ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Federico Giacomelli, 2006

A distanza di trenta anni dall'entrata in vigore dell'Ordinamento penitenziario e dopo un susseguirsi, di interventi di riforma, appare logico cercare di trarre un primo bilancio della esperienza, così, a suo modo, rivoluzionaria dell'affidamento in prova al servizio sociale.

Quando è stata approntata la riforma del sistema penitenziario del 1975, modificata ed ampliata con la novella del 1986 (la cosiddetta legge "Gozzini") con la quale viene riconosciuta e perfezionata la facoltà del condannato di accedere alle misure alternative dall'esterno, poi perfezionata grazie alla l. n. 165/1998 (la cosiddetta legge "Simeone") senza fare ingresso dal carcere, si pensava di aver realizzato il progetto di un carcere meno segregante, basato sul principio del trattamento rieducativo, nello spirito dell'art. 27 della Costituzione.

Si pensava che proclamare in una legge il principio della "flessibilità della pena" sarebbe stato sufficiente per aprire l'ordinamento italiano a quella politica di decarcerizzazione affermatasi nei più importanti paesi europei e ad un nuovo modo di intendere l'esecuzione della pena attraverso i trattamenti in libertà.

Nella realtà però la legge non si è rivelata sufficiente non essendo stata coadiuvata da una serie di interventi complementari a sostegno di questi principi innovativi. Dall'indagine che abbiamo illustrato sulla disciplina dell'affidamento in prova appare infatti come dopo l'introduzione dell'ordinamento penitenziario, gli interventi sono stati ispirati da "logiche" diverse, così da dar vita a sviluppi della legislazione e della prassi non sempre congruenti. Molte volte è apparso che il favore accordato dal legislatore ai principi della riforma sia stato influenzato dal consenso che poteva essere riscosso a livello di opinione pubblica. L'incidenza che ha avuto l'attività legislativa e giurisprudenziale prodottasi nel settore, volta a volta, ha favorito od ostacolato un razionale sviluppo del sistema normativo nella direzione della riforma.

Con le leggi Gozzini e Simeone, è stato attribuito ampio spazio alle misure alternative alla detenzione, in particolare l'affidamento in prova è divenuta la misura alternativa per eccellenza. Oggi il condannato può proporre istanza di affidamento direttamente dalla libertà, cioè prima dell'emissione dell'ordine di carcerazione, e questo gli impedisce di trascorrere in istituto il mese previsto dalla normativa ordinaria per la cosiddetta "osservazione della personalità". Inoltre l'unico requisito oggettivo per l'ammissibilità all'affidamento in prova è costituito dal limite di pena di tre anni, che, dopo l'intervento della Corte Costituzionale del 1993, s'intende "quella da espiare in concreto", includente anche quella residua rispetto ad una maggiore pena inflitta. Questa disposizione ha prodotto senza dubbio un ampliamento notevole della fascia dei potenziali fruitori della misura, molto lontana dalle tradizionali categorie originariamente previste dal legislatore.

La dottrina in questo senso ha più volte criticato il metodo con il quale è stata ampliata la concessione dell'affidamento, facendole assumere tonalità almeno in parte diverse da quelle originariamente previste dall'istituto. Si vuole alludere alla non sempre limpida coerenza che ha caratterizzato il processo evolutivo in esame, dove è sembrato campeggiare un legislatore più interessato ai risultati pratici di decongestionamento delle strutture carcerarie che al più arduo obiettivo finale della rieducazione. La conseguenza di questa politica è stata naturalmente la dilatazione numerica dell'area penale esterna e la crescita esponenziale degli "utenti" a cui però non è corrisposta un rafforzamento adeguato dei servizi educativi.

Ciò che si vuole evitare è che il sistema normativo sviluppi una politica di applicazione dell'affidamento e delle misure alternative in generale, determinato da una decarcerizzazione indiscriminata che abbia l'effetto di innescare un processo di reazione molto pericoloso per la sopravvivenza stessa delle misure.

La presenza dell'affidamento in prova al servizio sociale e delle altre misure alternative alla detenzione, caratterizzate da diversa estensione, da diverse condizioni di concessione e non sempre con analoga funzione, deve rimanere un punto fermo dell'ordinamento penale, nell'ottica dell'individualizzazione del trattamento e della necessaria finalità rieducativa della pena.

Il rischio che più probabilmente stiamo correndo è che il "sottosistema" delle misure alternative, all'interno del quale l'affidamento in prova assume il ruolo di protagonista, si avvii a diventare un contenitore di "casi", utilizzato solo in funzione decarcerizzante, senza più adeguato rispetto per le ragioni e i valori propri delle misure, né per le condizioni operative da realizzare per assicurare l'efficacia dei relativi programmi.

Nella generale prospettiva di un consistente "alleggerimento" del sistema sanzionatorio, nel quale il ricorso al carcere costituisca l'extrema ratio, è indispensabile quindi la creazione di un percorso rieducativo efficace ed individualizzato, possibile unicamente valorizzando l'azione dell'apparato operativo.

Il problema di assicurare agli organi competenti i finanziamenti necessari per garantire una adeguata esecuzione delle sanzioni non detentive è di natura essenzialmente politica: finché le risorse resteranno assorbite dal sistema penitenziario sarà difficile definire praticabili, in concreto, percorsi davvero autonomi rispetto al carcere, seppure lo stesso costo unitario delle sanzioni che non si fondino sulla detenzione sia di gran lunga inferiore al costo-carcere.

La recente riforma dei "Centri di Servizio Sociale" in "Uffici di Esecuzione penale", sembra invece rafforzare la linea di continuità con l'amministrazione penitenziaria facendo avvertire un cambiamento di rotta (e di cultura) della legislazione penitenziaria, accentuando le funzioni di controllo a scapito della funzione di inserimento curata degli assistenti sociali.

Attualmente esiste una fascia ampia di criminalità, in continua crescita, la cui genesi è riconducibile a situazioni di disadattamento ed emarginazione sociale e nei confronti della quale l'unica risposta sensata è rappresentata da sanzioni controllate ed assistite, caratterizzate cioè anche da interventi di sostegno e di aiuto finalizzati ad offrire agli autori di reato opportunità di scelte di vita diversa.

Non va infatti dimenticato che la popolazione carceraria, è composta prevalentemente da tossicodipendenti, extracomunitari e soggetti che presentano malattie fisiche (aids) o disturbi psichici e psichiatrici. E' a questa tipologia di condannati, che in fondo costituisce la categoria dei destinatari naturali dell'affidamento in prova, così come originariamente concepito che la misura dovrebbe indirizzarsi.

L'augurio è che oggi, al di là delle spinte verso una inutile carcerizzazione (come il recente intervento legislativo che ne ha psoto come condizione ostativa alla concessione della misura la "recidiva" del detenuto), si attui una sinergia di forze idonee a creare mezzi e strutture che rendano possibile una esecuzione penale differenziata, personale, espressione di una società che condanna ma non dimentica, dove non dimenticare significa anche preoccuparsi di creare le condizioni affinché certi strati di disagio sociale, di emarginazione trovino sostegno ed aiuto per non ricadere in atti delinquenziali ed orientare le proprie scelte e i propri comportamenti verso modalità di vita socialmente accettabile.

E' quindi da applaudire, in questo senso, il tentativo della Commissione del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria di definire le linee guida che assicurino nell'ambito dell'affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, comma 7) e più in generale nell'ambito dell'esecuzione della pena di condannati adulti, l'adozione di modelli negli interventi di giustizia riparativa, in conformità alle più recenti Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d'Europa.

Il cercare di coinvolgere nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, oltre al reo anche la vittima e la comunità, al fine di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione fra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo, ci pare un'ottima base di partenza per rendere più "solido" l'istituto dell'affidamento in prova evitando così di temere i danni che possono derivare da un'utilizzazione abusiva della misura.

Perché ciò avvenga occorre che i servizi sociali, incaricati di gestirla possano assicurarne l'esecuzione sotto tutti gli aspetti: controllo, aiuto ed appunto riparazione del danno. Tale obiettivo si potrà perseguire, a nostro giudizio, attraverso una organizzazione degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna di tipo "multiprofessionale" in grado di dare risposte complete e molteplici alla complessità insita nella gestione della pena.

Pensiamo si possa affermare che, il successo di una politica della giustizia e della sicurezza per i cittadini dipenda, in maniera significativa, anche dalla ricostruzione, all'interno dell'Amministrazione Penitenziaria dell'area penale esterna affinché sia in grado di gestire le pene non detentive sotto tutti gli aspetti.

Tracciando un giudizio finale sull'esperienza dell'affidamento in prova al servizio sociale, al di là delle strumentalizzazioni effettuate dal mondo politico nel corso di questi anni, possiamo affermare senza dubbio che nella sostanza, l'istituto, resta un fatto positivo perché ci si deve sempre chiedere quali sarebbero stati gli effetti se lo stesso soggetto fosse rimasto in carcere.