ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
Politiche criminali

Gennaro Santoro, 2006

2.1. Introduzione

Abbiamo sottolineato che la questione criminale e carceraria trova una super-fonte nell'immaginario legislatore europeo degli anni '90, che ha portato ad un alto aumento della popolazione carceraria e ha ulteriormente drammatizzato i dati del sovraffollamento carcerario e della recidiva. (1) Ciò ha portato, dicevamo, alla impossibilità oggettiva di eseguire la pena rispettando la dignità del ristretto, i suoi diritti fondamentali costituzionalmente garantiti (come ad es., la possibilità di ottenere una effettiva e rapida tutela giurisdizionale), la realizzazione della funzione rieducativa della pena. Il carcere è, oggi come ieri, la 'scuola superiore' della delinquenza, dove ciò che ha favorito la commissione di un crimine fuori dalle mura -povertà, disagio, culture anti sociali o mancanza di "vivere sociale", disuguaglianza "strutturale" e mancata attuazione di politiche sociali a favore dei "diritti deboli" -è maggiormente amplificato dentro le mura di una prigione.

È quindi sembrato imprescindibile delineare, quanto meno a grandi linee, le politiche che hanno fortemente contribuito a determinare questa situazione.

2.2. Carceri: la legge scritta e la legge nella pratica in Portogallo (2)

La legge penale portoghese (di procedura penale e penitenziaria) si ispira, a grandi linee, al movimento riformatore di diritto penale degli anni '60, che propone la depenalizzazione dei 'crimini senza vittima', la creazione di misure alternative alla pena detentiva carceraria di breve durata, e il reinserimento sociale dei condannati; si seguono, inoltre, le diverse correnti della criminologia che, in questo decennio e nel successivo, spostavano l'attenzione dal tradizionale studio del delinquente e dall'eziologia del crimine per approdare all'analisi delle istituzioni repressive (di polizia e giudiziarie) e per l'analisi dei fattori sociali criminogeni.

La Costituzione repubblicana, nella sua versione originaria (1976), si preoccupò soprattutto di statuire solide garanzie di difesa dell'imputato sottoposto a procedimento penale, enunciando, anzitutto, il principio dell'eccezionalità della detenzione cautelare.

Fu anche proclamata, a conferma del patrimonio già precedentemente acquisito, l'abolizione della pena capitale e delle pene o delle misure di sicurezza privative della libertà con carattere perpetuo.

Lo statuto penale della Costituzione và ad essere progressivamente arricchito nelle successive revisioni costituzionali, meritando menzione, oltre il riconoscimento della responsabilità civile dello Stato per le privazioni della libertà in condizioni illegali, l'espressa previsione che i condannati a pene privative della libertà 'mantengono la titolarità dei diritti fondamentali, salve le limitazioni inerenti al contenuto della condanna e alle esigenze proprie della rispettiva esecuzione' (art. 30, n.5, introdotto con la revisione del'89).

La legge penitenziaria (decreto-lei 265/79, del 1 Agosto), opera del penalista Eduardo Correia, allora Ministro di Giustizia, enuncia alcuni principi di grande rilievo, in sintonia con la prospettiva umanista della Costituzione, tra i quali la consacrazione del reinserimento sociale come linea di orientamento della pena detentiva (art. 2), dà lì decorrendo la necessità di "rispettare la personalità del recluso e i suoi diritti e interessi giuridici non specificamente limitati dalla condanna" (art. 3, n.1) e di, "tanto quanto possibile, approssimare l'esecuzione alle condizioni di vita libera, evitandosi le conseguenze nocive della privazione della libertà". (3) Questo riferimento diretto alle "condicoes nocivas", testimonia una più generale volontà riformista del diritto penale.

Tale ideale nascerà in Portogallo anche prima della rivoluzione del 25 Aprile [1974], prendendo forma grazie all'ingegno di Eduardo Correia, che, su richiesta del governo di Salazar, presentò negli anni '60 un progetto di Codice penale 'rivoluzionario' per l'epoca e per il regime fascista vigente, perché assicurava una prospettiva di risocializzazione, proponendo, come misure essenziali, un'ampia depenalizzazione di condotte considerate senza dignità penale (per es., l'aborto terapeutico), (4) un più che sostanziale abbassamento delle pene, e anche una nuova concezione della politica criminale, proponendo la sostituzione della detenzione carceraria di breve durata con un ricco 'ventaglio' di pene alternative, pene non istituzionali, tutte orientate a fini rieducativi, residuando la pena del carcere per i crimini di maggior allarme sociale, e anche in questo caso, senza perdere di vista il fine del reinserimento inteso come corollario della dignità umana. (5)

È evidente che un progetto di connotazione tanto umanista non poteva essere attuato, ed effettivamente non fu attuato, dal regime fascista dell'epoca; bisognava attendere tempi migliori che, (apparentemente) sopraggiunsero dopo la rivoluzione del 25 Aprile, quando fu ripreso il progetto sopra menzionato che diede vita, dopo alcune revisioni, al CP del'82 che, sostanzialmente, è quello che ancora oggi regge l'ordinamento portoghese.

Il CP del'82 rappresentò indiscutibilmente un cambiamento di rotta della legge penale portoghese, prioritariamente perché consacra la colpa, e non più la prevenzione, come nel precedente codice, come fondamento e limite della pena, e la rieducazione come l'obbiettivo della esecuzione, il che si tradusse in una notevole riduzione della repressione penale. Ciononostante il codice nacque in circostanze storiche avverse, in un clima politico dove la destra e la sinistra si rivolgevano reciproche critiche riguardo al principio rieducativo della pena. La sinistra miticizzava tale finalità e denunciava l'illegittimità del progetto inerente il trattamento e il reinserimento dei ristretti. La destra contestava apertamente il progetto per la sua connotazione umanista, per la riduzione dell'intervento penale e del rigore punitivo, e proclamava la necessità di regredire ad una politica tradizionale della "mano dura" contro il "crimine". Questa ultima critica (o la ricezione della stessa) portò alle alterazioni che il progetto di Correia subirà dopo il 25 di Aprile, progetto che fu alterato in particolare nella parte inerente le misure detentive, che subirono un generalizzato e significativo aumento, anche per la maggiore complessità nella fissazione dei presupposti di applicazione delle misure alternative alla detenzione, e un notorio squilibrio nel punire i crimini contro la persona rispetto ai crimini contro la proprietà, con manifesto "vantaggio" per questi ultimi (essendo principalmente il furto oggetto di una previsione estesissima, con penalizzazioni molto rigorose).

Fu così che sulla "carta", furono previste in grande quantità misure alternative, che d'altra parte furono applicate con notoria diffidenza da parte dei magistrati, che manifestarono una certa "resistenza" alle riduzioni di pena proprie del nuovo codice rispetto al precedente.

Ma alcuni interventi legislativi andarono a rafforzare questa tendenza conservatrice. Da un lato, uno speciale rigore nel determinare i presupposti del regime speciale per i giovani (16-21 anni), applicabile solo quando si ravvisino "ragioni serie" per pensare che tale regime favorisca il recupero del giovane condannato, il che rese difficile drasticamente l'applicazione dello stesso regime legale, più favorevole al condannato di quello previsto dal CP; per altro verso, e a livello processuale, fu pubblicata una regolamentazione specifica sulla detenzione cautelare, creando un elenco di "crimini non passibili di cauzione", e la cui imputazione comportava obbligatoriamente l'applicazione della custodia cautelare in carcere dei suoi [presunti] autori (il che era, a buon rigore, incostituzionale), ricomprendendo tra questi reati "naturalmente" il furto qualificato e il traffico di stupefacenti. Sarà questa legge un fattore determinante per il sostanziale accrescimento del numero dei ristretti che si verifica nella metà degli anni '80, non registrandosi mai più i dati degli anni precedenti.

Ma fu con la guerra alla droga, rilanciata con la pubblicazione del decreto-lei n.430/83, del 13/12 (continuata con DLn.15/93, del 22/1, attualmente vigente), che si pose in crisi (in un diploma avulso ma che servì da "cartina di tornasole" dei tribunali) il programma di politica criminale del CP del '82, sostituendolo con altro di senso opposto, basato su di una prospettiva di prevenzione generale piuttosto estranea al principio della rieducazione dei condannati.

Le pene previste nella legge della droga sono sproporzionate rispetto alle previsioni del codice, il che preclude o comporta una grande difficoltà nell'applicazione di misure alternative al carcere o di misure rieducative.

Con la legge sulla droga s'inaugura, d'altronde, una politica criminale (che va a compensare le lacune del diritto penale avulso e anche a contaminare il diritto penale codificato) che considera la legge penale come strumento centrale e privilegiato del controllo sociale, e che porta a nuove criminalizzazioni, inasprimenti della durata della pena e della sua concreta esecuzione, proponendo, sul piano processuale, la creazione di mezzi probatori speciali e deleteri per i diritti fondamentali (agenti in borghese, intercettazioni telefoniche, collaboratori di giustizia, etc).

Il combattere la droga funzionò anche come "ponte di lancio" strategico della nuova politica criminale, che porterà a revisionare il CP nel '95e '98, in senso maggiormente punitivo (sebbene frutto del pretesto di "bilanciare" le pene dei crimini contro la persona e quelli contro il patrimonio, dimenticandosi che l'equilibrio poteva essere raggiunto abbassando le pene di questi ultimi!), nello stesso tempo in cui si consacrava, come fine della pena, la prevenzione generale, sebbene nella modalità della "prevenzione general positiva o dell'integrazione" che, a ben vedere, secondo l'interpretazione che di questa hanno fatto propria i tribunali, non si differenzia dalla prevenzione generale negativa e intimidatoria, il che si è tradotto in un uso generalizzato della pena di lunga durata, com'è confermato dalle statistiche della durata media delle pene. (6) A partire dall'inizio degli anni '90 un congiunto complesso di fattori sociali e psico-sociali alimenta il senso di "insicurezza sociale" che è un carico di cultura esplosiva in una società multiculturale, come è quella portoghese, con un gran numero di immigrati e la crescita di visibilità di minoranze etniche preesistenti, il che porta ad un accrescimento in equivoco di atteggiamenti xenofobi e di razzismo "sottile". Immigrazione, minoranze etniche, droga, criminalità costituita, agli occhi di un'opinione pubblica bombardata quotidianamente da notizie sulla criminalità, suggestivamente rappresentate (a volte inscenate) dalle diverse emittenti televisive, in una vertiginosa gara di audience, costituiscono un'equazione dimostrata. Tale opinione pubblica inculcata dalla TV è rapita dalla morsa della prospettiva sicuritaria, contestando apertamente il complesso di diritti e garanzie che si consideravano già patrimonio proprio della cultura penale portoghese: "È la tv che conduce la politica criminale" è l'accusa che da alcuni anni porta avanti Figuero Dias, attualmente, il penalista portoghese più distaccato.

Il combattere la droga è lo strumento centrale della politica del controllo sociale, beneficiando inequivocabilmente di un forte sostegno dell'opinione pubblica e di ampi mezzi materiali di investigazione (come mai era accadduto in PT). E contribuisce a questo stato di fatto l'atteggiamento "militante" dei pubblici ministeri e dei giudici, atteggiamento che a volte è verbalizzato con espressiva e pittoresca retorica nelle decisioni giudiziali.

Detto atteggiamento comportò un accrescimento, nelle statistiche penitenziarie, sia nel caso di custodie cautelari, sia nel caso di condanne definitive, entrambe caratterizzate da una lunga espiazione endo-carceraria, il che provocò uno stato di pre-rottura del sistema carcerario, per sovraffollamento, in diversi momenti negli ultimi anni. Ignorano i tribunali portoghesi la R(99) 22 del Consiglio d'Europa che, tra altre previsioni, raccomanda ai pm e ai giudici di tenere in conto le risorse disponibili sul piano della capacità carceraria...

Ed è cosi che la popolazione carceraria aumentò vertiginosamente, a partire dagli anni '80 (più precisamente a partire dal'84, il che coincide con il "rafforzamento" della lotta alla droga), nonostante i successivi atti di amnistia e 'perdoni generali' ('74, '75, '76, '79, '82, '86, '91, '94, '99!).

I numeri saltano dai 5093 del'78, ai 9389 del '85, fino ad arrivare al culmine nel '98 con 14750 ristretti, collocando il Portogallo, a partire dal 1995, come recordista dell'Unione Europea per quanto riguarda la proporzione della tassa di reclusioni su 100.000 abitanti (147 nel'98, in Italia 85 nello stesso anno). (7)

Però, ancor prima del tasso di detenzione [desta scalpore] la 'densità' carceraria, che rivela un sistematico e abnorme sovraffollamento, nonostante i reiterati aumenti di capacità degli istituti di pena, distaccandosi così, anche in questo contesto, il PT dagli altri partner europei. (8)

Anche la durata media di reclusione è sproporzionata rispetto ai partner comunitari (nel '97: 22,6 mesi in PT, 8,1 mesi in IT), (9) confermando un'intensificazione repressiva che si deve essenzialmente, come già detto, alla forte penalizzazione dei crimini legati, in diversi modi, agli stupefacenti. È assolutamente eloquente, a questo proposito, il tasso di condanne per questo tipo di reati nell'universo dei reclusi condannati (nel 2000 il 42,9% dei detenuti condannati!) [n.d.r. In Belgio, ad es., nello stesso anno il 10%, in Spagna 31%.], (10) mantenendo anche in questo campo il PT una posizione peculiare rispetto gli altri paesi della CE.

Ponendo ora l'attenzione più dettagliatamente sulla custodia cautelare, rileva ricordare che la Costituzione la considera come una misura eccezionale (art. 28, n.2). Ciononostante, la legge ordinaria ha opposto resistenza per lungo tempo alla realizzazione del disegno costituzionale, innanzi tutto, e come già detto, creando una categoria di reati rispetto ai quali la detenzione cautelare in carcere dei suoi [presunti] autori era obbligatoria; poi, a partire dal 1987, con il nuovo codice di procedura penale, statuendo un nuovo elenco di crimini (principalmente quelli non passibili di cauzione), rispetto ai quali la prigione preventiva funzionava come regola, imponendo la legge al giudice di motivare espressamente la eventuale non applicazione (ma non il contrario, come sarebbe più coerente alla natura eccezionale dell'istituto). Questo regime fu profondamente mutato nel '98, invertendo detta previsione, poiché attualmente il giudice è obbligato a motivare la decisione che applica la custodia cautelare.

Malgrado questo cambiamento legislativo, il numero di carcerati preventivamente è ancora molto alto (30,1 % nel 2000; 39,7% nel 1995). E ciò nonostante le ripetute dichiarazioni pubbliche del Presidente della Repubblica che denuncia "l'uso fuori misura della custodia cautelare". Ciò è frutto naturalmente della legislazione sulla droga, è a subirne le conseguenze sono perlopiù i piccoli spacciatori di strada, che normalmente (per non dire sempre) restano in custodia cautelativa o sono rinviati a giudizio [immediato, direttissimo] con la "naturale" giustificazione che esiste un pericolo di fuga o di reiterazione. Non ponendo in dubbio il fondamento di queste decisioni in concreto, è inevitabile riconoscere che la custodia cautelare sta funzionando come strumento sostitutivo (o suppletivo) di misure sociali o terapeutiche (nel caso dei tossicodipendenti) che tardano ad essere attuate, arrivando a divenire uno strumento di controllo sociale di carattere autoritario.

Questa situazione non muterà perché non è cambiata radicalmente la politica sulle droghe, che sta in una fase di cambiamento, (11) è vero, ma timida e contraddittoria.

[...]

Il combattere la droga e la criminalità di strada che a questa fu associata fu il pretesto e il detonatore di una politica criminale nella quale la prigione serve come mezzo di controllo e di socializzazione dei "non integrati" -i tossicodipendenti, i giovani in generale, le minoranze etniche, gli immigrati -. Come corollario di questa politica, che anche i magistrati (pm e giudici) generalmente assunsero 'in magna poppa', il numero dei ristretti (definitivi e preventivi) è esponenzialmente cresciuto negli ultimi dieci anni, con tassi di carcerazione che si discostano da quelli registrati negli altri paesi della CE, provocando sistematicamente il sovraffollamento delle carceri, con grave pregiudizio per i diritti fondamentali dei ristretti.

Ultimamente, nonostante una leggera discesa del tasso di incarcerazione, riflesso di alcune misure puntuali [adottate su invito e raccomandazione, in particolare, del CPT e del CAT] dovute a 'scomodi' rilievi negativi riguardanti il sistema carcerario, è nitido il ritorno ad una logica repressiva, con la neocriminalizzazione dei comportamenti inerenti la conduzione degli autoveicoli, aggravamento del regime penale delle armi, e un ampliamento dell'intervento di agenti in borghese.

È stato anche annunciato, che la capacità del sistema carcerario sarà ampliato fino alle 15.000 unità, il che, nonostante il Ministro della Giustizia garantisca che non è in programma un aumento al ricorso della pena carceraria, sembra, in verità, come un "invito" a "pre riempire i posti vuoti" che verranno ad essere creati. Ossia, esiste il pericolo reale di un nuovo aggravamento della logica punitiva che sta caratterizzando la politica statuale, con conseguenze inevitabili per il sistema penitenziario.

2.3. Cenni sulla politica criminale italiana degli ultimi decenni

La seguente comparazione non sarà esaustiva, ma si propone di essere, a grandi linee, 'speculare' all'analisi e ai dati portoghesi sopra menzionati, al fine di dimostrare come anche in Italia, a partire dagli anni '90, si sia creata una sorta di pre-rottura, di crisi 'fisiologica' e 'strutturale' del sistema penitenziario.

In questo periodo, la popolazione carceraria italiana, in maniera simile a quella portoghese e comunitaria, ha conosciuto un notevole incremento a causa degli effetti "della gestione -normativa e non -di due grandi questioni sociali, quella del consumo di sostanze stupefacenti (pesantemente penalizzato nei primi anni Novanta dal pieno vigore della legge 'Iervolino_Vassalli', legge 26 giugno 1990, n.162) e quella dell'immigrazione extracomunitaria (che, in assenza di efficaci politiche di integrazione si è spesso tradotta in mera segregazione delle fasce più deboli di tali immigrati)." (12)

Poniamo ora la nostra attenzione ai seguenti dati inerenti il tasso di reclusione: 26.000 detenuti nel 1978; 35.000 nel '82; 41.000 nel '85; 30.000 nel '88; 25.000 nel'90. (13) A partire dal 1991 (il che corrisponde con l'entrata in vigore della legge 162/90) il numero dei ristretti, irreversibilmente, sarà destinato ad aumentare: 35.000 nel '91 (aumento del 35,7% rispetto l'anno precedente); 47.000 nel '92 (aumento del 34% rispetto l'anno precedente); 50.000 nel '93 (ancora un aumento del 5,5% rispetto l'anno precedente); (14) 52.315 nel '95; 54.831 nel 2000; 55.383 nel 2001. (15)

Della 'neutralità' e 'imparzialità' dei 'numeri' sopra riportati, il criminologo V.Ruggiero propone la seguente lettura: "non vi è nessun rapporto tra tassi di criminalità e tassi di detenzione; l'allarme sociale indirizzato verso alcuni soggetti si traduce in maggiore asprezza di trattamento per tutti, e in particolare per i soggetti più vulnerabili; le legislazioni repressive producono effetti a valanga, che moltiplicano quelli che la loro lettera scritta sembra implicare." (16)

"Se si osserva però la composizione dei detenuti per reato commesso, le maggiori variazioni vengono fatte registrare dai detenuti che scontano fino a due anni di pena. Questa fascia subisce gli umori di volta in volta punitivi o reintegrativi che si affermano periodicamente nel paese. In particolare, questa fascia debole di detenuti sembra aver pagato il prezzo più alto delle campagne di allarme sociale che si sono susseguite in Italia negli ultimi decenni." (17) Per argomentare questo punto di partenza, l'autore propone di "schematizzare la storia penale del paese sullo sfondo di cinque varianti di allarme sociale" al fine di dimostrare come tale allarme indirizzato verso alcuni soggetti si sia tradotto in maggiore asprezza di trattamento 'penale' per altri soggetti più vulnerabili (leggi 'ladri', 'micro criminali di strada', 'drogati' e 'immigrati').

La prima variante di' panico' sociale ha come oggetto l'aumento delle rapine negli anni '60, che però non ha portato ad una maggiore incarcerazione di rapinatori bensì ad un forte aumento delle condanne "da uno a due anni, che certamente non riguardano i reati di rapina ma piuttosto quelli di furto. [...] Analogo fenomeno si verifica negli anni Settanta, quando oggetto del panico è la violenza politica. In questo periodo le condanne aumentano per tutti i reati, e la dilatazione della durata delle pene non si può esclusivamente collegare alle condanne comminate ai soggetti della lotta armata. Tale dilatazione riguarda piuttosto tutti i reati, in un processo che colpisce con particolare accanimento coloro che, nella retorica ufficiale, non sono la fonte dell'allarme sociale prevalente. In questo periodo, l'incremento più sensibile riguarda addirittura le pene che vanno dai tre ai sei mesi. La terza variante di panico sociale riguarda l'esplosione del fenomeno droga negli anni Ottanta. Secondo la logica già descritta, non sorprende vedere un aumento delle pene brevi, presumibilmente inflitte ai consumatori e ai piccoli distributori, e un andamento sostanzialmente stazionario delle pene lunghe, comminate ai trafficanti e grandi distributori che, ufficialmente, sono all'origine dell'allarme. In concomitanza con l'allarme droghe, e in un'associazione droga-mafia forse troppo meccanica, gli anni Ottanta vedono anche un fondato allarme sociale rivolto al crimine organizzato. [...] Come logico esito di simile allarme, ci si aspetterebbe un aumento senza precedenti delle pene a vita e delle condanne di lungo termine. Nulla di tutto questo: le condanne suddette rimangono nuovamente stazionarie, mentre quelle per furto osservano una impressionante impennata. L'ultimo periodo in ordine di tempo riguarda l'allarme, nuovamente non privo di fondamento, indirizzato verso la classe politica corrotta e le malefatte degli imprenditori. L'esito di questo allarme è sotto gli occhi di tutti: la domanda di punizione, per via della elusività dei soggetti che la fanno sorgere, ripiega su altri soggetti più visibili e facilmente reperibili, segnatamente immigrati e criminali di strada. Nel complesso, sembra quasi che, in Italia, il carcere abbia un perenne bisogno di panico morale, rivolto ora a questo ora a quel soggetto o fenomeno, pena la sua estinzione." (18)

Dopo aver sinteticamente riportato questa originale e illuminante lettura del rapporto intercorrente tra allarme sociale e politica criminale, soffermiamo ora la nostra attenzione sull'ultimo periodo sopra citato (anni '90) secondo il punto di vista del filosofo L.Ferrajoli: "Abbiamo in tal modo, In Italia, la convivenza di tre diritti penali: quello delle grandi inchieste sulla mafia e sulla corruzione, indubbiamente il più consono, al di là delle cadute di tutela delle garanzie, alle finalità di prevenzione dei delitti proprie del diritto penale; quello del diritto penale che chiamerò 'burocratico', che si esprime in un lavoro tanto inutile - anzi dannoso -quanto inefficiente e dispendioso, e che corrisponde al grosso della giustizia penale; quello infine della repressione effettiva, che si manifesta in prevalenza nella reclusione carceraria, pur per reati non gravi, dei soggetti deboli ed emarginati. Il carcere -al di là della spettacolarità dei grandi processi, e per altro verso dell'enorme quantità di soggetti toccati dalla giustizia penale -è insomma, e sempre più, uno strumento di controllo e di repressione sociale riservato ai soggetti emarginati. Tossicodipendenti, immigrati e giovani sottoproletari ne sono in quantità crescente i principali destinatari, a causa dell'aumento della disoccupazione e della povertà, della simultanea crisi dello stato sociale e delle sue prestazioni assistenziali e, per altro verso, delle crescenti pulsioni repressive che animano l'opinione pubblica, mobilitandola contro i soggetti deboli e diversi. Contro di essi la giustizia penale è straordinariamente rapida ed 'efficiente'. Anche perché il clima d'emergenza nel quale viviamo da oltre vent'anni" ha avallato, "soprattutto nei confronti della microcriminalità marginale, prassi sommarie e sbrigative." (19)

Questo stato dell'arte potrebbe essere spiegato, infine, partendo dalle parole di A.Gramsci riportate in una lucida analisi sulla politica criminale italiana, questa volta riferita al "Belpaese" a partire dall'unità d'Italia, proposta dal criminologo D.Melossi.

"Il 'sovversivismo' popolare è correlativo al 'sovversivismo' dall'alto, cioè al non essere mai esistito un 'dominio della legge', ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale o di gruppo". (20) "Secondo l'analisi degli scrittori meridionalisti, di Gramsci e altri, almeno dal tempo dell'Unità d'Italia nel 1861, i governi centrali romani hanno tenuto un'atteggiamento assai ambiguo rispetto alla presenza di forme di criminalità organizzata nel Sud. La presenza di tali organizzazioni infatti è stata tradizionalmente funzionale al permanere di condizioni di arretratezza e di controllo politico al Sud che hanno controbilanciato la più avanzata composizione socio-politica del Nord. Tale ricostruzione sembra essere un'ottima illustrazione storica di ciò che sostiene Michel Foucault in una parte cruciale ma spesso dimenticata di Sorvegliare e punire, (21) laddove lo 'scacco' del carcere viene spiegato con una funzione latente di questo nel senso di trasformare illegalismi potenzialmente pericolosi politicamente in una delinquenza facilmente gestibile e assimilabile, anzi utile per i poteri costituiti. Esiste cioè, nella tradizione culturale italiana, una sorta di autoritarismo 'soffice' che si accompagna a bassi livelli di repressione penale." (22)

"Ciò fu tanto vero in un paese, come l'Italia, in cui, nel bene e nel male, tutti rendono omaggio alla lettera della legge e nessuno si preoccupa di seguirne lo spirito (23)-in cui quindi l'ideologia liberazionista degli anni Sessanta-Settanta ha avuto il merito, se non altro, di fare emergere con più nettezza l'anarchismo diffuso che caratterizza il Paese e che è perfettamente funzionale a promuovere l'arroganza e la prepotenza di coloro i cui poteri sono basati non sul consenso ma su situazioni di vantaggio e di privilegio -, un anarchismo che piace ai potenti così come ai loro figli nel periodo in cui questi ultimi si concedono l'inevitabile parentesi di radicalismo giovanilistico, un anarchismo di marca squisitamente borghese, che finisce per svolgere una funzione estremamente conservatrice nel riprodurre gli equilibri di potere tradizionali." (24)

Le radici storiche di tale "sovversivismo" globale del "Belpaese", non è stato, ahimè, sradicato, per così dire, né dall'entrata in vigore della nostra pregnante Carta Costituzionale, né, tanto meno, dalla così auto proclamatasi 'seconda repubblica'.

"Non è un caso quindi che di recente in Italia il vessillo politico del così detto 'garantismo' sia stato raccolto da personaggi discutibili che sempre più si schierano a difesa dell'esistente, piuttosto che sostenere qualsiasi progetto di rinnovamento. Il 'garantismo' cui qui mi riferisco non è naturalmente una teoria filosofico-giuridica che parte dalla difesa delle libertà civili come premessa di fondo, ma l'oggetto 'garantismo' così come è stato posto all'attenzione dell'opinione pubblica negli ultimi anni, quando illustri e telegenici avvocati hanno fatto bella mostra della loro indignazione perché presunti ladri e corrotti altolocati, loro danarosi clienti, erano finiti in carcere, ma nulla s'è sentito sulla sorte di decina di migliaia di immigrati poveri e tossicodipendenti che facevano la stessa fine in condizioni ben peggiori e senza alcuna speranza di riuscire ad acquistare sul mercato neppure le briciole delle così dette 'garanzie'." (25)

Anche per quanto concerne la custodia cautelare i dati italiani non sono meno allarmanti di quelli portoghesi (al luglio 2001 rappresentano il 42,5% della popolazione detenuta).

L'unico rilievo positivo 'italiano' riguarda la durata media della detenzione in carcere, notevolmente più bassa di quella portoghese: ad es., nel '97 la media italiana è di 8,1 mesi mentre in Portogallo raggiunge i 22,6 mesi.

A questo punto della trattazione, spero sia chiaro quale sia 'l'oggetto' (e non 'i soggetti') della esecuzione penitenziaria così come dell'intero sistema penale e della politica criminal sociale adottata dai legislatori 'democratici' italiano e portoghese. Nel prossimo capitolo sarà dettagliatamente analizzata la Carta Costituzionale portoghese sempre in relazione alle concezioni di Stato costituzionale di diritto e politica criminale.

Note

1. Ad.es., nel 2003, più della metà dei ristretti portoghesi (51%, fonte RSP2003), è già stata in carcere almeno una volta. Solo questo dato dovrebbe portare, ad un lettore di buon senso, alla coscienza del fallimento, quanto meno, della politica repressiva-rieducativa adottata dai legislatori 'democratici' negli ultimi decenni. Con ciò, non si vuole arrivare alla conclusione che la recidiva sia dovuta esclusivamente all'invivibilità del carcere, e alla sua forza (contraddittoriamente) desocializzante; comunque, la visone dello Stato di diritto con connotazione 'politica' più che costituzionale, porta a lasciare sullo sfondo la promozione di politiche sociali adeguate (sicurezza dei diritti) e a favorire politiche della sicurezza (diritto alla sicurezza) che rendono sovraffollate le carceri; in questo contesto, la funzione rieducativa incontra difficoltà strutturali nella sua attuazione. Tali fattori, innegabilmente, contribuiscono - o quanto meno, non favoriscono l'esatto contrario - alla reiterazione di atteggiamenti "devianti".

2. Il brano che segue è la traduzione, quasi fedele, di E.Maia Costa, Prisoes: A lei escrita e a lei na pratica em Portugal, (La legge scritta e la legge nella pratica in PT", in A.P.Dores (organizador, a cura di), Prisoes na Europa, Oeiras, 2003, 93 ss.

Uno speciale ringraziamento, per la disponibilità mostrata, va all'autore Eduardo Maia Costa, procuratore generale aggiunto del Tribunale Supremo di giustizia, direttore della "Revista do Ministerio Publico", traduttore in lingua portoghese di alcuni saggi del filosofo L.Ferrajoli.

3. (n.d.r) Opinabile, se non 'intollerabile', è l'ordine sistematico della legge penitenziaria portoghese, che pospone il principio della 'umanizzazione' della pena (art. 3), a quello del reinserimento (art. 2), in aperta collisione con la 'prospettiva umanista' della Legge Fondamentale portoghese (art. 1,2). Sul piano comparativo, si sottolinea come in Italia, almeno sulla carta, la legge ordinaria abbia recepito l'ordine assiologico della funzione della pena così come delineato dall'art. 27, n.3 della Costituzione, ossia, posponendo la funzione rieducativa al 'senso di umanità', fondamento assiologico invalicabile di ogni Costituzione moderna (Vedi 3.2.b; 4.2).

4. (n.d.r.) Si ricorda che, ad oggi, l'aborto, salve poche ipotesi tassative e eccezionali, è vietato dalla legislazione portoghese.

5. (n.d.r.) Si noti come l'autore intenda i rapporti tra principio della dignità umana ('umanizzazione' della pena) e principio del 'reinserimento sociale' così come delineati nel disegno costituzionale. Questo dato, però, non sminuisce la critica, precedentemente mossa, contro la positivizzazione sistematica dei due principi all'interno del decreto-lei 265/79, poiché, una corretta interpretazione di uno o più giuristi non impedisce al Legislatore e all'Amministrazione di considerare 'il reinserimento' come la 'giustificazione esterna' del sistema e, interpretando formalmente -ossia, ignorando il contenuto e i valori della Costituzione -la legge ordinaria, 'l'umanizzazione' come uno dei tanti altri principi sussidiari che assistono l'esecuzione delle pene (accanto ad es., la prevenzione esterna, l'ordine e la disciplina interna). Tale dato è confermato dal fatto, ancora più opinabile, che, al comma 2 dell'art. 2 decreto-lei 265/79 - quindi, prima dell'art. 3 che prevede 'l'umanizzazione' delle pene - si legge: "L'esecuzione delle misure privative della libertà serve anche alla difesa della società, prevenendo la pratica di altri fatti criminosi".

Per essere più corretti, quindi, da un interpretazione formale -ossia, ribadiamo, ignorando il contenuto e i valori della Costituzione -la dignità umana, sulla quale si fonda l'intero ordinamento portoghese, nel sistema totale (e non 'ordinamento interno', nel senso di Santi Romano) carcere detto principio è subordinato non solo al reinserimento, ma anche alla prevenzione.

Si ribadisce, il discorso qui proposto, non ha valenza formale, poiché, isolamento, carcere duro, maltrattamenti sono aspetti comuni dei sistemi penali portoghese e italiano, ma, in Portogallo, addirittura, tali 'regimi' trovano giustificazione nei principi (non Costitutuzionali) della legge, rectius, nel decreto-lei istitutivo del sistema totale penitenziario.

6. Primato portoghese in C.E., nel 2001 26 mesi contro una media europea e italiana di circa 8 mesi. Fonte, ministero della giustizia portoghese.

7. Fonte, ministero della giustizia portoghese.

8. Il tasso di sovraffollamento più alto si registra nel '95, 147,7%, con 12201 ristretti per una capienza effettiva di 8260 posti. Fonte, ministero della giustizia portoghese.

9. Fonte, ministero della giustizia portoghese. Non si comprende perché nel RSP2003, tra i dati proposti dal Provedor de Justiça, il tasso del'98 risulta essere il 62%; nel 2003, sempre secondo i dati del Provedor, il tasso scende (o sale?) al 55%.

10. Fonte, ministero della giustizia portoghese.

11. Si fa riferimento alla lei 30/2000 che depenalizza il possesso di 10 dosi giornaliere di 'droga'. Detta legge, ad. es., 'sancisce' che la dose giornaliera di marijuana è 0,5g; è quindi punito con contravvenzione amministrativa l'infrattore che possiede 5g della suddetta 'droga leggera'. Sul piano comparativo, si critica, oltre l'attuale legge vigente in Italia, 162/90 (vedi oltre), il recente disegno di legge (primo firmatario, on.Fini) che prospetta una ancora più pesante criminalizzazione del possesso di marijuana: 0,15 g è la dose consentita.. contro i 5g della legge portoghese! Integrazione europea dovrebbe significare anche leggi penali, non dico uguali, ma, quanto meno, simili o 'coordinabili'. In altre parole, non è concepibile che, ad es., un cittadino portoghese, (che per motivi di lavoro nella stessa giornata ha due appuntamenti, uno di mattina in Portogallo, l'altro di sera in Italia, ed è in possesso di grammi 1,5 di marijuana) venga 'fermato' la mattina dalla polizia portoghese, la sera da quella italiana: la prima volta sarà punito con una semplice contravvenzione amministrativa, la seconda volta rischia il carcere perché il potere discrezionale attribuito dalla legge "Iervolino-Vassalli" (vedi oltre) alle forze dell'ordine permette l'imputazione, nel caso in specie, di 'detenzione a fini di spaccio'. Sempre per supposizione, detto cittadino (comunitario?) sarà sottoposto a custodia cautelare successivamente revocata dal pm o dal Tribunale Delle libertà italiano. Tornato (finalmente!) in Portogallo, il cittadino in questione decide di non sottoporsi al procedimento penale italiano. La domanda è la seguente: secondo il Trattato di Schengen e il mandato di arresto europeo -se verrà ratificato dal Legislatore italiano -, potrà la polizia portoghese 'arrestare' il suddetto cittadino (per semplice ordine dell'autorità italiana) per una fattispecie che secondo l'ordinamento portoghese è una semplice contravvenzione amministrativa?

12. S.Anastasia, Il vaso di Pandora. Carcere e pena dopo le riforme, in M.Palma (a cura di), Il vaso di Pandora, Roma, 1997, 9.

13. Fonte, V.Ruggiero, Scuole di avviamento al lavoro criminale, in M.Palma (a cura di), Il vaso di Pandora, Roma, 1997, 95.

14. Fonte, S.Anastasia, Il vaso di Pandora..., 9.

15. I dati riportati si riferiscono al numero dei ristretti in carcere; le forme del controllo penale, però, non si fermano nelle mura delle carceri. Si tenga conto che, ad. es., nel 2000, oltre i 54.831 ristretti in carcere, erano sotto posti ad esecuzione penale: 24.991(affidamento in prova al servizio sociale), 9489 (detenzione domiciliare), 1593 (sanzioni sostitutive), 1881 (libertà vigilata); si superano, quindi, le 90.000 unità che, confrontate alle 25.000 del 1990, fanno comprendere la portata repressiva della legge sulla droga sopra menzionata. La fonte di questi dati è il pre-rapporto 2001 dell'Associazione Antigone.

16. V.Ruggiero, Scuole di avviamento al lavoro criminale, in M.Palma (a cura di), Il vaso di Pandora, Roma, 1997, 91.

17. Ibid., 95.

18. Ibid., 96.

19. L. Ferrajoli, La pena in una società democratica, in M.Palma (a cura di), Il vaso di Pandora, Roma, 1997, 20 e 21.

20. A.Gramsci, Quaderni del carcere (1929-1935), 4 voll., Torino, 1975, 23.

21. M.Foucault, Sorvegliare e punire: Nascita della prigione (1975), Torino, 1976.

22. D.Melossi, Il controllo sociale tra punizione e indulgenza, in M.Palma (a cura di), Il vaso di Pandora, Roma, 1997, 110.

23. F.De Andrè, nel 'Testamento di Tito', (Tito è uno dei 'ladroni' che fu crocifisso con Gesù), canta "Lo sanno a memoria il diritto di Dio ma scordano sempre il perdono". Tale espressione astrae l'annoso problema che coinvolge qualsivoglia comunità di persone, religiosa o politica, tra l'applicazione del proprio sistema di regole in senso meramente formale o sostanziale. La canzona citata è tratta dall'album "La buona novella", ispirato liberamente ai vangeli apocrifi.

24. D.Melossi, Il controllo sociale tra punizione e indulgenza..., cit., 112.

25. Ibid., 112. Per un analisi più recente sulla politica criminale del 'Belpaese', si rinvia a S.Anastasia -M.Palma, Premessa, in S.Anastasia -M.Palma, (a cura di), La bilancia e la misura, Milano, 2001.