplinare (e non una pena) equiparabile alle sanzioni sospensive che sorgono nel diritto disciplinare. Ciò comporta la sottrazione, nell'applicazione di tale misura, di tutte quelle garanzie giurisdizionali proprie del processo penale. (92) Ora, l'internamento in cella disciplinare consiste in una privazione della libertà “assoluta (in relazione al residuo di libertà considerata, poiché l'internato è privato delle condizioni necessarie al libero esercizio delle facoltà inerenti la vita normale all'interno dell'istituto) e omogenea (nel mondo dell'esecuzione).”

La sospensione nell'esercizio di funzioni pubbliche di un funzionario (93) è una restrizione nella libertà di un soggetto, ma riguarda una specifica area della libertà, connessa con l'esercizio di una data attività (professionale); ricomprende, quindi, solamente una determinata parte della vita dell'infrattore; “di conseguenza, detta privazione si estende unicamente al congiunto di diritti e obblighi connessi ad una situazione giuridica assunta volontariamente”, e si ripercuote, esclusivamente, nella dimensione professionale del soggetto, che, però, “continua ad essere un uomo libero”. (94)

Con l'internamento del ristretto in cella disciplinare, al contrario, la restrizione nella libertà è “globale” e chi subisce questa misura è privato “di una parte della libertà residua che sopravvive nell'esecuzione della pena del carcere, riducendo maggiormente (qualitativamente, può affermarsi) la libertà di cui il recluso - ancora - beneficia. [...] Si è detto sopra che un funzionario pubblico sospeso è ancora un uomo libero, si dica ora che un recluso internato in cella disciplinare è un recluso prigioniero”. Si comprende così che le differenze tra le due misure sono sostanziali e l'equiparazione adottata dalla Corte “non è legittima”. L'internamento in cella disciplinare “intensifica l'esecuzione della pena del carcere, alterandola qualitativamente, portandola su di un livello di maggiore lesività”. Non equivale ad una mera limitazione di accesso a determinate zone dell'istituto, come ad. es. la proibizione all'accesso nello spazio destinato alla ricreazione ma “lo priva della libertà di movimento esistente all'interno del carcere, così come la pena del carcere consta di una limitazione di parte della libertà [e diritti] del soggetto libero. Giunti a questa conclusione, sussiste ancora la questione iniziale: potrà una tale misura sottrarsi alle garanzie costituzionali inerenti al processo penale? Ponendo il problema in altro modo, si domanda: non dovrà questa misura essere necessariamente qualificata come sanzione penale (o, quanto meno, assoggettarla al rispettivo regime costituzionale -anche se per analogia)?” (95)

Ancora, l'art. 27CRP stabilisce, al n.2, i casi in cui è legittimo procedere alla privazione della libertà. L'internamento in cella disciplinare non è ricompresso nel tassativo elenco, previsto al n.3 dell'art. 27, dei casi di deroga al principio sancito nel n.2 (96) dello stesso articolo. Da qui la conseguenza che tale misura disciplinare solo sarà legittima, dal punto di vista costituzionale, “in conseguenza di una sentenza di condanna per aver compiuto atti puniti dalla legge con la pena detentiva o in applicazione di una misura di sicurezza”. Né è da condividere l'opinione secondo cui detta misura è ricompressa, per analogia, nell'elenco dei casi che derogano al principio generale (art. 27, n.3, lettera d, “detenzione disciplinare imposta ai militari, con garanzie di ricorso dinanzi al tribunale competente”) in quanto comunque colliderebbe con il principio sancito nell'art. 29, n.3 CRP. (97)

Da qui la conclusione dell'autore, dell'incostituzionalità della norma che consacra l'internamento del recluso in cella disciplinare.

Importa verificare se la libertà che residua nella esecuzione della pena del carcere, ulteriormente limitata nell'ipotesi d'internamento in cella disciplinare, non è qualitativamente equiparabile alla libertà dei soggetti liberi, ossia, si domanda ora se il ristretto, per il fatto di essere privato della libertà generale (inerente la concreta esecuzione della pena di prigione), sia anche potenzialmente privato della libertà sopravveniente (alla esecuzione di quella pena). (98)

Emerge quindi il problema della “delimitazione qualitativa della pena, o, detto in altro modo, il problema della posizione giuridica del recluso”.

B) L'art. 18, n.2 CRP afferma che “solo la legge può restringere i diritti, le libertà e le garanzie nei casi espressamente previsti nella Costituzione, dovendo le restrizioni limitarsi al necessario per salvaguardare altri diritti o interessi costituzionalmente protetti”; l'art. 27, n.1 sancisce a favore di tutti i cittadini il diritto alla libertà e alla sicurezza. La Carta costituzionale portoghese, quindi, consacra “l'idea umanista secondo la quale la libertà si giustifica di per sé, senza necessitare di [ulteriore] esplicazione; ciò che deve essere giustificato è la sua compressione. Si tratta di un corollario del principio di Stato di diritto democratico, indissolubile al rispetto della uguale dignità della persona umana (rispettivamente, art. 2 e 1CRP).” Di conseguenza la Costituzione si preoccupa particolarmente di delimitare l'ambito materiale della pena (nonostante l'inesistenza di una definizione positiva della stessa) prevedendone, in negativo, i limiti, come avviene nel n.2 dell'art. 24, n.2 art. 25, n.1 art. 30. (99) Ma, soprattutto, statuendo al n.5 dell'art. 30 che il ristretto mantiene “la titolarità dei diritti fondamentali, salve le limitazioni inerenti al tipo di condanna e alle esigenze proprie della rispettiva esecuzione”. Dal confronto di queste norme discende “un principio di minimizzazione della limitazione della libertà, al quale corrisponde un principio di massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali del recluso”. (100) La chiara formulazione del n.5 art. 30 CRP (101) chiarisce innanzitutto l'impossibilità di una sua interpretazione nel senso che la sentenza di condanna, o le esigenze della rispettiva esecuzione, comportino la non titolarità del soggetto del diritto ad un procedimento con garanzie giurisdizionali. Inoltre, proprio perché il soggetto è già ristretto nella propria libertà “merita la tutela generale conferita agli altri soggetti (non condannati). Si noti che qui vale un discorso di maggior rilievo: se la libertà che sussiste è parte di un area più delicata, ossia, di maggior rilevanza per quanto concerne l'autonomia personale, una volta che il soggetto già si incontra privato di un altra parte, più ampia, di libertà, le misure privative di quella libertà devono essere circondate di maggiori (o, quanto meno, uguali) esigenze di garanzia. Per altro verso non è accettabile la configurazione della pena del carcere come una misura che priva di una parte della libertà e che diminuisce, allo stesso tempo, la tutela inerente la libertà residua. La decisione di condanna non può operare un trasferimento dei poteri del tribunale al direttore dell'istituto [...] una tale possibilità si tradurrebbe, in questo modo, in una flagrante violazione del principio di separazione dei poteri e di giurisdizionalità. A questo ordine di considerazioni si aggiunga che la circostanza di una situazione di soggezione e di incertezza nella quale si collocherebbe il recluso durante l'esecuzione della pena del carcere (nel caso si ammettesse la privazione della libertà attraverso una mera decisione amministrativa) sia incompatibile con il rispetto della dignità dell'individuo, dato che la privazione della libertà, quando ammissibile, deve configurarsi come una misura fissa, definita e prevedibile (nella sua durata, ma anche nel suo contenuto e nella sua concretizzazione), il che comporta naturalmente la soggezione, nella sua applicazione (ben come nella sua alterazione qualitativa -almeno nel caso in analisi) alle garanzie del processo penale. Il che può dedursi anche dalla combinazione di quanto previsto dall'art. 30, n.1 (102) e le disposizioni degli articoli 25, n.2, 27, n.1 e 2, e 32, n.1 (103), CRP.” (104)

Un'altra considerazione: il rigore dell'esecuzione differisce da istituto in istituto, senza sapere quale sia la

linea divisoria tra una normale esecuzione della pena del carcere e di una misura privativa della libertà del recluso. Potrà, poi, un recluso essere trasferito da un istituto ad un altro dove vige un regime più chiuso? Il problema deve essere risolto facendo riferimento ai termini dell'esecuzione normale che ogni istituto adotta. C'è, in un certo modo, da riconoscere al recluso un aspettativa (a rigore, il diritto) di vedere la propria pena compiuta nei medesimi termini in cui lo sono le pene degli altri reclusi dello stesso istituto, in attuazione del principio di uguaglianza (essendo, tuttavia ammissibile il trasferimento nei casi di necessità, fatto che si potrà relazionare con il mantenimento dell'ordine e della sicurezza interne all'istituto - diversamente, la misura del trasferimento del recluso potrà essere de jure condendo una legittima sanzione disciplinare.

Così, il recluso beneficia di tutte le garanzie costituzionali relative ai suoi diritti fondamentali. In questo modo la privazione della libertà residua non potrà non discendere da una decisione giudiziale che lo dichiari responsabile di un fatto punibile.

C) Si passa quindi alla verifica della legittimità costituzionale della previsione legale della possibilità di essere ristretti in cella di isolamento o in cella disciplinare. Il problema si pone in relazione al divieto di pene crudeli, disumane e degradanti sancito dall'art. 25, n.2 CRP. La Corte Europea dei diritti dell'uomo, nella decisione 8 Giugno del 1978, statuisce la legittimità della misura dell'internamento, ma afferma che il prolungamento della sua applicazione può portare alla distruzione della personalità, costituendo in questo modo un trattamento disumano.

Si consideri, tuttavia, che per la soluzione del problema si tiene in considerazione non il quantum dell'internamento (che solo aggraverà la soluzione che si prolunga) ma il grado di lesività della misura. [...] si tratta di una misura che di modo assoluto annulla l'intrinseca natura sociale del recluso. Di conseguenza, il recluso internato è privato del minimo del contatto sociale, il che lo porta, durante l'esecuzione della misura sanzionatoria, ad una situazione di profondo isolamento forzato, inconciliabile, aldilà delle finalità perseguite, con il nucleo obbligatorio del rispetto per la sua natura umana. [...] si tratta di una misura equiparabile non alla sospensione dell'esercizio di funzioni di un funzionario ma, per esempio, ad una ipotetica sanzione che imponesse al recluso un regime alimentare composto esclusivamente di pane e acqua. Anche per questa ragione è, pertanto, tale misura è costituzionalmente inammissibile.

In conclusione può ritenersi quanto segue:

  1. la misura dell'internamento in cella disciplinare è una sanzione di natura penale che, necessariamente, è assoggettata al rispettivo regime costituzionale
  2. il recluso conserva i suoi diritti fondamentali, dovendo la sua libertà (la libertà che residua durante l'esecuzione della pena del carcere) essere oggetto, almeno, di tutela generale
  3. la sanzione dell'internamento in cella disciplinare, data la sua lesività, è incompatibile con la dignità dell'individuo, violando, in questo modo, la proibizione costituzionale di pene disumane.

Di conseguenza, a parere dell'autore, la norma giudicata dal TC viola le disposizioni costituzionali contenute negli articoli 25, n.2, 27, n.2, 30, n.5, 29, n.5, 32, n.1, 2 e 4.

La lucida analisi di questa Acordao del TC, conferma, quindi, la connotazione 'semi-giurisdizionale'dell'esecuzione penale portoghese. Infatti, tranne che nella sola ipotesi, sopra esaminata, dell'internamento in cella disciplinare per un periodo superiore agli otto giorni, tutte le decisioni sono adottate de plano dal Direttore dell'istituto, con possibile intervento del giudice del TEP su istanza dell'interessato (cfr. art. 35 legge 354/75).

L'intervento giurisdizionale, abbiamo detto, è eventuale, e i poteri attribuiti al giudice non permettono una tutela sostanziale dell'interessato. Ed infatti, l'art. 139 statuisce: “Il Giudice del TEP deve cercare di risolvere le pretese riferite nel numero anteriore d'accordo con il Direttore dell'istituto. Quando non vi sia accordo tra Giudice e Direttore, la questione sarà esaminata dal Consiglio tecnico dell'istituto (105) che risolverà per maggioranza. Il consiglio tecnico riferito nel numero anteriore, sarà presieduto dal Magistrato del TEP, ma con voto meramente paritario. Delle deliberazioni del consiglio tecnico qualcuno dei membri può interporre ricorso, con effetto sospensivo, al Ministro de Justiça”. Si noti la natura amministrativa del procedimento: anzitutto, nel caso di disaccordo tra Direttore e Giudice, la decisione è rimessa al Consiglio tecnico -organo espressione dell'esecutivo -con voto meramente paritario dell'organo giurisdizionale; in secondo luogo, un eventuale ricorso del giudice sarà deciso dal Ministro di Justiça -organo dell'esecutivo -.

Tale stato dell'arte, ci permette di introdurre l'ultimo approfondimento proposto ad inizio capitolo, ossia, il TEP e la tenue tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei ristretti portoghesi.

4.2.4. Il Tribunale dell'esecuzione penale (TEP) e la tenue tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei ristretti portoghesi

Il “Tribunal de execuçao das penas” è istituito dalla Lei n.2000, del 16 Maggio, resa esecutiva dal Decreto n. 34 540, del 27 Aprile del 1945. Fino a questo momento, l'unico intervento giurisdizionale nell'esecuzione penale si limitava nella previsione della competenza del Tribunale di condanna nel computo della pena effettiva da scontare. “Si stava nell'epoca della classica distinzione tra esecuzione (attività giudiziaria) e compimento (attività amministrativa), la prima di natura processuale, la seconda di natura materiale. Si diceva, a questo proposito, suggestivamente, che i Tribunali trasferivano all'amministrazione penne in bianco”. (106)

Si noti che la creazione nel '45 del Tribunal de execuçao das penas, non discende dalla volontà di introdurre un organo terzo all'amministrazione, con funzioni di ispezione e vigilanza all'interno degli istituti di pena, né al Giudice del TEP viene attribuito alcun potere d'intervento nelle controversie tra amministrazione e ristretti: insomma, nulla di paragonabile al Magistrato di Sorveglianza istituito in Italia nel 1930.

L'istituzione di questo Tribunale è frutto della volontà di creare una magistratura specializzata, con funzioni di indole diversa da quella che esercitano i giudici di cognizione “che indagano e decidono sui fatti, sulla responsabilità e sulla applicazione della pena, secondo i modelli classici del diritto continentale europeo”. (107) Con la riforma del 1945, il Tribunale di cognizione continuava a conoscere sui fatti, sulla responsabilità e sull'applicazione della pena, e, quando aveva elementi sufficienti, “si pronunciava sulla pericolosità di certi delinquenti, e sulle misure di sicurezza che dovranno essere applicate, come ad esempio ai malati di mente, o al delinquente abituale o per tendenza”, nonché su qualsiasi incidente d'esecuzione, ossia, “i dubbi di carattere contenzioso circa l'interpretazione, l'applicazione e l'efficacia della sentenza (o delle diverse sentenze contro la stessa persona) di condanna”. (108)

In via residuale, era attribuita al TEP competenza “per le indagini e le decisioni determinate dal conoscimento successivo dello stato di pericolosità di un delinquente, sue modifiche o cessazione”, competenza per “concedere la libertà condizionale ai delinquenti in compimento di pena o internati per misure di sicurezza e prorogare il termine della sua durata, o revocarla”; “misure di sicurezza adeguate ai vagabondi e altri individui di condotta a-sociale o anti sociale e pericolosi”. (109)

La creazione di questo Tribunale è dovuta, quindi, alla nuova affermazione, nel dibattito giuridico portoghese, del diritto penale dell'agente (110) e del principio di legalità dell'esecuzione penale. Da queste premesse discende l'esigenza di giurisdizionalizzare le decisioni determinate da conoscimenti successivi alla sentenza di condanna riguardanti la personalità, la condotta e lo stato di pericolosità di un delinquente, sue modifiche o cessazione.

Ma è solo con il decreto-lei n.783/76, del 28 ottobre, (con le alterazioni introdotte da decreto-lei 222/77, del 30 maggio, e del decreto lei 204/78, del 24 Giugno), che il Legislatore manifesta la volontà di introdurre un organo terzo all'amministrazione a tutela della legalità penitenziaria.

In via di sintesi, detta riforma attribuisce al juiz del TEP: competenza nel concedere e revocare la libertà condizionale, determinazione delle prescrizioni dei liberati condizionalmente e verifica della regolare esecuzione; concessione e revoca dei permessi di lunga durata; (111) riesame annuale della pericolosità sociale degli internati pericolosi; coordinamento delle attività di assistenza sociale a beneficio dei dimessi; è inoltre parte del Consiglio tecnico “quando si apprezzino decisioni di particolare importanza per i ristretti”; (112) effettua visite negli istituti almeno una volta al mese, riceve e decide sulle doglianze presentate dai ristretti avverso atti dell'amministrazione ritenuti lesivi dei diritti degli stessi; ai sensi dell'art. 22 del diploma menzionato, ha inoltre competenza a decidere sulla proroga della pena applicata ai delinquenti di difficile correzione e agli internati pericolosi; competenza su tutto ciò che riguarda le misure di sicurezza, sulla riabilitazione, sull'incidente di incapacità di intendere e volere sopravvenuta; formula parere sulla concessione dell'indulto e sulla commutazione della pena o misura di sicurezza; applica dette misure nonché il provvedimento di amnistia.

L'art. 23 -così come modificato dagli art. 91 e s. della legge 3/99 - attribuisce al juiz la competenza ad intervenire nella vita degli istituti penitenziari nelle relazioni tra amministrazione e ristretti visitando almeno mensilmente gli istituti “al fine di venir a conoscenza del modo in cui sono eseguite le condanne”, risolvendo d'accordo con il direttore dell'istituto le pretese che i ristretti gli espongano durante le visite, decidendo “i ricorsi interposti dai reclusi relative alle sanzione disciplinari che impongano l'internamento in cella disciplinare per un tempo superiore agli otto giorni” e “concedendo e revocando i permessi di uscita precaria prolungata”.

I processi di competenza del TEP sono: di sicurezza, complementare, grazioso, ricorso disciplinare, processo suppletivo.

Particolare - e differente dalla normativa italiana - è la disposizione contenuta del n.4, art. 20: il giudice competente per l'istruzione preparatoria al procedimento di sorveglianza non può intervenire nel giudizio.

Il processo di sicurezza (art. 51ss.) è promosso dal p.m. (113) -o altra autorità delle forze dell'ordine - al fine di richiedere l'applicazione di misure di sicurezza la cui necessità sia sopravvenuta al giudizio di cognizione. Da sottolineare la più pregnante tutela, quanto meno nelle garanzie procedurali, dell'ordinamento portoghese rispetto il procedimento di sorveglianza (art. 678 C.P.P. italiano). In particolare, è prevista la partecipazione necessaria dell'avvocato (art. 55), le indagini durano 8 giorni salvo proroghe, la difesa ha 5 giorni per presentare memorie, prove e tutto ciò che concerne l'oggetto del processo; l'interessato è ascoltato salvo che il giudice ritenga inutile l'audizione a causa dell'incapacità di intendere e volere, (114) ma, soprattutto, sono previsti 5 giorni per le allegazioni del pm e, a seguire, 5 giorni per le allegazioni della difesa (art. 63). La decisione è presa entro otto giorni successivi al deposito delle allegazioni dell'interessato.

Il processo complementare (art. 65 ss.) è invece destinato alla revoca del permesso di lunga durata e della libertà condizionale, e alla verifica inerente la convalida, l'alterazione o la cessazione della pericolosità anteriormente dichiarata. È processo cartolare, promuovibile anche d'ufficio, caratterizzato dall'ampia discrezionalità attribuita al giudice sia per quanto concerne l'audizione dell'interessato, sia ai fini istruttori. Il giudice emette un decreto provvisorio che viene notificato alle parti; quest'ultime hanno 5 giorni per depositare le allegazioni. La decisione finale è presa entro 8 giorni dalla ricezione degli allegati. Per quanto concerne la revoca della libertà condizionale, questa ha effetto solo dal passaggio in giudicato della sentenza che dichiari il liberato sub condicione responsabile di crimine durante la libertà vigilata. In caso di urgenza e pericolosità sociale dell'interessato, il TEP può ordinarne la cattura. Gli effetti della revoca decorrono dal momento della cattura.

Il processo grazioso (art. 86 ss.) ha natura amministrativa, senza partecipazione dell'avvocato. È adottato per la concessione dei permessi di lunga durata e della libertà condizionale, la riabilitazione, l'applicazione dell'indulto e della commutazione della pena residua. Per quanto concerne la concessione della libertà condizionale, ampli poteri discrezionali sono attribuiti al giudice in ordine all'istruttoria; è, in compenso, prevista l'audizione dell'interessato alla presenza del solo giudice.

Il processo disciplinare riguarda il solo internamento in cella disciplinare per un periodo superiore ad otto giorni. La disciplina del presente diploma è riproposta nel successivo decreto lei 265/79 (vedi sopra). Come già ricordato, l'art. 149 della legge penitenziaria sancisce:“Non è consentito il ricorso delle decisioni del giudice che confermano o alterano le sanzioni disciplinari.”. (115)

La mancanza del doppio grado di giudizio, principio basilare della giurisdizione, interessa, purtroppo, quasi tutte le decisioni del giudice del TEP -organo sempre monocratico a prescindere dal tipo di decisione e di procedimento adottato -.

L'art. 125 del decreto lei 783/76 attribuisce la competenza -nelle scarse ipotesi di decisioni passibili di ricorso (essenzialmente, revoca della libertà condizionale o del permesso d'uscita di lunga durata (116)- al Tribunale de “Relaçao” (Tribunale dell'appello) dello stesso distretto dove esercita le funzioni il TEP decidente. Legittimati a proporre ricorso, ai sensi dell'art. 129, sono il p.m., il ristretto o il richiedente, il suo rappresentante legale e, in mancanza di quest'ultimo, il coniuge, l'ascendente o il discendente e, in nome di tutti, l'avvocato costituito o il difensore. L'art. 127 recita: “Non è ammesso ricorso avverso le decisioni che concedano o negano la libertà condizionale, il permesso di lunga durata e la sua revoca, ben come i ricorsi riferiti al n.3 dell'art. 23 [internamento in cella disciplinare per tempo superiore agli otto giorni].”

Si potrebbe dire, sulla punta della penna, che il Legislatore portoghese farebbe bene a rammentare le parole di Gomes Canotilho e Vital Moreira, i quali affermano che, tra le garanzie di un ordinamento costituzional democratico, e, più in particolare, tra le garanzie della difesa, “la protezione contro atti giurisdizionali assume un'importanza autonoma e rilievo speciale, visto che sono chiamati in causa gli stessi Giudici e Tribunali, cioè, gli organi costituzionalmente abilitati a difendere e a garantire i diritti e gli interessi legittimi dei cittadini”. (117) A questo si aggiunga che la difesa contro atti giurisdizionali “solo puo' spettare ad un altro tribunale, con il potere di revocare la decisione offensiva dei diritti [...] è da qui che il diritto di ricorso per un Tribunale superiore deve essere visto come uno delle più importanti garanzie costituzionali”. (118) Si auspica un doveroso intervento del TC, alla luce dell'art. 400 del nuovo CPP (vedi 4.2.2).

Meglio sembra, sul piano comparativo, la tutela giurisdizionale dell'ordinamento italiano - sia pur con le dovute cautele, particolarmente riguardo il già riferito procedimento de plano ex art. 35 (119)-. La “giurisdizionalizzazione” del sistema totale carcere, infatti, secondo quanto sancito dall'ordinamento penitenziario, riguarda:

  1. art. 69, n.6, ossia, il lavoro e l'esercizio del potere disciplinare (procedimento ex 14 ter (120) O.P. presso il Magistrato di Sorveglianza)
  2. art. 53 bis, ossia, mancato computo del periodo trascorso in permesso o licenza (procedimento 'garantista' di sorveglianza presso il Tribunale di sorveglianza)
  3. 14 bis, ossia, sorveglianza particolare (procedimento ex 14 ter presso il Tribunale di Sorveglianza)
  4. art. 30 bis, ossia, permessi di necessità e permessi premio (procedimento 'garantista' di sorveglianza presso il Tribunale di sorveglianza)
  5. art. 41 bis, ossia, 'carcere duro' (procedimento ex 14 ter presso il Tribunale di sorveglianza).

Di rilievo, la possibilità di ricorrere, avverso tutte le decisioni 'giudiziali' sopra richiamate, presso la Cassazione. Dal combinato disposto delle parole sopra menzionate di G.Canotilho e V.Moreira e dalla comparazione a margine con l'ordinamento italiano, si auspica n doveroso intervento del Legislatore portoghese.

Note

1. Ossia, libertà preparatoria, detenzione supplementare, fondo di riserva, società di patrocinio e colonie di rifugio penale.

2. Atti preparatori della riforma del CP, Relatorio 1864, 68.

3. Le notizie riportate sono tratte da A.M.Rodrigues, Novo olhar sobre a questao penitenciaria, Coimbra, 2002, 12ss.

4. E.Correia, Prof. Doutor Josè Beleza dos Santos, discorso proferito in una conferenza in memoria del citato professore in Arrifana, 3 Novembre 1973, 13.

5. H.H.Jecheck, La reforme Pènale Allemande e Portugaise, BFD, supplemento XVI, 433.

6. Si pensi, a titolo di esempio, alla dittatura nazista che proponeva in quel tempo la riabilitazione “dei nemici del popolo” attraverso la conversione coatta all'ideologia di Stato, o al modello medico di trattamento esercitato nel nord Europa; alla prevenzione speciale francese e, più di recente, al just desert degli Stati Uniti.

7. Si tenga presente che, ad oggi, l'aborto, salve poche ipotesi tassative e eccezionali, è vietato dalla legislazione portoghese.

8. E. Maia Costa, Prisoes: A lei escrita e a lei na pratica em Portugal, (La legge scritta e la legge nella pratica in PT), in Antonio P.Dores (organizador, a cura di), Prisoes na Europa, Oeiras, 2003, 94.

9. Le uniche riforme organiche successive al 25 Aprile '74 sono rappresentate, essenzialmente, dal decreto lei 265/79 (legge penitenziaria) e dalle diverse riforme che hanno riguardato il CP e il CPP (le più recenti risalgono, rispettivamente, al '95 e al '98); nessuna legge organica ha riguardato, invece, l'attuazione della 'democrazia sostanziale', dell'interpretazione e applicazione dinamica della Costituzione, ossia, l'attuazione di quei valori che in Italia sono nobilmente espressi, in primis, dall'art. 3, n.2, della Costituzione. Anche in Italia si denuncia tale stato di fatto: “in mezzo secolo di storia repubblicana le sole riforme attuate siano state la riforma penitenziaria e quella processuale” piuttosto che riforme sociali organiche, coerenti ed effettive. In questo senso L.Ferrajoli, La pena in una società democratica, in M.Palma (a cura di), Il vaso di Pandora, Roma, 1997, 27.

10. L'articolo 2 statuisce le finalità della esecuzione orientandola “in modo di reintegrare il ristretto nella società, preparandolo a condurre, nel futuro, una vita socialmente responsabile, senza che pratichi crimini. L'esecuzione delle misure privative della libertà serve anche alla difesa della società, prevenendo la pratica di altri fatti criminosi”.

11. “Nell'attuazione dell'esecuzione delle misure privative della libertà non devono essere create situazioni che possano comportare un serio pericolo per la difesa sociale o della propria comunità carceraria” (art. 3, n.3); “l'esecuzione deve, tanto quanto è possibile, stimolare la partecipazione del recluso nel suo reinserimento sociale, specialmente nella elaborazione del suo piano individuale, e la collaborazione della società nella realizzazione di questi fini” (art. 3, n.4); è infine prescritto, al comma 5, il principio di imparzialità e il divieto di ogni forma di discriminazione.

A questo ultimo proposito merita menzione la circolare 61/77 del 13/12 che “sensibilizza” la polizia penitenziaria perché elimini il malcostume di rivolgersi ai ristretti dando del “tu”.

12. Come ad es. la cura Ludovico (Bourges, Arancia Meccanica). Sul piano comparativo, si sottolinea come in Italia, almeno sulla carta, la legge ordinaria abbia recepito l'ordine assiologico della funzione della pena così come delineato dall'art. 27, n.3 della Costituzione, ossia, posponendo la funzione rieducativa al 'senso di umanità', fondamento assiologico invalicabile di ogni Costituzione moderna (cfr. art. 1 legge 354/75). A questo proposito merita menzione il fatto che l'art. 27, n 3 Cost. it., rispetto all'originaria formulazione proposta dal Comitato di Redazione della Costituzione, e su proposta dell'on. A.Moro, ha posposto l'ordine dei due concetti. La notizia è riportata da M.Ruotolo, Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, 2002, nota 10, 5.

13. Coloro ai quali sono applicate “misure restrittive della libertà mantengono la titolarità dei diritti fondamentali, salve, le limitazioni inerenti al tipo di condanna e alle esigenze proprie della rispettiva esecuzione”.

14. Le restrizioni nella libertà non possono comunque diminuire “l'estensione e la portata del contenuto essenziale delle previsioni costituzionali”.

15. Tale norma è quasi del tutto inattuata, vedi 4.2.1.

16. Detta norma è sistematicamente inattuata poiché chi lavora alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria non beneficia dell'iscrizione nel libro della sicurezza sociale, contrariamente a chi lavora alle dipendenze di un'entità diversa dall'amministrazione penitenziaria (vedi 4.2.1.). Lo stato di fatto, quindi, oltre a collidere con la legge ordinaria, rende in effettivo il principio costituzionale di uguaglianza, nonché il disposto ex art. 30, n.5 e 18, n.3 CRP sopra menzionati.

17. A quest'ultimo proposito meritano menzione i seguenti atti amministrativi: la circ.74/81 del 18/12 la quale sancisce che il recluso non necessita di alcuna autorizzazione per contrarre matrimonio; la circular 21/89, la quale prospetta la possibilità di farsi visitare da un medico di fiducia e le concrete modalità di esecuzione; l'oficio-circular 1dep/95 che divulga i procedimenti legali relativi all'esercizio del diritto di voto da parte del detenuto.

18. La circolare 9dss/97 prevede la consegna al momento dell'ingresso in istituto - e la successiva disponibilità -, di prodotti di igiene personale, due preservativi, un piccolo fiasco di candeggina.

La 3ga/97 prescrive la separazione dagli altri ristretti del personale di polizia di sicurezza pubblica, funzionari della polizia giudiziaria, personale del corpo di guardia penitenziaria sottoposto a pena carceraria.

L'oficio- circular 10/92 prescrive l'esame medico del ristretto che presenta all'ingresso nel carcere ferite o contusioni.

La circular 6/83/DCSDEPMS-4 prescrive l'obbligo di informare il neo ristretto di origine straniera sulla possibilità di richiedere, in prima persona, o per il tramite del direttore, di informare, nel più breve tempo possibile, l'autorità consiliare competente; la stessa circolare disciplina le modalità delle visite in carcere dei funzionari consolari.

19. Pena applicabile nei confronti del reo che abbia commesso un reato doloso punito in concreto con pena superiore ad anni due; lo stesso soggetto deve aver già commesso un reato doloso punito in concreto con pena superiore agli anni due, entro i cinque anni precedenti dalla commissione del nuovo crimine; al momento dell'applicazione deve persistere l'inclinazione al crimine dell'interessato. La pena relativamente indeterminata consiste in un aggravamento della pena edittale fino ai sei anni. La sentenza di condanna prevede l'applicazione dei 2/3 della pena effettiva prorogabile nel caso in cui, dai resultati dell'osservazione, risulti il non ravvedimento del reo. La liberazione condizionale, contrariamente alle regole ordinarie (vedi 4.2.2.), è applicabile solo dopo che siano stati scontati i 5/6 della pena (art. 83 e ss. CP).

20. Il regime aperto si suddivide in RAVE e RAVI. Il primo prospetta una regolamentazione meno restrittiva per il ristretto, con la possibilità di usufruire del lavoro all'esterno e dei lunghi permessi d'uscita. Il secondo, più semplicemente, attribuisce la possibilità di usufruire del primo permesso di lunga durata -a patto che sia stato scontato già un quarto della pena - non concedibile ai ristretti sottoposti a regime chiuso.

21. Al contrario, sul piano comparativo, meritano menzione i regolamenti esecutivi della legge penitenziaria italiana, rispettivamente, del 1976 e del 2000.

22. “Il recluso deve essere informato delle disposizioni legali e regolamentari che interessano la sua condotta e, in particolare, di quelle che definiscono il regime dell'istituto”.

23. I permessi di lunga durata sono concedibili dal juiz solo a favore dei ristretti sottoposti al regime aperto (denominato) 'RAVE' sempre che già sia stato scontato un quarto della pena. Può essere concesso un solo permesso a semestre, con durata massima di 8 giorni. In caso di revoca, la misura non potrà essere concessa nuovamente per un anno, a partire dalla data della ricattura. I permessi di breve durata sono invece di competenza del Direttore dell'istituto e sono concedibili: a tutti i ristretti in ipotesi di giustificato motivo; ai soli ristretti in regime aperto (RAVE e REVI) quelli con funzione premiale. In caso di diniego, il ristretto può esporre le sue critiche al juiz ai sensi dell'art. 139, ma questi è libero di valutare o non la lagnanza. Non esiste, quindi, nessun procedimento giurisdizionalizzato in tema di permessi. Sul piano comparativo, si sottolinea come in Italia sia garantita la tutela giurisdizionale in tema di permessi (art. 30 bis), nonché il reclamo al Tribunale di sorveglianza in ipotesi di mancato computo, ai fini della pena residua, del periodo trascorso in permesso (o in licenza) (art. 53 bis).

24. Prima della IV revisione della Carta Costituzionale, avvenuta nel 1997, si affermava esplicitamente che il lavoro, oltre ad essere un diritto, è anche un dovere del cittadino. L'attuale formulazione dell'art. 38 CRP, al contrario, ricomprende il lavoro tra le prestazioni (diritti sociali) dello Stato a vantaggio di tutti i cittadini: “Per assicurare il diritto al lavoro, spetta allo Stato promuovere: a) l'attuazione di politiche di pieno impiego; b) l'uguaglianza di opportunità nella scelta della professione o del genere di lavoro e le condizioni affinché non sia vietato o limitato, in funzione del sesso, l'accesso a qualunque mansione, lavoro o categoria professionale; c) la formazione culturale e tecnica e la valorizzazione professionale dei lavoratori.” L'articolo successivo contiene un 'lungo' elenco dei diritti dei lavoratori, tra i quali, il diritto al salario minimo garantito (lettera f).

25. L'art. 63 n.1 recepisce la RPE 71.4: il lavoro deve avere in vista di “creare, mantenere in vita e sviluppare la capacità del ristretto a realizzare un'attività con la quale possa, normalmente, guadagnarsi da vivere dopo la sua liberazione”.

26. Non tutta la dottrina portoghese concorda con la obbligatorietà (anti costituzionale, a maggior ragione a seguito della revisione costituzionale dell'art. 58 sopra menzionata) del lavoro nella fase esecutiva. In particolare, si sottolinea l'importanza della volontaria adesione a qualsiasi attività, come il lavoro, riferibile al trattamento rieducativo. Così, A.M.Rodrigues, Novo olhar sobre a questao penitenciaria, Coimbra, 2002, 189.

Inoltre nella proposta di legge presentata all'Assemblea della Repubblica nel Febbraio 2001, “Projecto de proposta de lei de execuçao das penas e medidas privativas de liberdade” (PCREP), si prevede, all'art. 56, n.1, che la remunerazione di chi svolge attività produttive nell'istituto è calcolata sulla base del salario percepito dai lavoratori in libertà, tenendo in conto il tipo di lavoro prestato e la qualifica professionale.

27. Dubbia risulta la possibilità di conciliare questo articolo con l'art. 71 dello stesso diploma dove si prevede la possibilità del Ministro de Justiça di poter ridurre la retribuzione fino al 75% per scarso rendimento (vedi oltre).

28. Il Provedor de Justiça critica la teoria del non intervento - o intervento minimo - nei confronti dei ristretti in custodia cautelare; aderisce alla teoria della funzione non desocializzante del carcere anche a favore dei ristretti in custodia cautelare, in una visione più coerente allo Stato sociale di diritto. Questa posizione è sostenuta anche nel PCREP, dove, in particolare, i preventivi vengono visti come titolari di diritti a prestazioni sociali nei confronti dello stato; la non desocializazione di questi ultimi viene proposta con soluzioni idonee ad “evitare l'esclusione del recluso dal suo statuto di cittadino” attraverso la promozione del lavoro, della formazione e dell'insegnamento.- PCREP, 26 e s.-. Per leggere la sopra menzionata proposta di legge commentata, si rinvia a A.M.Rodrigues, Novo olhar sobre a questao penitenziaria..., cit., in particolare 180 ss.

29. RSP2003, 318.

30. Regime aperto “rivolto all'interno”. Altra forma di regime aperto, presente nell'ordinamento portoghese, è il RAVE, regime aperto “rivolto all'esterno”: quasi tutte le opportunità lavorative offerte da entità diverse dall'amministrazione penitenziaria sono destinate ai ristretti in RAVE.

31. RSP2003, 324.

32. Sul piano internazionale, l'inadempimento riguarda la Convenzione n.155 dell'OIL, e la Direttiva 89/361 CEE.

33. In questo senso, G.Canotilho - V.Moreira, Constituiçao da Repubblica portuguesa anotada, Coimbra, 1997, 144.

34. Le parti contrattuali di dette convenzioni, amministrazione e entità giuridica esterna, stabiliscono anche il tipo di rapporto intercorrente, optando, normalmente, per un rapporto di servizio e la conseguente competenza del giudice del lavoro.

35. EP de Coimbra, de Paços de Ferreira e Tires e EPR de Évora.

36. EP de Caxias, Leiria e Santarém e EPR de Ponta Delgada e Horta.

37. Interessante è il lavoro di preparazione di pagine web per imprese private svolto da alcuni ristretti nel carcere di Funchal.

38. RSP2003, 343.

39. Per il diritto alle ferie dei ristretti lavoratori secondo l'ordinamento italiano, si segnala la recente sentenza della Corte Costituzionale n.158/2001, in Giurisprudenza Costituzionale, 2001, 1264 ss., con nota di Andrea Morrone. Per un'ampia trattazione sui diritti dei detenuti lavoratori in Italia, M. Ruotolo, Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, 2002, 171 e ss., ivi riferimenti bibliografici.

40. Sul piano internazionale, l'inadempimento riguarda la RME76 e la RMNU76.

41. Previsione di salario minimo garantito per il 2002 così come sancito dal decreto-lei 325/2001 in attuazione dell'Art. 59, n.2 lettera f, CRP.

42. Le motivazioni a suffragio di tale posizione sono ravvisate nell'attuazione e del principio di dignità umana (art. 1 CRP), e art..59, n.2 lettera f, CRP: lo Stato garantisce un salario minimo al di sotto del quale si presume l'impossibilità di svolgere una vita dignitosa) e al fine rieducativo al quale è preordinata l'esecuzione della pena.

43. RSP2003, 354.

44. In verità, la legge ordinaria prevede altre misure alternative -libertà vigilata e lavoro a favore della comunità -ma non hanno trovato attuazione pratica poiché non sono state ancora oggetto di regolamentazione.

45. L'istituto fu introdotto per la prima volta con il decreto lei 34553, del 30 Aprile del 1945. Prima del decreto lei 783/76 l'autorità che statuiva chi beneficiasse della liberazione condizionale era il Direttore dell'Istituto di pena. Per approfondimenti sull'evoluzione dell'istituto si rinvia a F.Dias, Direito penal portugues (As consequencias juridicas do crime), Coimbra, 1993, 531.

46. Nei casi di perdono giudiziale e amnistia, è dibattuto in giurisprudenza se i 5/6 della pena debbano essere computati rispetto la pena originaria o al netto della detrazione conseguente all'atto di clemenza. Nei casi in cui l'applicazione del perdono o dell'amnistia comportino una pena al di sotto dei sei anni, la prassi della Suprema Corte, è nel senso di dar rilevanza alla pena effettiva: di conseguenza, non è ammissibile la domanda di libertà condizionale ex art. 61, n 5 (Così STJ, decisioni n.24/94, n.388/01). Negli altri casi - ovvero, quando la detrazione dovuta ad atti di clemenza comporti una pena effettiva comunque superiore ai 6 anni- i 5/6 della pena vengono calcolati rispetto la pena originaria (Così STJ, decisione n.48/94, n.24/94, n.66/95). In senso contrario si segnala la sentenza n.1195/99dove - nonostante a seguito dello “sconto” la pena residua sia superiore ai 6 anni - i 5/6 vengono calcolati sulla pena effettiva e non su quella originaria. In Italia, in caso di indulto, ciò che rileva è sempre la pena effettiva (così, M.Canepa - S.Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 2002, 280).

47. Instituo de reinserçao social; organo simile ai nostri Centri di servizio sociale per adulti.

48. Si tratta dei ricorsi interposti dai reclusi avverso la sanzione disciplinare dell'internamento in cella disciplinare per un periodo superiore agli otto giorni.

49. La sentenza è pubblicata nel Diario de Republica, 2, 22/10/93, 11120.

50. Art. 61, n. 1 del CP del'92; ad oggi la disciplina è prevista dagli Art. 61, n.2,3,4 CP del '95.

51. Art. 390, n. 2.

52. Così e definito da A.E. Remedio, Commentario ao Acordao n.321/93, in Revista do ministerio publico, n.55, giugno-settembre 1997, 152.

53. Art. 7, decreto lei 14/84, 11 gennaio.

54. A.E.Remedio, Commentario..., cit., 152.

55. Art. 32, n.1. Il processo penale assicura tutte le garanzie della difesa, incluso il ricorso (quest'ultima parte è stata aggiunta in occasione della revisione della Carta Fondamentale avvenuta nel '97).

56. G.Canotilho, V.Moreira, Constituiçao da Repubblica portuguesa anotada, Coimbra, 1997, 162.

57. G.Canotilho, Direito Constitucional..., cit., 667 e 769.

58. A.E. Remedio, Commentario..., cit., 154.

59. Si tenga conto, però, che detta rivalutazione non avviene più obbligatoriamente ogni anno, come in precedenza era prescritto ex art. 97, decreto lei 783/76, abrogato dalla lei 59/98. Se quindi si segue l'orientamento del TC, che prescrive l'irricoribilità dell'ordinanza che non concede il beneficio, e a ciò si aggiunge la non obbligatorietà, entro un termine perentorio, della rivalutazione del caso, il ristretto, nel caso in specie, è privo di ogni forma di tutela giurisdizionale e 'amministrtiva'.

L'unico termine prescritto, ai fini della rivalutazione del caso - per la concessione del beneficio -, riguarda i casi di revoca della liberazione condizionale ex art. 486 CPP (due mesi prima della possibile nuova concessione).

60. Acta da Commisao Revisora n.7, .62 e 69.

61. Prevista dall'art. 61, n.2,3,4 CP.

62. La sentenza è pubblicata nel Diario da Repubblica, II serie, 18/10/2000; nonché nel BMG 499(2000), .59 ss.

63. L'art. 222 CPP disciplina l'habeas corpus (art. 31 CRP), mezzo di impugnazione straordinario ed eccezionale previsto al fine di rimettere in libertà soggetti ristretti in detenzioni illegali - gravi e rapidamente verificabili. Per conseguire l'habeas corpus, l'illegalità della carcerazione deve dipendere: a) dall'essere effettuata o ordinata da autorità incompetente; b) essere motivata per fatto che la legge non permette; c) protrarsi oltre i termini fissati per legge o decisione giudiziale.

64. In diverse decisioni (48/94, 3494/00, 1569/02, 1084/03, 2702/03, 2863/03), il STJ sancisce di non entrare nel merito della valutazione del TEP dei presupposti al fine della concessione del beneficio ex art. 61 n.5 CP. Abbiamo detto in precedenza che questo beneficio è obbligatorio proprio perché non devono essere verificati i presupposti ex art. 61, n. 2,3,4. Quali sono, allora, i presupposti propedeutici alla concessione della liberazione condizionale obbligatoria? Nel seguito della trattazione si vedrà che la giurisprudenza consolidata del TEP prevede come tale il 'postulato' secondo il quale l'esecuzione dei 5/6 della pena abbia avuto luogo senza interruzioni. Basterà un semplice ritardo nel rientro da un'uscita precaria per decadere dal beneficio. E, tranne che nella decisione n.2042/03, il STJ non critica la prassi giurisprudenziale in questione.

65. La posizione qui esposta è di A.Risiero Mendes, Nota sobre a jurisprudencia do TC, in Forum Iustitiae, n.17, 2000, 62. La sentenza 370/2000 è commentata in Italia da R.Orrù, Rassegna di dottrina e giurisprudenza straniera, in Giurisprudenza Costituzionale, 2000, 3336 e ss.

66. La decisione è consultabile sul sito ITIJ - Bases Jurídico-Documentais; relatore è il Cons. Simas Santos.

67. La decisione è consultabile sul sito ITIJ - Bases Jurídico-Documentais; relatore è il giudice Santos Carvalho.

68. Opinabile è il fatto che la rivalutazione del caso è effettuata oltre un anno dopo la prima decisione. Nella decisione del STJ, nessuna critica è mossa contro questo ritardo, proprio perché, in caso di revoca, il termine per il riesame è quello ex art. 486 del CPP, cioè due mesi prima della possibile nuova concessione della liberazione condizionale. Sarebbe stato preferibile non solo non abrogare l'art. 97, decreto lei 783/76 -che prevedeva un obbligo di riesame, in caso di negazione del beneficio da effettuarsi entro un anno dal diniego (oggi nessun termine è invece previsto) -ma anche un estensione della sopraccitata norma alle ipotesi di revoca, e ciò perché il diritto al riesame ogni anno, avrebbe “obbligato” il giudice del TEP a rivalutare il singolo caso tenendo conto dell'evoluzione della personalità del ristretto in tempi più ravvicinati.

69. La decisione è consultabile sul sito ITIJ - Bases Jurídico-Documentais; relatore è il Giudice Silva Flor.

70. Esempi recenti sono rappresentanti dalle decisioni: n.2702 del 3/7/03, n.2863 del 15/7/03, n.2891 del 5/8/03.

71. È previsto, inoltre, un obbligo in capo al direttore di comunicare al pubblico ministero le fattispecie che costituiscano un crimine perseguibile anche in assenza di una denuncia particolare.

72. 8792 i processi disciplinari aperti nel 2001; 1517 i processi pendenti nel 2001; buona parte dei processi pendenti sono stati instaurati 3 anni fa. Fonte, Provedor de Justiça, RSP2003, 503.

73. Il Provedor denuncia che in soli 17 istituti viene effettuata l'audizione dell'indagato; in 7 di questi istituti l'audizione ha luogo solo quando le indagini siano di maggior complessità e per gli illeciti di maggiore gravità. Inoltre viene denunciato il malcostume diffuso di delegare al personale di vigilanza l'audizione dell'indagato e l'intera fase istruttoria. Così RSP2003, 504 ss.

74. Opinabile è l'assenza di un termine entro il quale l'addebito e l'ordine di esecuzione della sanzione debbano essere trascritti e accompagnati da motivazione.

75. Si ricordi che ad oggi non esiste il regolamento esecutivo del presente diploma; a ciò si aggiunga che non tutti gli istituti hanno adottato un proprio regolamento interno.

76. Nel 2001 sono 1065 gli internamenti in cella disciplinare (in notevole aumento rispetto il '99 quando la sanzione fu applicata 641 volte) di cui 533 con durata superiore agli otto giorni. Fonte RSP2003, 512.

77. È bene ricordare che a norma della circolare 4/95/DEP, del 23/6 la permanenza a cielo aperto non puo' mai essere di durata inferiore ad un ora giornaliera, designatamene nei casi di internamento in cella individuale, cella disciplinare, e in compimento di misure speciali di sicurezza.

78. Ci sono 6 istituti che non hanno celle disciplinari, altri che usano la cella disciplinare come ordinario spazio di alloggiamento. In due istituti dette celle, ufficialmente, non sono utilizzate perché impraticabili. Altro dato allarmante è il barbaro costume di usare il “pappagallo” nelle celle disciplinari de EP do Linhó, Paços de Ferreira e Pinheiro da Cruze nei EPR de Monção, Montijo e Portimão. Fonte RSP2003, 512 ss.

79. In questo senso, L.Ferrajoli, Il sistema disciplinare: ricompense e punizioni, in Grevi (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981.

80. La circolare 2/GDG/96, del 8/11 prevede le conseguenze disciplinari e penali di denunce dei reclusi dolosamente infondate. La circolare 2 /94/ GA-1, del 24/06 prevede che ogni istituto abbia un libro dove i reclusi possono esporre loro suggerimenti e reclami; allo stesso tempo chiarisce che lo sciopero della fame “non costituisce una via accettabile” per veicolare proposte, istanze e pretese dei reclusi.

81. Organo formato dal direttore e da cinque funzionari, nominati dal Ministro della Giustizia su proposta del direttore del DGSP, sentito il direttore dell'istituto. Il “Ministro de Justiça” può disporre che il numero dei funzionari sia ridotto al numero di tre. La disciplina di detto organo è prevista negli art. 186 e ss. del decreto-lei 265/79.

82. Sul piano comparativo, si sottolinea che in Italia i reclami generici rivolti al Magistrato di sorveglianza sono regolamentati dall'art. 35 dell'O:P: è previsto un procedimento de plano che si concretizza in maniera, a grandi linee, simile al procedimento portoghese -in particolare, entrambi gli ordinamenti non riconoscono il diritto a ricorrere avverso la decisione del giudice -. L'unica differenza è che il Consiglio di disciplina italiano, quando interpellato - in ipotesi di disaccordo tra Direttore e Magistrato -, è presieduto dal Direttore e non dall'organo (terzo e) giurisdizionale come avviene in Portogallo. In entrambi gli ordinamenti, comunque, non è previsto l'intervento dell'avvocato né, ribadiamo, altre garanzie giurisdizionali. Per rilievi critici, in Italia, si rinvia alla sentenza della Corte Costituzionale 26/1999, commentata da M.Ruotolo, Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, 2002, 189 ss. In Portogallo, al contrario, non vi è stato intervento alcuno del TC; per quanto concerne la dottrina portoghese, vedi oltre.

83. La definizione è usata dal Legislatore nel preambolo della legge penitenziaria.

84. La sentenza 161/95 è pubblicata sul Diario da Repubblica, II, 8 giugno 1995, ed è consultabile partendo dal sito del Tribunale costituzionale (TC).

85. “Ogni imputato si presume innocente finché la sentenza di condanna non sia passata in giudicato e deve essere giudicato nel più breve termine compatibile con le garanzie di difesa”.

86. “Tutta la fase istruttoria è di competenza di un giudice, il quale puo', nei termini previsti dalla legge, delegare ad altri il compimento di atti istruttori che non siano direttamente connessi con i diritti fondamentali”.

87. L'articolo è inserito nel titolo IX della Legge Fondamentale intitolato “Amministrazione pubblica”; l'art. 269 disciplina il regime della funzione pubblica, e al n.3, sopra citato, è regolamentato il processo disciplinare e le 'garanzie' della difesa.

88. Per la distinzione in questione, si rinvia ai seguenti manuali di diritto penale portoghese: F.Dias - M.da Costa Andrade, Direito penal, questoes fundamentais, a doutrina geral do crime, Coimbra, 1996, 139 ss.; M.F.Palma, Direito Penal, parte geral, Lisboa, 1994, 77 ss.

89. “Ogni imputato si presume innocente finché la sentenza di condanna non sia passata in giudicato e deve essere giudicato nel più breve termine compatibile con le garanzie di difesa”.

90. “Tutta la fase istruttoria è di competenza di un giudice, il quale puo', nei termini previsti dalla legge, delegare ad altri il compimento di atti istruttori che non siano direttamente connessi con i diritti fondamentali”.

91. Si fa riferimento al commento della sentenza in esame di J.M. Vilalonga, A Constitucionalidade das medidas disciplinares aplicadas aos reclusos, in Themis, anno I, n.1, 2000, 207 e ss.

Si noti che le parole riportate tra virgolette e i corsivi rispettano la volontà dell'autore. Uno speciale ringraziamento, per la disponibilità mostrata, va al Giudice Costituzionale M.F.Palma e all'assessore dello stesso Giudice J.M. Vilalonga, sopra menzionato.

92. Il TC, nella decisione n.321/93, del 5 maggio 1993, come visto nel paragrafo precedente, non giudica incostituzionale la norma che consacra l'impossibilità di ricorrere avverso la decisione del Tribunal de execuçao de Penas che neghi la libertà condizionale al condannato. Già questa decisione mostra una tendenza del TC a dar poca rilevanza al riconoscimento e alla tutela effettiva dei diritti fondamentali del ristretto. Per una critica di questa decisione del TC, si rinvia a A.E.Remedio, Commentario ao Acordao n.321/93, in Revista do ministerio publico, n.55, giugno-settembre 1997, 150 ss.

93. Si utilizza lo stesso esempio che il TC invocò nell'Acordao n.263/94, alla quale si fa esplicito rimando nelle motivazioni della sentenza in esame. La sentenza n.263/94 è pubblicata nel Diario da Repubblica, II, del 19 di giugno 1994.

94. J.M. Vilalonga, A Constitucionalidade das medidas disciplinares aplicadas aos reclusos..., cit., 209 s.

95. Ibid., 210 s.

96. “Nessuno puo' essere privato totalmente o parzialmente della libertà, se non in conseguenza di una sentenza di condanna per aver compiuto atti puniti dalla legge con la pena detentiva o in applicazione di una misura di sicurezza”.

97. “Non possono essere applicate pene detentive o misure di sicurezza che non siano espressamente previste in leggi precedenti”.

98. Ibid., 212. Alla nota 14 l'autore sottolinea come negli istituti di pena la libertà del ristretto sia una sorta di concessione, “un atto di grazia” a beneficio dello stesso che puo', in questo modo, venire meno mediante decisione amministrativa del direttore, senza le garanzie giurisdizionali e “indipendentemente dalla gravità del fatto commesso”.

99. Rispettivamente: ripudio della pena capitale; divieto di pene crudeli, degradanti o disumane; divieto di pene con carattere perpetuo o di durata indefinita o illimitata.

100. Ibid., 214. Le parole in corsivo sono di F.Dias, Direito penal portugues (As consequencias juridicas do crime), Coimbra, 1993, 111 e 112, e sono riportare dall'autore del commento in esame.

101. Comma aggiunto nella revisione costituzionale del'89.

102. “Non può aversi pena o misura di sicurezza privativa o ristrettivi della libertà con carattere permanente o di durata illimitata o indefinita”.

103. “Il processo penale assicura tutte le garanzie di difesa, incluso il ricorso”.

104. J.M. Vilalonga, A Constitucionalidade das medidas disciplinares aplicadas aos reclusos..., cit., 215.

105. Organo formato dal direttore e da cinque funzionari, nominati dal Ministro della Giustizia su proposta del direttore del DGSP, sentito il direttore dell'istituto. Il Ministro de Justiça può disporre che il numero dei funzionari sia ridotto al numero di tre. La disciplina di detto organo è prevista negli art. 186 e ss. Del decreto-lei 265/79.

106. A.M. Rodrigues, Novo olhar sobre a questao penitenciaria, Coimbra, 2002, 130. Per una visione di diritto comparato sui sistemi di controllo giudiziale nei paesi dell'Europa continentale e in America Latina, si rinvia a Rivera Beiras (a cura di), Carcel y derchos humanos. Un enfoque relativo a la defensa de los derechos fundamentales de los reclusos, Barcellona, 1992, in particolare 119 ss. Si noti che in Brasile, già negli anni venti, fu introdotta nell'ordinamento la figura del Giudice dell'esecuzione.

107. Beleza dos Santos, Os tribunais de execuçao das penas em Portugal, in Boletim da Faculdade de dereito, (Supplemento XV), vol. I, 321. A questo autore si deve il merito della stesura del menzionato diploma introduttivo del TEP.

108. Ibid., 292 e ss.

109. Ibid., 321 e ss.

110. Diritto penale dell'agente o di fatto, dove la personalità assume rilievo in quanto si manifesta in un fatto (verifica della colpa) si lega al fatto (determinazione della sanzione).

111. I permessi di lunga durata sono concedibili dal juiz solo a favore dei ristretti sottoposti al regime aperto (denominato) 'RAVE', a patto che sia stato scontato un quarto della pena. I permessi di breve durata sono invece di competenza del Direttore dell'istituto e sono concedibili: a tutti i ristretti in ipotesi di giustificato motivo; ai soli ristretti in regime aperto (RAVE e REVI) quelli con funzione premiale. In caso di diniego, il ristretto può esporre le sue critiche al juiz ai sensi dell'art. 139, ma questi è libero di valutare o non la rimostranza. Non esiste, quindi, nessun procedimento giurisdizionalizzato in tema di permessi. Sul piano comparativo, si sottolinea come in Italia sia garantita la tutela giurisdizionale in tema di permessi (art. 30 bis), nonché il reclamo al Tribunale di sorveglianza in ipotesi di mancato computo, ai fini della pena residua, del periodo trascorso in permesso (o in licenza) (art. 53 bis).

112. Decreto lei 783/76, introduzione.

113. Negli altri procedimenti, al contrario, il p.m. dà soltanto pareri e può eccepire ricorso (nelle scarse ipotesi in cui questo è previsto) nonché sollevare questione di legittimità costituzionale.

114. Se l'interessato è ristretto fuori dalla circoscrizione del TEP, il giudice può ordinare il trasferimento momentaneo in un istituto della propria circoscrizione.

115. Sul piano comparativo, si sottolinea che in Italia, nel caso in specie (ossia, sottoposizione a 'sorveglianza particolare', ex art. 14 bis O.P.) è prevista la possibilità di ricorrere avverso la decisone amministrativa presso il Tribunale di sorveglianza, ai sensi dell'art. 14 ter (procedimento giurisdizionale 'semplificato'); la decisione del Tribunale è, inoltre, ricorribile in Cassazione.

116. Nonostante il successivo art. 127 sancisca la non passibilità di ricorso avverso la revoca del permesso di lunga durata, il Juiz do TEP di Monsanto, Carlos Lobo -al quale và uno speciale ringraziamento per l'attenzione prestata -mi ha assicurato, in occasione di una mia intervista (inedita), la possibilità del ricorso nella fattispecie in esame.

117. G.Canotilho -V.Moreira, Constituiçao da Repubblica portuguesa anotada.., cit., 162.

118. G.Canotilho, Direito Constitucional..., cit., 667 e 769.

119. A questo proposito si rammenti la già citata sentenza n.26/99 della Corte costituzionale.

120. procedimento giurisdizionale semplificato.