ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 4
Esecuzione in concreto della misura

Federico Giacomelli, 2006

4.1. Contenuto della misura: le prescrizioni

Il contenuto della misura dell'affidamento in prova al servizio sociale è costituito dalle prescrizioni che il Tribunale di Sorveglianza impone al condannato e che si sostanziano in altrettante regole di condotta che il condannato si obbliga a rispettare mediante la sottoscrizione del verbale di accettazione delle stesse. Ai sensi dell'art. 47, 2º co., Ord. Penit., l'esecuzione della misura alternativa dell'affidamento è finalizzata alla rieducazione del condannato, la norma infatti richiede che le prescrizioni imposte al reo siano sufficienti a contribuire alla sua rieducazione e ad assicurare la prevenzione del pericolo che questi commetta nuovi reati. (1)

Il condannato ammesso alla misura alternativa, all'atto dell'affidamento, è soggetto, per ciò stesso, a precise prescrizioni, in ordine (come dettagliatamente indicato dall'art. 47, 5º co., Ord. Penit.) "ai suoi rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali e al lavoro". Le prescrizioni quindi si identificano con le regole di condotta che costituiscono il contenuto del trattamento alternativo a quello carcerario e determinano l'essenza stessa della pena (2); devono, in quanto tali, conformarsi ai principi costituzionali di legalità e tassatività, di cui all'art. 25, 2º co., Cost.

Tali prescrizioni, inserite nell'ordinanza di concessione della misura (ex art. 96, 4º co., d.p.r. 230/2000) sono contenute analiticamente in apposito verbale, che deve, a pena di inammissibilità, accompagnare la stessa ordinanza. (3) La stessa concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale è subordinata alla sottoscrizione del verbale da parte del condannato, il quale così si impegna a rispettare le condizioni poste e descritte.

"L'ordinanza di affidamento in prova ha effetto se l'interessato sottoscrive il verbale previsto dal quinto comma dell'art. 47 della legge, con l'impegno a rispettare le prescrizioni dallo stesso previste. Il verbale è sottoscritto davanti al direttore dell'istituto se il condannato è detenuto, o davanti al direttore del centro di servizio sociale per adulti, previa notifica di cui alla lettera d) del comma 1, se il condannato è libero o trovasi sottoposto alla detenzione domiciliare, o comunque nello stato detentivo di cui al comma 10 dell'art. 656 del codice di procedura penale. Il centro di servizio sociale per adulti trasmette senza indugio il verbale di accettazione delle prescrizioni:

  1. al tribunale di sorveglianza che ha emesso l'ordinanza;
  2. all'ufficio di sorveglianza competente per la prova;
  3. all'organo del pubblico ministero competente per la esecuzione e la determinazione del fine pena;

Dalla data di sottoscrizione del verbale di accettazione delle prescrizioni ha inizio l'affidamento in prova al servizio sociale....". (4)

La mancata sottoscrizione, per qualsiasi causa ed anche per scelta volontaria dell'affidando, del verbale delle prescrizioni impone la declaratoria di inefficacia dell'ordinanza concessiva; declaratoria che, rientrando nell'orbita delle questioni inerenti l'esecuzione di pronuncia definitiva, non può essere emanata che dal giudice dell'esecuzione in sede di incidente (artt. 665 e segg. C.p.p.): nella specie il Tribunale di Sorveglianza che ha deliberato il provvedimento.

Pertanto solo subordinatamente alla sottoscrizione del verbale da parte dell'interessato, il provvedimento di concessione della misura acquista efficacia. Il 6º co. dell'art. 47 statuisce altresì che:

"con lo stesso provvedimento può essere disposto che durante tutto o parte del periodo di affidamento in prova il condannato non soggiorni in uno o più comuni, o soggiorni in un comune determinato; in particolare sono stabilite prescrizioni che impediscano al soggetto di svolgere attività o di avere rapporti personali che possono portare al compimento di altri reati".

Si desume dalla lettura dei disposti normativi, che si è dato spazio alle cosiddette "prescrizioni di polizia" (5), con funzione limitativa e preventiva; questi divieti od obblighi, possiedono uno scarso contenuto rieducativo e risocializzativo, risolvendosi in una compressione della libertà personale dell'affidato. Più interessanti invece dal punto di vista risocializzativo, le prescrizioni riguardanti l'impegno lavorativo del reo, i suoi rapporti con il servizio sociale e soprattutto la previsione, nel 7º co. dell'art. 47 Ord. Penit., dell'attività a favore della vittima del reato. (6)

Dunque alla individuazione delle prescrizioni è rimessa, la funzione risocializzante della misura, a parte l'aspetto, negativo, naturalmente dell'evitare essa la desocializzazione connessa alla permanenza nell'istituto penitenziario (7). Volendo effettuare una descrizione contenutistica delle prescrizioni, la prima delle medesime, stando alla dizione di cui al 1º co., sta nello svolgimento della prova fuori dell'istituto. La portata della disposizione infatti è quella di riconnettere l'esecuzione della pena alla condizione di persona non ristretta in carcere.

Nell'ambito delle prescrizioni può distinguersi tra prescrizioni di contenuto positivo (prescrizioni vere e proprie) e prescrizioni di contenuto negativo (interdizioni). (8)

4.1.1. Prescrizioni di contenuto positivo - la mediazione penale

Tra le prescrizioni di contenuto positivo, la norma prevede, innanzitutto che con l'ordinanza si disponga l'obbligo di contatto con l'Ufficio di esecuzione penale esterna (organo cardine e propulsore della misura), si stabilisca il luogo di dimora, e si dettino disposizioni circa lo svolgimento di attività lavorativa. A proposito dell'attività lavorativa, va segnalata l'espansione del settore del lavoro cosiddetto risarcitorio o socialmente utile (attività non retribuita a favore della collettività da svolgersi presso enti pubblici o privati, o associazioni che svolgono attività socialmente utili) (9). Sempre più frequentemente le prescrizioni impongono di dedicare una quota di tempo ad attività di utilità sociale, già individuate o da individuarsi di concerto con il servizio sociale. Si tratta di un impostazione che risponde all'esigenza di valorizzare il fine risocializzante dell'affidamento (pensiamo ad esempio all'utilità ed all'opportunità di una prescrizione che preveda che la persona condannata per il delitto di spaccio di sostanze stupefacenti svolga una prestazione di lavoro non retribuito a favore di una comunità di recupero per tossicodipendenti) e che rappresenta un tentativo di assicurare un contenuto sostanziale alla misura alternativa. (10)

Occorre tuttavia ricordare che la legittimità di una prescrizione di questo genere trova un limite invalicabile nel consenso del condannato: in mancanza di tale requisito la prescrizione si risolverebbe nella imposizione, incompatibile con i principi costituzionali, di una sorta di "lavoro coatto". Dall'altra parte il consenso del condannato è richiesto dall'ordinamento in tutti i casi in cui la pena può essere espiata tramite lo svolgimento di una attività non retribuita a favore della collettività (es. lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 43 del decreto legislativo 28.8.2000, n. 274, istitutivo della competenza penale del giudice di pace).

Tali prescrizioni trovano la "copertura" della norma (art. 47 co. 5 Ord. Penit.), ma non mancano di profili problematici. A parte la contraddizione, solo apparente, tra attività di volontariato (a titolo gratuito) e imposizione di un obbligo, il profilo più disagevole risulta essere la compatibilità con la normativa previdenziale (11). Nella prassi la questione viene risolta con la prescrizione che grava di tale onere l'affidato, in difetto di soluzione alternativa.

Sempre tra le prescrizioni di contenuto positivo, esplicitamente menzionato (art. 47 comma 7º Ord. Penit.) e decisivo nel caso di condanne per reati connessi con il relativo contesto, è l'adempimento degli obblighi di assistenza familiare. Altrettanto esplicita è la previsione di una attivazione, nei limiti delle proprie possibilità, nei confronti della vittima del reato, resa doverosa dalla novella del 1986. Tale importante elemento, introdotto appunto con la "legge Gozzini", si pone nella linea di privilegiare le cosiddette "prescrizioni di solidarietà", in un'ottica che privilegia, anziché semplicemente puntare ad evitare pericoli di recidiva, la finalità rieducativa e risocializzativa (12). Va rilevato che la prescrizione avente ad oggetto l'obbligo di adoperarsi a favore della vittima del reato si esplica anche in modi diversi dal risarcimento del danno, tramite qualsiasi forma di sostegno morale e/o materiale realizzabile nel caso concreto. La disposizione dell'art. 47, 7º co., Ord. Penit., ha infatti introdotto secondo la giurisprudenza una prescrizione obbligatoria, ma di carattere elastico. Il magistrato di sorveglianza può intervenire in merito anche successivamente alla concessione della misura alternativa, con apposito provvedimento, finalizzato a specificare in dettaglio le previsioni inizialmente generiche del Tribunale di Sorveglianza. (13)

Il fatto che il legislatore abbia collocato nel quadro delle prescrizioni che il Tribunale è tenuto ad imporre al condannato anche quella di adoperarsi a favore della persona offesa costituisce un significativo punto di emersione della concezione che identifica nella soddisfazione della vittima una delle finalità della sanzione penale. In questa prospettiva l'art. 47, 7º comma della legge 354/1975 si presta ad essere valorizzato come base normativa della cosiddetta "mediazione penale" intesa come attività che, tramite la negoziazione tra la vittima ed il reo, mira a pervenire ad un accordo che sia in grado di soddisfare le esigenze di riparazione della prima e di offrire al secondo, mediante l'attivazione di un processo di responsabilizzazione circa le conseguenze del reato, una concreta opportunità di riabilitazione e recupero sociale. (14)

Al fine di promuovere una congrua attuazione della giustizia riparativa nell'ambito dell'esecuzione della pena dei condannati adulti, è stata istituita la Commissione di studio "Mediazione Penale e Giustizia Riparativa", composta da personale dell'Amministrazione Penitenziaria ed esperti esterni, che ha avuto come obiettivo quello di definire le linee guida che assicurino, l'adozione di modelli negli interventi di giustizia riparativa. (15)

A seguito dell'indagine svolta dalla Commissione sulle prassi esistenti, sul territorio nazionale, sono emersi infatti aspetti di indubbia criticità nell'applicazione della cosiddetta prescrizione riparativa e, più in generale, nella gestione dei compiti attribuiti all'amministrazione penitenziaria dagli artt. 27 e 118 del regolamento di esecuzione. (16) A tal fine sono state diramate dalla Commissione delle istruzioni concernenti le linee di indirizzo sull'applicazione della giustizia riparativa e la mediazione penale.

In via preliminare è stato precisato, che per giustizia riparativa si intende il "procedimento nel quale la vittima e il reo, e se appropriato, ogni altro individuo o membro della comunità lesi da un reato partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte dall'illecito penale, generalmente con l'aiuto di un facilatore" (17).

Si tratta pertanto, "di un modello di giustizia che coinvolge nella ricerca di soluzioni gli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, oltre al reo anche la vittima e la comunità, al fine di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione fra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo". (18) Le modalità applicative del paradigma riparativo, secondo l'International Scientific and Professional Advisory Council (ISPAC) (19), comprendono svariate tipologie di programmi adottate nei diversi Paesi.

La Commissione ne ha indicate alcune a titolo esemplificativo, riservandosi di verificare la praticabilità in ambito italiano:

  1. l'invio di una lettera di scuse (apology) alla vittima da parte dell'autore del reato;
  2. gli incontri tra vittime e autori di reati analoghi a quello subito dalle vittime (the Victim/Community Impact Panel);
  3. gli incontri di mediazione allargata che tendono a realizzare un dialogo esteso ai gruppi parentali ovvero a tutti soggetti coinvolti dalla commissione di un reato (the Community/Family Group Conferencing);
  4. l'espletamento di un'attività lavorativa a favore della vittima stesa (Personal Service to Victims), o a favore della collettività (Community Services);
  5. la mediazione tra l'autore del reato e la sua vittima (Victim-Offender Mediation)

In ragione del carattere evolutivo degli studi in materia, la Commissione ha impartito indicazioni limitatamente alle ipotesi di lavoro a favore della collettività e di mediazione. Quest'ultima presume un intervento diretto, personale e consensuale sia del reo sia della vittima, e rappresenta la specie che meglio consente alle parti di svolgere un percorso di riconoscimento reciproco e di ricostruire la relazione rotta dal reato. (20) Non attengono, invece, direttamente al concetto di giustizia riparativa, e da essa vanno tenute distinte, le restituzioni ed il risarcimento del danno previste rispettivamente dall'art. 185 c.p. e dagli articoli 2043 e 2059 c.c.

Realizzabile tramite azioni positive, infatti, la riparazione ha una valenza molto più profonda e, soprattutto, uno spessore sociale che la rende ben più complessa del mero risarcimento. Di conseguenza, l'adesione ad una ipotesi riparativa (21) diventa possibile solo a seguito di un percorso di responsabilizzazione del reo, percorso che il condannato deve essere sollecitato ad intraprendere dagli operatori penitenziari. Al di fuori di questo percorso, ed in assenza di una assunzione di responsabilità, appare molto probabile il rischio di strumentalizzazione finalizzata esclusivamente all'ottenimento di benefici.

La Commissione auspica dunque di recuperare, in sede concettuale prima ed applicativa poi, concetti quali revisione critica e responsabilizzazione del reo, secondo quanto puntualmente disposto dagli articoli 27, co. 1º e 118 co. 8º del regolamento. (22)

Il compito degli operatori, in questi processi, è infatti quello di avviare con il reo un processo di elaborazione critica del proprio vissuto, all'interno del quale il fatto reato diventa il dato oggettivo da cui partire per innescare la riflessione sia sulla assunzione di responsabilità sia sulle conseguenze dello stesso, il danno arrecato alla vittima e alle cosiddette vittime secondarie. Solo attraverso tale percorso di responsabilizzazione e maturazione di un consenso può scaturire un progetto riparatorio che sia idoneo per quel reo, per quel reato, per quella vittima.

Un ulteriore aspetto di rilievo e complessità sottolineato dalla Commissione è quello riguardante la vittima al quale si corre il rischio di infliggere ulteriori violenze a distanza di molti anni, per questo motivo è negata la possibilità di assecondare estemporanee iniziative. Infine si esclude la possibilità di far svolgere la mansione di "facilitatore" all'operatore penitenziario, cui spetta invece il compito di preparare e sostenere il reo nel percorso di responsabilizzazione e nella definizione di un progetto riparatorio verso la vittima.

Al di là del fine perseguito dal legislatore, per quel che attiene il risarcimento della vittima del reato, in relazione al disposto "adoperarsi in quanto possibile in favore della vittima", si capisce dunque che la prospettiva della norma in esame è solo ed esclusivamente quella della risocializzazione e che solo in questa ottica deve determinarsi e apprezzarsi, l'adempimento della relativa obbligazione. Ne consegue, innanzitutto, che è del tutto ultroneo il riferimento all'integrale assolvimento delle obbligazioni, non essendo questo immancabilmente necessario (23) e, per contro, l'assolvimento dell'obbligo di risarcimento non è neanche sufficiente, il tutto dovendosi inscrivere nel quadro della personalità del condannato e dei fattori crimogeni, interni ed esterni, che lo hanno accompagnato.

Per le stesse ragioni, non appare necessariamente rilevante l'eventuale remissione del relativo debito da parte del danneggiato, che può solo assumere il valore di una prognosi di superamento del fattore criminogeno rappresentato dalle tensioni tra reo e vittima. Per gli evidenti e gravi rischi di strumentalizzazione bilaterale, sembra inoltre opportuno valutare caso per caso e con estrema prudenza la previsione di una diretta messa in contatto delle due parti e preferibile dunque una mediazione istituzionale ed imparziale, quale quella professionale del "facilitatore" (24). Del tutto irrilevante sembra infine l'atteggiamento serbato unilateralmente dalla vittima del reato (in particolare con il perdono). (25)

4.1.2. Prescrizioni di contenuto negativo

Per quanto concerne le prescrizioni tipiche di contenuto negativo, l'art. 47 ha riservato largo spazio a tali regole di contenuto interdittivo (divieti), con una scelta che la dottrina (26) ha ritenuto di collegare a opzioni di politica criminale proprie di altri settori (misure di sicurezza e di prevenzione) e giudicato, insoddisfacente.

Appartengono a questa categoria innanzitutto le prescrizioni che impongono al condannato limitazione in ordine alla libertà di locomozione (movimento), che nella prassi, concernono sia il divieto di raggiungere o soggiornare in determinati luoghi, sia il divieto di allontanarsi dal territorio di un comune o di una provincia, sia l'utilizzazione di determinati mezzi (tipicamente i veicoli a motore, al fine di garantire la più facile reperibilità, oppure al divieto di condurre veicoli imposto all'affidato in prova condannato per il delitto di omicidio colposo commesso con violazione delle norme del codice della strada). Largamente praticato è il divieto di frequentazione di persone e ambienti controindicati (pregiudicati, tossicodipendenti e in genere persone che possono offrire occasione di recidiva, case da gioco, locali ove si vendano bevande alcoliche, locali o zone urbane frequentate da pregiudicati ecc..).

Altra limitazione applicabile è quella del divieto di svolgimento di attività. Un settore di preziosa applicazione è stato riscontrato nell'ambito della criminalità economica con l'interdizione ad assumere direttamente o indirettamente, in via simulata o interposta ruoli direttivi e di rappresentanza nell'ambito di imprese commerciali (si pensi, per esemplificare, al divieto di esercitare una impresa commerciale o di assumere la titolarità di uffici direttivi presso qualsiasi impresa, imposto all'imprenditore "condannato" ex art. 444 c.p.p. per bancarotta fraudolenta) ovvero di contrattare con la Pubblica Amministrazione. (27)

In questa fattispecie, si è posta in giurisprudenza la questione della riproponibilità, nell'ambito delle prescrizioni della misura alternativa del contenuto di sanzioni tipiche (pene accessorie), eventualmente inapplicabili in sede di pena per effetto di cosiddetto patteggiamento (28). La soluzione positiva (29) è giustificata dal fatto che l'affidamento in prova opera su di un piano del tutto diverso da quello della condanna del giudice di cognizione. La determinazione delle prescrizioni, attraverso cui si realizza la così detta individualizzazione del trattamento sanzionatorio, infatti è rimessa al prudente apprezzamento del Tribunale di Sorveglianza che a questo scopo dovrà tener conto delle risultanze dell'osservazione personologica e degli elementi evidenziati dalla relazione socio-familiare del Servizio Sociale, con particolare riferimento alla individuazione delle cause che sono state all'origine della commissione del reato. Tale autonomia parrebbe rendere applicabili tali prescrizioni anche quindi ove la corrispondente pena accessoria sia stata esclusa dalla sentenza.

Oggetto di discussione è stata la conformità con i precetti costituzionali di cui agli artt. 13, 2º co., e 25, 2º co., Cost., del sistema delle prescrizioni dell'affidamento in prova al servizio sociale. Una prima critica è volta alla descrizione generica delle prescrizioni "tipiche", nel corpo della norma di cui all'art. 47, mentre una seconda all'imponibilità di prescrizioni non espressamente previste ("atipiche").

Quanto al primo aspetto, in dottrina (30) si afferma che il principio di tassatività potrebbe tollerare un contemperamento, tenuto conto della finalità rieducativa di cui all'art. 27, 3º co., Cost., cosicché il raggiungimento di tale obiettivo riequilibrerebbe l'indeterminatezza del dettato legislativo e troverebbe ulteriore garanzia nella giurisdizionalizzazione della relativa procedura, a condizione che ci si muova nell'ambito delle "categorie" (31) di prescrizioni di legge. Questa tesi potrebbe inoltre fornire sostegno all'ammissibilità delle prescrizioni "atipiche"; tali sono quelle che ad esempio aggrediscono beni diversi da quelli oggetto delle prescrizioni tipiche (la libertà di comunicazione, con il divieto di comunicazione, a mezzo di telefoni cellulari, frequente nella prassi nei confronti di condannati per spaccio "da strada" di sostanze stupefacenti), oppure aggrediscono beni oggetto di prescrizioni tipiche, ma con modalità differenti (il patrimonio, imponendo oblazioni a favore di enti aventi scopi istituzionali in qualche modo connessi al reato). L'area più dubbia rimane quella delle prescrizioni atipiche di contenuto positivo, la Suprema Corte ha infatti escluso che possa essere ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, perché non compatibile neppure con la interpretazione estensiva o applicazione analogica dell'art. 47. (32) Dalla giurisprudenza si evince dunque che non tutte le prescrizioni che possono essere dettate sono però legittime, alcune di esse come abbiamo visto non sono ammissibili.

4.2. Rapporto tra l'ufficio di esecuzione penale esterna e l'affidato

Il sistema italiano della probation, imperniato sull'affidamento in prova, poggia sull'azione professionale che in concreto sono chiamati a svolgere gli operatori del servizio sociale. (33) Il rapporto fra soggetto ammesso alla misura alternativa e servizio sociale è infatti considerato di primaria importanza; ad esso il legislatore ha dedicato i commi 9º e 10º dell'art. 47 Ord. Penit., stabilendo che:

"Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita. Il servizio sociale riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto".

La novità quindi dell'istituto, rispetto a una semplice sospensione condizionale della pena, (34) è data dal fatto che il soggetto viene, appunto, impegnato nella realizzazione di un programma socialmente costruttivo e che (di fronte alle prescrizioni e agli obblighi fissati dal Tribunale di Sorveglianza come condizione di libertà) non è lasciato solo, ma gli viene affiancato un operatore qualificato, capace di svolgere un'azione compiuta di "controllo e aiuto" (35), che mentre (da un lato) dia al giudice sufficienti garanzie sul regolare svolgimento della prova, sostenga (dall'altro) l'affidamento nelle eventuali difficoltà emergenti nel corso della prova stessa, aumentando quindi la possibilità di giungere a una conclusione positiva della misura. In pratica, è incaricato di seguire l'esecuzione della prova un assistente sociale, che ha il compito di facilitare il superamento delle difficoltà di adattamento del condannato tramite lo sviluppo di una relazione interpersonale costruttiva con lo stesso. (36)

Il servizio sociale assume quindi "la gestione" della misura, essa per l'appunto è formalmente definita come "affidamento in prova al servizio sociale". Il servizio sociale non è, semplicemente mandatario di un compito che abbia caratteristiche sue proprie, ma è invece indicato, esso stesso, come elemento caratterizzante della misura. In altre parole, l'affidamento viene applicato sul presupposto che il trattamento relativo sia svolto secondo i metodi e le tecniche di servizio sociale. (37) Questa opzione, da parte del legislatore, non è affatto casuale, ma corrisponde (come già ricordato nel 1º capitolo) a un preciso apprezzamento dei significati specifici connessi alla professione dell'assistente sociale ed al buon fine che tale esercizio professionale aveva dato in diversi settori dell'intervento sociale, tra cui quello della giustizia minorile.

Da questo quadro emerge come il problema tecnico di maggiore rilievo che si pone nella realizzazione dell'affidamento, è costituito senza dubbio dalla concorrenza delle due funzioni di "controllo e aiuto", funzioni che possono apparire difficilmente conciliabili tra loro. Si tratta di vedere se all'assistente sociale che tratta il caso possa essere chiesto di esercitare contemporaneamente il controllo e l'aiuto che il mandato istituzionale rimette alla sua competenza, ovvero se l'assolvimento delle funzioni di solo aiuto, gli impedisca di svolgere una qualsiasi azione di controllo. (38)

La distinzione tra la funzione di aiuto, che sarebbe propria del mandato professionale dell'assistente sociale, e quella di controllo, che deriverebbe invece dal mandato istituzionale, riflette un modo astratto di considerare il problema, infatti se si ha riguardo alla pratica operativa, risulta subito evidente che nei confronti di una persona che sia realmente in difficoltà nell'esercitare un controllo efficiente sul proprio comportamento (a partire dal rispetto delle prescrizioni dettategli come condizione di libertà), l'aiuto offerto non può fare a meno di comprendere la verifica delle difficoltà che si producono in rapporto agli obblighi di comportamento assunti, e la valutazione dei problemi che vi sono connessi. Ciò che conta dunque, è che tale controllo (esercitato nei modi e con le espressioni proprie del servizio sociale) non si esaurisca nella contestazione dell'infrazione eventualmente commessa, ma rappresenti invece il punto d'avvio di una riflessione ispirata da spirito costruttivo e diretta a sostenere l'utente nell'obiettivazione delle realtà che lo riguardano e nella ricerca delle soluzioni più adatte. (39)

In questa azione, l'assistente sociale svolge un ruolo di grande significato, non solo per i contenuti tecnici che egli assicura nel corso del trattamento (i colloqui adeguatamente preparati, l'esame sistematico dei problemi emergenti, l'attivazione delle capacità critiche dell'utente nell'analisi delle circostanze che lo riguardano ecc..) (40) ma anche per la considerazione positiva che egli esprime nei confronti della persona dell'utente e delle sue capacità naturali di "rilancio", sempre che l'utente stesso sia posto a contatto con un'esperienza relazionale di autentica accettazione e di rispetto (ciò che nel linguaggio del servizio sociale viene definito come "uso del rapporto" nella conduzione del trattamento). (41)

Quando, nel corso della misura si renderà necessario richiedere all'affidato di fornire la documentazione del lavoro svolto, anche non agevolmente reperibile, come ad esempio quella relativa agli eventuali spostamenti effettuati sul territorio (come per attività di mercato), o ai servizi prestati per conto terzi (come per attività di autotrasporto), la richiesta dell'assistente sociale risulterà del tutto naturale, finalizzata in primo luogo ad assicurare all'autorità giudiziaria che la prova si svolge in modo conforme alle condizioni dettate, e che perciò essa può continuare senza necessità di ricorrere a misure più restrittive.

Nell'esperienza dell'affidamento in prova ciò che rende opportuno che le funzioni di controllo e aiuto siano svolte in modo integrato da un unico operatore è data dal fatto che solo in un processo unitario del genere, l'affidato può sperimentare come l'autorità che esercita il controllo non lo svolga in modo repressivo, dimostrando nei fatti l'intenzione di offrire un aiuto di fronte alle difficoltà incontrate, a cominciare da quelle stesse che sono determinate da una inadeguata capacità di autocontrollo rispetto alle prescrizioni da osservare. Secondo questa impostazione, dunque, l'attività di controllo non si esaurisce più nel mero rilevamento dell'infrazione e nella sua contestazione, ma costituisce anche un'occasione per svolgere una riflessione e avviare una ricerca di soluzioni, nelle quali l'affidato stesso è chiamato ad assumere un atteggiamento costruttivo. (42)

Si tratta, naturalmente, di un processo non facile e di non breve durata, durante il quale l'azione condotta dall'assistente sociale può dare luogo a risultati non sempre univoci e continui. Nel corso di tale processo, l'assistente sociale dimostra una considerazione positiva nei confronti dell'affidato che ha un valore determinante per qualificare la figura dell'assistente sociale, nella percezione dell'affidato, neutralizzando ogni marginale contrarietà che possa venire a manifestarsi nel corso dei controlli.

Occorre intendersi sulle modalità attraverso cui il servizio sociale viene richiesto di verificare il rispetto delle prescrizioni da parte dell'affidato. Una circolare (43) dell'Amministrazione penitenziaria, ha esplicitato sin dall'avvio dell'esperienza operativa dei Centri di servizio sociale (denominati attualmente Uffici di Esecuzione Penale Esterna), che il controllo esercitato dal servizio sociale ha una natura e un'espressione sua propria e, pur facendo ricorso nell'attività di verifica a tecniche di rilevamento e a riscontri di carattere materiale, tuttavia tipicamente:

"si realizza nell'ambito del rapporto professionale stabilito con l'affidato ed è la risultante di un insieme di conoscenze e di valutazioni a cui l'assistente sociale perviene sulla base dei contatti avuti con l'affidato stesso, la sua famiglia e gli altri ambienti di vita significativi. Sembra opportuno sottolineare che tale metodologia di controllo, come l'esperienza di servizio sociale ha dimostrato, si pone rispetto al tradizionale controllo di polizia in termini qualitativamente diversi e non va quindi riguardato - in principio - come qualcosa di meno efficace".

Per quanto riguarda i riscontri obiettivi sulla condotta dell'affidato in ordine a prescrizioni come quelle attinenti alla dimora assegnata, alla libertà di locomozione, a divieti di frequentare determinati locali, si deve escludere che il servizio sociale effettui il controllo a mezzo di ispezioni sui luoghi fatte direttamente o, su sua richiesta, dalla polizia. In questo contesto, è opportuno evidenziare in dettaglio il problema rappresentato dall'esercizio di attività di controllo che si pongono in essere durante l'esecuzione dell'affidamento in prova al servizio sociale. (44)

Due sono gli aspetti da sottolineare: il primo riguarda la stessa natura della misura alternativa in esame, che è, in quanto tale, extracarceraria, quindi estranea ad aspetti afflittivi; ciò, quando si parla di prescrizioni e di controlli del servizio sociale, non va dimenticato e rappresenta un limite stesso, seppure implicito, all'azione di controllo. Il secondo punto di approfondimento concerne la tipologia di controlli ammissibile e gli organi deputati alla loro effettuazione.

Nell'esecuzione dell'affidamento in prova al servizio sociale avviene, talora che le autorità di pubblica sicurezza attivino nei confronti dell'affidato una serie sistematica di controlli, paralleli a quelli rimessi dalla legge al servizio sociale. L'autorità di pubblica sicurezza infatti, talvolta anche su legittima indicazione della magistratura di sorveglianza, ricorre a forme di controllo ulteriori rispetto a quelle, doverose, spettanti al servizio sociale. Nella pratica, in alcune ipotesi si effettuano sopralluoghi sul luogo di lavoro o a casa, anche in orari notturni e con modalità ripetute. (45)

Se da un punto di vista formale tali controlli sono legittimi, la dottrina non è altrettanto convinta della loro attinenza alla misura dell'affidamento in prova sotto il profilo sostanziale. Tali controlli fanno pensare:

"all'assunzione da parte delle autorità di pubblica sicurezza di un ruolo operativo specifico e permanente nell'esecuzione dell'affidamento in prova, di cui in realtà nell'ordinamento penitenziario non esiste traccia. Sotto il profilo giuridico, si può ricordare che nel sistema penale vi sono situazioni in cui il servizio sociale e polizia sono chiamati ad intervenire congiuntamente. Ma quando il legislatore ha voluto che questa previsione operativa si verificasse, lo ha detto esplicitamente, distinguendo volta per volta una funzione di controllo riservata alla polizia da una funzione rimessa agli operatori del servizio sociale, definita a seconda dei casi come di sostegno, di assistenza, o genericamente intesa al reinserimento sociale del condannato". (46)

Le osservazioni della dottrina dunque evidenziano ciò che il testo della norma esplica, ossia un mandato molto ampio al servizio sociale (non a caso, la misura è denominata "affidamento in prova al servizio sociale") non citando in alcuna parte un ruolo riservato alle autorità di pubblica sicurezza, a differenza invece di quanto accade per altre forme alternative alla carcerazione, ma più restrittive (detenzione domiciliare, misura di sicurezza della libertà, libertà controllata). (47) In questi casi, il legislatore:

"ha inteso assegnare al servizio sociale, in un quadro operativo che resta connotato dal controllo di polizia, un ruolo secondario, che si esaurisce di fatto in un'azione di raccordo realizzato tra le esigenze dei singoli soggetti e le prestazioni che i servizi assistenziali del territorio offrono alla generalità dei cittadini. La peculiarità dell'affidamento in prova, rispetto alle altre misure alternative, sta proprio nell'intenzione dell'autorità di stabilire con il condannato un rapporto nuovo, ispirato a una ragionevole fiducia, ove ai tradizionali controlli di polizia condotti in termini oggettivi, si sostituisce un controllo esercitato come parte di un'azione più ampia, connotata dalla volontà di comprensione e di aiuto rispetto alle difficoltà soggettive in cui l'affidato si trova, e svolta da un unico operatore con la formazione professionale di assistente sociale, che agisce in diretta e stretta relazione con il magistrato di sorveglianza". (48)

Si deve quindi operare in modo che l'assistente sociale che segue il caso sia in condizioni di pervenire (sulla base del rapporto stabilito con l'affidato e con la sua famiglia, e degli altri elementi di conoscenza dell'ambiente in cui il soggetto è inserito) a una valutazione attendibile sulla validità o meno del funzionamento sociale dell'affidato e sulla relativa congruenza dei suoi comportamenti; ciò che dovrebbe dare indicazioni sufficienti anche in rapporto a quegli elementi di dettaglio contenuti nelle prescrizioni sui quali egli non abbia condotto un'ispezione diretta o indiretta a mezzo di polizia. (49)

Affinché il controllo nell'affidamento in prova possa essere assicurato in misura soddisfacente, pur evitando di far ricorso ad accertamenti di natura poliziesca o fiscale, occorre che vengano rispettati da parte di tutti coloro che concorrono alla formazione della misura, due presupposti fondamentali (50):

  1. la relazione stabilita fra assistente sociale e affidato deve risultare effettivamente tale da assicurare un elevato livello di conoscenza circa la situazione personale e familiare dell'affidato stesso e la qualità del suo funzionamento sociale. Ciò significa che le visite dell'affidato presso la sede dell'Ufficio, le visite familiari dell'assistente sociale, gli appuntamenti sul posto di lavoro o negli altri ambienti in cui l'affidato svolge la sua attività, ecc. devono risultare così frequenti e ben finalizzati da consentire lo svolgimento di incontri e colloqui significativi. Se gli incontri sono diradati o si riducono a semplici adempimenti formali, privi di ogni contenuto reale, fallisce non solo il controllo, ma l'affidamento stesso nella sua intenzione più propria;
  2. l'affidamento in prova deve essere utilizzato secondo criteri previsti dalla legge, tenendo conto che esso rappresenta un'ipotesi di sottrazione totale allo stato detentivo alla quale merita di essere ammesso soltanto il condannato che dà sufficienti garanzie di sé e del proprio comportamento secondo i parametri di funzionamento propri della misura.

Si può, ad esempio, ritenere che la fiducia accordabile a soggetti che per la prima volta sono condannati a una breve pena e che risultino autenticamente disponibili a una revisione del loro comportamento, sia (in linea di principio) maggiore di quella accordabile a soggetti ripetutamente condannati, che rientrano nei limiti di pena previsti per l'applicazione della misura solo perché si trovano nella fase terminale della pena, magari dopo anni di carcere. (51)

Nel primo caso si comprende come l'intervento del servizio sociale possa risultare esauriente e come la riassunzione in esso anche della funzione di controllo sia funzionale al profilo fiduciario proprio della misura. Nel secondo caso (senza voler generalizzare) sembra ragionevole riflettere sul significato diverso che la misura di fatto assume.

Si può, tuttavia, osservare che l'interpretazione più lata del termine pena inflitta (52) non impedisce affatto all'autorità giudiziaria di effettuare quelle altre valutazioni di merito sull'opportunità di concedere la misura alternativa (situazione soggettiva del condannato...), spetta dunque al giudice usare questa previsione per evitare il rischio di escludere dalla concessione qualche caso di pena residuale, davvero meritevole, oppure farne un'applicazione sistematica e assoluta.

La soluzione peggiore che si potrebbe dare al problema in questione sarebbe quella di voler rinforzare la formula operativa prevista dalla legge, attribuendo competenze di intervento ad organi di controllo che l'ordinamento non prevede, come ad esempio, dando sistematico ingresso a controlli paralleli di polizia. Il fatto che tali controlli siano talora svolti con l'apparente accordo di alcuni magistrati di sorveglianza non cambia i termini del problema, dato che non si tratta di contestare la legittimità formale degli interventi svolti dalla polizia, ma piuttosto di affermare la loro sostanziale estraneità alla ratio della misura. (53) Danni analoghi possono verificarsi se si chiedesse al servizio sociale di effettuare controlli in forme estranee ai suoi modelli operativi e più proprie di altre professionalità e contesti; non solo si disconoscerebbe il ruolo assegnato al servizio sociale stesso dalla normativa, ma si impedirebbe di fatto la realizzazione nell'affidamento di quella esperienza di corretta integrazione fra "controllo e aiuto", che si può indicare con certezza come l'avvenimento centrale di un processo di probation. (54)

Se è vero che l'applicazione dell'affidamento in prova tende a divenire (a certi livelli di pena) pressoché "automatica", anziché essere valutata con criteri maggiormente selettivi basati su un'approfondita conoscenza delle situazioni personali, familiari e ambientali in cui il soggetto si trova, l'attuazione di un sistema parallelo di controllo realizzato dalla polizia può apparire come un rimedio capace di contrastare efficacemente i rischi che apparirebbero connessi alla misura. Ma seguendo questo orientamento si finirebbe con il commettere un duplice errore. Il primo, sarebbe quello di estendere l'applicazione della misura al di là dei limiti che la normativa ha inteso per essa definire. Il secondo invece, sarebbe quello di introdurre una modificazione del modello operativo tale da alterare la dinamica tra servizio sociale e affidati, con il rischio di degradare la qualità del programma. I rischi di un insufficiente controllo della condotta dell'affidato non appaiono dunque connessi alla struttura dell'istituto giuridico, così come delineata dal legislatore, i rischi della condotta dell'affidato possono essere infatti per lo più "calcolati" in rapporto al tipo di intervento che si intende svolgere. Se tale intervento risultasse organizzativamente carente, si porrebbe l'esigenza di migliorarne l'efficienza, non certo di cambiarne la natura.

La recente legge 27 luglio 2005, n. 154, cosiddetta "legge Meduri" (55), che ha modificato l'art. 72 della legge 26 luglio 1975, n. 354 che costituiva i Centri di servizio sociale per adulti dell'amministrazione penitenziaria, sembrerebbe però non recepire le esigenze provenienti dal servizio sociale penitenziario. Nella sostanza vi è stata una trasformazione terminologica dei Centri di servizio sociale in Uffici di Esecuzione penale Esterna e la sostituzione della rubrica del capo III con la dizione Esecuzione penale esterna ed assistenza. L'aggiornamento è avvenuto in tema di riordino delle carriere del settore penitenziario, ciò lascia presumere che la modifica del nome comporterà anche una variazione delle finalità, si può leggere infatti in questa legge un'inversione di rotta, un evidente cambiamento culturale che vede accentuato l'aspetto del controllo rispetto a percorsi di inclusione sociale. Nella legge, oltre alla modifica del nome, viene anche eliminato ogni riferimento al Servizio Sociale, lasciando spazio a successive modifiche della composizione degli uffici con semplice decreto ministeriale.

4.3. Rapporto tra magistratura di sorveglianza e l'affidato

Il magistrato di sorveglianza è investito, in forza del combinato disposto dell'art. 47, 8º co., Ord. Penit., e dell'art. 97, 10º co., d.P.R. 230/2000 (Regolamento di esecuzione) del potere di modificare, nel corso dell'affidamento, assunte le necessarie informazioni dal centro di servizio sociale, le prescrizioni rivolte al condannato dal Tribunale di Sorveglianza in funzione dell'andamento della misura e delle particolari necessità del condannato. (56)

Tale modifica è disposta con decreto motivato, comunicato al Tribunale di Sorveglianza ed allo stesso centro (art. 97 co., d.P.R. 230/2000). Inoltre, in forza del 10º co. dell'art. 47 Ord. Penit., tramite informazioni fornite periodicamente dal servizio sociale e in particolare dall'assistente sociale designato ex art. 97, 8º co., d.P.R. 230/2000, il magistrato di sorveglianza può controllare il comportamento del soggetto affidato, verificando l'efficacia della misura alternativa. Ciò può avvenire anche tramite la convocazione del soggetto affidato presso lo stesso magistrato (art. 97, 9º co., d.P.R. 230/2000). (57)

In passato, è stato criticato aspramente il ruolo, considerato scarso, riservato originariamente al magistrato di sorveglianza dalle norme dell'Ordinamento penitenziario, arrivando a definirlo "una imprecisa figura amministrativa, priva del tutto o quasi di funzioni giurisdizionali" (58). Oggi, avendo acquisito poteri più incisivi, la posizione del magistrato di sorveglianza, anche nei confronti dell'organo collegiale, appare maggiormente significativa e penetrante, tale da renderlo un organo insostituibile nel procedimento di sorveglianza.

La legittimazione a proporre le modifiche delle prescrizioni irrogate spetta primariamente all'affidato, ma anche, significativamente, allo stesso servizio sociale, sulla base delle risultanze della prova. Si mira quindi a realizzare un pronto e sollecito adeguamento delle prescrizioni alla realtà del soggetto, in un'ottica di rafforzamento della continuità del legame sussistente tra magistrato di sorveglianza e affidato. Come già detto precedentemente, al fine di assumere informazioni relative al soggetto affidato, il magistrato di sorveglianza ha facoltà di relazionarsi direttamente con l'assistente sociale incaricato e anche di convocare lo stesso affidato in prova.

E' stata cosi' predisposta, dopo la modifica legislativa attuata con legge 663/1986, "un meccanismo più adeguato alle esigenze, frequentemente evidenziate dalla prassi operativa, di un pronto adeguamento delle prescrizioni alla realtà dell'affidato, in continua evoluzione dinamica specie sul piano lavorativo". (59)

In tal modo, si è consentita, tramite una procedura semplificata, "la tempestiva attuazione di interventi nel corso della prova ad incidenza sanzionatoria progressiva, che passano attraverso la massima individualizzazione della misura per pervenire all'applicazione della stessa solo come extrema ratio, configurando così quel principio di flessibilità progressiva che è espressione di un sistema differenziato coerente". (60)

Diviene quindi compito fondamentale ed esclusivo del magistrato di sorveglianza provvedere ad una continua operazione di adeguamento tra prescrizioni e realtà di vita dell'affidato in prova.

Di competenza del magistrato di sorveglianza è inoltre la possibilità di disporre in via provvisoria, ex art. 51-bis della legge 354/75, in caso di sopravvenienza di un nuovo titolo esecutivo, la prosecuzione o la sospensione della misura alternativa a seconda che, tenuto conto del cumulo delle pene, permangono o meno le condizioni di applicabilità del beneficio; in ogni caso il magistrato di sorveglianza deve trasmettere gli atti al Tribunale di Sorveglianza per la decisione definitiva in merito all'estensione dell'affidamento anche in relazione alla pena oggetto dell'esecuzione sopravvenuta, o per la dichiarazione di inefficacia della misura alternativa (comma 1º e 3º dell'art. 98 del D.P.R. 230/2000). (61)

Infine a conferma del maggior potere acquisito dal magistrato di sorveglianza, quest'ultimo può disporre la sospensione cautelativa dell'affidamento, ex art. 51-ter Ord. Penit. quando il condannato ha posto in essere comportamenti potenzialmente idonei a giustificare la revoca del beneficio. (62) Con il decreto di sospensione che si configura come un vero e proprio ordine di carcerazione implicante l'ingresso in carcere dell'affidato (emanato de plano, senza contraddittorio, sulla base delle informazioni acquisite), il giudice deve inoltre disporre la trasmissione degli atti al Tribunale che deve pronunciarsi in merito alla revoca entro 30 giorni dalla ricezione degli atti. La Cassazione ha precisato che il termine de quo "decorre dall'arrivo presso il Tribunale di Sorveglianza di tutti gli atti relativi al procedimento, e dunque anche di quello con il quale si dà comunicazione dell'ingresso del condannato nell'istituto penitenziario in esecuzione del decreto di sospensione". (63)

Decorso questo termine, senza che sia intervenuta la decisione del collegio, il decreto di sospensione emesso dal magistrato diviene inefficace ed il direttore dell'istituto deve procedere alla rimessione in libertà del condannato, con la conseguenza che la misura alternativa provvisoriamente sospesa riprende il suo svolgimento fino alla decisione di revoca che ne determina l'interruzione. Infatti l'inosservanza del termine incide soltanto, provocandone l'inefficacia, sul provvedimento di sospensione emesso dal magistrato di sorveglianza, mentre non assume "alcuna rilevanza in relazione al provvedimento di revoca emesso dal Tribunale, considerato che in relazione alla ritardata pronuncia di quel provvedimento non è prevista alcuna sanzione processuale". (64)

Va inoltre rilevato che del collegio chiamato a pronunciarsi in merito alla revoca può far parte, senza che ciò determini alcuna incompatibilità, lo stesso magistrato di sorveglianza che ha emesso il provvedimento di sospensione della misura alternativa ai sensi dell'art. 51-ter, e ciò in ragione della peculiare natura del decreto di sospensione che si configura come un atto meramente propedeutico all'investitura dell'organo collegiale, quale giudice di primo grado e non di appello, e non come un provvedimento espressione di un potere decisionale proprio del magistrato di sorveglianza impugnabile, come accade per i decreti in materia di permessi premio o le ordinanze in materia di sicurezza, davanti al Tribunale di Sorveglianza. (65)

Occorre infine ricordare che il procedimento di revoca può essere instaurato, sempre su impulso del magistrato di sorveglianza, anche indipendentemente dalla preventiva sospensione della misura alternativa: in tal caso il giudice monocratico si limita ad investire il Tribunale della decisione in merito alla eventuale revoca del beneficio (art. 98, 5º comma, primo periodo, del D.P.R. 230/2000) adottando quella che nella prassi è comunemente definita come "proposta di revoca". (66)

La legge ha realizzato quindi una piena equiparazione dei presupposti per l'applicazione della sospensione cautelativa (prevista dall'art. 51-ter Ord. Penit.) e della revoca dell'affidamento, disciplinata dall'art. 47, 11º co., Ord. Penit.: anche la sospensione, infatti, può essere disposta solo ove siano riscontrati comportamenti tali da determinare la revoca della misura. Ciò si pone in una logica di tutela garantistica dell'affidato, la cui misura non può essere sospesa se non in seguito ad un proprio comportamento negativo, grave quanto quello richiesto per la revoca dell'affidamento stesso. (67)

4.4. L'esito della misura

Le soluzioni individuate dal legislatore quali possibili conclusioni del periodo di prova dell'affidamento al servizio sociale sono disciplinate nei commi 11º e 12º dell'art. 47 ord. Penit.

In base a queste previsioni, dunque, la misura è suscettibile di revoca "qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova", mentre "l'esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale"; disposizioni, entrambe, non scevre da problematiche sul piano interpretativo ed applicativo, infatti deve segnalarsi la ricorrenza nella prassi, anche delle diverse fattispecie della declaratoria di non estinzione della pena, dell'annullamento dell'ordinanza concessiva, della cessazione della misura e di declaratorie di inefficacia. (68)

Tutte le ordinanze diverse dalla declaratoria di estinzione hanno come effetto che, in tutto o in parte, la pena oggetto del procedimento di sorveglianza riacquisterà la natura di pena detentiva, con la doverosa emissione di ordine di carcerazione (con la sola eccezione in cui l'annullamento dell'ordinanza sia motivato dall'estinzione della pena medesima).

L'estrema sinteticità delle previsioni (11º e 12º comma, art. 47 Ord. Penit.) ci conduce quindi ad una più armonica sistemazione della materia. Occorre distinguere innanzitutto tra ordinanze adottate nel corso della misura e ordinanze adottate a misura conclusa; tra situazioni o fatti incompatibili con la prosecuzione della prova verificatisi nel corso della medesima e situazioni o fatti verificatesi prima dell'inizio o dopo la relativa conclusione ed infine tra situazioni e fatti imputabili a colpa del condannato e fatti e situazioni incolpevoli.

4.4.1. La revoca

La concessione dell'affidamento in prova, e delle altre misure alternative alla detenzione, in quanto basata su requisiti di meritevolezza del condannato, rappresentati a seconda dei casi dalla partecipazione all'opera di rieducazione, dall'avvio del percorso rieducativo o addirittura dal ravvedimento del detenuto, non può avvenire tramite un provvedimento definitivo ed irrevocabile. (69)

Risulta indispensabile, attraverso la predisposizione di meccanismi di sospensione o di revoca, garantire la possibilità di interrompere il trattamento favorevole o di sospendere il beneficio allorquando la condotta del soggetto ammesso alla misura non appaia compatibile con la prosecuzione della stessa. (70)

A questo fine, la normativa penitenziaria prevede, la sospensione (art. 51-ter) e la revoca dell'istituto. L'affidamento in prova al servizio sociale è infatti una misura alternativa soggetta a revoca: lo indica chiaramente l'11º co., dell'art. 47 Ord. Penit., con una formulazione molto sintetica: "L'affidamento è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova".

La genericità della previsione induce a riservare la denominazione di revoca alle sole pronunce: a) adottate nel corso della misura; b) fondate su fatti e situazioni incompatibili con la relativa prosecuzione di carattere colpevole. Costituisce oggetto di discussione se i relativi fatti e situazioni debbano necessariamente essere cronologicamente situati all'interno dello svolgimento della medesima. Considerato il requisito appena espresso sub a), il quesito concerne solo i fatti antecedenti. La giurisprudenza è divisa a tal proposito, tra l'irrilevanza dei fatti antecedenti e la loro rilevanza. Nel caso di ritenuta rilevanza dei fatti antecedenti, trattandosi di ragioni di merito preesistenti alla pronuncia dell'ordinanza parrebbe preferibile parlare di revoca dell'ordinanza concessiva, più che di revoca della misura "tout court", pronuncia che nella prassi viene denominata di annullamento. (71)

Il comma 11º dell'art. 47 Ord. Penit. detta dunque alcuni chiari criteri guida per individuare il presupposto della revoca. Essa può essere pronunciata solo quando: 1) l'affidato ha violato la legge o le prescrizioni (la violazione) e 2) tale condotta è incompatibile con la prosecuzione della prova (il fallimento della misura).

Ricordiamo che al servizio sociale affidatario è riservato il compito di controllare la condotta del soggetto, di aiutarlo a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale e di svolgere azione di tramite tra l'affidato, la sua famiglia e gli altri suoi ambienti di vita. Il servizio sociale riferisce periodicamente (con frequenza minima trimestrale) al magistrato di sorveglianza. (72)

Dei due criteri guida per individuare la revoca, risulta maggiormente agevole, la definizione del secondo presupposto (condotta incompatibile con la prosecuzione della prova) (73): alla luce del fatto nuovo deve non risultare più possibile affermare che l'affidamento in prova al servizio sociale contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. Più articolato invece il discorso quanto riguarda il primo aspetto (violazione della legge o delle prescrizioni). Appare infatti difficoltoso tentare una casistica delle violazioni che possano costituire motivo di revoca del beneficio, è più produttivo invece il riferimento ad alcuni criteri e osservazioni di ordine generale. (74)

Va affermato, anzitutto, che la violazione di legge comportante revoca non ha da essere necessariamente di rilievo penale:

"l'affidamento in prova al servizio sociale, alla stregua dell'art. 47, penultimo comma, può e deve essere revocato solo quando risulti o che il soggetto abbia violato specifiche disposizioni di legge (indipendentemente dal fatto che ciò costituisca o meno reato, sempre che la violazione sia comunque ragionevolmente valutabile come indice di allontanamento dalle finalità proprie dell'istituto in questione), ovvero che non abbia osservato taluna fra le prescrizioni impostegli". (75)

Inoltre ad una violazione penale non consegue automaticamente la pronuncia caducatoria:

"allorché il comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova, consista nella commissione di un reato, non ne deriva automaticamente, una volta passata in giudicato la eventuale sentenza di condanna, la revoca dell'affidamento, spettando invece alla sezione di sorveglianza di valutare se la violazione commessa sia tale da sconsigliare l'ulteriore protrarsi del regime di affidamento in prova al servizio sociale". (76)

Infine deve escludersi che la violazione delle prescrizioni costituisca di per sé reato: è stato rilevato dalla Suprema Corte infatti che non può applicarsi l'art. 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità):

"in quanto tale norma in bianco a carattere sussidiario, si riferisce soltanto all'ipotesi in cui l'inosservanza di un provvedimento dell'autorità non trovi nell'ordinamento alcuna specifica sanzione, dovendo quest'ultima essere invece intesa come reazione dell'ordinamento ad una condotta illecita e pertanto non rivestire necessariamente né il carattere della obbligatorietà né quello penale, ben potendo essere la stessa anche di natura amministrativa o processuale". (77)

Da queste osservazioni giurisprudenziali possiamo ricavare che il provvedimento di revoca presenta un contenuto ampiamente discrezionale, nel senso che l'accertamento della incompatibilità del comportamento del soggetto con la prosecuzione della prova è rimesso all'apprezzamento del Tribunale di Sorveglianza. Ciò si desume inoltre da una interpretazione letterale del comma 11º dell'art. 47 della legge 354/75, la revoca non costituisce infatti conseguenza automatica della eventuale violazione di specifiche norme di legge, non potendosi prescindere dalla valutazione, da compiere caso per caso, della gravità oggettiva e soggettiva del comportamento posto in essere dall'affidato. (78)

Ne consegue che a causare la revoca non è sufficiente la commissione di un reato o la trasgressione delle prescrizioni imposte, essendo per contro necessario che il comportamento posto in essere dal condannato sia valutabile come "espressione di un atteggiamento globalmente negativo che dimostra la mancanza di risposta positiva al trattamento" (79), e costituisca pertanto una smentita della prognosi di rieducabilità formulata con l'ordinanza applicativa della misura alternativa.

Muovendo dalla premessa secondo cui "presupposto indefettibile dell'affidamento in prova è una favorevole prognosi circa gli sviluppi del processo rieducativo e la prevenzione della recidiva anche attraverso le prescrizioni di cui all'art. 47, 5º comma della legge 354/75" la Corte di Cassazione ha di recente affermato che "è evidente che l'incapacità di comprendere il senso e la funzione si pone in insanabile contrasto con le finalità perseguite dalla misura e rende il soggetto inidoneo a fruirne" (80) con la conseguenza che l'affidamento deve essere revocato.

In sostanza, occorre un giudizio che, sulla base di dati fattuali, valuti specifici comportamenti in contraddizione con la prognosi positiva fatta all'atto della concessione dell'affidamento. A tal proposito nel caso in cui il fatto che ha determinato l'instaurazione del procedimento di revoca costituisca reato il Tribunale di Sorveglianza non è tenuto ad attendere che il relativo procedimento di cognizione sia stato definito con una sentenza di condanna, ancorché non irrevocabile, atteso che ciò che assume rilievo nell'ambito del procedimento di revoca è "la valutazione della condotta del condannato al fine di stabilire se lo stesso (prescindendo dall'accertamento giudiziale della sua responsabilità) sia meritevole dei benefici penitenziari". (81)

Il Tribunale è tuttavia tenuto ad accertare, ancorché in via incidentale, l'effettiva sussistenza della condotta criminosa attribuita al condannato e a tal fine potrà avvalersi degli atti posti a base dei provvedimenti coercitivi adottati dalla polizia giudiziaria (arresto in flagranza) o emessi dal giudice della cognizione (ordinanza impositiva di una misura cautelare) quali i verbali di arresto, di perquisizione e sequestro, le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche, oppure i verbali delle dichiarazioni rese da persone informate sui fatti, eventualmente sentite dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari. Al riguardo occorre ricordare che l'emissione di una ordinanza impositiva di una misura cautelare presuppone che nei confronti della persona sottoposta ad indagini sia stata accertata la sussistenza di "gravi indizi di colpevolezza" (art. 273 c.p.p.), e cioè di elementi, che sono idonei a determinare una qualificata probabilità di colpevolezza in ordine al reato per il quale si procede. (82)

Inoltre si è affermato che la presentazione di denunce o querele nei confronti del soggetto affidato in prova "può dar luogo alla revoca dell'affidamento, ove si accerti un comportamento dell'affidato contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, o comunque, incompatibile con le finalità del trattamento". (83)

La revoca comporta due diverse conseguenze. La prima consiste nel ripristino dell'esecuzione della pena in regime carcerario, mentre la seconda conseguenza consiste nella operatività del divieto triennale di concessione dei benefici penitenziari, stabilito dal 2º comma dell'art. 58-quater della legge 354/1975, introdotto dal decreto legge 13.05.1991, n. 152, convertito dalla legge 12.07.1991, n. 203. (84)

Per quanto concerne la prima conseguenza, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 19.10.1987, n. 343 (85) il Tribunale di Sorveglianza è chiamato a determinare il quantum di pena residua da espiare in carcere tenuto conto delle limitazioni patite dal condannato, e della gravità oggettiva e soggettiva delle violazioni da lui commesse. Il comma 11º dell'art. 47 Ord. Penit. nulla dice sulla rilevanza da attribuire al periodo di tempo trascorso in affidamento prima dell'intervento della revoca, o meglio della causa che ha provocato la revoca, ai fini dell'espiazione della pena inflitta.

Prima dell'intervento della Suprema Corte infatti si profilavano due opposte tesi (il dibattito concerneva la natura dell'istituto): per i sostenitori della prima teoria, con l'affidamento in prova al servizio sociale, sospendendosi l'esecuzione della pena ed estinguendosi la stessa ed ogni altro effetto penale con l'esito positivo della prova, si realizzerebbe un trattamento sottoposto a condizione non equivalente alla detenzione e come tale non computabile ai fini della espiazione della pena in caso di revoca. Quest'ultima opererebbe, pertanto, ex tunc, in quanto non si sarebbe realizzato fra il soggetto e l'istituzione carceraria il rapporto tipico della pena, la cui mancanza, considerato anche il fine rieducativo dell'affidamento spingerebbe anzi quest'ultima verso la misura di sicurezza. (86)

Per i fautori della seconda teoria invece, l'affidamento in prova sarebbe da considerarsi, invece, per il suo contenuto afflittivo e per la sensibile limitazione della libertà della persona, un provvedimento del tutto equivalente alle pena. (87) Resterebbe pertanto escluso che, in caso di revoca del provvedimento di ammissione all'affidamento in prova al servizio sociale, da qualunque motivo determinata, il periodo effettivamente trascorso in affidamento venga considerato come inutilmente trascorso; altrimenti l'affidamento in prova da misura alternativa alla detenzione si trasformerebbe in una misura aggiuntiva alla detenzione stessa, senza che questo vero e proprio supplemento di pena trovi fondamento e sia legittimato da una sentenza di condanna.

Pervenuto il contrasto al vaglio della Corte Costituzionale, questa ha disatteso sia l'orientamento che considerava non scomupatibile ai fini della espiazione della pena in caso di revoca, il periodo trascorso in affidamento (così detta revoca ex tunc) sia quello favorevole allo scomputo integrale del periodo trascorso in affidamento (così detta ex nunc), entrambi censurabili in quanto ispirati a rigidi automatismi. La Consulta ha affermato che, quale che sia la definizione che si ritenga di accogliere della pena detentiva, le limitazioni alle quali è sottoposto l'affidato in prova rientrano nelle restrizioni della libertà personale. A motivazione, si è argomentato che, dal momento che la tutela accordata ai cittadini non permette nessuna esclusione o limitazione della libertà personale al di fuori dei limiti di garanzia stabiliti dall'art. 13 Cost., il ripristino dell'originale rapporto punitivo per tutta la sua iniziale durata, senza tenere conto del periodo trascorso in affidamento prima della revoca, è da ritenersi una sanzione aggiuntiva che non trova luogo nella sentenza di condanna, e perciò stesso è incostituzionale. (88)

In osservanza dei principi cui il legislatore si è ispirato, in riferimento sia alla fase di cognizione (art. 133 c.p.) che a quella di esecuzione (artt. 1 e 13 l. 26 luglio 1975, n. 354), anche nel caso di condotta violatrice delle regole dell'affidamento vi deve essere proporzionalità e individualizzazione della pena. Pertanto, ha concluso (la Corte Costituzionale), il Tribunale di Sorveglianza, nel procedere alla revoca dell'affidamento in prova per comportamento incompatibile con la sua prosecuzione, deve determinare la durata della residua pena detentiva da scontare, tenendo conto, sia del periodo di prova trascorso dal condannato nell'osservanza delle prescrizioni imposte e del concreto carico di queste, sia della gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla revoca.

Di conseguenza, attualmente, risulta attribuito al Tribunale di Sorveglianza un ampio potere discrezionale dal momento che, per determinare il periodo residuo di pena detentiva da espiare dopo la revoca dell'affidamento, dovrà tenere conto delle limitazioni patite dal condannato, della loro durata e del comportamento globale tenuto nel corso del periodo di prova. Lo scomputo di tutta o parte della pena corrispondente al periodo di affidamento revocato dunque è oggi consentito, rendendo possibile il massimo adeguamento delle decisioni alle particolarità dei singoli casi, ma con i rischi connessi e le evidenti contraddizioni rispetto alla prevalente concezione specialpreventiva, risocializzativa e rieducativa della misura. (89)

Nella prassi (e con il conforto della Suprema Corte) un peso preponderante viene assegnato alla gravità del fatto che determina la revoca, di modo che si distingua se la prova possa dirsi ab initio completamente fallita (e solo simulata l'adesione al programma di risocializzazione e la soggezione del condannato alle limitazioni imposte), oppure fallita solo parzialmente. (90) Nel caso di fallimento parziale della misura la data viene di solito individuata nella data di commissione della violazione (o, in caso di progressione di violazioni, la prima se se ne ravvisa una connessione interna). La Suprema Corte ha altresì chiarito che il Tribunale di Sorveglianza, in caso di revoca ex tunc, è soggetto a onere di esplicita, "molto approfondita e puntuale" (91) motivazione sulla causa.

Inoltre va ricordato che, secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale, anche la pronuncia di revoca è da intendersi emessa "rebus sic stantibus", almeno nei casi in cui sia fondata esclusivamente su elementi suscettibili di successiva caducazione. La conseguenza è la possibile revoca della ordinanza di revoca della misura. Tale fattispecie ricorre, nell'insegnamento della Corte delle Leggi, ad esempio nell'ipotesi di revoca del beneficio fondata su pendenza giudiziale, conclusasi, successivamente, con esito assolutorio. La pronuncia caducatoria si renderebbe necessaria per la rimozione degli effetti preclusivi del provvedimento di revoca della misura (in particolare, art. 58 quater O.P.). (92)

Per quanto concerne la seconda conseguenza derivante dalla revoca dell'affidamento, essa consiste come già ricordato nella operatività del divieto triennale di concessione dei benefici penitenziari (2º comma dell'art. 58-quater Ord. Penit.). Il primo comma della norma dispone che le misure alternative alla detenzione non possono essere concesse "al condannato per uno dei delitti previsti nel 1º comma dell'art. 4-bis che ha posto in essere una condotta punibile a norma dell'art. 385 del codice penale (evasione)". Il secondo comma aggiunge che la "disposizione del primo comma si applica anche al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa" e quindi anche all'affidamento in prova al servizio sociale.

Il riferimento sembrerebbe all'intero comma 1 e quindi anche alla limitazione dello stesso ai soli reati di cui all'art. 4-bis. Questa interpretazione letterale è stata portata avanti per la applicazione della norma per anni da parte di svariati Tribunali di Sorveglianza (tra cui Firenze) (93). Negli ultimi anni però si è consolidata in giurisprudenza una interpretazione estensiva della disposizione, difficilmente comprensibile. Si è infatti affermato, da un lato, che il divieto de quo opera, non solo rispetto agli autori di uno dei delitti di cui all'art. 4-bis della legge 354/75, ma con riguardo a qualsiasi condannato, indipendentemente dal titolo di reato cui la condanna si riferisce; e dall'altro che detta preclusione non è circoscritta all'esecuzione nel cui ambito è intervenuta la revoca della misura alternativa, ma che essa ha portata generale e validità estesa ad altri e diversi procedimenti, ciò in quanto la lettera della norma, è stato affermato "non contiene limitazioni di sorta, ed al pari dell'omologa previsione di cui al 1º comma del medesimo articolo, risulta formulata in termini globali, con riferimento soggettivo al condannato ed alla sua situazione personale, e non, invece, con riguardo oggettivo a ciascun singolo procedimento in cui intervenga la revoca". (94)

Questa impostazione, aderente al tenore letterale della norma, è stato oggetto di critiche da parte della dottrina la quale ha osservato come essa contrasti con la realtà del percorso trattamentale e non sia conciliabile con i principi di proporzionalità e personalità della pena secondo i quali la pena deve essere flessibile in modo da potersi adattare alle differenti situazioni concrete. (95) L'interpretazione della Cassazione, appare quindi non comprensibile e sicuramente pesantemente limitativa di percorsi di riabilitazione per soggetti di pericolosità modesta o nulla.

L'organo giurisdizionale deputato a decidere sulla revoca della misura alternativa alla detenzione è dunque il Tribunale di Sorveglianza, di cui peraltro, secondo la giurisprudenza, fa legittimamente parte il magistrato di sorveglianza che abbia proposto la revoca stessa. Ciò vale come già detto, anche per il magistrato di sorveglianza che abbia già disposto, ai sensi dell'art. 51-ter Ord. Penit., la provvisoria sospensione. (96) Nell'ambito del procedimento di revoca dei benefici penitenziari, non è prevista la previa indicazione, nell'avviso di udienza, delle violazioni che si addebitano al condannato, né, comunque, delle circostanze, da valutare nell'udienza stessa, dato che il diritto di difesa rimane salvaguardato dalla possibilità di esaminare gli elementi risultanti dal fascicolo. (97)

La Suprema Corte ha puntualizzato che il giudizio di revoca costituisce piena espressione della discrezionalità del Tribunale di Sorveglianza, tenuto comunque a motivare adeguatamente e logicamente il provvedimento adottato. Il Tribunale nell'adottare il provvedimento di revoca, può fondarsi su qualsiasi elemento probatorio, il problema semmai è dato dalla genericità ed indeterminatezza dei parametri di giudizio sui quali il collegio debba basare la sua decisione, la giurisprudenza ha cercato di "riempire" questo vuoto normativo elaborando propri criteri di valutazione. (98) In particolare, come già affermato, il giudice di merito non deve limitarsi ad esaminare la singola infrazione compiuta dall'affidato, ma ha il compito di valutare complessivamente la condotta ed il generale atteggiamento del condannato. Il Tribunale è tenuto quindi ad analizzare l'insieme delle prescrizioni eventualmente adempiute dal soggetto affidato, oltre al grado di risocializzazione raggiunto. (99) La condotta di violazione compiuta dall'affidato deve essere valutata nella sua gravità, sotto il profilo oggettivo e soggettivo. (100)

I criteri che il Tribunale di Sorveglianza è chiamato ad utilizzare nella valutazione e determinazione della pena detentiva ancora da espiare da parte dell'affidato, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali, sono pertanto identificati:

  1. nella durata del periodo di prova trascorso dal condannato nell'osservanza delle prescrizioni impostegli;
  2. nel completo carico afflittivo delle prescrizioni stesse;
  3. nella gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla revoca.

Nell'attuale configurazione dell'affidamento in prova, non trovano invece alcuno spazio né una revoca di diritto, né una revoca che sia automaticamente dichiarata sulla sola base di una sopravvenuta condanna a pena detentiva. La revoca dell'affidamento infine come quella applicata alle altre misure alternative alla detenzione, non può essere adottata senza il rispetto del contraddittorio. (101)

4.4.2. L'esito positivo del periodo di affidamento

La finale natura della misura dell'affidamento in prova è la declaratoria di estinzione della pena per esito positivo della prova. In forza del disposto dell'art. 47, 12º co., Ord. Penit. infatti, l'esito positivo del periodo di affidamento estingue "la pena detentiva e ogni altro effetto penale".

Alcuni autori hanno affermato a tal proposito che questa disposizione ha introdotto "nel nostro sistema penale una nuova causa di estinzione". (102) Con la positiva conclusione del periodo di prova, si ha dunque l'introduzione nel nostro ordinamento di una nuova causa di estinzione della pena, di ampia portata: si estinguono infatti, oltre alla pena inflitta nella sentenza, anche gli altri effetti penale e le pene accessorie mentre come vedremo grosso dibattito concerne l'esito della pena pecuniaria e delle misure di sicurezza.

La declaratoria di estinzione della pena è una pronuncia: a) successiva al termine della misura; b) avente ad oggetto la verifica (negativa) di eventuali fatti e situazioni colpevoli, incompatibili con l'affermazione di una effettiva idoneità della misura agli scopi per cui era stata concessa. Orientamento consolidato (103) (e successivamente trasfuso nell'art. 236 norme coordinamento c.p.p) è, infatti, quello secondo il quale l'estinzione della pena opera unicamente in seguito all'esito positivo della prova e, perché si verifichi un tale effetto estintivo, non è sufficiente il mero decorso del periodo di prova, senza che sia intervenuta la revoca dell'affidamento, ma è necessario un accertamento dello stesso Tribunale di Sorveglianza sull'avvenuta, almeno parziale rieducazione del reo. (104)

La Corte di Cassazione, in diverse pronunce, ha chiarito che affinché si verifichi l'effetto estintivo della pena è necessario che il Tribunale valuti la misura espletata in modo globale, per accertare che abbia svolto lo scopo cui è preordinata, cioè la risocializzazione del reo ed il suo reinserimento. In questo diverso contenuto del giudizio affidato al Tribunale di Sorveglianza si può scorgere la differenza tra la revoca e la valutazione all'esito dell'affidamento: infatti, nell'ipotesi di revoca, si valuta la gravità di singoli episodi, per verificarne l'incompatibilità con la prosecuzione della prova. (105)

Dal confronto tra i due tipi di giudizio emerge che la giurisprudenza è orientata nel senso di rigettare le teorie contrattualistiche, secondo cui l'affidamento è un contratto stipulato tra lo Stato e il condannato che, in cambio del trattamento extra-murario, deve rispettare delle regole la cui violazione conduce alla risoluzione del contratto. (106)

E' necessario che al requisito dell'integrale decorso del periodo di prova stabilito si accompagni un accertamento che attesti l'avvenuta rieducazione del reo. Tale accertamento è di competenza del Tribunale di Sorveglianza, non del giudice dell'esecuzione, come già chiarito nei primi anni di applicazione dell'ordinamento penitenziario, (107) e come confermato, dopo l'entrata in vigore dell'attuale codice di procedura penale, dal disposto dell'art. 236, 1º co., disp. Att. c.p.p. La procedura che il Tribunale deve seguire per la valutazione all'esito dell'affidamento non è oggetto di una disciplina specifica, per cui poiché la previsione dell'art. 678 comma 1, c.p.p. collega l'operatività del procedimento di sorveglianza genericamente alle materie di competenza del Tribunale di Sorveglianza, si ritiene che anche per la declaratoria di estinzione della pena si debbano seguire le forme tipiche di questo rito. (108)

Resta il problema di capire che cosa si deve intendere per rieducazione. Il problema, ad esempio, sorge nei casi in cui il soggetto affidato non abbia compiutamente concluso la propria "risocializzazione" al termine dell'esecuzione della misura, pur portandola a termine senza aver compiuto azioni o comportamenti incompatibili con le finalità rieducative. In mancanza di qualsivoglia indicazione legislativa in rapporto all'oggetto come ai parametri di valutazione, al fine di individuare elementi tali da sostenere un giudizio di accertamento positivo sull'avvenuta rieducazione del reo, può allora soccorrere la valutazione della complessiva condotta dell'affidato, derivante anche dalle risultanze dell'attività lavorativa svolta nel periodo di prova.

Inoltre, possono essere apprezzati tutti quegli strumenti che nel corso della prova sono messi a disposizione del magistrato di sorveglianza per calibrare il trattamento: puo' quindi incidere l'avvenuta modifica delle prescrizioni in senso più permissivo o restrittivo, come un'eventuale sospensione cautelativa della misura disposta ai sensi dell'art. 51-ter Ord. Penit. Nel caso in cui gli interventi dell'organo controllante durante il periodo di affidamento siano stati continui e frequenti, è evidentemente difficile che la prova si sia compiuta in modo soddisfacente, ai fini del giudizio di "esito positivo" richiesto dalle norme. Si richiedono pertanto parametri di valutazione di tipo il più possibile oggettivo, anche per evitare che l'intervento di accertamento del Tribunale di Sorveglianza sconfini nella pura discrezionalità. (109)

Tornando alla questione fondamentale concernente il concetto di rieducazione a cui è legato il giudizio positivo di valutazione sull'esito dell'affidamento, il campo è conteso da due teorie: una intende la rieducazione come un risultato, l'altra come un percorso. (110) Dal punto di vista di legittimità costituzionale la teoria che viene avallata è quella che ritiene la rieducazione un percorso, ciò si desume dalle sentenze che la consulta ha pronunciato con riferimento all'art. 4-bis Ord. Penit. (111) Un'altra conferma alla teoria suesposta perviene dalla lettera dell'art. 27 Cost., che usa il termine tendere e non ottenere.

Qualificare la rieducazione (112) come un percorso rende però problematica la valutazione di un comportamento successivo al termine della misura, quale indice rivelatore di una mancata rieducazione. Negli ultimi anni infatti si è dibattuto in giurisprudenza sulla rilevanza, ai fini del giudizio sull'esito della prova, di eventuali fatti successivi alla fine del periodo di prova. Secondo un primo orientamento non possono essere presi in considerazione eventi, fatti o comportamenti successivi al trattamento, nemmeno nel caso in cui essi possano, per qualche verso, avere riflessi sulla valutazione della condotta pregressa del condannato. (113) Dall'altra parte invece alcune pronunce di legittimità puntualizzano che anche il comportamento del condannato successivo al trattamento ed all'esecuzione della misura può inficiare l'esito della prova, risultando quindi valutabile nell'ambito del giudizio operato dal Tribunale. Il contrasto di posizioni ha reso necessario dunque l'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Cassazione (114) che hanno subordinato la possibilità di valutare i comportamenti successivi al termine della misura (avvenuti prima che sia formulato il giudizio sul relativo esito) ad alcune condizioni: il Tribunale deve evitare ogni automatismo e quindi procedere ad una valutazione caso per caso, con un apprezzamento globale, che tenga conto, da un lato, della condotta tenuta dal soggetto durante l'esecuzione della misura e, dall'altro, dell'effettiva entità del fatto successivo, della distanza cronologica dalla scadenza dell'affidamento e del collegamento di questo con le modalità di espletamento della prova. La Corte ha anche aggiunto, che il Tribunale deve procedere alla rideterminazione della pena residua da scontare, usando i criteri forniti in materia di revoca dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 343/1987.

Pertanto, la soluzione affermatasi lascia spazio alla considerazione, nella valutazione sull'esito del periodo di prova, di comportamenti particolarmente negativi posti in essere dal condannato dopo la cessazione dell'esecuzione della misura alternativa. (115) La motivazione data, dalle Sezioni Unite, rileva la natura particolare del giudizio sull'esito positivo della prova, distinto da quello sulla revoca della misura. L'effetto estintivo non consegue automaticamente, al mero decorso del periodo di prova che sia rimasto immune da provvedimenti di revoca dall'affidamento stesso. Occorre, per contro, come già affermato, il globale accertamento di elementi di comportamento positivo, tali da poter escludere, ancorché non sussistano singoli episodi che abbiano dato luogo alla revoca, che vi sia stata da parte del condannato solo un'apparente adesione alle prescrizioni e ai canoni della buona condotta, e da far ritenere viceversa che sia avvenuta la sua rieducazione ai fini del reinserimento nella società. (116)

La valutazione del Tribunale di Sorveglianza è quindi globale e coinvolge sia la condotta serbata del condannato durante l'esecuzione della prova, sia l'entità dell'eventuale fatto negativo successivo. I comportamenti posti in essere dal condannato in epoca successiva all'esaurimento del periodo di affidamento, sebbene non siano mai idonei a giustificare la revoca della misura alternativa ormai conclusa, possono tuttavia essere apprezzati quindi quali indici sintomatici dell'esito dell'esperimento, a condizione che intervengono prima che il Tribunale abbia formulato il giudizio relativo a detto esito, dichiarando estinta la pena e ogni altro effetto penale.

Vale la pena sottolineare che, ammettere la valutazione di comportamenti successivi al termine della misura può comportare delle disparità di trattamento, stante il carico dei Tribunali di Sorveglianza. Ritenere legittimo valutare, come sintomatico del fallimento della prova, un fatto commesso in tempi successivi al termine della misura, crea una disparità di trattamento tra condannati. Infatti, secondo il carico di lavoro di un Tribunale al condannato sarà fissata una camera di consiglio in tempi più o meno distanti dal termine della prova. In tal modo varia, per ragioni casuali, il periodo che il Tribunale può valutare e aumentano i rischi per l'affidato. (117)

La pronuncia della Suprema Corte è di rilevante importanza anche per l'affermazione, in essa contenuta, della necessità della determinazione della pena detentiva ancora da espiare, già prevista in caso di revoca, anche nel giudizio sull'esito negativo della prova. La determinazione del "quantum" di pena ancora da espiare da parte del condannato (che può essere anche pari alla pena originariamente inflitta con la sentenza di condanna) è effettuata, come nel giudizio di revoca, tenendo conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e dalla condotta tenuta dallo stesso nel corso dell'affidamento in prova. (118)

4.4.3. Effetti della declaratoria di estinzione della pena

Riguardo gli effetti della declaratoria di estinzione della pena, in dottrina (119) e giurisprudenza si discute se il giudizio di valutazione positivo sull'esito dell'affidamento estingua anche la pena pecuniaria eventualmente irrogata con la sentenza di condanna. Recentemente a tal proposito è intervenuta una modifica legislativa (120) che ha cercato di chiarificare il comma 12º dell'art. 47 ord. penit.

La disposizione suddetta dell'articolo 47 della legge 354/1975 sull'ordinamento penitenziario, prevedeva infatti, che l'esito positivo del periodo di prova estinguesse "la pena ed ogni altro effetto penale". La modifica introdotta specifica che l'esito positivo della prova estingue invece la sola "pena detentiva ed ogni altro effetto penale" ma non anche quella pecuniaria; quest'ultima "se non riscossa" (prosegue la nuova disposizione) si può estinguere comunque, su pronuncia del tribunale di Sorveglianza, quando l'«affidato» si trovi in condizione economiche disagiate.

L'intervento del legislatore, attraverso questo meccanismo, con il quale si può estinguere per l'affidato in "disagiate condizioni economiche" la pena pecuniaria, ha tenuto conto dunque della recente giurisprudenza di merito (121) che muove dalla constatazione che le pene pecuniarie colpiscono solitamente soggetti privi di risorse economiche e quindi impossibilitati al pagamento (122). Il sistema messo in moto dal mancato pagamento è particolarmente dannoso, primo perché sfocia nell'esecuzione forzata in danno della famiglia del condannato, secondo perché quando il condannato non possiede beni sottoponibili ad esecuzione, opera la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata, sanzione sostitutiva particolarmente affittiva. Si può capire allora come sia paradossale per il reinserimento sociale del reo, sottoporlo alla libertà controllata (nel caso di mancato pagamento) dopo che l'affidamento si è concluso con esito positivo.

Quindi si può desumere dalla ratio di questa pronuncia, che se l'affidamento è una misura che deve tendere alla rieducazione e al reinserimento, deve dirsi che l'esito positivo estingue tutte le pene, a maggior ragione quelle che possono ostacolare il reinserimento cui la misura tende. (123)

La dottrina (124) e la giurisprudenza maggioritaria antecedente alla modifica legislativa è tuttavia preposta, sulla base del raffronto tra l'art. 20 c.p. e l'art. 178 c.p., a ritenere che l'esito positivo della prova estingua la solo pena detentiva. La giurisprudenza di legittimità si è orientata, dopo una breve oscillazione, nel senso di escludere l'estinzione della pena pecuniaria motivando la decisione che "la pena pecuniaria niente ha a che vedere con la pericolosità sociale del soggetto, in quanto non colpisce direttamente la persona, ma soltanto il patrimonio", solo con riferimento alla pena detentiva si può quindi, secondo tale interpretazione, legittimamente parlare di "alternatività" dell'affidamento in prova.

In senso opposto (125) la dottrina minoritaria rileva invece che lasciando sopravvivere la pena pecuniaria si fa sì che la stessa possa essere sempre e solo affittiva, in contrasto, dunque con la natura polifunzionale della pena. In sostanza la sopravvivenza della pena pecuniaria a fronte di una valutazione positiva dell'affidamento, si risolverebbe in un contrasto con il principio di proporzionalità e di individualizzazione della pena quale si desume dall'art. 27 commi 1 e 3 della Cost., il cui criterio garantistico vale non solo ai fini dell'irrogazione, ma anche dell'esecuzione della pena. (126)

Anche per quanto riguarda le misure di sicurezza, la declaratoria di estinzione della pena non ha efficacia. La giurisprudenza di Cassazione (127) infatti, in contrasto con la prassi degli Uffici di Sorveglianza ha ritenuto che l'esito positivo dell'affidamento in prova non comporta l'estinzione delle misure di sicurezza disposte con la sentenza di condanna. E' stato affermato infatti che l'estinzione della pena consegue ad una forma di espiazione di essa con modalità alternative alla detenzione e non ha pertanto come effetto quella di impedire l'applicazione della misure di sicurezza ai sensi dell'art. 210 comma secondo codice penale.

L'effetto estintivo, conseguente alla buona riuscita dell'esperimento, consegue dunque molteplici effetti, tra cui riassumendo: a) l'estinzione della pena principale inflitta con la condanna (pena detentiva); b) estinzione delle pene accessorie (con le dovute specificazioni); c) impedisce di tener conto della condanna agli effetti della recidiva e della declaratoria di abitualità o di professionalità nel reato; d) impedisce la menzione della condanna nel certificato del casellario rilasciato a richiesta di privati.

Riguardo l'ultimo punto l'effetto estintivo non determina tuttavia la cancellazione della condanna dal casellario giudiziale, in quanto non costituisce effetto penale della decisione, poiché si tratta di un atto che persegue, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, finalità informative, non sanzionatorie. (128)

4.4.4. Esiti diversi

Anche se dalla lettera dell'art. 47 Ord. Penit. sembra si possano adottare sole le pronunce di revoca o di declaratoria di estinzione, in realtà nella prassi i tribunali adottano ordinanze sulla base di presupposti diversi e utilizzano, erroneamente secondo parte della dottrina, il termine revoca per indicare declaratorie di non estinzione della pena, declaratorie di annullamento di ordinanze concessive della misura o di cessazione della stessa, per fatti non imputabili al condannato, o declaratorie di inefficacia. (129)

Nel caso della declaratoria di non estinzione della pena, tale approdo costituisce l'esatto inverso di quello che abbiamo visto precedentemente. Nella prassi, spesso, tale pronuncia viene indifferentemente anche denominata "revoca". La giurisprudenza tende ad affermare che, dopo la scadenza della misura, solo la declaratoria di non estinzione sia ammissibile e non la pronuncia di revoca. Quest'ultima pronuncia come sappiamo non può che intervenire nel corso della prova, di cui determina la cessazione, mentre la valutazione dell'esito negativo dell'affidamento attiene necessariamente all'intero periodo di prova, già concluso. In questa ipotesi il giudizio non potrebbe fondarsi su singoli episodi (come nella revoca) ma sull'esito globale della misura. (130)

Sul piano della sostanza, problematico è se possano essere valorizzati fatti e situazioni cronologicamente situati al di fuori dello svolgimento della misura. Alla luce della recente sentenza delle Sezioni Unite, "Martola" è stato affermato che la valutazione dell'esito della prova è subordinato anche ai comportamenti successivi al termine della misura seppur rispettando specifiche condizioni, quindi nel giudizio di valutazione ricadrebbero pure fatti successivi al termine della prova. (131)

La declaratoria di annullamento di ordinanza concessiva è un'altra categoria di pronunce non espressamente prevista dalla legge. (132) Distinguere tra revoca e declaratoria di annullamento è fondamentale, perché quest'ultima segue ad un comportamento incolpevole del condannato, per cui non porta con sé le conseguenze negative di una revoca come l'operatività dell'art. 58-quater Ord. Penit. Nella categoria delle pronunce di annullamento, la dottrina ha fatto confluire una serie di ipotesi di incompatibilità con la prosecuzione (o concessione) della misura. Essenzialmente si tratta di: a) pronunce adottate nel corso della misura; b) relative a situazioni e fatti incompatibili con la misura verificatesi senza l'ausilio di una condotta dolosa da parte del condannato, ad esempio: sopravvenienza di infermità mentale, richiesta di cessazione della misura da parte dell'interessato, interruzione a seguito del sopravvenire del provvedimento ex art. 41 bis O.P., casi in cui il Tribunale, valutando che l'ambiente che circonda l'affidato non sia più adeguato ad una prognosi di reinserimento sociale, in mancanza di alternative, provvede a disporre la carcerazione. Tutte situazioni accomunate dal fatto di non dipendere da cause colpevoli del condannato.

La prassi, invero fa uso di tale pronuncia anche per casi di travisamento dei fatti risultanti dall'istruttoria, errore di persona, sopravvenuta insussistenza del titolo o della sua esecutività. (133) Inoltre deve ulteriormente osservarsi che tale tipologia di pronuncia trova utilizzo altresì per fatti antecedenti non considerati.

Anche in caso di annullamento si deve naturalmente procedere alla rideterminazione della pena residua tenendo conto della parte di pena espiata e della riduzione spettante, eventualmente, al condannato a titolo di liberazione anticipata.

La dichiarazione di cessazione della misura, invece è una pronuncia utilizzata per il caso in cui sopravvenga, nel corso della misura, una ulteriore pena tale che la durata complessiva ecceda il limite triennale. Nella prassi, spesso tale pronuncia viene definita anche revoca incolpevole (così anche in Corte Cost. 6.12.1985, n. 312). Va da sé che, ovviamente la nuova condanna deve riferirsi a reati commessi in tempi precedenti alla concessione dell'affidamento in prova, infatti, solo in questi casi possiamo parlare di comportamento "incolpevole" del condannato. Anche in questo caso il Tribunale dovrà procedere alla rideterminazione del periodo di pena residuo da scontare in carcere. Quando invece la pena residua, relativa al titolo da cui è scaturita l'applicazione della misura alternativa dell'affidamento, sommata all'ammontare della pena concernente il titolo sopravvenuto, non supera il limite dei tre anni stabilito dalla legge, il magistrato di sorveglianza deve disporre, de plano, con decreto non motivato ed inoppugnabile, la prosecuzione della misura ex art. 51-bis Ord. Penit. in corso (134); sarà poi il Tribunale di Sorveglianza a decidere definitivamente sulle sorti del beneficio. Così facendo non si interrompe il percorso di reinserimento che il condannato segue durante l'espletamento della misura alternativa. Il rientro in carcere, comporterebbe, infatti, la perdita del lavoro, lo sradicamento da un ambiente positivo nonché l'interruzione dei rapporti con il centro dei servizi sociali. (135)

Nell'ipotesi invece in cui il nuovo titolo esecutivo sommato al residuo pena relativo al titolo da cui è derivata la concessione della misura superi il limite dei tre anni il magistrato dispone con le stesse modalità la sospensione della misura. Tale decreto significa per l'affidato l'ingresso in carcere.

Infine la declaratoria di inefficacia concerne, invece, un'ipotesi specifica che la dottrina ritrova nella mancata sottoscrizione del verbale di prescrizioni e l'assunzione di impegno a rispettarle come disposto dall'art. 97 co., 3 e 4 del regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario, da parte del condannato a cui è concessa la misura alternativa dell'affidamento in prova ai servizi sociali. In questo caso, secondo parte della dottrina, non si può parlare di revoca, perché la misura non è mai iniziata ed è quindi più corretto sostenere che il Tribunale pronunci una declaratoria di inefficacia della misura. (136)

Note

1. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, 1997, p. 233, ove commentando il nono comma dell'art. 47 Ord. Penit. si esplica la finalità specifica della misura e gli elementi operativi che ne costituiscono la sostanza. "La finalità può essere identificata con il superamento delle difficoltà di adattamento alla vita sociale, che per ottenere tale risultato non deve limitarsi a mantenere i contatti con l'affidato singolarmente considerato, ma deve mettersi in relazione anche con l'ambiente familiare e sociale in cui il soggetto vive e nel quale le difficoltà di adattamento concretamente si manifestano. Un secondo elemento di operativo è rappresentato dal controllo che il servizio sociale è chiamato a svolgere nei confronti della condotta dell'affidato".

2. F. Bricola, L'affidamento in prova al servizio sociale: "fiore all'occhiello" della riforma penitenziaria, in QC, p. 373.

3. G. Catelani, Manuale dell'esecuzione penale, Giuffrè, Milano, 1987, p. 302.

4. Art. 97, 3º e 4º co., d.p.r. 30.06.2000, n.230.

5. B. Guazzaloca, Codice commentato dell'esecuzione penale, Vol.1, Utet, Torino 2002, p. 119.

6. M. P. Giuffrida, Verso la giustizia riparativa, in Mediare, Semestrale sulla mediazione, Dedalo, 2004, p. 75 ove si sottolineano le disposizioni a tutela delle vittime e l'avvio di attività di giustizia riparativa nell'esecuzione della pena.

7. A. Morrone, Il trattamento penitenziario e le alternative alla detenzione, Cedam 2003, p. 42.

8. F. Fiorentin, A. Marcheselli, L'ordinamento penitenziario, in Giurisprudenza Critica, Utet, 2005, p. 175.

9. M. D'Onofrio, M. Sartori, op. cit., 2004, p. 505 ove si rileva che l'impegno dell'affidato in favore della vittima è sempre vincolato alla sua concreta possibilità di operare, si invoca il rispetto del canone ad impossibilia nemo tenetur.

10. M. Pavarini, B. Guazzaloca, L'esecuzione penitenziaria, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, (a cura di F. Bricola e G. Zagrebelsky), Utet, Torino, 1995, p. 118 ove si privilegia l'ottica risocializzativa dell'istituto quanto l'evitare pericoli di recidiva.

11. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, Milano, 2002, p.256.

12. S. Ciappi, A. Massafra, L. Palmucci, Ai bordi del sistema penale: brevi considerazioni sulla vittima di reato nel sistema di controllo sociale, in S. Ciappi, C. Panseri, Idoli della tribu: pratiche della sicurezza e controllo sociale, Lecce, Manni, 2004, p. 223. "La mediazione penale costituisce il principale strumento attraverso cui può trovare attuazione la cosiddetta "giustizia riparativa" intesa come "paradigma di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti ed il rafforzamento del senso di sicurezza".

13. Cass. Sez. I, 23.11.2001, Posterà, in Cass. Pen. 2003, n.601 ove si specifica che deve considerarsi legittima la prescrizione formulata in termini generici "restando demandata la necessaria specificazione al successivo provvedimento del magistrato di sorveglianza, adottato in forza dei suoi poteri di modificazione ed integrazione delle prescrizioni imposte al Tribunale".

14. S. Ciappi, C. Coluccia, Giustizia criminale: Retribuzione, Riabilitazione e Riparazione. Collana crimine e devianza, Milano, F. Angeli, 1997, p. 103.

15. Circ. D.A.P. n. 3601/6051 del 14/06/2005, "Commissione Mediazione penale e Giustizia riparativa. Linee di indirizzo sull'applicazione nell'ambito dell'esecuzione penale dei condannati adulti", maggio 2005. Si auspica l'adozione di modelli di giustizia riparativa conformi alle Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d'Europa, con la Dichiarazione di Vienna del 2000 e la Risoluzione 27 luglio 2000, n. 2000/14 sui principi base sull'uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale, emanate dall'Economic and Social Council.

16. D.A.P., Commissione di Studio Mediazione Penale e Giustizia Riparativa, "Rilevazione dati relativi ai casi di affidamento in prova al servizio sociale: l'esperienza riparativa", maggio 2004. Il monitoraggio è stato articolato in due fasi: la prima fase, realizzata mediante un questionario rivolto ai direttori degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna, ed ha riguardato la rilevazione della "politica", degli orientamenti di ciascun servizio; la seconda fase invece ha coinvolto tutti gli assistenti sociali degli Uffici, che hanno collaborato a raccogliere i dati utili al fine di conoscere gli eventuali progetti di giustizia riparativa, ipotizzati o concretamente avviati ed attuati, in relazione agli affidati presi in esame. La seconda fase ha riguardato 57 Uffici di esecuzione penale, dipendenti dai 16 Provveditorati Regionali ed il totale dei soggetti che costituiscono l'universo di riferimento del presente lavoro è pari a 4511 unità (affidati dalla detenzione e dalla libertà, il cui fine pena ricadeva nel periodo 1 gennaio - 31 maggio 2002).

17. Risoluzione 2000/14 ECOSOC (Economic and Social Council).

18. Commissione Mediazione penale e Giustizia riparativa. Linee di indirizzo sull'applicazione nell'ambito dell'esecuzione penale dei condannati adulti, maggio 2005, p. 7.

19. Il Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale/CNPDS è stato costituito nel 1948 su iniziativa di Adolfo Beria di Argentine con il fine di studiare le condizioni e gli aspetti della prevenzione e di contribuire a delineare i caratteri e le dinamiche dell'evoluzione sociale. Nel 1990 è stato costituito presso il CNPDS, con il sostegno finanziario del Ministero degli Esteri italiano, l'ISPAC/International Scientific and Professional Advisory Council of the United Nations Crime Prevention and Criminal Justice Programme. L'iniziativa è stata adottata in attuazione di delibere e risoluzioni dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite dirette a realizzare un Consiglio internazionale di organizzazioni scientifiche e di istituzioni accademiche, per rafforzare la cooperazione internazionale nel campo della prevenzione del crimine e della giustizia penale, allargando lo scambio di informazioni e fornendo assistenza tecnica e scientifica alle Nazioni Unite. All'ISPAC hanno aderito un centinaio di associazioni scientifiche internazionali, organizzazioni non governative dotate dello Statuto consultivo delle Nazioni Unite.

20. La Raccomandazione (99)19 del Consiglio d'Europa in tema di mediazione penale definisce infatti mediazione il "procedimento che permette alla vittima e al reo di partecipare attivamente, se vi consentono liberamente, alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato, con l'aiuto di un terzo indipendente (mediatore)". La medesima Raccomandazione prevede che "ogni procedimento riparativo deve essere posto in atto soltanto con il libero e volontario consenso delle parti", anzi viene specificato che "le parti possono ritirare detto consenso in ogni momento..".

21. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale: retribuzione, riabilitazione e riparazione: modelli e strategie di intervento penale a confronto, Milano, F. Angeli, 1997, p. 103.

22. Circ. D.A.P. n. 3601/6051 del 14/06/2005, "Commissione Mediazione penale e Giustizia riparativa. Linee di indirizzo sull'applicazione nell'ambito dell'esecuzione penale dei condannati adulti", maggio 2005.

23. Cass. Sez. I, 7.12.1999, Nanocchio, CED, rv.2152204. "E' illegittima l'ordinanza con la quale il Tribunale di sorveglianza, nel concedere l'affidamento in prova al servizio sociale, prescriva al condannato l'incondizionato obbligo di provvedere all'integrale risarcimento del danno anticipando che, in mancanza di tale adempimento, non sarebbe stato riconosciuto l'esito positivo dell'esperimento".

24. Commissione Mediazione penale e Giustizia riparativa. Linee di indirizzo sull'applicazione nell'ambito dell'esecuzione penale dei condannati adulti, maggio 2005, p. 10.

25. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, 2002, p. 257.

26. A. Presutti, Procedure in camera di consiglio e regime del ricorso per cassazione (anche ma non solo in sede esecutiva), in CP, 1997, p. 354.

27. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Cedam, 2005, p. 52.

28. R. Orlandi, Procedimenti speciali, in Compendio di Procedura Penale, (a cura di G. Conso, V. Grevi), Cedam, 2003, p. 565, ove vengono elencati i vantaggi per il detenuto in caso di accettazione di "patteggiamento", tra cui appunto l'esenzione di pene accessorie e misure di sicurezza (art. 445 comma 1º prima parte, c.p.p.).

29. Cass. Pen. Sez. I, 7.4.1998, Girardo, CED, rv. 211030.

30. F. Fiorentin, A. Marcheselli, L'ordinamento penitenziario, Utet, 2005, p.177.

31. A. Presutti, op. cit., 1997, p. 354.

32. Cass. Sez. I, 24.2.1999, Rizzuti, CED, rv 213514.

33. R. Breda, C. Coppola, A. Sabattini, Il servizio sociale nel sistema penitenziario, Giappichelli, 1999, p. 117, ove si sottolinea che i servizi sociali si differenziano da quelli che operano nei settori di competenza degli enti locali perché, intervengono nella fase esecutiva della pena in seguito a provvedimenti giudiziari, partecipando direttamente alla funzione della giustizia penale.

34. F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, 1992, ove si inserisce la sospensione condizionale della pena, tra le forme di perdono che provengono dalla autorità giudiziaria (definite "cause di clemenza") assieme al perdono giudiziale e la liberazione condizionale.

35. S. Pietralunga, L'affidamento in prova al servizio sociale, Padova, 1990, ove si sottolinea con e i compito di controllo e di sostegno siano indispensabili per il raggiungimento del risultato rieducativo, "opportunità che l'intervento del servizio sociale conservi comunque, ed apertamente, la sua duplice valenza di sostegno e di controllo, della quale è incontestabile il significato rieducativo".

36. S. Margara, Le parole, le cose e le pietose bugie, in Il vaso di Pandora, 1997, p.169.

37. R. Breda, La riforma penitenziaria a venti anni dal 26 luglio 1975. III) Le nuove figure professionali del trattamento penitenziario, in Difesa Penale e Processo (DpeP), 1995, p. 890, ove viene sottolineata la presenza di problemi di natura organizzativa e formativa, che impediscono al servizio sociale di fare un vero salto di qualità, "per ciò che concerne il servizio sociale, esso appare ancora sacrificato in una condizione rappresentativa ed organizzativa, all'interno dell'amministrazione penitenziaria, sottodimensionata rispetto al ruolo che il servizio stesso è chiamato a svolgere dalla legge e rispetto alle potenzialità operative che esso è tecnicamente in grado di dispiegare".

38. R. Breda, Il controllo nell'affidamento in prova, in Diritto penale e processo, 1995, n. 5.

39. R. Breda, C. Coppola, A. Sabattini, op. cit., Giappichelli, 1999, p. 199.

40. Circ. D.A.P. 7 febbraio 1992, n. 3337/5787. Istituti penitenziari e centri di servizio sociale. Costituzione e funzionamento aree.

41. R. Breda, Le ragioni del servizio sociale - dalla marginalità al rilancio, in Tracce, Roma, 1195, n. 1.

42. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1997.

43. Circ. D.A.P. 24 novembre 1977, n. 2475/4928.

44. R. Breda, Riflessioni critiche sull'uso improprio delle misure alternative, in Diritto penale e processo, 1997, n. 11.

45. R. Breda, Il controllo nell'affidamento in prova, in Diritto penale e processo, 1995, p. 651.

46. R. Breda, op. cit., 1995, p. 651.

47. L. Cesaris, Commento all'art. 47-ter ord. Penit., in Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo, (a cura di Grevi, Giostra, Della Casa), Cedam, Padova, 2000, p. 446.

48. R. Breda, op. cit., sopra, p. 652.

49. M. D'Onofrio, M. Sartori, op. cit., 2004, p. 511.

50. R. Breda, C. Coppola, A. Sabattini, Il servizio sociale nel sistema penitenziario, Giappichelli, 1999, p. 283.

51. R. Breda, A, Sabattini, C. Coppola, op. cit., 1999, p. 284.

52. P. Vellutini, Una svolta finale nell'interpretazione dei presupposti applicativi dell'affidamento in prova al servizio sociale, in CP, 1995, p. 2741, ove si ribadisce come mediante l'intervento legislativo sfociato nell'art. 14-bis introdotto dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, ai fini della determinazione del limite di pena fissato dalla legge per la concessione del beneficio, si deve aver riguardo non alla nozione formale di pena inflitta, ma a quella sostanziale di pena in concreto espianda.

53. R. Breda, L'assistente sociale per adulti nel sistema penitenziario, in F. S. Fortuna (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma, Milano, 1995.

54. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, 2002, p. 256.

55. Legge 27 luglio 2005, n. 154 "Delega al Governo per la disciplina dell'ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria" pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 1º agosto 2005.

56. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Giuffrè, 2005, p.54.

57. B. Guazzaloca, Esecuzione e codice di procedura penale, artt. 656, 678 c.p.p., in Codice commentato dell'esecuzione penale, Vol. III (a cura di D. Bertaccini e B. Guazzaloca), Utet, Torino.

58. T. Basile, Il ruolo della magistratura di sorveglianza nella riforma penitenziaria: qualche riflessione, in GP, I, 1985, p. 219.

59. S. Pietralunga, L'affidamento in prova al servizio sociale, Cedam, 1990, p. 134.

60. S. Pietralunga, op. cit., 1990, p. 122.

61. M. D'Onofrio, M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, Giuffrè, 2004, p. 512.

62. M. Rada, Ordinamento penitenziario ed esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, artt. 47-ter, 48, 50, 51, 51-bis, 51-ter, 56, in Codice commentato dell'esecuzione penale, Vol. I (a cura di B. Guazzaloca), Utet, Torino, 2002.

63. Cass. Sez. I, 13.12.1994, Maccarone, in Ced, 200547.

64. Cass. Sez. I, 16.02.1999, Maresca, in Ced, 213255.

65. Cass. Sez. I, 10.07.1995, Bognani, in Ced 202394.

66. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, op. cit., Giuffrè, 2005, p. 57.

67. G. Catelani, Manuale dell'esecuzione penale, V edizione, Giuffrè, Milano, 2002 p. 451.

68. F. Fiorentin, A. Marcheselli, L'ordinamento penitenziario, Utet, 2005, p. 179.

69. V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo, Cedam, Padova, 2000.

70. M. Pavarini, B. Guazzaloca, L'esecuzione penitenziaria, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale (a cura di F. Bricola e G. Zagrebelsky), Utet, Torino, 1995, p. 118.

71. F. Lupone, Affidamento in prova al servizio sociale: rilievi critici in tema di revoca della misura e annullamento del provvedimento di ammissione, in AP, 1983, p. 584.

72. R. Breda, C. Coppola, A. Sabattini, op. cit., 1999, p. 319.

73. F. Della Casa, L'incidenza della pronuncia assolutoria sulla pregressa revoca di una misura rieducatva, in Sent. ord. e. cost., 1996, pp. 1693 - 1701.

74. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, 2002, p. 259.

75. Cass. Pen. Sez. I, 11.5.1992, De Zen, CP, 1993, 2100.

76. Cass. Pen. Sez. I, 7.11.1977, Boari, CP, 1977, 557.

77. Cass. Sez. VI, 10.03.1995, D'Amico, in Ced 210675.

78. G. Grasso, Misure alternative alla detenzione, in Dizionario di diritto e procedura penale (a cura di G. Vassalli), Giuffrè, Milano, 1986, p. 663.

79. F. P. C. Iovino, Sospensione della pena ed espiazione extra moenia, Giuffrè, Milano, 1998, p.238.

80. Cass. Sez. I, 9.06.2004, Giorgetti, inedita che ha annullato con rinvio l'ordinanza emessa in data 7.10.2003 dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze con la quale il procedimento di revoca dell'affidamento era stato definito in senso favorevole al condannato.

81. Cass. Sez. I, 31.03.1995, Satanassi, in Ced, 2012368.

82. V. Grevi, Compendio di procedura penale, (a cura di G. Conso, V. Grevi), Cedam, 2003, p. 370.

83. Cass. Sez. I, 6.12.2001, Di Massa, in Cass. Pen., 2003, n. 489.

84. F. Della Casa, La crisi d'identità delle misure alternative tra sbandamenti legislativi, esperimenti di "diritto pretorio" e irrisolte carenze organizzative, in CP, 2002, p. 3282-3283.

85. A. Presutti, Il nuovo regime degli effetti conseguenti alla revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale: verso il tramonto della funzione rieducativa della misura, in Cass. Pen., 1988, n. 5.

86. F. Mantovani, Pene e misure alternative nel sistema vigente, in Pene e misure alternative nell'attuale momento storico. Atti dell'XI Convegno E. De Nicola, Milano, 1977, p. 77; A. Pagliaro, La riforma delle sanzioni penali tra la teoria e prassi, in RIDPP, 1979, p. 1198.

87. C. E. Paliero, Revoca "postuma" dell'affidamento in prova e scomputo della pena del periodo "utilmente" trascorso, in RIDPP, 1978, p. 1487; G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1984, p. 225.

88. A. Presutti, Il nuovo regime degli effetti conseguenti alla revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale: verso il tramonto della funzione rieducativa della misura, in CP, 1988, p. 32.

89. D. Verrina, Corte costituzionale e revoca dell'affidamento in prova: la rieducazione dal mito al realismo, in RIDPP, 1988, p. 1155.

90. F. Fiorentin, A. Marcheselli, op. cit., Utet, 2005, p. 183.

91. Cass. Pen. Sez. I, 13.1.1999, Rodi, Ced, rv. 212712.

92. F. Fiorentin, A. Marcheselli, op. cit., Utet, 2005, p. 185.

93. Monia Coralli, Materiali didattici sulle misure alternative, per le lezioni tenute da Alessandro Margara nell'ambito del progetto "CIVITAS: ATTIVARE I DIRITTI. DA DETENUTI A CITTADINI".

94. Cass. Sez. I, 7.11.2000, Lonardelli, in Cass. Pen., 2001, n. 1403.

95. F. Della Casa, La crisi di identità delle misure alternative, tra sbandamenti legislativi, esperimenti di diritto pretorio, e irrisolte carenze organizzative, in Cass. Pen. 2002, p. 3278, spec. P. 3283.

96. A. Bernasconi, Commento all'art. 51-bis ord. Penit., in Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo (a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa), Cedam, Padova, 2000, p. 521.

97. Cass. Sez. I, 28.03.2001, Sarcone, CP, 2003, 1590.

98. M. Pavarini, B. Guazzaloca, L'esecuzione penitenziaria, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Utet, Torino, 1995, p. 118.

99. G. Giostra, Prognosi rieducativi e pendenze penali nell'affidamento in prova al servizio sociale, in Cass. Pen. 1983, p. 1437 ss.

100. M. D'Onofrio, M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, Giuffrè, 2004, p. 552.

101. Cass. Sez. I, 10.05.1994, Recchia, RP, 1995, 516, "E' illegittima - e viziata da nullità assoluta - la revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale adottata de plano".

102. P. Di Ronza, Manuale di diritto dell'esecuzione penale, Cedam, Padova, 1994, p. 198.

103. Cass. Sez. I, 26 giugno 1981, Milito, sez. I, in Cass. Pen., 1982, p. 1631.

104. F. Fiorentin, A. Marcheselli, L'ordinamento penitenziario, in Giurisprudenza critica, Utet, 2005, p. 186.

105. M. Pavarini, B. Guazzaloca, Codice commentato dell'esecuzione penale, Torino, Utet, 2002, p. 118.

106. M. Canepa, S. Merlo, op. cit., Giuffrè, 2002, p. 262.

107. Cass. Sez. I, 01.04.1981, Mellone, GP, 1982, III, 414.

108. G. Prelati, Il Tribunale di Sorveglianza, in Diritto e pratica professionale, Giuffrè, 2001, p. 26.

109. M. D'Onofrio, M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, Giuffrè, 2004, p. 586.

110. R. Tucci, Riflessioni sulla natura dell'affidamento in prova ai servizi sociali a seguito di una recente sentenza delle Sezioni Unite, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, settembre-dicembre 2003, p. 104.

111. Corte Costituzionale, 14 dicembre 1995, n. 504, in Giur. Cost., 1995, fase 6, p. 4272.

112. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, parte generale, Zanichelli, Bologna, 2001, pp. 334-335.

113. Cass. Sez. I, 15.05.1998, Allegrucci, CP, 1999, 2676.

114. Cass. Sez. Unite, 27.02.2002, Martola, GP, 2002, II, 566.

115. R. Tucci, op. cit., p.106.

116. R. Li Vecchi, L'affidamento in prova al servizio sociale con esito positivo estingue o meno la pena detentiva? In RP, 1996, p. 1047 ss.

117. R. Tucci, op. cit., p. 107.

118. A. Presutti, Ordinamento penitenziario, (a cura di Grevi, Giostra, Della Casa) Cedam Padova, 1997.

119. G. Grasso, Misure alternative alla detenzione, (a cura di Vassalli), Dizionario di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 1986, p. 679.

120. Legge 21 febbraio 2006, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 48 del 27 febbraio 2006. Articolo 4-vicies semel. Modificazione all'articolo 47 della legge n. 354 del 1975. Al comma 12 dell'articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, le parole: «e ogni altro effetto penale» sono sostituite dalle seguenti: «detentiva ed ogni altro effetto penale. Il tribunale di sorveglianza, qualora l'interessato si trovi in disagiate condizioni economiche, può dichiarare estinta anche la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa».

121. Tribunale Sorveglianza di Roma 5 luglio 2001, Gualà e Mozzi e 14 marzo 2002, ric. Silvestri.

122. Gazzetta Ufficiale n. 48 del 27 febbraio 2006 - Supplemento Ordinario n. 45. "Conversione in legge, con modificazioni del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, recante misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonche' la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi".

123. R. Tucci, op. cit., p. 109.

124. A. Presutti, Commento all'articolo 47 ord. penit. (a cura di Grevi, Giostra, Della Casa), in Ordinamento Penitenziario, Cedam, Padova, 1997.

125. S. F. Vitello, L'affidamento in prova al servizio sociale e pene pecuniarie, commento, in DpeP, 1990, p. 586, che rileva come la pena pecuniaria sia comminata dal giudice alla luce degli stessi criteri di quella detentiva (art. 133) oltre ad averne la stessa funzione.

126. R. Tucci, op. cit., p. 109.

127. Cass. Sez. I, 17.1.2005, p.m. in proc. Gonzales Preciado, CED, rv 230611.

128. A. Presutti, Commento all'art. 47 ord. penit. in Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo (a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa), Cedam, Padova, 2000, p.411.

129. F. Fiorentin, A. Marcheselli, L'ordinamento penitenziario, in Giurisprudenza Critica, 2005, Utet, p. 179.

130. Cass. Sez. I, 17.2.2000, Comero, CED, rv. 215706.

131. R. Tucci, op. cit., p. 107.

132. A. Presutti, op. cit., Cedam, Padova, 1997, p. 356.

133. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, Milano, 1993, p. 572 ss.

134. A. Bernasconi, Commento all'art. 51-bis ord. pen. in Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo (a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa), Cedam, Padova, 2000.

135. A. Morrone, Il trattamento penitenziario e le alternative alla detenzione, Cedam, 2003.

136. F. Fiorentin, A. Marcheselli, op. cit., Utet, 2005, p. 179.