ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 3
I meccanismi applicativi della misura

Federico Giacomelli, 2006

3.1. La concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale

Il procedimento con cui il Tribunale o, nei casi espressamente previsti, il magistrato di sorveglianza giungono alla decisione sulla concessione o meno della misura, si apre d'ufficio o su richiesta del pubblico ministero, dell'interessato o del suo difensore e, come già accennato nel capitolo precedente, è disciplinato in linea generica, in forza del rinvio, espressamente operato dall'art. 678, 1º, co., c.p.p., dall'art. 666 dello stesso codice.

Alla disposizione generale procedimentale dell'art. 666 c.p.p., che è la medesima che regola il procedimento esecutivo, si affiancano inoltre, provocando difficoltà di coordinamento e di applicazione, l'art. 656 c.p.p., come modificato dalla legge 165/98, (1) nonché le norme dell'Ordinamento penitenziario dedicate alle singole misure alternative, che prevedono particolari procedure di applicazione.

A seguito delle innovazioni introdotte, attualmente il procedimento di sorveglianza ha assunto connotazioni parzialmente diverse da quelle originarie; anche la richiesta e concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale ha pertanto subito notevoli cambiamenti, caratterizzandosi per la compresenza di più modalità di accesso alla stessa.

La normativa richiamata, che si presenta dispersa tra il Codice di procedura e la legge-base del '75, ripetutamente modificata, prevede con un certo dettaglio due fondamentali percorsi che il condannato a pena detentiva può seguire per chiedere ed ottenere, ricorrendone i presupposti, la concessione della misura alternativa.

Il primo, quello "storico", (2) riguarda come sappiamo i condannati già detenuti, i quali, presentando, nel corso dell'esecuzione della pena detentiva e ricorrendo le condizioni previste dalla legge, apposita istanza allo stesso Tribunale di Sorveglianza, o nei casi stabiliti, al magistrato di sorveglianza, possono accedere al beneficio dell'affidamento in caso di conclusione positiva del procedimento attivato.

Il secondo percorso, (divenuto principale) introdotto con le modifiche via via apportate al testo originario della riforma del 1975, ed oggi disciplinato dall'art. 656 c.p.p., è uno strumento attivato, a favore dei condannati in stato di libertà, proprio per evitare, a determinate condizioni, la stessa detenzione carceraria.

Il procedimento di sorveglianza "tradizionalmente" attivato per ottenere la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale è configurato dal 2º co., dell'art. 47 Ord. Penit. ed è necessariamente preceduto dall'osservazione della personalità del condannato compiuta, "per almeno un mese", nell'istituto di pena. A seguito dell'inserimento, con la "legge Simeone", del nuovo 4º co. dell'art. 47, il procedimento ivi indicato sembra configurarsi come la via "privilegiata" (ma non esclusiva) di accesso alla misura per i condannati in esecuzione di pena: il condannato presenta un'istanza al magistrato di sorveglianza competente e questi, ricorrendone i presupposti, può direttamente "sospendere l'esecuzione della pena e ordinare la liberazione del condannato", al termine di un giudizio provvisorio. (3)

L'effettiva decisione sulla concessione o meno della misura rimane però di esclusiva pertinenza del Tribunale di Sorveglianza, a cui il magistrato "trasmette immediatamente gli atti"; nel procedimento avanti al Tribunale si applica l'art. 666 c.p.p. L'elemento rilevante per la decisione, in questo percorso d'accesso, continua ad essere rappresentato dall'osservazione scientifica della personalità del condannato in istituto.

Accanto dunque alla tradizionale ipotesi di concessione della misura dell'affidamento a beneficio di soggetti detenuti, si è affiancata, divenendo la via d'accesso prioritaria, la modalità di concessione a favore di condannati che si trovano in stato di libertà. La procedura che disciplina questa ipotesi, (4) un tempo indicata nello stesso art. 47 Ord. Penit., è attualmente in gran parte contenuta nel nuovo testo dell'art. 656 c.p.p. e si sostanzia in una sospensione automatica dell'esecuzione della pena detentiva da parte del Pubblico ministero, che concede un termine al condannato per la presentazione dell'istanza di concessione, corredata da apposita documentazione e rivolta allo stesso P.M., il quale trasmette gli atti al Tribunale di Sorveglianza al quale spetta sempre la pronuncia definitiva.

La concessione della misura al condannato in libertà ovviamente si basa sulla condotta tenuta dal soggetto nel periodo di libertà, ex. Art. 47, 3º co., Ord. Penit.

Entrambe le modalità procedurali approdano quindi al Tribunale di Sorveglianza, davanti al quale si applica, in forza del richiamo dell'art. 678 c.p.p., la procedura prevista dall'art. 666 c.p.p. per il giudizio di esecuzione.

3.2. Concessione della misura a beneficio del condannato detenuto

L'accesso alla misura dell'affidamento in prova al servizio sociale del condannato detenuto rappresenta la via per così dire "tradizionale" per l'ottenimento del beneficio. La legge Simeone (l. 27.05.1998, n. 165) con il suo art. 2, 2º co., ha modificato l'impianto originario della disciplina, sostituendo il precedente disposto dell'art. 47, 4º co., Ord. Penit., ed introducendo un nuovo istituto giuridico in relazione al procedimento di concessione: la sospensione dell'esecuzione della pena detentiva in corso nel caso di presentazione, da parte del condannato, di istanza di affidamento. (5)

La precedente normativa prevedeva invece la sospensione dell'esecuzione della pena detentiva solo se l'istanza di affidamento in prova era presentata prima dell'emissione o dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione. Organo competente ad emettere il provvedimento di sospensione dell'esecuzione è il magistrato di sorveglianza avente giurisdizione sull'istituto in cui il condannato si trova al momento della richiesta. L'interpretazione letterale della norma è infatti chiara nello stabilire che il potere di sospendere l'esecuzione della pena appartiene al magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo di esecuzione, ossia il magistrato del luogo di espiazione della pena, che si identifica con quello che (secondo la regola generale dettata dall'art. 677, 1º co.) ha giurisdizione sull'istituto di prevenzione o pena in cui si trova l'interessato al momento della richiesta. (6)

Nella pratica, il detenuto deve presentare istanza al direttore dell'istituto in cui si trova ristretto, il quale poi la trasmetterà al magistrato (d.p.r. 230/2000, art. 96). Ai sensi dell'art. 96 nuovo regolamento penitenziario infatti:

"l'istanza del condannato detenuto è presentata al direttore dell'istituto, il quale la trasmette, con la cartella personale e la proposta del consiglio di disciplina, al magistrato di sorveglianza territorialmente competente in relazione al luogo di detenzione che, dopo aver eventualmente sospeso l'esecuzione, passa comunque gli atti al tribunale di sorveglianza in sede". (7)

Anche la giurisprudenza più recente ha precisato che il direttore dell'istituto di pena in cui il condannato si trova è legittimato alla ricezione dell'istanza. (8)

Legittimati a ricorrere a questo strumento sono i detenuti con sentenza passata in giudicato che debbano scontare una pena detentiva non superiore a tre anni, anche se residuo di maggior pena. Diversamente dall'art. 656 c.p.p. che come già detto disciplina la richiesta di misura alternativa dallo stato di libertà, non è espressamente esclusa la possibilità di accedere alla sospensione dell'esecuzione della pena da parte dei detenuti per i reati di cui all'art. 4-bis, 1º co., Ord. Penit., i quali pertanto possono presentare dallo stato detentivo l'istanza ex art. 47, 4º co., nel caso abbiano posto in essere l'attività di collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter Ord. Penit. (9)

Per quanto invece riguarda i detenuti per gravi reati, già da lungo tempo in carcere, l'art. 47, 4º co., non indica casi di esclusione, tuttavia parte della dottrina sostiene, che non dovrebbe essere loro consentito ricorrere al meccanismo sospensivo. (10)

Il nostro ordinamento penitenziario comunque non prevede deroghe di sorta, e concede la possibilità al condannato detenuto, di presentare l'istanza diretta ad ottenere il beneficio direttamente al Tribunale di Sorveglianza, ovvero chiedere al magistrato di sorveglianza di disporre la sospensione dell'esecuzione della pena.

Il giudizio (che vede nel caso di cui all'art. 47, 4º co., Ord. Penit., quale protagonista il magistrato di sorveglianza), finalizzato alla sospensione dell'esecuzione della pena carceraria si connota per la sua provvisorietà, rimanendo di competenza del Tribunale di Sorveglianza il provvedimento finale di concessione. Ciò non toglie che il detenuto debba accompagnare la sua richiesta di scarcerazione con tutta la documentazione necessaria. La lettera del 4º co. pare configurare ("sono offerte concrete indicazioni") un vero e proprio onere di allegazione, da parte dei soggetti legittimati alla richiesta del beneficio (condannato, prossimi congiungi, consiglio di disciplina), di elementi a sostegno dell'istanza. Tale soluzione risulta coerente con il sistema, in considerazione, da un lato del carattere sommario e rapido del relativo procedimento e, dall'altro del fatto che, soprattutto le circostanze integranti il "periculum" sono assai più agevolmente conoscibili dall'interessato che non dal Magistrato di Sorveglianza. (11)

Si tratterebbe quindi di una ripartizione degli oneri ragionevole, tale da rendere più spedito ed efficiente il procedimento. L'imposizione di tale onere non esclude naturalmente né la rilevabilità del materiale comunque emergente dal fascicolo personale (12) del detenuto, né la possibilità e necessità di istruttoria e verifica. All'inosservanza di tale onere dovrebbe conseguirne il rigetto (declaratoria di inammissibilità) dell'istanza. Contro la decisione con decreto da parte del magistrato di sorveglianza, avente carattere interlocutorio, non è ammesso, secondo costante giurisprudenza della Suprema Corte, ricorso per Cassazione, nemmeno ex art. 111 Cost. (13)

Il giudizio del magistrato che potrà sospendere l'esecuzione della pena e ordinare la liberazione del condannato senza, tuttavia, poter applicare provvisoriamente la misura alternativa e le relative prescrizioni presuppone quindi un successivo periodo di attesa della decisione definitiva sulla concessione o meno della misura alternativa, di spettanza del Tribunale di Sorveglianza. Con questa riforma, il ruolo dell'organo monocratico ha comunque acquisito incisività, in quanto è chiamato ad effettuare un vero e proprio giudizio prognostico, a cognizione piena, che deve considerare adeguatamente sia il grave pregiudizio insito nella protrazione della detenzione, sia la presenza o l'assenza del pericolo di fuga del condannato in caso di rimessione in libertà. L'esame dell'istanza quindi, oltre a coinvolgere le condizioni di ammissibilità (limite di pena previsto dalla legge, definitività della condanna, assenza di dinieghi di precedenti istanze), deve estendersi al merito. (14)

Non appare dubbio infatti che si tratti di un esempio di giurisdizione cautelare, ancorata come è ai presupposti del "fumus boni juris" (la verosimiglianza di accoglimento della domanda di merito di affidamento in prova al servizio sociale) e il "periculum in mora" (il grave pregiudizio conseguente al protrarsi della detenzione). (15) Quanto al fumus, coincidendo con la verosimiglianza di accoglimento dell'istanza di merito, fa si che il magistrato di sorveglianza sia tenuto a una sommaria delibazione, allo stato degli atti, dei medesimi elementi oggetto della ponderazione dell'organo collegiale. Il legislatore inoltre ha ritenuto opportuno menzionare espressamente il pericolo di fuga (esemplificativamente desumibile da circostanze quali: collegamenti con estero, precedenti per evasione o condizioni di latitanza, l'entità della pena residua ecc...). Le ragioni di tale esplicita menzione (assente rispetto alla concessione di merito), appaiono riconducibili alla condizione di persona totalmente priva di controlli che caratterizza il soggetto nei cui confronti sia disposta la sospensione. Tale elemento appare particolarmente significativo rispetto a soggetti palesemente abbisognevoli di supporto e sostegno.

Per quanto concerne il periculum in mora, il grave pregiudizio conseguente al protrarsi della detenzione, coerentemente con la funzione della pena, (16) dell'affidamento in prova al servizio sociale e della scarcerazione cautelare, pare doversi identificare nella compressione di interessi personali, familiari e sociali ulteriori, o in una misura accentuata oltre la misura ordinaria predetta (esemplificando, gravi difficoltà economiche del nucleo familiare, situazioni di emergenza sanitaria, pregiudizio per opportunità di risocializzazione preziose e infungibili, quali opportunità lavorative non ripetibili e simili).

Parte della dottrina ha evidenziato a questo riguardo una possibile discriminazione nella concessione del beneficio, insita nella necessaria valutazione di requisiti riscontrabili solo in limitate categorie di detenuti. E' stato notato infatti, che la possibilità di riacquistare la libertà, seppure in via provvisoria, è legata all'accertamento di requisiti (ad esempio, l'assenza del pericolo di fuga) la cui integrazione richiede sovente una condizione di minima stabilità sociale (si pensi alla elezione di domicilio e alla necessità di disporre di una fissa dimora controllabile). Questo meccanismo rischia quindi "di introdurre nuove, odiose sperequazioni proprio a carico di quei soggetti che apparentemente intendeva tutelare". (17)

A beneficiare della sospensione saranno prevedibilmente dunque i detenuti a pene detentive "brevi", che in precedenza non avevano potuto o saputo utilizzare il congegno dell'art. 656, 5º co., c.p.p.; a vantaggio di questi, spesso ricorrono la scarsa pericolosità ed il ridotto pericolo di fuga, condizioni che certamente favoriscono l'accoglimento dell'istanza. Di contro come già detto precedentemente, in presenza di condanne a pene più elevate, sarà proprio la ponderazione dei fattori impeditivi (recidiva, pericolo di fuga) a costituire "il connotato assorbente del giudizio prognostico operato dall'organo monocratico". (18)

In caso si accoglimento della richiesta di sospensione, il condannato dovrà comunque attendere la pronuncia definitiva del Tribunale di Sorveglianza: ove quest'ultima sia positiva, inizierà la fase di esecuzione della misura alternativa; invece, se il tribunale non accoglie l'istanza, riprende l'esecuzione della pena, e non può essere accordata altra sospensione quale che sia l'istanza proposta. La dottrina (19) ha peraltro evidenziato il pericolo che si può presentare in sede di procedimento davanti al Tribunale, ossia quello di vedere il ruolo dell'organo collegiale appiattito su una mera ratifica dei provvedimenti adottati a suo tempo dal magistrato di sorveglianza, appare infatti improbabile che il Tribunale smentisca una pronuncia di un proprio componente.

Inoltre, è prevedibile che, data la notevole mole di lavoro, possa intercorrere anche un periodo abbastanza lungo tra il provvedimento del magistrato e la data dell'udienza avanti il Tribunale in camera di consiglio. Tale periodo, è trascorso dal condannato in libertà "incondizionata" o "libertà selvaggia", in conseguenza dell'impossibilità, per il magistrato, di disporre, anche solo provvisoriamente, l'affidamento e le conseguenti prescrizioni. Il proseguo della vicenda si rivela dunque paradossale qualunque sia l'esito della decisione del Tribunale. Viene infatti stravolta la sequenza logica di un percorso trattamentale nel quale, come è evidente, l'affidamento dovrebbe precedere e non seguire lo stato di libertà. Risulta da questo meccanismo la compromissione della natura trattamentale dell'affidamento in prova, funzionalizzato ad un improprio obiettivo di deflazione carceraria. La dottrina a tal proposito ha affermato che le indilazionabili "emergenze" dell'equità del trattamento dei condannati e della riduzione del sovraffollamento rappresentano, le finalità di una manovra (quella appunto tramutata con la Legge Simeone del '98) che si focalizza sulla fase dell'esecuzione della pena rinunciando "aprioristicamente" ad una riforma globale del sistema penale, causa strutturale delle carenze denunciate. (20)

3.3. Concessione della misura a beneficio del condannato in libertà

La concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale al condannato in libertà è disciplinato dalla disposizione dell'art. 656 c.p.p., intitolato "Esecuzione delle pene detentive", integralmente riformulato come sappiamo, dalla legge 27.05.1998, n. 165. La riforma operata con la legge Simeone mira a consentire a tutti i condannati a pene detentive brevi e medio-brevi di accedere, indipendentemente dalle possibilità economiche e difensive, alle misure alternative alla detenzione. (21)

Era stato constatato infatti, che tanto l'art. 14-bis d.l. 08.06.1992, n. 306, che aveva ampliato l'ammissibilità dell'affidamento estendendola ai condannati con pena residua non superiore a tre anni, quanto il meccanismo di concessione delle misure alternative in via anticipata introdotto con la legge "Gozzini", avevano esplicato la loro efficacia soprattutto a beneficio dei detenuti più abbienti, o comunque con maggiori possibilità. Al contrario, i detenuti più deboli sotto il profilo socio-economico trovavano maggiori difficoltà ad attivarsi autonomamente presso il Pubblico Ministero per chiedere la sospensione dell'ordine di esecuzione. (22)

Per ovviare a queste critiche dunque, la legge Simeone ha previsto un accesso più diretto e facilitato alle misure, con la sospensione automatica, in presenza dei presupposti indicati dalla norma, da parte del P.M. dell'ordine di esecuzione; solo successivamente, l'interessato è tenuto a presentare l'istanza di ammissione alla misura alternativa. Attualmente, la procedura che consente la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale, da parte di condannati in libertà è senza dubbio la più utilizzata. (23)

Le critiche comunque non sono cessate in quanto è stato osservato (24) che con la riforma si è accentuata la disparità di trattamento tra condannati, in quanto pochi saranno in grado di sfruttare il congegno sospensivo presentando un'istanza "corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessaria" nel termine di trenta giorni dalla consegna del decreto di sospensione, mentre la maggioranza dei condannati destinati all'impatto con il sistema penitenziario (quali extracomunitari e tossicodipendenti) a causa della scarsezza dei mezzi culturali ed economici in loro possesso soccomberanno al procedimento.

Analizzando l'art. 656 c.p.p., norma-chiave della riforma, osserviamo che i primi quattro commi, che disciplinano in generale l'ordine di esecuzione di competenza del P.M., sono rimasti immutati rispetto la precedente disciplina. La novella del '98 ha inciso molto invece sul testo del successivo 5º co., prevedendo un obbligo di sospensione dell'esecuzione della pena detentiva in situazioni ben precise, coincidenti appunto con quelle in cui può applicarsi la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale. La Suprema Corte ha negato che in capo al P.M. sussista un potere discrezionale di sospensione una volta verificato la sussistenza dei presupposti di legge; sarà, invece nella fase successiva, l'organo giurisdizionale, individuato in questo caso nel Tribunale di Sorveglianza, ad adottare la decisione definitiva sulla concessione della misura, nell'osservanza delle garanzie giurisdizionali proprie del procedimento previsto dall'art. 666 c.p.p. (25) Infatti il P.M. è successivamente tenuto a trasmettere l'istanza, unitamente a tutta la documentazione allegata, al Tribunale competente. Nel caso in cui il P.M. abbia omesso di adottare il provvedimento di sospensione dell'esecuzione, pur in presenza dei suoi presupposti applicativi, la giurisprudenza ha riconosciuto all'interessato il diritto di rivolgersi al giudice dell'esecuzione per ottenere una declaratoria di temporanea inefficacia del provvedimento che abbia disposto la carcerazione. (26)

E' da notare che la riforma aveva inizialmente previsto quale forma di comunicazione privilegiata per l'avviso di presentazione dell'istanza, ex art. 656, 5º co., c.p.p., la sua consegna al condannato a mani proprie, favorendo l'effettiva conoscenza da parte dell'interessato; con l'approvazione del d.l. 24.11.2000, n. 341, convertito in legge 19.01.2001, n. 4, si è invece passati dalla "consegna" all'obbligo della notifica all'interessato ed al suo difensore dell'ordine di esecuzione e del suo contestuale decreto di sospensione. (27) Infatti, l'iniziale previsione della "consegna", quale unico mezzo consentito di comunicazione, aveva indotto la dottrina a sostenere l'inammissibilità di altre forme di notizia, con la conseguenza che gli "irriperibili" non avrebbero potuto accedere al beneficio della sospensione. (28) In tema di esecuzione, quindi, il termine perentorio di trenta giorni ai fini della presentazione dell'istanza per la concessione della misura alternativa decorre dalla valida notifica dell'ordine di esecuzione e del decreto di sospensione al condannato ed al difensore. Peraltro, l'estensione del meccanismo garantista è stata completata dall'introduzione nell'art. 656 c.p.p. del co. 8-bis, che consente al P.M. di provvedere anche alla eventuale rinnovazione della notifica.

Al decreto di sospensione dell'esecuzione emesso dal P.M. deve dunque seguire necessariamente la presentazione, da parte dell'interessato, di un'apposita istanza, in assenza della quale la pena ha "corso immediato" (c.p.p. 656, 5º co.). L'istanza di concessione della misura dell'affidamento in prova in seguito al provvedimento di sospensione è presentata dal condannato in stato di libertà o dal suo difensore, ai sensi dell'art. 656, 6º co., c.p.p., al Pubblico Ministero competente per l'esecuzione nel termine di trenta giorni dalla notificazione del decreto di sospensione.

La previsione del termine (perentorio) di trenta giorni per la presentazione dell'istanza implica, secondo la giurisprudenza di legittimità, che la stessa debba pervenire in tale termine al P.M., non semplicemente che sia spedita o inviata. (29)

Il richiedente non è tenuto a citare nell'istanza di concessione gli elementi di fatto e di diritto oggetto del giudizio di merito ma può semplicemente indicare il beneficio penitenziario richiesto. Spetta infatti alla magistratura di sorveglianza verificare se il beneficio può essere concesso ed acquisire tutti gli elementi utili ai fini della decisione. All'istanza può comunque essere allegata idonea documentazione, è stabilito infatti dal 5º co. dell'art. 656 c.p.p. un minimo onere di allegazione per il condannato e ciò al fine di far acquisire al richiedente maggiore consapevolezza nella richiesta della misura, avendo la prassi dimostrato che i condannati la richiedono indiscriminatamente. (30)

A tal riguardo, la modifica operata con d.l. 24.11.2000, n. 341, con l'aggiunta all'articolo in questione del 6º co., consente ora il deposito della documentazione richiesta anche successivamente alla presentazione dell'istanza "fino a cinque giorni prima dell'udienza fissata a norma dell'art. 666 comma 3". Da ciò si deduce che il P.M. è nei fatti privo di qualsiasi potere valutativo, non potendo nemmeno richiedere l'integrazione della documentazione presentata; questa infatti, lungi da provocare il rigetto dell'istanza, può essere presentata successivamente, prima dell'udienza avanti al Tribunale di Sorveglianza e, comunque, lo stesso organo collegiale, ove lo ritenga opportuno, può, anche d'ufficio, (31) richiedere documenti o informazioni.

Nell'istanza il condannato può anche avanzare richiesta di più benefici in via alternativa, senza che sussista l'obbligo di specificarne uno. (32) Ovviamente, la decorrenza del termine senza che nel frattempo sia stata presentata richiesta di misura alternativa implica, ai sensi dell'art. 656, 8º co., c.p.p., la revoca del provvedimento di sospensione dell'esecuzione adottato dal Pubblico Ministero. Presentata l'istanza, il Tribunale di Sorveglianza competente, in relazione al luogo in cui ha sede l'ufficio del Pubblico Ministero, ricevuti gli atti, è tenuto a decidere nel termine (ordinatorio) di "quarantacinque giorni dal ricevimento dell'istanza" (art. 656, 6º co., c.p.p.).

Il mancato rispetto di detto termine non comporta quindi la nullità dell'ordinanza del Tribunale di concessione o di diniego della misura, a svantaggio del detenuto che non ha certezza sui tempi di attesa dell'attività dei giudici.

La possibilità di richiedere l'ammissione a una misura alternativa tramite la sospensione dell'ordine di esecuzione come sappiamo, non è concessa indiscriminatamente a tutti i condannati, sono previste infatti varie eccezioni all'utilizzo del meccanismo sospensivo: innanzitutto, ai sensi dell'art. 656, 7º co., la sospensione non può essere disposta più di una volta in relazione alla stessa condanna, sia nel caso in cui il condannato riproponga nuova istanza in ordine a diversa misura alternativa, sia in ordine alla medesima misura, diversamente motivata.

Tale disciplina tuttavia secondo la dottrina (33) subisce una smentita ad opera della procedura contemplata dal comma 4 dell'art. 47 Ord. Penit. con la quale vi è la possibilità di ottenere la sospensione della pena, dopo l'inizio della detenzione, anche in caso di revoca da parte del Pubblico Ministero del decreto di sospensione.

L'art. 656, 9º co., c.p.p. stabilisce inoltre ulteriori limiti alla sospensione: la lettera a) non la consente nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis Ord. Penit., nell'ottica di inasprimento sanzionatorio per gli autori di reati legati alla criminalità organizzata, cosiddetto "doppio binario". (34) Questa preclusione ha inciso notevolmente sulla razionalità del sistema stabilendo un divieto assoluto per il Pubblico Ministero di provvedere alla sospensione dell'esecuzione, solo al magistrato di sorveglianza infatti viene riservata la possibilità di emettere un provvedimento di scarcerazione provvisoria qualora il condannato, detenuto, avanzi istanza di misura alternativa e ne ricorrano i presupposti.

La successiva lettera b) del 9º co. dell'art. 656 c.p.p. indica un'ulteriore preclusione: non possono accedere al meccanismo di sospensione i condannati che sono nel momento del passaggio in giudicato della sentenza, in custodia cautelare a causa del fatto oggetto della condanna da eseguire. Questa disposizione si fonda su una presunzione di pericolosità, o comunque di non meritevolezza del beneficio, data dall'esistenza di una misura cautelare per il medesimo titolo; il riscontro di un'attuale pericolosità del condannato, accertata dal giudice di cognizione, appare infatti di per sé un indice significativo. (35) A tal proposito la Cassazione si è espressa configurando l'ipotesi di cui all'art. 656, 9º co., c.p.p. come un corollario del sistema e non come una semplice eccezione alla portata del meccanismo sospensivo (36), è legittimo quindi considerare tale preclusione come impeditiva in generale per la concessione dell'affidamento in prova.

Nel distinto caso di sottoposizione del condannato a custodia cautelare per titolo diverso (come sottolineato nel capitolo precedente) vi è contrasto nella giurisprudenza tra un orientamento rigoroso che impedisce di accedere alla sospensione ed uno più tollerante che farebbe posticipare l'esecuzione della misura alla cessazione della misura custodiale.

Infine l'art. c) del 9º co. dell'art. 656 c.p.p. indica una recentissima condizione ostativa introdotta con l. 5.12.2005, nei confronti dei condannati ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, 4º co., del c.p.

Il testo dell'art. 656 c.p.p. si conclude con un comma, il 10º, dedicato all'accesso alle misure alternative dei condannati posti agli arresti domiciliari "per il fatto oggetto della condanna da eseguire".

In questa situazione è prevista una particolare sospensione automatica della pena, operata dal Pubblico Ministero senza la necessità della presentazione di istanza da parte dell'interessato. (37) Lo stesso Pubblico Ministero è tenuto quindi, "senza ritardo", a trasmettere gli atti al Tribunale di Sorveglianza, il quale può eventualmente provvedere, ove ne sussistano i requisiti, all'applicazione definitiva di una delle misure alternative previste dal 5º co. dello stesso art. 656 c.p.p., ossia l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà. La norma precisa che "fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza, il condannato permane nello stato detentivo nel quale si trova e il tempo corrispondente è considerato come pena espiata a tutti gli effetti" (c.p.p. 656, 10º co.). La procedura, caratterizzata dall'automatismo nella trasmissione degli atti dal P.M. al Tribunale, implica perciò il mantenimento del condannato agli arresti domiciliari. (38)

Per quanto concerne i criteri di determinazione della competenza per territorio del Tribunale di Sorveglianza nei casi di istanza presentata da condannato in libertà si distingue due ipotesi. La prima, quella più frequente, è quella in cui il Tribunale sia stato chiamato a decidere in seguito alla trasmissione degli atti del P.M. ex. art. 656, 6º co., c.p.p., in questo caso la competenza del Tribunale medesimo continua a determinarsi in relazione alla sede dell'ufficio del P.M. investito dell'esecuzione.

Nei rimanenti casi invece di istanza presentata dalla libertà, la Cassazione ritiene che la norma generale di cui all'art. 677, 2º co., c.p.p., in mancanza di specifica deroga, sia nei fatti applicabile; pertanto sono da seguire anche i criteri determinativi della competenza in essa contenuti, identificati nel luogo di residenza o di domicilio del condannato e, residualmente, nel luogo di pronuncia della sentenza di condanna, di proscioglimento o di non luogo a procedere, o comunque, nel caso di più sentenze, in quello di pronuncia dell'ultima sentenza divenuta irrevocabile. Peraltro, va ricordato che con l'art. 9 del d.l. 18.10.2001, n. 374, convertito, con modificazioni, nella legge 15.12.2001, n. 438, è stato opportunamente inserito nell'art. 677 c.p.p. il co. 2-bis, il quale obbliga appunto il condannato non detenuto a fare dichiarazione o elezione di domicilio già nell'istanza introduttiva; la previsione, a pena di inammissibilità tende quindi ad uniformare il sistema del rito di sorveglianza a quello ordinario.

Questa recente disposizione al di là delle implicazioni che riveste sul piano processuale, assume rilevante importanza ai fini della concessione dell'affidamento in prova, per quanto concerne la reperibilità dell'istante in uno stabile domicilio. Ciò si ricollega, come già detto, alla necessità che il soggetto venga inserito in un luogo ed in un ambiente sociale idoneo allo svolgimento della prova; una stabile residenza, al di là del domicilio eletto, è infatti indispensabile per consentire un efficace contatto diretto tra l'affidato in prova e il servizio sociale, come espresso dalla giurisprudenza di legittimità. (39) L'affidamento in prova al servizio sociale postula quindi la continua reperibilità del soggetto affidato al fine di consentire una più penetrante e sicura valutazione della condotta del richiedente. (40)

L'irreperibilità dell'istante può quindi legittimare, nel merito, il rigetto della richiesta, ma non si tratta, a differenza della mancata elezione di domicilio, di un'ipotesi di inammissibilità rilevabile d'ufficio ai sensi dell'art. 666, 2º co., c.p.p.

Lo strumento dell'art. 656 c.p.p., è divenuto quindi di utilizzo comune per evitare l'ingresso in carcere, la sua applicazione è però stata oggetto di discussione da parte della dottrina. Da un lato infatti i rilievi critici si appuntano, in particolare, sul potere, attribuito al Tribunale di Sorveglianza; si lamenta che una sentenza di condanna passata in giudicato possa essere modificata, quanto alla pena inflitta, a breve distanza di tempo dalla sua pronuncia, ad opera di un organo che non disporrebbe di maggiori elementi di conoscenza del giudice che ha condannato. Dall'altra parte invece si sostiene che in realtà nella maggior parte dei casi, è trascorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione del fatto-reato, per cui può essersi realizzato nel frattempo un autoinserimento del condannato nel contesto sociale. Inoltre il Tribunale di Sorvelglianza, che, a differenza del giudice della cognizione è un giudice specializzato, può avvalersi dell'inchiesta del servizio sociale e volendo può disporre una perizia criminologica (41).

L'intervento normativo di cui alla l. 27.5.98, n.165 (legge"Simeone") ha dunque consentito un progressivo ampliamento dello spazio applicativo dell'affidamento in prova (e delle altre misure alternative) in un'ottica di opportuna riduzione del terreno occupato dalla pena detentiva. (42)

3.4. Il procedimento di sorveglianza

Il procedimento con cui il Tribunale, giunge alla decisione sulla concessione o meno dell'affidamento in prova, è disciplinato in linea generica, in forza del rinvio espressamente operato dall'art. 678 1º co., c.p.p dall'art. 666 dello stesso codice (trattasi quindi di un procedimento giurisdizionale modulato sul procedimento in camera di consiglio disciplinato dall'art. 127 c.p.p.).

Legittimati ad introdurre il procedimento di sorveglianza, come accade per l'analogo procedimento di esecuzione, sono quindi tre soggetti: il P.M. (tale funzione è esercitata in questo specifico caso, ex artt. 678, 3º co. e 189 disp. Att. c.p.p., dal Procuratore Generale presso la Corte d'Appello), il condannato interessato ed il suo difensore. La giurisprudenza di legittimità ha affermato a tal proposito che il potere di attivazione del difensore è subordinato alla presenza di uno specifico mandato, relativo alla fase esecutiva. (43) Occorre ricordare tuttavia, con riferimento alle esecuzioni sospese in base al meccanismo istituito dalla legge Simeone, si preveda che l'ordine di esecuzione ed il decreto di sospensione siano, in caso di mancata nomina di un difensore per la fase dell'esecuzione, notificati a quello stesso difensore, di fiducia o d'ufficio, che ha assistito il condannato nella fase del giudizio, cui spetta di conseguenza la legittimazione a presentare l'istanza.

L'art. 57 Ord. Penit., estende inoltre il diritto di richiedere l'applicazione della misura alternativa al Consiglio di disciplina ed ai prossimi congiunti dell'interessato. (44)

L'art. 678 co. 1º c.p.p. prevede inoltre la procedibilità d'ufficio derogandosi, a differenza di quanto stabilito dall'art. 666, 1º co. c.p.p. in tema di procedimento di esecuzione, al principio ne procedat iudex ex officio; va rilevato che la procedibilità d'ufficio è tipica ed esclusiva del procedimento di sorveglianza e costituisce pertanto la differenza fondamentale tra il giudizio di sorveglianza e quello ordinario di esecuzione. Risulta qui evidente l'importanza del forte collegamento esistente tra la magistratura di sorveglianza ed il condannato, il cui trattamento può quindi essere potenzialmente adeguato alle sue reali esigenze e condizioni anche attraverso la procedura d'ufficio. (45)

Il cosiddetto procedimento di sorveglianza presenta inoltre altre peculiarità (46): per quanto riguarda l'oggetto, il procedimento non è diretto all'accertamento di un fatto, ma alla valutazione della persona, ed in particolare, nel caso in cui il condannato abbia chiesto l'applicazione di una misura alternativa, l'oggetto è costituito dall'accertamento della fondatezza della pretesa dedotta dal reo a veder modificato in melius il rapporto penale esecutivo; quanto all'istruzione essa si svolge secondo il metodo inquisitorio: il Tribunale può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni che ritiene utili ed opportune ai fini della decisione e può disporre d'ufficio l'assunzione di mezzi di prova; quanto alla decisione il Tribunale di Sorveglianza non è vincolato al petitum dedotto dall'istante e potrà pertanto disporre l'applicazione di una misura alternativa diversa e meno ampia rispetto a quella richiesta dall'interessato (esempio semilibertà in luogo dell'affidamento).

3.4.1. Fase introduttiva della trattazione

Il primo (eventuale) atto di procedura di competenza giudiziale si identifica nel decreto motivato con cui il presidente del tribunale di sorveglianza può dichiarare l'inammissibilità della richiesta: ciò si verifica nei casi in cui "la richiesta appare manifestamente infondata per il difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi" (c.p.p. 666, 2º co.).

Il giudice competente è in questa sede chiamato a considerare la sussistenza dei requisiti posti direttamente dalla legge, senza poter effettuare valutazioni discrezionali. Il decreto è adottato "sentito il pubblico ministero" (si tratta di un vero e proprio obbligo, vedi Cass. Sez. I, 08.06.1993, 435) ed è notificato all'interessato immediatamente, entro i successivi cinque giorni. Contro tale provvedimento si può proporre ricorso per Cassazione, (come dispone l'art. 666, 2º co.) anche ovviamente da parte del Pubblico Ministero che ha sempre un interesse alla corretta applicazione della legge.

Il termine entro il quale il difensore e il P.M. possono impugnare il decreto è fissato in quindici giorni, in virtù dell'applicazione del principio generale, valevole per i procedimenti in camera di consiglio, di cui all'art. 585, 1º co., lett. a), c.p.p. Non si ritiene più operante invece il termine di dieci giorni precedentemente fissato dall'art. 71-sexies Ord. Penit. (47)

In giurisprudenza vi è discussione per quanto concerne l'effetto sospensivo che possa avere la proposizione del ricorso in Cassazione nel caso in esame. A fronte della dichiarazione di inammissibilità dell'istanza, sorge infatti una specifica problematica nel caso in cui questa sia stata presentata dal condannato a seguito di sospensione dell'ordine di esecuzione ex art. 656, 5º co., c.p.p. Ci si chiede, quale sorte abbia il decreto di sospensione emanato dal P.M., nell'ipotesi di tempestiva presentazione del ricorso per Cassazione avverso il decreto di inammissibilità: la dottrina e parte della giurisprudenza propendono, in applicazione del principio fissato dall'art. 588 1º comma c.p.p., per la possibilità di revocare il decreto da parte dell'organo di accusa solo successivamente alla decisione della Suprema Corte sul ricorso presentato (48); un'altra pronuncia tuttavia, facendo leva sul fatto che il ricorso per Cassazione non sospende il provvedimento impugnato (art. 666 co. 7 c.p.p.), ammette la revoca immediata della sospensione dell'ordine di esecuzione. (49)

In caso invece di ammissibilità della richiesta, l'organo giudicante provvede a fissare la data dell'udienza di trattazione in camera di consiglio; contestualmente, designa un difensore d'ufficio per il condannato che ne sia privo, ex art. 666, 3º co., c.p.p. Dell'udienza è dato avviso alle parti ed ai difensori, con comunicazione o notificazione almeno dieci giorni prima della data fissata. (50) L'avviso si configura, secondo l'interpretazione giurisprudenziale, come un "decreto di citazione", da notificarsi a cura dell'ufficiale giudiziario (51). L'omessa notifica ed il mancato avviso all'interessato dell'udienza di discussione, nonché la mancata partecipazione del difensore all'udienza, ex art. 666 c.p.p., 3º e 4º co., costituiscono cause di nullità assoluta, pertanto insanabile e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ex art. 179 c.p.p. Nel procedimento di sorveglianza la giurisprudenza di legittimità ha affermato che integra nullità assoluta e insanabile l'omessa notificazione dell'avviso di udienza all'interessato anche se quest'ultimo sia presente ad essa, qualora non risulti che l'avviso esista e che il destinatario sia a conoscenza del suo contenuto. (52)

Per quanto riguarda invece, l'inosservanza del termine di dieci giorni liberi, che devono intercorrere tra la data di avviso dell'udienza camerale innanzi al tribunale di sorveglianza e quella della notifica del detto atto all'interessato e al suo difensore, sempre la giurisprudenza lo considera come una nullità di ordine generale, ex. art. 178. lettera c), c.p.p., in quanto il mancato rispetto di detto termine incide sulle modalità di intervento, assistenza e rappresentanza del condannato. Tale nullita è quindi soggetta ai limiti di deducibilità di cui all'art. 182 c.p.p., come pure alla sanatoria di cui all'art. 184 medesimo codice. L'inosservanza del termine di dieci giorni è configurata quindi come un'ipotesi di nullità a regime intermedio, che qualora l'interessato non compaia all'udienza, è tempestivamente eccepita con l'impugnazione. (53)

Il co.8 dell'art. 666 c.p.p. aggiunge infine che, se il richiedente la misura è infermo di mente, l'avviso di fissazione dell'udienza va notificato anche al suo tutore o curatore; anzi, se l'interessato ne è privo, lo stesso giudice o il presidente del collegio provvede a nominare un curatore provvisorio, garantendo così all'incapace un'adeguata assistenza.

Fino a cinque giorni prima dell'udienza, le parti possono inoltre, ex art. 666, 3º co., c.p.p., depositare memorie in cancelleria, nonché la documentazione richiesta ai sensi dell'art. 656, 6º co., c.p.p.; sempre antecedentemente all'udienza, possono prendere cognizione del contenuto del fascicolo processuale.

3.4.2. Lo svolgimento dell'udienza

L'udienza del procedimento di Sorveglianza si svolge in camera di consiglio, pertanto, non è caratterizzata, giusto il disposto dell'art. 127, 6º comma c.p.p., dal requisito della pubblicità.

All'udienza, come si è già rilevato, partecipano necessariamente il difensore del richiedente ed il P.M., ex art. 666, 4º co., c.p.p. L'interessato (54) può fare richiesta di essere sentito personalmente, ma, se si trova in detenzione in una circoscrizione diversa da quella del giudicante, deve essere sentito "prima del giorno dell'udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo, salvo che il giudice ritenga di disporre la traduzione" (art. 666, 4º co., c.p.p.). La norma richiamata, comune al procedimento di esecuzione e a quello di sorveglianza, a parere della dottrina (55) presenta quindi un limite, dato dalla compressione che subisce il principio del contraddittorio per la mancata previsione della necessità della partecipazione del soggetto interessato. L'intervento di quest'ultimo è infatti ammesso, ma solo previa richiesta.

Con l'introduzione, nella Carta Costituzionale, del cosiddetto "giusto processo" (56) e con la costituzionalizzazione del principio del contraddittorio, appare ormai riconosciuto in linea di principio il diritto dell'interessato in stato di detenzione che lo richieda a presenziare personalmente all'udienza. Il principio del contraddittorio, introdotto dall'art. 111 Cost., impone ora dunque, in ogni caso, la traduzione in udienza del detenuto che ne abbia fatto richiesta.

Ciò non toglie comunque che l'attuale disciplina della partecipazione dell'interessato all'udienza, di cui all'art. 666, 4º co., c.p.p., presenti dubbi di costituzionalità, appunto per la previsione solo eventuale (e condizionata a specifica richiesta) di detto intervento. Ad oggi, la giurisprudenza non è andata al di là della considerazione che, in applicazione della norma, nel procedimento di sorveglianza la mancata partecipazione dell'interessato all'udienza in tanto può assumere rilievo, in quanto questi abbia chiesto di essere sentito personalmente. Di conseguenza, la mancata presenza in udienza e la mancata audizione del detenuto che non ne abbia fatto richiesta non costituiscono cause di nullità del procedimento. Naturalmente, il dibattimento sarà sospeso o rinviato quando l'interessato, che abbia richiesto di comparire, non sia presente e sia provato o probabile che l'assenza sia dovuta a legittimo impedimento.

In merito all'ipotesi di soggetto detenuto in diversa circoscrizione, ex art. 666, 4º co., c.p.p., la Cassazione, conformemente al dettato della disposizione, ha precisato che l'obbligo di provvedere all'audizione ricade sul magistrato di sorveglianza, il quale deve darvi corso antecedentemente alla data dell'udienza, e non sulla polizia giudiziaria, ove il magistrato ometta di provvedervi, è configurabile una nullità (a regime intermedio secondo Cass. Sez. I, 22.09.1993, Ragusa, CP, 1994, 3035).

L'audizione deve essere preceduta come già detto precedentemente dalla notifica dell'avviso al difensore dell'interessato, e ciò è previsto a pena di nullità assoluta. La partecipazione in udienza del difensore, è statuita infatti come necessaria, la giurisprudenza però ritiene inapplicabile al procedimento di sorveglianza la norma generale di cui all'art. 486, 5º co., c.p.p., che dispone l'obbligo della sospensione o del rinvio dell'udienza in caso di assenza del difensore per legittimo impedimento; si ritiene infatti che l'udienza stessa possa proseguire con la designazione di un sostituto d'ufficio. Anche le Sezioni Unite, aderendo all'orientamento prevalente, hanno optato per la soluzione restrittiva, in quanto l'art. 486, 5º co., c.p.p. avrebbe un preciso riferimento solo alla fase del dibattimento. (57)

Per quanto concerne la composizione del collegio giudicante (il "Tribunale di sorveglianza") competente all'applicazione della misura alternativa, l'orientamento della Suprema Corte è quello di definire la violazione dell'art. 70 comma 6 dell'ordinamento penitenziario (secondo cui uno dei due magistrati ordinari componenti il collegio deve essere il magistrato di sorveglianza sotto la cui giurisdizione è posto il soggetto in ordine al quale si provvede) come una mera irregolarità, non essendo prevista, per tale violazione, alcuna nullità e non potendo la violazione medesima ricondursi alla previsione di cui all'art. 178 comma 1, lett. a) c.p.p. (58) Inoltre, il collegio, di cui faccia parte il magistrato autore del precedente provvedimento di sospensione cautelare della prova, si ritiene regolarmente costituito.

L'udienza, che si svolge con modalità analoghe a quelle del dibattimento penale, in quanto compatibili con la specificità del rito di sorveglianza, si apre con la relazione orale da parte del presidente del collegio o del giudice ad essa delegato. La fase di trattazione si sostanzia, oltre che nell'audizione dell'interessato che ne abbia fatto richiesta, nell'acquisizione delle prove.

Durante l'udienza, infatti, il giudice può, se occorre, procedere all'assunzione di prove, sempre "nel rispetto del contraddittorio"; non solo, ma "può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno" (c.p.p. 666, 5º co.). Risalta, quindi, da questi elementi l'impianto sostanzialmente inquisitorio, che caratterizza il rito de quo. (59) Il giudice può acquisire ex officio, senza essere vincolato al principio della domanda, tutti gli elementi che ritiene utili ai fini della decisione. Ne consegue che non è configurabile alcun onere probatorio a carico del condannato che invoca l'applicazione di una misura alternativa, ma soltanto di un onere di allegazione cioè del dovere di indicare al giudice gli elementi e/o fatti addotti a fondamento della richiesta. (60)

Si ritiene, peraltro, che i documenti e le informazioni acquisite debbano essere letti in udienza o quantomeno indicati, tant'è che la giurisprudenza di legittimità afferma la necessità della fissazione di una nuova udienza, successiva alla prima, quando il giudice abbia acquisito ulteriori documenti non inseriti negli atti procedimentali. (61)

Particolarmente importante nel procedimento di sorveglianza è l'acquisizione, in forza dell'art. 678, 2º co., c.p.p., della documentazione attinente l'osservazione scientifica della personalità del reo (sul punto si veda il disposto dell'art. 13 della legge 354/75) (62); a tal fine, il giudicante può avvalersi della consulenza dei tecnici del trattamento. Stante il tenore letterale della norma si ritiene che il Tribunale non possa prescindere dall'acquisizione della predetta documentazione, le cui risultanze è tenuto a valutare. (63)

Accanto alle prove cosiddette "precostituite", il Tribunale può avvalersi dell'assunzione di prove costituende, essenzialmente consistenti nell'esame di eventuali testimoni e nell'espletamento di perizia, operazioni a cui si può procedere "senza formalità" (art. 185 disp. Att. c.p.p.) (64). Con particolare riferimento alla perizia, la Suprema Corte ha affermato che, a pena di nullità intermedia, il difensore dell'istante debba essere ammesso alle operazioni peritali. Infine il verbale dell'udienza, ai sensi del 9º co. dell'art. 666 c.p.p., è redatto in forma riassuntiva ex art. 140, 2º co., c.p.p.

Posto che ogni giudice relatore può, a seconda dei casi, disporre l'istruttoria che meglio ritenga opportuna per il caso in specie, si può definire quella che viene considerata una sorta di prassi istruttoria. (65)

Se il soggetto è detenuto, viene chiesta alla direzione dell'istituto una relazione di sintesi (66) che, per definizione, è il sunto delle osservazioni di una equipe di educatori dell'area penitenziaria e di assistenti sociali esterni. Nella relazione di sintesi devono essere indicati i presupposti per l'eventuale attuazione della misura alternativa e le eventuali indicazioni di riferimenti esterni e dell'attività lavorativa.

Per l'art. 96, comma 1, del d.p.r. n. 230/00 il direttore dell'istituto deve provvedere a trasmettere l'istanza al magistrato di sorveglianza (che poi la trasmetterà al tribunale) unitamente a copia della cartella personale ed alla proposta del consiglio di disciplina. Informazioni di polizia vengono richieste sulla serietà del lavoro prospettato e sulla credibilità del datore di lavoro, oltre che sulla condotta tenuta dall'istante in stato di libertà e sulla di lui pericolosità sociale, suffragata da elementi di prova, e sulla probabilità che lo stesso commetta nuovi reati.

Se il soggetto è libero, al posto della relazione di sintesi viene chiesta una relazione direttamente all'Ufficio di esecuzione penale esterna, almeno per coloro che devono espiare una pena significativa (minimo di qualche mese). In alcuni casi si ritiene opportuno acquisire copia della sentenza di condanna, o quantomeno l'estratto. E' sicuramente necessaria la copia della sentenza laddove occorra accertare i presupposti previsti dall'art. 4-bis Ord. Penit. A seconda delle diverse ipotesi contemplate dal problematico art. 4-bis debbono essere chieste dettagliate informazioni al Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in ordine al luogo di detenzione del condannato o al questore per verificare gli eventuali collegamenti con la criminalità organizzata e preliminarmente, nelle ipotesi del primo periodo del primo comma, al P.M. per verificare la collaborazione dell'istante ex art. 58-ter Ord. Penit. Debbono, inoltre, essere tenute presenti le eventuali limitazioni di cui all'art. 58-quater.

Vengono poi chiesti il certificato penale ed i carichi pendenti nel luogo di residenza, anche se quest'ultimi sono relativamente indicativi in quanto il soggetto può ben delinquere anche nel resto del paese.

3.5. Giudizio di concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale e i suoi parametri valutativi

Il provvedimento di concessione o di rigetto della richiesta della misura alternativa, si fonda come già illustrato nel precedente capitolo su molteplici parametri valutativi: l'osservazione della condotta del condannato, i precedenti penali e giudiziari, i procedimenti a carico, la pericolosità sociale, la revisione critica del passato...

I poteri del giudice, in questa fase, sono quanto mai ampi: egli "può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno" e anche "assumere prove", procedendo in udienza "nel rispetto del contraddittorio" (c.p.p. 666, 5º co.). La giurisprudenza di legittimità ha individuato, a tal fine, accanto ai riferimenti procedurali da seguire, anche i parametri di valutazione e giudizio sui quali il giudicante si deve basare ai fini della decisione, positiva o negativa, sull'ammissione del condannato al beneficio dell'affidamento in prova.

Una premessa da fare, prima di analizzare gli elementi valutabili da parte del Tribunale ai fini della concessione dell'affidamento in prova, è che, in generale, una "persistente propensione a delinquere" (67) manifestata dal soggetto richiedente può essere considerata in alcune ipotesi come l'unico elemento ostativo alla concessione della misura, e determinare quindi l'adozione di un provvedimento di rigetto dell'istanza presentata. La Suprema Corte ha infatti affermato che il rigetto dell'affidamento può essere adeguatamente motivato anche se faccia esclusivamente riferimento alla propensione a delinquere per delitti della medesima indole che emerga ad esempio dall'esame della personalità del condannato o desunta da specifici e numerosi precedenti penali e da varie pendenze giudiziarie. (68)

Le risultanze dell'osservazione della personalità del condannato, come già ricordato, costituiscono l'elemento principale sul quale si fonda il giudizio del collegio giudicante. Ove il richiedente si trovi in stato di detenzione, alla base della decisione sono poste le risultanze dell'osservazione della personalità compiuta dagli operatori dell'equipe incaricata. Ove invece l'istante si trovi in libertà o abbia comunque goduto di un periodo di stato libero, è il comportamento tenuto in tale condizione a costituire un elemento decisivo ai fini della valutazione, desumibile anche dalle informazioni di polizia e dalle pendenze penali.

Sono altresì rilevanti ai fini della concessione della misura tutte le informazioni riguardanti il contesto sociale ed ambientale in cui il condannato era inserito prima della condanna e in cui presumibilmente si ricollocherà. (69) La condotta tenuta dal condannato deve innanzitutto dimostrare l'osservanza della legge penale ed il rispetto delle prescrizioni imposte. Più in generale, ai fini della concessione dell'affidamento acquisisce valore decisivo la dimostrazione non solo di una generica buona condotta, bensì di una reale disponibilità collaborativa da parte del condannato. Al contrario, il comportamento del condannato che, dopo aver chiesto la concessione della misura alternativa, faccia perdere le sue tracce, dimostra, senza dubbio, la mancanza di volontà collaborativa con gli operatori del servizio, circostanza che può essere valutata in chiave negativa dall'organo giudicante, in quanto tale comportamento si pone in netto contrasto con le finalità proprie dell'istituto. (70)

L'aspetto comportamentale, risultante dalla condotta tenuta dal richiedente in carcere o in libertà, contribuisce ad una completa e corretta analisi; a questo riguardo, si rivela essenziale la collaborazione offerta dall'amministrazione penitenziaria e dall'autorità di pubblica sicurezza. In particolare, ciò che gli organi di polizia giudiziaria, i carabinieri e in generale le forze dell'ordine rilevano, ad esempio in merito all'inserimento lavorativo del condannato in libertà, può legittimamente fondare il giudizio del Tribunale di Sorveglianza. (71)

Se la richiesta di affidamento è presentata da condannato in stato di libertà, quindi, il Tribunale di Sorveglianza può acquisire le informazioni dagli organi di polizia, sempre che le stesse non si limitino a generiche argomentazioni, senza indicare circostanze specifiche e precisi elementi di fatto. Le informazioni fornite dalla polizia giudiziaria devono comunque essere vagliate dal giudicante ed attentamente ponderate con gli altri elementi a disposizione. (72)

Dunque, il giudizio formulato dal Tribunale di Sorveglianza, si basa in particolar modo sui risultati dell'osservazione del detenuto, valutati in senso "prognostico" ai sensi dell'art. 47 comma 2 e 3 Ord. Penit. Il giudizio prognostico positivo si caratterizza come il necessario presupposto del provvedimento di ammissione alla misura alternativa; in generale, il giudizio fa leva sui risultati del cosiddetto "trattamento individualizzato", pertanto, non è richiesto che si sia già compiuta la rieducazione del reo, la quale rappresenta invece l'obiettivo, e non il presupposto, dell'affidamento in prova al servizio sociale. (73) Accanto all'assenza di elementi ostativi alla concessione del beneficio, sono indispensabili quindi per il giudizio elementi positivi che consentono una prognosi di esito positivo della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva.

In generale, dall'esame della giurisprudenza prevalente, si può rilevare che, qualora manchi l'osservazione della personalità o ne vengano ignorate o disattese le risultanze nell'assumere la decisione, il provvedimento di affidamento è sempre considerato illegittimo.

Ciò però non toglie che rilevino, ai fini della decisione, altri elementi di valutazione: in quest'ottica, i precedenti penali, una volta che siano stati regolarmente acquisiti in udienza, possono contribuire anche a definire meglio la personalità del reo e l'affidabilità del soggetto, specie se recenti. La circostanza che il condannato abbia subito precedenti condanne va peraltro considerata nel quadro di un esame complessivo degli elementi a disposizione, in particolare dopo la soppressione, con legge 12 gennaio 1977, n.1, della preclusione legislativa del 2º co. dell'art 47 Ord. Penit. per i recidivi specifici.

Gli elementi quindi che il giudicante deve porre a base della sua decisione si ricavano più precisamente esaminando le norme degli artt. 666 e 678 c.p.p.; la prima, al 5º co., indica che "il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno" ed aggiunge altresì che "se occorre assumere prove, procede in udienza nel rispetto del contraddittorio" (74). Accanto a questa previsione, emerge in tutta la sua rilevanza l'art. 678, 2º co., c.p.p., il quale fa riferimento all'operato ed alla consulenza dei tecnici del trattamento, riprendendo il disposto dell'art. 71-bis Ord. Penit. (ora non più vigente in forza dell'art. 236, 2º co., disp. Att. C.p.p.). Alla luce di dette disposizioni, dunque, appare di tutta evidenza la rilevanza assegnata alla documentazione riguardante l'osservazione ed il trattamento, in particolare a quanto contenuto nella cosiddetta cartella personale del detenuto: oltre ai dati personali, quelli giudiziari, sanitari e biografici del reo. (75)

Dibattuta è la rilevanza, nel giudizio di concessione della misura dell'affidamento in prova, dei precedenti penali e giudiziari del reo e della sua pericolosità. La giurisprudenza di legittimità è ferma nel richiedere all'organo giudicante una valutazione complessiva, che consideri con la necessaria ponderazione sia le risultanze dell'osservazione o, in alternativa, la condotta tenuta dal condannato in libertà, sia i precedenti e le eventuali pendenze penali del richiedente la misura. E' stato infatti affermato che:

"nella formulazione del giudizio prognostico demandatogli dalla legge, ben può il tribunale di sorveglianza prendere in esame i precedenti e/o le pendenze penali del soggetto, i motivi a delinquere, la tipologia del reato per il quale è stata inflitta la condanna cui si riferisce la richiesta di affidamento, senza tuttavia, poter dare a tali dati un rilievo di per sé decisivo, dovendo essi invece essere confrontati con i risultati dell'osservazione della personalità". (76)

Anche un comportamento successivo alla commissione del reato particolarmente positivo quindi può rendere ininfluenti considerazioni di altro tenore riferite ai precedenti penali del reo. Infatti, gli elementi da valutare ai fini della formulazione del giudizio prognostico restano plurimi; se è doveroso che il Tribunale di Sorveglianza valuti i precedenti penali del soggetto, tale valutazione non può tuttavia assumere carattere esclusivo, dovendo invece essere compiuta in collegamento con ogni altro possibile elemento di giudizio e, in primo luogo, con il comportamento del richiedente successivo alla commissione del reato.

La dottrina (77) ha sottolineato l'importanza della valutazione dei precedenti penali e giudiziari, ricordando che soprattutto a seguito della "scomparsa" dell'osservazione in carcere, sono divenuti elementi in grado di fornire al giudice un valido contributo al fine di delineare la personalità del condannato e decidere se questi possa beneficiare del beneficio in questione. Non a caso la giurisprudenza ha evidenziato come, nel caso in cui la probation penitenziaria debba essere concessa ad un imputato non detenuto, i precedenti penali debbano essere necessariamente valutati, non potendo farsi riferimento ai risultati dell'osservazione scientifica della personalità, per l'evidente ragione che questa non è stata effettuata.

D'altronde, a norma dell'art. 133 comma 2 c.p., i precedenti penali di un soggetto costituiscono un indice della capacità a delinquere dello stesso ed anche per questo motivo vanno presi in considerazione in quanto essenziali alla prognosi di non recidiva che il giudice è chiamato a compiere. E' evidente infatti che, quando il giudice è chiamato a valutare se la concessione del beneficio "assicuri la prevenzione del pericolo che il reo commetta altri reati", in sostanza egli compie una valutazione che ha ad oggetto la pericolosità del condannato, verificando se questa sia adeguatamente fronteggiabile con la misura dell'affidamento in prova; se ricaviamo il concetto di pericolosità esaminando l'art. 203 c.p., esso viene a configurarsi come "probabilità che la persona commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati": è innegabile quindi come ai fini di tale giudizio sulla pericolosità, i precedenti penali e giudiziari possono svolgere un ruolo assai importante, tanto ciò è vero che lo stesso art. 203 c.p. pone a base del giudizio prognostico gli indici offerti dall'art. 133 c.p. (78)

Con maggiore cautela va invece affrontata la questione concernente la rilevanza probatoria dei procedimenti pendenti a carico del condannato, che l'orientamento da sempre prevalente considera autonomamente inutilizzabili (79). La loro valutazione può comunque essere ricompresa nell'ambito del giudizio operato dal Tribunale di sorveglianza, unitamente ad altri più significativi elementi, in particolare l'attuale condizione di vita del reo ed il grado di sviluppo del proprio reinserimento nella società.

La commissione invece da parte del soggetto richiedente la misura alternativa di ulteriori reati nelle more del giudizio può costituire circostanza ostativa alla concessione del beneficio; è pertanto legittimo per la giurisprudenza il provvedimento con il quale, ai sensi del combinato disposto dagli artt. 666, 2º co., e 678 c.p.p., il presidente del Tribunale di Sorveglianza dichiari inammissibile per manifesta infondatezza la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale avanzata da un soggetto che, essendo rimasto in stato di libertà successivamente alla commissione del reato per cui ha riportato la condanna in relazione alla quale viene chiesta l'applicazione del beneficio, abbia, in detto lasso di tempo, commesso altri gravi reati. Tale circostanza infatti costituisce una dimostrazione inequivocabile dell'insussistenza della condizione tassativamente prevista dall'art. 47, 3º co., Ord. Penit.

Ben più dei precedenti criminosi del richiedente, i quali comunque, come osservato, costituiscono elementi di giudizio, rileva, ai fini della concessione della misura alternativa, la reale pericolosità del condannato. (80) La pericolosità di base del condannato, desunta dagli elementi a disposizione, va bilanciata con i risultati dell'osservazione della personalità eventualmente compiuta in detenzione per giungere ad un completo e fondato giudizio prognostico. In particolare, il concetto di pericolosità, secondo costante giurisprudenza, non rileva in quanto tale, ma, in senso relativo, come pericolosità fronteggiabile con gli strumenti che la legge affida alla misura alternativa alla detenzione. (81)

La valutazione compiuta dal Tribunale di Sorveglianza si basa infatti soprattutto sull'ipotetica idoneità delle prescrizioni e delle cautele connaturate all'affidamento a fronteggiare la pericolosità del reo, mentre la concessione della misura non presuppone il realizzarsi del processo rieducativo.

Attualmente, accanto alla valutazione dei precedenti e delle pendenze penali del condannato, la giurisprudenza è concorde nell'attribuire particolare rilievo alle caratteristiche della personalità del reo. Ai fini della valutazione operata dal Tribunale, interessa in particolare il manifestarsi di un'evoluzione in senso positivo della personalità del reo. Nel corso del trattamento, il reo può avere infatti evidenziato progressi costanti: questi, se esistenti, possono assumere valore determinante ai fini della concessione della misura alternativa, anche comportando il superamento di altre considerazioni di elementi ostativi. Ciò non toglie che il rigetto dell'istanza possa dipendere anche da un solo elemento, quale ad esempio, le informazioni fornite dagli organi di polizia, se di per sé indicative di una personalità instabile ed ancora incline a delinquere; dette informazioni, per determinare il rigetto della richiesta da parte del Tribunale, devono però richiamare specifiche circostanze di fatto, riferibili alla attuale condotta di vita del condannato, e devono essere tali da delineare un quadro fortemente negativo della sua personalità, lasciando desumere una scarsa possibilità di rieducazione dello stesso e di prevenzione del pericolo di commissione di nuovi reati. (82)

Dall'esito dell'osservazione operata deve quindi emergere, secondo la giurisprudenza di legittimità, un consapevole distacco del condannato dal proprio passato criminale.

Infatti, il condannato che continui a sostenere la propria innocenza, senza avviare un processo di revisione critica del suo passato criminale, non si pone nella condizione più favorevole per la concessione delle misure alternative alla detenzione. Ciò non significa, tuttavia, che sia richiesta la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, e si sia quindi del tutto ravveduto; è però indispensabile che si acquisiscono concreti elementi di valutazione in grado di rivelare una evoluzione positiva della personalità del reo, che possa pertanto giustificare una prognosi favorevole. (83)

E' valutata quindi negativamente la mancanza di senso critico rispetto alle condanne subite, qualora sia espressione della persistenza di un atteggiamento mentale del condannato giustificativo del proprio comportamento antidoveroso, e quindi sintomatico di una mancata risposta positiva al processo di rieducazione. L'affermazione di innocenza da parte del condannato, di per sé, non costituisce quindi un ostacolo alla concessione dei benefici penitenziari; lo stesso dicasi per la mancata ammissione di colpevolezza. Del resto, nel processo penale l'imputato non ha obbligo di verità e l'assenza di confessione può essere dettata dai più svariati motivi senza che, solo per questo, essa sia sintomatica di mancato ravvedimento o di pericolosità sociale o dell'intenzione di persistere nel crimine.

3.6. Decisione sulla concessione della misura

Il Tribunale di Sorveglianza decide sulla concessione o meno della misura alternativa in camera di consiglio con apposita ordinanza (art. 666, 6º co., c.p.p.).

Tale provvedimento, che chiude il procedimento di sorveglianza, è comunicato o notificato al pubblico ministero, all'interessato ed al suo difensore, senza ritardo. L'adempimento della comunicazione o della notifica è preordinato all'esperibilità dell'impugnativa. L'unico mezzo di impugnazione previsto contro tale ordinanza è il ricorso per Cassazione, nei casi previsti dall'art. 606 c.p.p.

In motivazione devono obbligatoriamente emergere le ragioni giustificatrici del provvedimento adottato. Le decisioni del Tribunale di Sorveglianza devono essere accuratamente motivate soprattutto nei casi di rigetto dell'istanza. (84) La Suprema Corte infatti afferma sussistere vizio di motivazione, nel caso in cui i motivi sui quali si è fondato il rigetto della relativa istanza non siano esplicitati, sia pure sommariamente con indicazione delle circostanze concrete evidenzianti l'inidoneità della misura richiesta. Dal punto di vista formale inoltre, non trova spazio, né ragione un provvedimento di concessione del beneficio redatto unicamente su modulo prestampato; è considerato legittimo, nel rito di sorveglianza, l'uso di "moduli a stampa", purché integrati con osservazioni riferibili alla situazione concreta ed in grado di fornire certezza sull'avvenuto esame di tutti gli elementi processualmente significativi. (85)

E' ritenuta legittima un'ordinanza motivata per "relationem", con riferimento alle informazioni fornite dagli organi competenti, recepite e fatte proprie dal giudicante, purché nel provvedimento le fonti di informazione e gli estremi dell'atto in cui sono contenute siano indicati in modo preciso; l'assenza di tali elementi invece comporta l'illegittimità dell'ordinanza stessa. (86)

L'indicazione, in motivazione, di una sola, plausibile ragione di diniego può essere in alcune concrete ipotesi sufficiente a configurare un legittimo rigetto dell'istanza, (per la giurisprudenza il solo elemento del mancato risarcimento del danno o la semplice gravità dei reati commessi dal richiedente non possono configurare di per sé soli validi e legittimi motivi di rigetto). Come già ricordato, infatti, non essendo configurabile, in base al sistema normativo delineato nell'art. 47 Ord. Penit., una sorta di "presunzione di affidabilità" di ciascuno al servizio sociale ne consegue che la pronuncia di rigetto è da considerare validamente motivata dal giudice quando abbia comunque indicato degli elementi atti a dimostrare la ragionevolezza del suo convincimento.

Ricordiamo, infine, che il Tribunale di Sorveglianza, è legittimato a concedere, in forza del suo potere discrezionale, ove ne ricorrano i presupposti, una misura alternativa di minore ampiezza rispetto a quella richiesta dal condannato.

L'unico mezzo di impugnazione previsto contro il provvedimento del Tribunale è quindi il ricorso per Cassazione, ciò è previsto, in deroga al vigente sistema delle impugnazioni, dall'art. 666, 6º co. c.p.p., riguardante il procedimento di esecuzione, norma che riconferma la scelta di esclusione dell'appello già operata dall'art. 71-ter Ord. Penit., oggi superato in virtù del disposto dell'art. 236, 2º co., disp. Att. c.p.p.

La legittimazione a ricorrere è attribuita all'interessato, al suo difensore (87) al momento del deposito dell'ordinanza ed al P.M. Per quanto riguarda in particolare l'organo dell'accusa, è legittimato ad impugnare l'ordinanza il P.M. individuato dall'art. 678, 3º co., c.p.p., presso il Tribunale del luogo in cui ha sede l'ufficio di sorveglianza. Il termine per impugnare, perentorio, è fissato, conformemente ai principi generali dei procedimenti in camera di consiglio, in quindici giorni dalla comunicazione ("senza ritardo" ex art. 666, 6º co., c.p.p.) o dalla notificazione dell'ordinanza. Infatti, il termine di dieci giorni previsto originariamente dall'art. 71-ter Ord. Penit. è ormai venuto meno, in seguito alle disposizioni di attuazione al nuovo codice di procedura. Una volta decorso il termine per impugnare, il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza diviene definitivo.

Il ricorso è presentato nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato o in quella del Tribunale o del giudice di pace ove la parte si trova ex art. 582, 2º co., c.p.p. La presentazione del ricorso, non sospende l'esecuzione dell'ordinanza, salvo diversa disposizione dello stesso giudice di sorveglianza (c.p.p. 666, 7º co.).

La Cassazione decide applicando l'art. 611 c.p.p., ossia provvede sull'impugnativa in camera di consiglio (art. 666, 6º co.). Le ordinanze emesse a conclusione del procedimento di sorveglianza, secondo un tradizionale orientamento, basato sulla loro mancata menzione nel testo dell'art. 629 c.p.p., non sarebbero soggette a revisione. In realtà, però, occorre ricordare che la Corte Costituzionale, con sentenza 31.05.1996, n. 181 (88) ha affermato che, "allorché l'ordinanza ha disposto la revoca del beneficio penitenziario, basandosi su una pendenza giudiziaria, l'interessato, una volta intervenuta la pronuncia assolutoria, è legittimato a far rivalutare la sua posizione dal tribunale di sorveglianza". (89)

Note

1. F. P. C. Iovino, Sospensione della pena ed espiazione extramoenia, in Commento alla legge 27 maggio 1998, n. 165, Giuffrè, 1998, p. 179.

2. M. Pavarini, Codice commentato dell'esecuzione penale, in Le leggi commentate, Utet, Torino, 2002, p. 115 ove si sottolinea come l'intervento della Consulta relegava la disciplina per così dire, "storica", di accesso al beneficio dell'affidamento ad un ruolo fisiologico marginale.

3. F. P. C. Iovino, op. cit., p. 200 ove si afferma che la finalità dell'istituto della sospensione dell'esecuzione per provvedimento del magistrato di sorveglianza è quello di "far ottenere, nel caso non dovesse funzionare il sistema che, a certe condizioni, esclude il carcere per le pene detentive brevi, un provvedimento di scarcerazione, a domanda, in via provvisoria ed urgente, in attesa della decisione del tribunale".

4. V. Maccora, La disciplina dell'articolo 656 c.p.p. ed i provvedimenti di urgenza di competenza del magistrato di sorveglianza alla luce della riforma operata dalla l. 27 maggio 1998, n. 165 in Esecuzione penale e alternative penitenziarie (a cura di A. Presutti), Cedam, Padova, 1999, p. 74.

5. A. Bernasconi, op. cit., p. 148 ove afferma che: "A favore dei condannati che, successivamente al'inizio dell'esecuzione della pena richiedessero l'applicazione di una misura alternativa, veniva approntato un modulo procedurale (l'attuale comma 4 dell'art. 47 Ord. Penit.) in grado di favorirne la scarcerazione provvisoria - sulla base della sussistenza di determinati requisiti accertati dal magistrato di sorveglianza - in vista della decisione definitiva sul merito da parte dell'organo collegiale".

6. Cass. Sez. I, 15.01.1999, Litrico, CP, 1999, 3248 con nota di Comucci.

7. G. Prelati, Il tribunale di sorveglianza, in Diritto e pratica professionale, Giuffrè, Milano, 2001, p. 23-24.

8. Cass. Sez. IV, ord. 15.03.2000, Schiavone, RP, 2001, p. 90.

9. V. Maccora, op. cit., p. 108, ove afferma che "ciò comporterà di fatto una competenza non residuale ma principale ed una valutazione alla stregua degli elementi introdotti con le note sentenze della Corte costituzionale nell'interpretazione del requisito della collaborazione della giustizia. Ne conseguirà un giudizio molto complesso anche come attività istruttoria, che potrebbe coincidere, anche come tempi, con la valutazione del tribunale qualora vi sia una istanza presentata indipendentemente da quella contestuale di scarcerazione preventiva".

10. V. Maccora, op. cit., 1999, p. 109. "L'applicazione dell'istituto a tali detenuti, ristretti per una condanna di rilevante entità, anche se con un residuo pena inferiore ai tre anni di pena, parrebbe da escludere, per l'irrazionalità delle conseguenze scaturenti da tale applicazione. Tali soggetti dovranno pertanto accedere alle misure alternative dalla detenzione, avanzando istanza al tribunale di sorveglianza ai sensi dell'art. 47 commi 1 e 2 Ord. Penit. (...). Il quarto comma della citata disposizione così come formulato dalla novella deve pertanto essere letto unitamente al terzo comma, e deve essere inteso come riferito alle pene medio-brevi e ai condannati che avrebbero potuto teoricamente avvalersi della disciplina che regola l'accesso in via 'anticipata' alla misura alternativa".

11. F. Fiorentin, A. Marcheselli, L'ordinamento penitenziario in Giurisprudenza critica, Utet, 2005, p. 172.

12. Circ. D.A.P. 25 settembre 1989, n. 3271/5721. Cartella personale ed attività trattamentali ove si auspica la compilazione da parte dell'Amministrazione penitenziaria, della cartella personale con tutte le indicazioni necessarie per poter permettere alla Magistratura di sorveglianza di disporre di precise informazioni circa la sussistenza delle condizioni per la concessione della misura.

13. Cass. Sez. I, 7.03.2000, Guerrieri, in Ced, 125823, ove si esclude che il provvedimento de quo possa essere ricompresso nel novero di provvedimenti in tema di libertà personale cui allude la citata norma costituzionale.

14. M. D'Onofrio, M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, Giuffrè, 2004, p. 395.

15. F. P. C. Iovino, op. cit., p. 201-202.

16. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale: retribuzione, riabilitazione e riparazione, modelli e strategie di intervento penale a confronto, Milano, F. Angeli, 1997, p. 2 ove si descrivono i tre principali modelli di giustizia penale al centro del dibattito sulla funzione e sulla natura della pena.

17. A. Bernasconi, Affidamento in prova e Semilibertà nell'epoca post-rieducativa, op. cit., 1999, p. 121.

18. A. Bernasconi, op. cit., 1999, p. 159.

19. F. Della Casa, Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo, Cedam, Padova, 2000, p. 581, ove si afferma che al magistrato di sorveglianza non viene, peraltro, fatto divieto di partecipare all'organo collegiale che dovrà decidere in via definitiva; resta salva la possibilità, per l'interessato, di promuovere (tempestivamente) la ricusazione del medesimo.

20. A. Bernasconi, op. cit., 1999, p. 120.

21. Scheda lavori preparatori, Atto parlamentare: C. 464, 23 aprile 1998, ove nella relazione dell'on. L. Saraceni, relatore della commissione Giustizia, si sottolinea come "condivisa l'esigenza che l'intervento legislativo favorisca una riduzione del numero dei detenuti in carcere. In questa prospettiva si pone dunque la proposta di legge in esame, che è diretta ad evitare che i condannati con pena definitiva di breve durata possano contribuire ad aumentare il numero dei detenuti, senza che sia assicurata la funzione rieducativa della pena.".

22. B. Guazzaloca, M. Pavarini, Codice commentato dell'esecuzione penale, Utet, Torino, 2002, p. 42.

23. Misure Alternative - Statistiche sull'esecuzione penale esterna aggiornate allo 08.02.06. La Direzione Generale dell'esecuzione penale esterna - Ufficio primo - Sezione "osservatorio misure alternative" effettua annualmente, un censimento sulla ripartizione delle misure in base al numero dei beneficiari sul totale. Nell'anno 2005 lo strumento che ha ottenuto il maggior numero di concessioni sul totale è stato l'affidamento in prova a soggetti in libertà (non tossicodipendenti), con una percentuale del 40% (affidati in detenzione 8%; affidati tossicodipendenti dalla libertà 10%; affidati tossicodipendenti dalla detenzione 3%). Le statistiche dimostrano come la misura dell'affidamento in prova (in special modo per i soggetti in libertà) sia tra tutte le misure alternative (semilibertà, detenzione domiciliare) quella maggiormente utilizzata.

24. A. Bernasconi, op. cit., p. 121.

25. P. Pomanti, Sui poteri del pubblico ministero in materia di sospensione dell'esecuzione ex art. 47 comma 4 dell'ordinamento penitenziario, in CP, 1998, p. 253.

26. Cass. Sez. I, 23.3.1999, Kola, CP, 2000, 1310.

27. Legge 19 gennaio 2001, n. 4 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, recante disposizioni urgenti per l'efficacia e l'efficienza dell'Amministrazione della giustizia" pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 16 del 20 gennaio 2001.

28. P. Canevelli, Prime riflessioni sulla legge Simeone, in CP, II, 1998, p. 812.

29. S. Fifi, Dies ad quem per la domanda di affidamento in prova ai servizi sociali, in GI, 2001, 1937.

30. V. Maccora, op. cit., 1999 p. 80.

31. F. P. C. Iovino, Contributo allo studio del Procedimento di Sorveglianza, Giappichelli, Torino, 1995, p. 126, ove si sottolinea la compatibilità del potere di iniziativa di ufficio con la struttura del "processo di parti".

32. Cass. Sez. I, 26.02.2001, P.G. in proc. Barbagallo, RP, 2201, 1035, ove si afferma l'ammissibilità dell'istanza del condannato a pena detentiva sospesa a norma dell'art. 656, 5º co. c.p.p. indirizzata al conseguimento non di una specifica misura alternativa alla detenzione, ma di una tra più misure indicate in via alternativa.

33. A. Bernasconi, op. cit., 1999, p. 143, ove afferma che "il condannato che per vari motivi, non abbia visto andare a buon fine l'istanza di misura alternativa presentata ai sensi del comma 5 dell'art. 656 c.p.p., e si sia visto quindi revocare dal pubblico ministero il decreto di sospensione dell'esecuzione (comma 8 della medesima disposizione), varcherà le soglie del carcere: da qui potrà certo ripresentare domanda per l'affidamento in prova (...) ma, soprattutto, potrà beneficiare, a certe condizioni, di una nuova sospensione dell'esecuzione della pena rimessa, stavolta, alla discrezionalità del magistrato di sorveglianza cui l'istanza medesima deve essere rivolta".

34. V. Grevi, L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Cedam, Padova, 1994, p. 273.

35. V. Maccora, op. cit., 1999, p. 95.

36. Cass. Sez. II, 21.05.2001, Driass, GI, 2003, 1452-1453.

37. G. Prelati, Il tribunale di sorveglianza, in Diritto e pratica professionale, Giuffrè, 2003, p. 37 ove si sottolinea che l'istruttoria in questo caso è la stessa dell'ipotesi ordinaria (informazioni P.S. ed eventualmente relazione dell'Ufficio esecuzione penale esterna oltre a certificazione penale e carichi pendenti), tenendo conto nei tempi di fissazione dell'udienza che il soggetto sta espiando la pena.

38. M. D'Onofrio, M. Sartori, op. cit., p. 388.

39. Cass. Sez. I, 22.12.1998, Nikolic, RP, 1999, 1026; per la giurisprudenza di merito cfr. Trib. Sorv.di Firenze ord. 24.02.2004 n. 1131, Tortrici, inedita, che ha rigettato l'istanza tendente ad ottenere l'applicazione dell'affidamento avanzata da persona condannata per i delitti di violenza sessuale della nipote minore di dieci anni, cui era stata affidata dal Tribunale dei Minori, in ragione della inidoneità della sistemazione abitativa allegata (nel caso di specie la condannata proponeva di tornare ad abitare presso il figlio).

40. Circ. D.A.P. 12 maggio 1998, n. 560719. Iniziative a supporto dell'attività dei Centri di servizio soviale per adulti (ora U.E.P.E) ove si auspica la creazione dello Sportello Informazione ed una sorta di Agenzia di Mediazione Impiego-Condannato.

41. F. Della Casa, La crisi d'identità delle misure alternative tra sbandamenti legislativi, esperienze di "diritto pretorio" e irrisolte carenze organizzative, in CP, 2002, 3286-3287.

42. A. Giasanti (a cura di) Le misure alternative al carcere, in Le professioni nel sociale, F. Angeli, Milano, 2004, p. 135 ove si sottolinea che un rinnovato sistema della giustizia penale in Europa dovrebbe basarsi su: la depenalizzazione; la degiurisdizionalizzazione; la decarcerizzazione; l'individuazione della sanzione penale. Per quanto concerne la decarcerizzazione si auspica una riduzione della durata delle pene carcerarie, una maggiore permeabilità tra carcere e ambiente esterno, una previsione di misure alternative al carcere, una utilizzazione di pene pecuniarie e l'obbligo di prestare un lavoro socialmente utile.

43. Cass. Sez. I, 10.11.1992, Marchese, CP, 1994, 327.

44. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, op. cit., p. 315, con riferimento ai prossimi congiunti, va osservato che la legittimazione a promuovere il procedimento comprende anche la facoltà di nominare un difensore di fiducia, con la conseguenza che, in caso di mancata notificazione a quest'ultimo dell'avvisto di fissazione dell'udienza camerale, si verifica un'ipotesi di nullità assoluta ed insanabile prevista dagli artt. 178 e 179 c.p.p.

45. F. P. C. Iovino, Contributo allo studio del procedimento di sorveglianza, 1995, p. 115 ove si sottolina la finalità rieducativa dell'esecuzione penale come ragion d'essere della proponibilità d'ufficio dell'azione.

46. In argomento F. Della Casa, E. Bertolotto, Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo, sub art. 678 c.p.p., in V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Padova, 2000, p. 732 e ss.; G. Lattanti, E. Lupo, Codice di procedura penale, Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Vol. IX, Milano, 2003, p. 492 e ss.; sul procedimento di esecuzione si veda F. Corbi, F. Nuzzo, Guida pratica all'esecuzione penale, Torino, 2003, p. 177 e ss.

47. Cass. Sez. I, 04.12.1991, Iandolo, CP, 1993, 433.

48. F. Della Casa, op. cit., 2000, p. 713; F. Corbi, F. Nuzzo, op. cit., 2003, p. 191; Cass. Sez. I, 20.10.1997, Orabona, CP, 1998, 2048; RP, 1998, 191.

49. Cass. Sez. I, 18.01.2000, Cerri, C.E.D. Cass. 215369.

50. G. Catelani, Manuale dell'esecuzione penale, Milano, 2002, p. 239, il quale osserva che "l'avviso all'interessato condannato deve essere compilato in modo tale da consentirgli l'espletamento dell'attività difensiva indispensabile... e dovrà pertanto avere la struttura di un vero e proprio decreto di citazione".

51. Cass. Sez. I, 19.05.1993, D'Arpino, CP, 1994, 2730.

52. Cass. Sez. I, 17.10.2002, Camporotondo, GP, 2003, III, 245.

53. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, op. cit., 2005, p. 325.

54. G. Zappa, Il procedimento di sorveglianza nel nuovo codice: prime riflessioni critiche in GP, III, 412, ove l'autore afferma l'applicazione nel procedimento di Sorveglianza di tutti i principi costituzionali della giurisdizione, in particolare proprio il diritto di difesa.

55. B. Guazzaloca, M. Pavarini, L'esecuzione penitenziaria, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, (a cura di F. Bricola e G. Zagrebelsky), Utet, Torino, 1995, p. 454.

56. L. Filippi, G. Spangher, Diritto penitenziario, Giuffrè, Milano, 2000, p. 122, ove si afferma che il principio del contraddittorio, introdotto dall'art. 111 Cost., impone ora, in ogni caso, la traduzione in udienza del detenuto che ne abbia fatto richiesta. Art. 111 Cost. modificato dall'art. 1, comma 1, l. cost. 23 novembre 1999, n.2 cui si deve l'inserzione degli attuali primi cinque commi.

57. Cass. Sez. U., 08.04.1998, Cerroni, CP, 1998, 3219.

58. Cass. Sez. I, 21.03.1996, Tommasoni, CP, 1997, 854.

59. F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 1998, p. 1124; R. E. Kostoris, Linee di continuità e prospettive di razionalizzazione nella nuova disciplina del procedimento di sorveglianza, in L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza (a cura di Grevi V.), Cedam, Padova, 1994, p. 566.

60. G. Lattanzi, E. Lupo, op. cit., p. 519.

61. Cass. Sez. I, 09.11.1994, Bozzi, C.E.D. Cass., 200868.

62. Ordinamento penitenziario, l. 26.07.1975 n. 354, Capo III, Modalità del trattamento, art. 13 co. 2, Individualizzazione del trattamento, "Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l'osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale. L'osservazione è compiuta all'inizio dell'esecuzione e proseguita nel corso di essa".

63. A. Gaito, G. Rinaldi, Esecuzione penale, Milano, 2000, p. 141, i quali osservano che "la norma ha il pregio di dare sanzione positiva, nella giurisdizione rieducativi, all'assoluta preminenza funzionale della c.d. prova tecnica".

64. G. Catelani, Manuale dell'esecuzione penale, Milano, 2002, p. 242.

65. G. Prelati, Il Tribunale di Sorveglianza, in Diritto e pratica professionale, Giuffrè, 2003, p. 32.

66. Circ. D.A.P. 0217584-2005 del 14/06/2005, L'area educativa: il documento di sintesi e il patto trattamentale. "Ciò che comunemente viene chiamato "documento di sintesi" altro non è che quella relazione che ai sensi del comma 3º dell'art. 13 o.p. e dell'art. 29 reg. es. deve contenere le indicazioni "formulate in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed ...il relativo programma..." documento che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell'esecuzione".

67. M. D'Onofrio, M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, Cedam, Padova, 2004, pag. 423.

68. Cass. Sez. I, 27.10.1993, Annunziata, RP, 1994, 1293.

69. Ordinamento penitenziario, l. 26.07.1975, n. 354, Capo III, Titolo II, Esecuzione penale esterna ed assistenza, art. 72 comma 2 let. b. prevede per l'ufficio preposto lo svolgimento delle indagini socio-familiari per l'applicazione delle misure alternative alla detenzione ai condannati.

70. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, 2002, p. 254.

71. M. Pavarini, B. Guazzaloca, Codice commentato dell'esecuzione penale, 2002, Utet, p. 116.

72. Cass. Sez. I, 20.09.1993, Cavallo, CP, 1994, 2782.

73. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale: retribuzione, riabilitazione e riparazione, modelli e strategie di intervento penale a confronto, in Collana Crimine e Devianza, Milano, F. Angeli, 1997, p. 80.

74. L. Conti, Le due anime del contraddittorio nel nuovo art. 111 cost., in Dir. pen.proc., 2000, p. 198.

75. Avv. R. Tucci e prof. E. Santoro, Rapporto conclusivo Progetto Misura sulla recidiva, 30.03.2004, allegato 2, "Proposta per la tenuta di un fascicolo presso il CSSA a seguito di apertura di indagine in vista della concessione della misura alternativa dell'affidamento in prova ai servizi sociali". Gli autori propongono, considerato l'enorme carico di lavoro dei servizi sociali, una riformulazione del fascicolo del detenuto.

76. Cass. Sez. I, 28.06.1994, Marucco, RP, 1995, 826.

77. S. Ciccarelli, Se la valutazione dei precedenti penali e giudiziari del condannato costituisca un passaggio obbligato per la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale, in GM, II, 1997, p. 801.

78. F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, 1992, p. 801.

79. G. Giostra, Prognosi rieducativa e pendenze penali nell'affidamento al servizio sociale, in CP, 1983, p. 540.

80. F. Mantovani, op. cit., 1992, p. 692, ove l'autore afferma che "la pericolosità è una qualità, un modo di essere del soggetto, da cui si deduce la probabilità che egli commetta nuovi reati".

81. B. Guazzaloca, op. cit., 2002, p. 108-109.

82. Cass. Sez. I, 14.04.1994, Gallo, CP, 1995, 1366.

83. M. Canepa, S. Merlo, op. cit., p. 253, sulla rilevanza della revisione critica del condannato.

84. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, Misure alternative alla detenzione e Procedimento di Sorveglianza, Giuffrè, 2005, p. 340, ove si sottolinea che il ricorso deve contenere, in ossequio al principio dell'unicità dell'impugnazione sancito dall'art. 581 c.p.p., sia la dichiarazione di impugnazione che l'indicazione dei motivi.

85. Cass. Sez. I, 06.11.1997, Lavuri, CP, 1999, 910.

86. Cass. Sez. I, 03.11.1993, Maugeri, CP, 1994, 3115.

87. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, op. cit., Giuffrè, 2005, p. 339, ove si afferma che i motivi dedotti con maggior frequenza sono quelli di cui all'art. 606, 1º comma lett. b) - inosservanza o erronea applicazione della legge penale - e quello di cui alla lett. e) mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

88. GC, 1996, 1685, con nota critica di Della Casa.

89. L. Filippi, G. Spangher, Diritto Penitenziario, Giuffrè, Milano, 2000, p. 154.