ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 1
Inquadramento storico-sistematico istituto

Federico Giacomelli, 2006

1.1. Premessa

Tra le misure alternative alla detenzione previste e disciplinate nel capo VI del Titolo I della legge 354/75 (1), una posizione preminente assume l'affidamento in prova al servizio sociale (2), definito "fiore all'occhiello" dell'ordinamento penitenziario (3). All'affidamento in prova è attribuito un ruolo centrale nell'espiazione della pena extra moenia, cioè con modalità diverse dall'esecuzione in un istituto penitenziario. Questa misura alternativa è stata infatti introdotta allo scopo di evitare, nella misura massima possibile, i danni derivanti dal contatto con l'ambiente penitenziario e dalla condizione di totale privazione della libertà (4).

L'affidamento in prova al servizio sociale può essere definito come il tipo di sanzione penale che consente al condannato di espiare la pena detentiva inflitta dal giudice della cognizione, o comunque quella residua, in regime di libertà assistita e controllata e dunque fuori dal carcere. Il provvedimento applicativo dell'affidamento da un lato fa venir meno ogni rapporto del condannato con l'istituzione carceraria e dall'altra comporta, l'instaurazione di una "relazione di tipo collaborativo con il servizio sociale che deve, attraverso il suo personale, aiutarlo a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale e controllarne la condotta, al fine di assicurare in via definitiva la rieducazione ed impedire la commissione di nuovi reati" (5).

L'introduzione dell'affidamento in prova al servizio sociale nell'ordinamento penitenziario italiano testimonia l'adesione a una linea di pensiero largamente condivisa negli altri Stati occidentali (6), che sostiene l'opportunità di articolare il sistema di difesa sociale con il ricorso a misure differenziate, proporzionalmente alle esigenze di controllo delle manifestazioni delinquenziali e a quelle di trattamento dei loro autori.

Gli organismi internazionali che si occupano della materia, come le Nazioni Unite e il Consiglio d'Europa (7), sostengono da lunghi anni quest'indirizzo, a cui aderiscono la Società Internazionale di Difesa Sociale, la Società Internazionale di Criminologia, l'Associazione Internazionale di Diritto Penale e la Fondazione Internazionale Penale e Penitenziaria.

In questi ambienti, già dal dopoguerra (8) si è maturato il convincimento che perseguire in maniera indifferenziata, con il pesante, costoso e rigido apparato della reazione punitivo - detentiva una serie di comportamenti che vanno dai delitti più gravi e allarmanti alle condotte solo marginalmente devianti si risolve in una sostanziale (e paradossale) ingiustizia distributiva, non che in un palese danno sociale. A tal proposito si afferma che la detenzione deve essere considerata l'extrema ratio (9) di un sistema penale che deve disporre di valide alternative d'intervento.

La linea di riforma è quella rivolta alla decarcerizzazione (10), ossia alla riduzione quantitativa e alla mitigazione qualitativa delle pene limitative della libertà personale. Il riduzionismo carcerario trova il suo fondamento teorico nella concezione specialpreventiva della pena (11), dal momento che postula il ricorso a strumenti diversi dalla detenzione in relazione alla differente pericolosità dei soggetti, alla gravità dei reati commessi e all'efficacia dei trattamenti rieducativi.

Il nostro ordinamento si apre a questa politica con la Legge n. 354/75 (12), che comporta la riforma totale del sistema penitenziario e la previsione delle misure alternative alla detenzione. Si tratta di istituti tra loro eterogenei, ma la definizione di "misura alternativa" sembra correttamente riferibile solo all'affidamento in prova al servizio sociale, che realizza una forma di integrale alternativa alla detenzione, consentendo, forse più di qualunque altra misura, una reale opera rieducativa, nello spirito dell'art. 27, comma 3º della Costituzione (13). Norma fondamentale, ai fini della connotazione della pena all'interno del nostro ordinamento giuridico, l'art. 27, sancisce, il principio dell'umanizzazione della pena e quello del suo finalismo rieducativo.

Il principio dell'umanizzazione esclude ogni afflizione che non sia inscindibilmente connessa alla restrizione della libertà personale. Alla luce del finalismo rieducativo della pena, viene esclusa quindi la legittimità di tecniche di trattamento risocializzative invasive della sfera fisica e psichica del soggetto, oppure che violano il rispetto della personalità e della dignità del medesimo. L'umanizzazione della pena comporta, dunque, l'illiceità dei trattamenti rieducativi coattivi o che incidono sulla libertà di autodeterminazione del condannato.

Quanto al principio del finalismo rieducativo esso impone al legislatore l'obbligo di predisporre un apparato sanzionatorio orientato a favorire il rientro del condannato nella società dalla quale si è autoescluso con il compimento del reato. L'obiettivo della rieducazione non deve, però, essere perseguito esclusivamente attraverso la pena detentiva, ma anche mediante la previsione di sanzioni alternative al carcere. Ciò in quanto il penitenziario è per sua natura desocializzante e criminogeno (14) e, quindi, la scelta di soluzioni rispettose del criterio della retribuzione, ma orientate verso una politica di decarcerizzazione, come nel caso dell'affidamento in prova, risponde senza dubbio ad esigenze specialpreventive dal momento che evita l'esposizione dell'individuo ad influenze socialmente nocive.

La Costituzione però, non impone a tutti i costi la rieducazione, ma indica piuttosto una finalità cui "tendere", finalità che - come già detto - incontra il proprio limite naturale nel principio di umanizzazione della pena, che, esclude ogni ipotesi di risocializzazione coattiva.

Al riguardo, appare condivisibile l'opinione secondo cui la rieducazione va intesa "come solidaristica offerta di opportunità, cioè come creazione delle condizioni obiettive perché al soggetto sia data la possibilità di correggere - se lo voglia - la propria antisocialità, di adeguare il proprio comportamento alle regole sociali, di un progressivo reinserimento sociale". (15)

Occorre precisare che la funzione della pena non si esaurisce nel finalismo rieducativo, ideologia che pervade l'istituto dell'affidamento in prova. Le finalità essenziali della pena continuano ad essere, secondo la concezione polifunzionale accolta dalla dottrina più autorevole (16) e dalla stessa Corte Costituzionale (17) quella di prevenzione generale e di difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività, e, quella appunto di prevenzione speciale e di rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilità della pena in funzione dell'obiettivo di risocializzazione del reo.

La sentenza della Consulta tuttavia afferma che la finalità rieducativa è prioritaria sulle altre, nonostante che afflittività e retributività siano contenuti ineliminabili di ogni pena, finalità che però, sottolinea la Corte, non hanno rango costituzionale. La Corte di Cassazione sembra oggi, dare per assodato il principio della finalità rieducativa della pena come condizionante tutto il sistema penale e non solo la fase dell'esecuzione, sostenendo che esso si riflette sul meccanismo delineato dall'art. 133 c.p. (18)

1.2. Origini storiche istituto

L'affidamento in prova al servizio sociale mutua i suoi caratteri essenziali dal probation system. (19) Il probation è, in origine, la sospensione della pronuncia di una condanna a pena detentiva: un periodo di prova - come il termine suggerisce - in cui l'imputato, di cui sia stata accertata la responsabilità penale ma a cui non sia stata ancora inflitta una condanna, è lasciato libero sotto la supervisione di un agente di probation (probation officer).

Caratteristica saliente del probation è l'imposizione di obblighi comportamentali nei confronti dei condannati: il giudice infatti, nel momento in cui applica la misura, fissa delle prescrizioni (probation conditions) che il soggetto ha l'obbligo di rispettare. Da qui il duplice compito dell'agente di probation che, da una parte, deve controllare l'osservanza dei precetti imposti riferendo all'autorità giudiziaria le eventuali violazioni, dall'altra deve affiancare chi sta scontando la misura con una funzione di sostegno.

In caso di inosservanza delle prescrizioni, il giudice può revocare la misura e pronunciare la sentenza di condanna a pena detentiva. L'esito positivo della prova comporta invece la rinuncia alla condanna da parte del giudice.

Come istituto storico, ben definito, il probation trova le sue origini nella prassi dei tribunali nordamericani del XIX sec., ma affonda le sue radici nella pratica della common law inglese del XII - XIII sec. (20)

Risalgono infatti a quell'epoca istituti quali la recognizance, il judicial reprieve ed il benefit of clergy, strumenti attraverso i quali i giudici, nel tentativo di svincolarsi dalla meccanica applicazione dei principi eccessivamente rigorosi che si erano andati consolidando nel corpo della common law, conquistarono progressivi spazi di discrezionalità, che consentirono loro di adeguare la risposta sanzionatoria alle caratteristiche personali del reo.

Fra gli istituti da cui si può far discendere il probation, si include certamente la recognizance, termine con il quale si indicava l'impegno assunto da un soggetto di osservare per un certo periodo di tempo determinate prescrizioni imposte dal giudice. (21)

Inizialmente i soggetti chiamati a prestare la recognizance non erano autori di reato, ma solo soggetti ritenuti potenzialmente pericolosi (oziosi, vagabondi..) o sospettati di aver commesso un reato. L'aver reso una pubblica promessa determinava l'automatica sottoposizione di tali soggetti alla risposta punitiva dello Stato in caso di violazioni delle prescrizioni. Col passare del tempo l'utilizzazione della recognizance si estese ai soggetti in attesa di giudizio e ai condannati. In quest'ultimo caso la promessa di osservare una buona condotta (good behaviour) e di attendere alle prescrizioni imposte aveva l'effetto di sospendere l'esecuzione della pena.

Tale promessa poteva essere assistita da terzi (sureties) i quali si rendevano in questo modo garanti dell'impegno assunto dal reo. La presenza dei garanti assicurava una certa sorveglianza sul comportamento del promettente specialmente nei casi in cui i terzi si erano impegnati anche economicamente. (22)

Altro istituto di origine giudiziale che si può annoverare fra i precursori del probation è il judicial reprieve, che consentiva al giudice di sospendere la pronuncia della condanna in casi di incertezza probatoria o per dar modo al condannato di presentare la domanda di grazia alla Corona. Tale istituto, che si era configurato inizialmente come un temporaneo differimento della pena, si trasformò col tempo in un provvedimento di sospensione della sentenza a tempo indeterminato.

Il judicial reprieve, denominato in seguito suspended sentence, venne esportato in america dai coloni e qui utilizzato, anche in assenza di autorizzazioni legislative, già a partire dai primi decenni del XIX sec.

Rientra infine fra i precursori del probation, il benefit of clergy, accordato inizialmente ai soli rappresentanti del clero, e più avanti a tutti coloro che fossero in grado di leggere e scrivere. L'applicazione del beneficio comportava la sospensione della pronuncia della condanna e consentiva ai soggetti di chiedere, dopo l'accertamento della responsabilità penale ma prima della pronuncia della condanna, di essere esentati dalla sanzione o di ricevere un trattamento più mite in considerazione delle proprie caratteristiche personali.

Al fine di provare il suo status di letterato l'imputato era tenuto a leggere davanti alla corte un brano della bibbia. La volontà dei giudici di estendere quanto più possibile l'applicazione del beneficio risulta evidente dal fatto che la stessa corte invariabilmente sceglieva come brano di lettura da sottoporre all'imputato il 51* salmo, i cui versetti - presto noti con il nome di "neck-verse" ovvero "versi salva vita" - venivano evidentemente memorizzati da tutti coloro che chiedevano di usufruire del beneficio, pur essendo assolutamente analfabeti. (23)

Questi istituti hanno esercitato senza dubbio un influsso probation, ma non sembra che tale influsso sia andato oltre il suggerimento dello strumento processuale -ovvero il potere del giudice di sospendere la pronuncia o l'esecuzione della condanna-, uno strumento processuale che sarà però utilizzato, a partire dalla fine del XIX secolo, per rispondere ad esigenze del tutto nuove, legate al contesto socio-culturale in cui esso si pose. (24)

Più in particolare, le matrici ideologiche del probation devono essere rinvenute all'interno di quel vasto dibattito dottrinale di critica agli effetti desocializzanti delle pene detentive brevi, che si andava diffondendo sia nell'area di civil law, sia in quella di common law nel corso del XIX secolo.

La riconosciuta incapacità della pena detentiva di realizzare una efficace funzione risocializzativa indusse la dottrina ad interrogarsi sull'opportunità di allargare il ventaglio delle opzioni sanzionatorie e di ricorrere a misure alternative alla detenzione. (25)

Le origini del probation rivelano chiaramente il legame di questo istituto con una finalità della pena orientata verso la riabilitazione del condannato: l'autorità statale rinuncia all'indefettibilità della pena in funzione di un trattamento flessibile e individualizzato, finalizzato appunto al recupero dell'autore del reato. (26)

Nel ripercorrere le origini del probation viene rievocata la figura di John Augustus, un calzolaio di Boston del XIX sec. unanimemente riconosciuto come il padre del probation. (27)

Il probation, nella sua accezione attuale, ha una data e un luogo di nascita ben precisi, che si possono rivivere attraverso le parole del suo stesso ideatore:

"quella mattina..." - correva l'anno 1841- ".... incontrai in tribunale un uomo accusato di essere un alcolizzato. Egli mi disse che, se gli fosse stata evitata la detenzione, non avrebbe mai più toccato alcun tipo di bevanda alcolica: decisi quindi di pagare la cauzione per ottenere la libertà provvisoria di quell'uomo, ritenendo che non fossero ancora venute meno tutte le speranze di recuperarlo" (28).

Sotto la tutela di Augustus l'uomo si rivelò "... un sobrio ed industrioso cittadino". Tali erano i segni del cambiamento che il giudice, impressionato, lasciò libero il soggetto condannandolo simbolicamente ad una pena pecuniaria di un cent. Da quel giorno Augustus -il primo probation officer della storia- cominciò a frequentare il tribunale alla ricerca di candidati per quello che egli stesso chiamò "probation" letteralmente (prova).

La procedura seguita da Augustus si mantenne inalterata per tutti i 19 anni in cui prestò la sua attività. Individuato il soggetto di cui occuparsi sulla base di un'accurata indagine della persona e delle caratteristiche del caso, Augustus ne proponeva al giudice la liberazione su cauzione assumendosi la responsabilità della sorveglianza; il giudice che nella maggior parte dei casi accettava la proposta, sospendeva la pronuncia della condanna per un certo periodo durante il quale Augustus si adoperava, generalmente assicurando casa e lavoro, per il recupero del soggetto affidatogli dalla Corte.

All'udienza fissata dal giudice per la pronuncia della condanna, Augustus illustrava i progressi compiuti dal probationer in termini di riabilitazione, fornendo al giudice un parere sull'esito del periodo di prova. Fra il 1841 e il 1859 anno della sua morte, egli si occupò quasi sempre con successo- di circa 2000 casi. (29)

Ad Augustus si attribuisce il merito di avere per la prima volta combinato in modo sistematico la sospensione di una condanna con la supervisione del soggetto per uno specifico periodo di tempo. Ed in effetti al di là dell'alone mitico che circonda la figura del padre del probation, bisogna riconoscere che il sistema utilizzato da Augustus e dai giudici del tribunale di Boston conteneva già, tutti gli elementi essenziali del moderno probation: la sospensione condizionata della pronuncia di una condanna a pena detentiva, l'imposizione di regole di condotta la cui inosservanza poteva determinare la revoca della sospensione, l'affidamento del soggetto ad una persona che si assumeva il compito di guidarlo e di controllarlo durante il periodo di prova.

Anche il criterio di selezione dei destinatari, fondato su una prognosi di rieducabilità del condannato effettuata sulla base di un'accurata indagine delle caratteristiche personali, familiari e sociali del reo - criterio che lo portava a rapportarsi quasi esclusivamente con delinquenti primari ed autori di reati di lieve gravità - rimase per lungo tempo alla base del moderno probation.

La diffusione del probation nella prassi giurisprudenziale degli ordinamenti statunitensi incontrò alcune resistenze in una parte della dottrina e della giurisprudenza. Riconosciuto infatti che la common law permetteva al giudice una temporanea sospensione nell'imposizione o nell'esecuzione di una condanna, non era però pacifico che da ciò derivasse al giudice il potere di sospendere la condanna a tempo indeterminato e addirittura di rinunciarvi laddove la prova, cui era condizionata la sospensione, avesse esito positivo.

Dopo diverse pronunce delle Corti statali, sulla questione prese finalmente posizione la Corte Suprema che, in una famosa sentenza del 1916 (caso Killits), negò l'esistenza di un potere dei giudici, fondato sulla common law, di sospendere le sentenze a tempo indeterminato.

La Corte Suprema riteneva che la rinuncia alla pronuncia della condanna costituisse un'omissione di dovere da parte del giudice ed insieme una violazione del principio di divisione dei poteri, dal momento che l'esercizio del perdono (cui la rinuncia della condanna poteva essere paragonato) era una prerogativa dell'esecutivo. Nella stessa sentenza però la Corte riconosceva che il potere di sospensione poteva essere legittimamente conferito al giudice dal legislatore. Veniva così affermato il principio che la discrezionalità del giudice nel concedere o nel rifiutare il probation dovesse essere esercitata entro i limiti legislativamente stabiliti. (30)

Con ciò la sentenza riconobbe, da un lato, una prassi già diffusa nei vari ordinamenti statali e dall'altro servì da stimolo per l'emanazione di nuovi atti legislativi che esplicitamente autorizzassero la sospensione delle sentenze e la pratica del probation.

Eliminato così ogni ostacolo giuridico, il probation cominciò a diffondersi nei vari ordinamenti statali statunitensi. Deve essere peraltro osservato che la spinta per la diffusione dell'istituto venne inizialmente dal sistema della giustizia minorile dove, fra la fine del XIX e l'inizio del XX sec. si stava sviluppando con delle caratteristiche proprie, diverse da quelle del sistema della giustizia per gli adulti.

Il sistema della giustizia penale per i minori si fondava su di un approccio non punitivo alla base del quale vi era l'idea dello Stato come padre di tutti i minori: scopo delle juvenile court era quello di fornire trattamento e servizi ai giovani in difficoltà. (31)

Tale impostazione trovò nel probation uno strumento di espressione ideale tanto che nel 1920 ogni ordinamento statale prevedeva il juvenile probation. Anche nel sistema della giustizia per gli adulti il probation andava intanto diffondendosi, ma fu solo nel 1954 che esso venne istituito in ogni ordinamento statale. Quanto all'ordinamento federale, il probation vi fece ingresso solo nel 1925.

Tornando alle esperienze europee, nate come già sottolineato con la polemica contro le pene detentive brevi, se si volesse, fissare una data per la nascita di questo dibattito, si potrebbe indicare il 1864, anno in cui in Francia Bonneville de Marsangy incentrava il suo vasto programma di politica criminale su di un drastico ridimensionamento dell'area coperta dalla pena detentiva, in cui si auspicava tout court l'abolizione della detenzione breve, a rischio, altrimenti, di "svalutare l'efficacia general-preventiva dell'intero sistema penale". (32)

E' noto, a tal proposito, il paradosso di Von Liszt (33) secondo cui:

"le pene detentive brevi non sono soltanto inutili: esse producono all'ordinamento giuridico danni più gravi di quelli che potrebbero derivare dalla completa impunità del reo".

Vi fu da parte del mondo dottrinale, una unanime concordanza nella denuncia della disfunzionalità di questa sorta di pene. La discussione si apre nel momento in cui si eclissa il dogma retribuzionista della scuola classica (34), per far posto alla "teoria dello scopo" (35), la pena detentiva breve non consegue gli effetti di rieducazione, intimidazione, neutralizzazione richiesti dalla moderna teoria dello scopo.

La rieducazione del reo non può essere conseguita in periodi limitati, la brevità non consente alcun trattamento. Per contro, l'impatto con l'ambiente penitenziario determina nel reo una negativa socializzazione con la pena, e lo espone al pericolo del contagio criminale.

L'indirizzo criminologico che si propaga è quello positivistico in opposizione al tradizionale illuministico. Grazie a questo movimento naturalistico (il delitto appare manifestazione di determinate cause e si sposta l'indagine dal reato in astratto al delinquente in concreto) s'introduce l'idea innovatrice della risocializzazione del delinquente sostituendo appunto allo strumento unico e rigido della pena detentiva una più ampia tipologia di misure criminali adeguabili alla personalità del delinquente.

La messa al bando della pena detentiva breve che già avvenne agli inizi del secolo, comportò la diffusa ricerca di strumenti sanzionatori alternativi ad essa. Le direttrici fondamentali (36), lungo le quali le principali legislazioni europee individuarono gli strumenti alternativi alla "breve" furono tre: 1. misure sospensive; 2. "surrogati penali": arresti domiciliari, riprensione giudiziale, lavoro di pubblica utilità; 3. pena pecuniaria.

Fu poi la misura sospensiva a recitare un ruolo da protagonista sulla scena europea. L'idea base è univoca, in quanto consiste nella non applicazione della sanzione sotto condizione del positivo esperimento di un periodo di prova (probation). Nella realtà si tratta di due misure, differenziate sia nella struttura che nella funzione, rappresentate l'una dall'istituto anglosassone della sospensione della pronuncia di condanna, l'altra dall'istituto di origine franco-belga, della sospensione dell'esecuzione della pena, con una variante costituita dal sistema tedesco della grazia condizionata, caratterizzato dall'attribuzione del potere di ordinare la sospensione all'autorità amministrativa anziché al giudice, come nel modello del "sursis" franco-belga (37).

Storicamente, la sospensione della pronuncia di condanna precede l'introduzione della sospensione dell'esecuzione della pena. Già nel 1879 con il Summary Jurisdiction Act (38) vi fu il primo riconoscimento legislativo in Inghilterra di tale tecnica, mentre il primo provvedimento che introdusse la sospensione dell'esecuzione della pena avvenne nell'area continentale, in Belgio con la legge 31 maggio 1888 proposta dal ministro Jules Lejeune (39).

Nella differenza strutturale di base (in un caso sospensione del giudizio, nell'altro dell'esecuzione) dei due istituti, poggia un diverso modo di concepire il significato del periodo di prova. Mentre nel primo modello il reo resta imputato potenzialmente in attesa di giudizio, sul cui esito finale influisce il comportamento complessivo del destinatario della misura, che attraverso la buona condotta, non identificabile esclusivamente con l'astensione da specifici fatti di reato, deve mostrarsi meritevole del rinvio ottenuto, nel modello della sospensione dell'esecuzione l'esperimento positivo della prova è circoscritto alla sola condizione fondamentale che il condannato eviti la recidiva (40).

Si può, quindi affermare, che la sospensione della pronuncia di condanna tende a porsi funzionalmente come un tipo di "trattamento" extrapenitenziario, volto al recupero globale dell'individuo, mentre la sospensione dell'esecuzione affida la propria efficacia al deterrente della condanna inflitta.

Nel sistema inglese, l'esito positivo della prova (previsto dal Summary Jurisdiction Act del 1879) è subordinato quindi al rispetto dell'impegno "to keep the peace and be of good behaviour" (letteralmente tradotto in "mantenere la pace e avere un buon comportamento") (41), tale da implicare, quindi, un impegno sociale di portata più consistente che non l'astensione da specifici comportamenti delittuosi, come invece avveniva nel corrispondente modello belga. La distinta funzione dell'istituto viene ancora più in risalto se pensiamo al già citato probation statunitense, ispirato sin dall'origine alla tecnica dell'affidamento del reo ad un servizio di assistenza e controllo.

Nell'area continentale la forma adottata in misura prevalente fu, quella della sospensione dell'esecuzione della pena, dopo il Belgio infatti (1888), fu la volta nel 1891, della Francia e nel 1892 del Lussemburgo. Seguirono nel 1893 il Portogallo e la Norvegia nel 1894, quindi l'Italia e la Bulgaria nel 1904, la Danimarca nel 1905, la Svezia nel 1906, la Spagna e l'Ungheria nel 1908, la Grecia nel 1911 e via via gli altri Stati. (42) A questi legislatori in quel periodo storico parve quindi che la "condanna condizionale", congiunta all'incombente minaccia di dar corso all'esecuzione in caso di recidiva, rappresentasse una risposta sanzionatoria di per sé sufficiente, sia sul piano retributivo, sia su quello della prevenzione speciale.

Le due prospettive, del "trattamento" da un lato (sistema anglosassone e statunitense del probation), e della "pena giusta" dall'altro (modello franco- belga del sursis) (43), alimentarono quindi una nuova polemica dottrinaria, ma fu solo transitoria in quanto questa contrapposizione non escludeva la loro complementarietà: l'idea di configurare la misura sospensiva come "pena giusta" in una dimensione di proporzione qualitativa corrisponde, infatti, ad un tipo di delinquenza primaria a carattere occasionale, mentre la sospensione come "trattamento", in chiave di "probation", trova come destinatari delinquenti primari per difetto di integrazione sociale.

A riprova di ciò, l'esperienza normativa immediatamente successiva alle prime introduzioni di una singola misura sospensiva è stata quasi ovunque caratterizzata dal progressivo affiancamento delle due tecniche. La contrapposizione originaria ha finito infatti con il cedere il posto ad un modello di misura sospensiva tendenzialmente unico, articolato tuttavia in un'intera serie di possibili alternative, disposte dall'estremo della mera sospensione a quello del probation.

1.3. Il dibattito internazionale sulla riforma penitenziaria e sul "Probation"

La tematica della riforma penitenziaria, del probation e più in generale delle misure alternative è stata affrontata a livello internazionale già in epoca anteriore alla II guerra mondiale. Vi fu infatti un fiorire di ricerche, studi, discussioni e proposte per migliorare le condizioni detentive in genere. E' un susseguirsi di congressi internazionali, tra i quali si può ricordare l'XI congresso internazionale penale e penitenziario tenutosi a Berlino nel 1935, dove viene riaffermato il principio che la detenzione deve avere anche il fine di educare il detenuto; nel 1937 la commissione internazionale penale e penitenziaria propone l'esame scientifico dei detenuti, proposta confermata l'anno successivo al I congresso di criminologia tenutosi a Roma. La Società delle Nazioni già lavorava alla formulazione delle "regole minime" in campo penitenziario.

Dopo l'interruzione dovuta agli eventi bellici, la questione della riforma penitenziaria si ripropone in tutti i paesi occidentali, connessa al rispetto dei diritti umani enunciati nel 1948 (44). Le Nazioni Unite riservano una parte della loro attività al trattamento dei delinquenti e alla prevenzione del crimine. (45) L'Italia, partecipa al generale movimento di riforma, accogliendone i contenuti sotto il profilo concettuale e sperimentale, anche se sul piano realizzativo, il percorso è stato lungo e faticoso. La discrepanza tuttavia tra le enunciazioni di principio ed i risultati pratici si è manifestata non solo in Italia, ma anche nel resto d'Europa; infatti, l'organizzazione delle prigioni, proprio per la sua struttura verticistica e chiusa alle influenze esterne, ha mantenuto il sistema vigente nonostante il movimento di riforma tendesse da un lato al miglioramento delle condizioni detentive e dall'altro ad una progressiva riduzione delle sanzioni.

Il concetto di finalità rieducativa della pena si rafforza dopo la II guerra mondiale e si comincia a profilare l'obiettivo del reinserimento, come si rileva dalle varie proposte che vengono formulate. L'affermazione dei diritti umani porta ad eliminare concettualmente la sofferenza non connessa alla privazione della libertà.

A livello europeo un ruolo importante nel sostenere il movimento di riforma del sistema penitenziario è svolto dal Consiglio d'Europa. Tale organo è la più vecchia organizzazione politica del continente (l'anno di nascita è il 1949), raggruppa 46 paesi, tra cui l'Italia che ne è uno dei fondatori. Il Consiglio d'Europa QQQè distinto dall'Unione europea dei "25" (46) anche se nessun paese ha mai aderito all'Unione senza prima essere membro del Consiglio. Questa organizzazione è stata istituita allo scopo di tutelare i diritti dell'uomo, garantire il primato del diritto e concludere accordi su scala continentale per armonizzare le pratiche sociale e giuridiche degli Stati Membri.

Fin dai suoi primi anni di attività, il Consiglio d'Europa comincia a lavorare sul tema dei diritti fondamentali dell'uomo. Nel settembre del 1953, al termine di un lungo iter procedurale entra quindi in vigore la Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali che da una parte enuncia una serie di diritti (47) che investono anche i diritti umani dei detenuti, mentre dall'altra ha istituito un sistema destinato a garantire il rispetto da parte degli Stati contraenti degli obblighi da essi assunti.

Tre istituzioni condividono la responsabilità di siffatto controllo: la Commissione europea dei Diritti dell'Uomo (istituita nel 1954), la Corte europea dei Diritti dell'Uomo (istituita nel 1959) e il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, composto dai ministri degli affari esteri degli Stati membri o dai loro rappresentanti.

Nel dibattito internazionale concernente la riforma penitenziaria, accanto al Consiglio d'Europa, un ruolo preminente è svolto dalle Nazioni Unite (48) attraverso l'elaborazione delle "regole minime". Queste rappresentano, una tappa importante del movimento internazionale di "riforma", infatti, enunciate come direttive di massima per la elaborazione degli ordinamenti penitenziari dei vari Stati, indicano i principi di base cui il regime di vita dei detenuti deve uniformarsi secondo gli orientamenti umanitari ed i diritti umani.

La preparazione delle prime regole penitenziarie da parte della Commissione internazionale penale e penitenziaria, approvate dalla Società penale e penitenziaria delle Nazioni Unite nella sessione del 16 settembre 1934, risale al 1929. Tali direttive approvate nel primo congresso delle Nazioni Unite a Ginevra il 30 agosto 1955, rispondevano alla necessità di standardizzare ed omogeneizzare, nel settore penitenziario, le condizioni di detenzione, a salvaguardia dei diritti umani. Le osservazioni preliminari alle regole minime dell'Onu precisano che esse non hanno la finalità di descrivere un sistema penitenziario modello, bensì di stabilire dei principi e delle regole per una buona organizzazione penitenziaria e per il trattamento dei detenuti.

A livello europeo il comitato per i problemi criminali del Consiglio d'Europa deciderà nel 1968 l'adattamento del testo alle esigenze della politica penale europea al fine di favorirne la sua applicazione effettiva, ma già nel 1957 il Comitato dei ministri (49) aveva stabilito di istituire un Comitato di esperti col mandato di proporre un piano d'azione del Consiglio d'Europa per la prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti.

Poi, con la Risoluzione 5/1973, il Comitato dei ministri adotta il testo delle regole minime, che saranno incorporate da 17 membri della comunità europea, tra cui l'Italia, nelle loro legislazioni. Con la Raccomandazione 914/81 l'assemblea penitenziaria del Consiglio d'Europa decide di elaborare una nuova versione europea che sarà varata con la risoluzione n. 3 del 1987, con la diversa dizione di "Regole penitenziarie europee", da cui scompare appunto la parola minime.

Tra le due versioni (1973 e 1987) si possono scorgere cambiamenti significativi dovuti ad una maggiore consapevolezza della realtà. Le nuove regole tengono conto dell'evoluzione della dottrina e dei fatti che emergono dalla pratica operativa: viene data priorità agli aspetti del trattamento ed al concetto di reinserimento sociale. Viene posto l'accento sulla riduzione degli effetti negativi della detenzione incoraggiando la partecipazione dei servizi sociali del territorio nell'opera di trattamento.

Parallelamente alla evoluzione di pensiero relativo al trattamento intramurario si sviluppa il sistema delle misure alternative alla detenzione. La tematica del probation come sappiamo si diffonde rapidamente dagli Stati Uniti all'Europa attraverso l'Inghilterra.

Considerate le diverse modalità di esecuzione della pena in ambiente libero, fin dagli anni '50 le Nazioni Unite hanno preso l'iniziativa di studiarne le differenti possibilità di applicazione in particolare nel sistema di probation. (50) L'argomento desta interesse e il Consiglio d'Europa si attiva nella stessa direzione.

Nel 1965 il Consiglio adotta infatti la Risoluzione 65-1 su "sursis, probation et autres mesures de substitution aux peines privative de libertè" con la quale: a) raccomanda ai governi di fare in modo che le legislazioni degli Stati membri prevedano la possibilità per il giudice o per l'autorità competente di sostituire alla pronuncia della condanna, una misura condizionale nei confronti di tutti i delinquenti primari che non hanno commesso una infrazione di particolare gravità; b) sottolinea che dette misure devono essere adottate dalle autorità competenti, tenuto conto delle circostanze, dei fatti commessi e della personalità dei delinquenti, in ragione della pericolosità che presentano e delle possibilità di emendamento che offrono; c) raccomanda altresì ai governi di adottare tutte le disposizioni per assicurare e sviluppare l'applicazione del probation o le altre misure della stessa natura che rivestono un interesse particolare ed hanno il vantaggio di sottoporre il delinquente, durante la prova, ad una assistenza ed una sorveglianza destinata ad incoraggiare il suo reinserimento e a controllare la sua condotta.

La successiva Risoluzione 70-1 del gennaio 1970, concernente l'organizzazione pratica delle misure di sorveglianza, di assistenza e di aiuto post-penitenziario per le persone condannate o liberate sotto condizione, invita gli Stati membri ad introdurre, sviluppare e migliorare le diverse forme di condanna condizionale e altre misure analoghe; detta raccomandazioni in ordine alla organizzazione e preparazione dei servizi di "probation", indirizzate a migliorare l'attività dei servizi di sorveglianza e di assistenza; di prestare un'attenzione speciale al miglioramento delle condizioni di impiego degli agenti di probation, nonché di prevedere dei metodi di selezione efficaci e di esaminare il numero dei casi assegnati agli agenti addetti ed ai volontari perché il trattamento sia il più efficace possibile.

Il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa adotta nel marzo 1976 la Risoluzione 76.10, con la quale raccomanda ai Paesi membri di rivedere le legislazioni per eliminare gli ostacoli legati all'applicazione di dette misure, di esaminare le nuove modalità per la diffusione del probation e di favorire sperimentazioni in tal senso, nonché di studiare la possibilità di introdurre nuove misure.

Negli anni successivi, sono intervenuti cambiamenti sostanziali nelle legislazioni degli Stati membri; la maggior parte di essi ha adottato o rafforzato misure non detentive, non solo per ricorrere sempre meno alla carcerazione (il fenomeno del "riduzionismo" carcerario già accennato nel par. 1.1) ma anche per intervenire sulla individualizzazione della pena e l'inserimento sociale dei soggetti autori di reati.

Considerata la grande diversità delle misure alternative esistenti tra i Paesi europei, il Comitato di cooperazione penitenziaria ha affidato, nel 1988, al comitato europeo per i problemi criminali il compito di elaborare delle regole minime concernenti la gestione e l'applicazione delle misure non carcerarie. Ciò ha dato luogo alla Raccomandazione nº R (92) 16 del Comitato dei Ministri, relativa alle "Regole Europee sulle Sanzioni e Misure Alternative alla detenzione" adottata il 19 ottobre 1992.

Altra sede internazionale di studio e dibattito sulle misure alternative è la Confèrence permanente europèenne de la probation (CEP), organismo fondato nel 1982. (51)

La Raccomandazione 92-16 del Comitato dei Ministri della Comunità Europea invita i governi degli Stati membri, ad ispirarsi, nella legislazione e nella pratica attuazione di essa, ai principi elencati nell'atto stesso.

Il preambolo (52) della Raccomandazione si sofferma sulla necessità di fornire agli Stati membri dei criteri di base per ottenere che le sanzioni applicate nella comunità offrano garanzie contro i rischi di offesa dei diritti fondamentali della personalità di coloro a cui esse vengono inflitte. In sostanza, si raccomanda che l'intento di trovare un rimedio qualsivoglia al carcere non costituisca la giustificazione alla introduzione di qualsiasi tipo di misura alternativa.

La Raccomandazione (53) comunitaria si preoccupa che non vi sia un'applicazione rigida e formalistica delle nuove norme, ma anzi che la pratica attuazione delle misure si adegui non soltanto alla considerazione astratta del delitto commesso e per il quale è inflitta la sanzione, ma tenga conto della personalità e delle attitudini del delinquente. Inoltre si insiste sulla necessità che nell'inflizione delle diverse sanzioni ci si assicuri della volontà del soggetto di cooperare e di rispettare le modalità di esecuzione delle pene. Particolare attenzione viene data ai metodi di lavoro. L'esecuzione delle modalità punitive deve basarsi sulla gestione di programmi individualizzati e sullo sviluppo di relazioni di lavoro adeguate tra il delinquente e il probation officer.

Attualmente gli organismi internazionali stanno concentrando il loro interesse sull'applicazione nell'ambito dell'esecuzione penale dei condannati adulti di forme di giustizia riparativa. In particolare viene sottolineata dalle Raccomandazioni del Consiglio d'Europa e dalle Risoluzioni delle Nazioni Unite (54), l'importanza di dare sviluppo a forme di pena non detentive, ritenute efficaci rispetto alla reintegrazione sociale dei condannati, ricorrendo, se possibile, a soluzioni dei conflitti attraverso forme di giustizia riparativa e, tra queste, della mediazione tra vittima e reo.

In questi documenti, al rilancio della necessità di una attenzione alla vittima, che non va "colpevolizzata" ed ulteriormente "vittimizzata" (55), ma assistita e protetta, fa da riscontro la contestuale considerazione per i diritti del reo e per la sua reintegrazione nella comunità. La dichiarazione di Vienna (56) incoraggia infatti espressamente lo sviluppo "di politiche di giustizia riparativa, di procedure e di programmi rispettosi dei diritti, dei bisogni e degli interessi delle vittime, dei delinquenti, delle comunità e di tutte le altre parti".

Il ricorso alla mediazione ed alle altre ipotesi di giustizia riparativa assume nei documenti internazionali estrema importanza non solo perché produce un risultato soddisfacente per le vittime, ma anche perché agisce in termini di prevenzione di futuri comportamenti illeciti da parte del reo. In altri termini, il risultato della mediazione penale (che presuppone un processo di consapevolizzazione del reo nei confronti del reato e del danno eventualmente provocato a terzi) dovrebbe produrre l'effetto della contrazione della recidiva con parallela riduzione quindi dell'uso delle agenzie di controllo formale.

1.4. Introduzione del "Probation" in Italia

In Italia l'introduzione del probation è legato all'avvio delle prime esperienze di servizio sociale nell'area della giustizia, intervenute nel sistema dell'esecuzione penale a partire dalla fine degli anni 40. (57)

Pure nel nostro paese (come già era avvenuto negli Stati Uniti), l'istituto dell'affidamento in prova trovò nel sistema della giustizia minorile una spinta per la sua diffusione. Fu in questo settore che avvennero i primi esperimenti di probation e quindi di esperienze di servizio sociale nel sistema giudiziale.

Già con la legge istitutiva dei tribunali per i minorenni (20 luglio 1934, n. 1404), pur con tutte i difetti con cui tale provvedimento venne all'inizio compreso e attuato, vi era la possibilità di affidare i minori in libertà vigilata a persone o istituti di assistenza sociale disposti a provvedere alla loro educazione o assistenza (art. 23 citata legge). Ma fu con il successivo intervento legislativo sulla materia, legge 25 luglio 1956, n. 888, che compare per la prima volta la previsione di strutture proprie del Servizio sociale per i minorenni (Uffici di servizio sociale per i minorenni). Tra le aree di intervento che impegnano il servizio compare lo svolgimento di un trattamento in ambiente esterno dei minorenni affidati al servizio sociale.

Dal punto di vista storico, la previsione, ha una notevole importanza, perché costituisce il primo passo verso la definizione di un sistema di misure alternative a quelle istituzionali. E' interessante constatare che lo strumento dell'affidamento diviene il principale per il trattamento dei minori "irregolari per condotta o per carattere", per essi infatti è considerata la misura più idonea a rispondere alle loro esigenze specifiche rispetto alla soluzione del collocamento in istituto. Si tratta di quei casi in cui il livello di disadattamento del minore e la disponibilità di sopravviventi risorse familiari e sociali rendono possibile attuare un intervento di recupero sociale senza ricorrere a ipotesi di surrogazione educativa, ma cercando di ristabilire normali scambi relazionali fra il minore e le sedi formative naturali di cui esso può continuare a far parte.

Si può osservare quindi in questo progetto prefigurato dal legislatore una nuova concezione del ruolo del servizio sociale sul piano operativo, facendone assumere un profilo professionale, caratterizzato da una maggiore autonomia rispetto agli uffici giudiziari.

Nel settore degli adulti, la situazione carceraria nel dopoguerra si presenta drammatica, la popolazione carceraria aumentò infatti in misura considerevole e fu causa di numerose rivolte. Il dibattito in Italia sul trattamento dei detenuti diviene più vivace come stava pure accadendo a livello internazionale. Particolare attenzione viene data dall'Assemblea costituente alla funzione della pena con l'abolizione di quella di morte e la formulazione dell'art. 27 che stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. L'analisi del problema portò all'istituzione della prima commissione ministeriale di studio per la formulazione di proposte di riforma del regolamento penitenziario del 1931 (r.d. 18 giugno, n.787) ed alla commissione d'inchiesta sulle condizioni di vita dei detenuti. (58)

Nel frattempo si assistette nel silenzio del parlamento, alle prime iniziative nella direzione della riforma, tramite circolari, (59) e con l'istituzione dei centri criminologici presso gli istituti penitenziari (60).

I lavori di riforma penitenziaria vanno avanti seppur lentamente, nel 1960 il ministro Gonella presenta il primo disegno di legge che costituirà la base di tutte le elaborazioni successive. (61)

La relazione al disegno di legge richiama espressamente le nuove esigenze che si sono presentate dopo il regolamento del 1931 per effetto di successivi studi nel campo della disciplina penitenziaria e del diritto penale, a partire dall'XI congresso internazionale penale e penitenziario del lontano 1935 a Berlino, agli altri che si sono susseguiti in Italia e all'estero, tenute presenti altresì le regole minime dettate dall'Onu. Sono affermati principi basilari che verranno poi richiamati nella futura riforma dell'ordinamento penitenziario del 1975, tra cui l'individualizzazione del trattamento, l'osservazione dei detenuti e soprattutto l'istituzione dei centri di servizio sociale per adulti.

Già nel 1960, l'Amministrazione Centrale aveva dato avvio, in linea con gli orientamenti del Consiglio d'Europa, alle prime sperimentazioni del servizio sociale nel settore degli adulti. Nell'ottica della riforma vengono aperti i primi istituti di osservazione quali quelli di Roma-Rebibbia, Milano e Napoli (62). Il loro funzionamento è oggetto della circolare del 18 dicembre 1961 la quale, dopo aver premesso che la conoscenza della personalità del condannato è il presupposto di un vero e proprio trattamento rieducativo, detta le disposizioni relative all'organizzazione ed al funzionamento di tale servizio. Nel'68 nasce l'Ufficio studi, ricerche e documentazione istituito allo scopo di inserire nell'organizzazione penitenziaria italiana un organismo capace di esaminare scientificamente i problemi inerenti la prevenzione e il trattamento della criminalità, una soluzione simile a quella adottata da altre amministrazioni penitenziarie straniere.

L'Ufficio studi e ricerche, diviene la sede intorno alla quale ruotano tutte le iniziative trattamentali, sia quelle già avviate e sia per l'avvio di altri esperimenti. L'obiettivo dell'ufficio è l'approvazione della riforma, vengono avviate per la prima volta ricerche e indagini campione sull'atteggiamento degli operatori penitenziari nei confronti del "probation", sulla possibilità di organizzare un servizio di volontari per la rieducazione del delinquente sottoposto a misure in libertà (63).

Dopo un lungo iter legislativo durato quasi venticinque anni, nel'75 si arriva finalmente alla promulgazione della legge riforma (64) dell'ordinamento Penitenziario e con essa all'introduzione della misura dell'affidamento in prova ai servizi sociali, regolato dall'art. 47. L'introduzione di questo nuovo istituto è indice della "filosofia" della legge riforma, si assiste infatti ad un cambiamento di mentalità nel modo di concepire l'esecuzione della pena. Tale passaggio è il risultato di quel processo di trasformazione culturale più generale che, a partire dal dopoguerra, aveva incominciato ad interessare la società italiana. Viene affermata l'esigenza di attuare un'esecuzione penale che sappia guardare all'uomo e alla sua vicenda esistenziale in tutta la sua complessità. Il modello che viene introdotto è quello riabilitativo (65), si cerca di comprendere le cause dell'atto criminoso in funzione del reinserimento sociale e della rieducazione del soggetto che comporta l'individualizzazione del trattamento.

L'affidamento quindi assieme alle altre misure alternative (specialmente quelle totalmente alternative alla detenzione) rappresenta l'espressione giuridica di un nuovo modo di concepire l'esecuzione della pena. Da quella tradizionale in cui l'esecuzione era associata alla nozione di carcere, si giunge a riconoscere la possibilità che essa possa essere realizzata in una dimensione meno caratterizzata da attività repressive e più modulata in funzione delle capacità personali e di impegno di cui il condannato dispone e dell'aiuto offertogli, che egli dimostra di sapere utilizzare.

Il fattore che contribuì in modo decisivo all'introduzione del probation nel nostro ordinamento fu l'esistenza di un personale capace di dare attuazione alle previsioni normative. L'esperienza dei servizi sociali nel settore della giustizia, infatti come ho già avuto modo di commentare, dagli anni 50 in avanti ha avuto modo di creare una schiera di professionisti (assistenti sociali; educatori) capaci di avere una nuova visione dei rapporti che legano il carcere stesso alla società dei cittadini e che dessero quindi un contributo determinante per una lettura della realtà penitenziaria all'altezza della volontà innovativa del legislatore. (66)

Al fine di poter dar seguito a questo nuovo approccio di esecuzione, il legislatore nella legge riforma (354/1975) ha previsto la creazione dei centri di servizio sociale per gli adulti. L'art. 72 del testo istituisce infatti nelle circoscrizioni degli uffici di sorveglianza tali centri (67).

Nella fase di applicazione dell'affidamento, il condannato viene preso in carico dal CSSA ("Centro servizi sociali adulti" adesso divenuto "Ufficio esecuzione penale esterna") che opera in stretto contatto con i servizi del territorio. L'assistente sociale realizza con l'affidato un rapporto costruttivo e partecipato, in cui il controllo e sostegno entrano a far parte di un'azione unitaria finalizzata ad un graduale inserimento nel contesto sociale.

Il legislatore italiano, intervenendo con la legge 354/75, ha adottato quindi la scelta del cosiddetto "probation penitenziario", istituto che presuppone l'esistenza di una condanna definitiva e concretizza uno strumento alternativo in fase di esecuzione. Questa soluzione si differenzia dall'altra forma di probation utilizzato prevalentemente nelle legislazioni degli altri paesi europei, chiamato "probation giudiziale" (68). In questo caso, lo strumento si estrinseca nella sospensione del processo o dell'irrogazione della pena da parte del giudice di merito in relazione all'esito di una prova in ambiente libero. (69)

Nell'impianto originario della legge 354/75, l'applicazione dell'istituto era previsto all'inizio dell'esecuzione della pena detentiva, più che nella fase finale dell'esecuzione stessa (70).

La differenza tra queste due ipotesi è rilevante: nel primo caso infatti il soggetto beneficiato usufruisce della possibilità di evitare quasi del tutto il carcere; nel secondo caso invece l'affidamento viene concesso dopo che il condannato ha già scontato una pena detentiva, in alcuni casi anche consistente, e rappresenta quindi una forma per certi versi assimilabile alla liberazione condizionale (71). Questa differenza è fondamentale per far capire quale fosse la strategia penitenziaria adottata dal legislatore del '75.

Con l'ordinamento penitenziario, il legislatore, (72) secondo la maggioranza degli interpreti, aveva fatto una scelta chiara, riservando la possibilità di accedere al beneficio ai soggetti in fase esecutivo iniziale, (limitando in pratica la detenzione al periodo strettamente necessario allo svolgimento dell'osservazione intramuraria) (73) condannati ad una pena detentiva non superiore a due anni e sei mesi, con l'esclusione dei recidivi specifici (l'affidamento non era consentito per chi avesse "precedentemente commesso un delitto della stessa indole"), e dei condannati ad alcuni reati in grado di procurare un certo allarme sociale (precisamente "per i delitti di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione").

Questa scelta risulta pure dai lavori parlamentari che hanno preceduto la promulgazione della legge riforma 354/75.

L'istituto dell'affidamento in prova non era presente nel disegno di legge sulla riforma dell'ordinamento penitenziario, presentato dal Ministro di Grazia e giustizia, onorevole Gonella, al Senato in data 31 ottobre 1972, (74) coerentemente con la linea di tendenza emergente in materia di riforma del libro primo del codice penale. (75) Tuttavia, nel dicembre 1973, il medesimo disegno di legge venne rimesso alla Commissione giustizia del Senato in sede redigente ed il Senato, attraverso un lavoro preparatorio demandato ad una sottocommissione presieduta dall'onorevole Follieri, approvò il testo apportando alcune modifiche di carattere sostanziale, fra cui spiccava l'introduzione dell'affidamento in prova al servizio sociale. (76)

Le principali caratteristiche dell'istituto erano le seguenti: l'affidamento in prova poteva essere concesso "allorché alla pena detentiva inflitta non seguisse una misura di sicurezza detentiva e la pena non superasse un tempo di due anni e sei mesi ovvero di tre anni nei casi di persona di età superiore agli anni diciotto ma inferiore agli anni ventuno o di persona di età superiore agli anni settanta". Il provvedimento veniva adottato sulla base dei risultati di un'osservazione della personalità da compiersi su istanza dell'interessato "prima dell'esecuzione della pena".

Nel dicembre del 1973 il testo approvato dal Senato passava alla Camera (77), che introdusse numerose modifiche di carattere restrittivo, frutto di compromessi politici, che produssero delle profonde incongruenze all'interno degli istituti penitenziari.

Lo stesso istituto dell'affidamento in prova venne snaturato da questo "rigurgito conservatore" (78), destinato a bloccare per lungo tempo l'approvazione della legge. Vennero introdotte le (già citate) preclusioni per quanto concerne gli autori dei cosiddetti "reati ostativi" e la concessione dell'affidamento venne subordinato ai risultati di un'osservazione della personalità condotta per almeno tre mesi in istituto. L'affidamento, allontanandosi così dai modelli classici di probation, affermatisi in altri paesi dell'Europa continentale, diviene assimilabile ai limitati esempi di probation con "assaggio di pena" (come in Danimarca) (79) vanificando secondo una prima critica (80) la funzione di misura preordinata ad evitare il contatto con il carcere per i condannati a pene di lieve entità.

Altra condizione ostativa era rappresentata dalla presenza di una misura di sicurezza detentiva. L'esclusione del soggetto a cui è stata comminata una misura di sicurezza detentiva dall'affidamento era giustificata, dalla necessità di evitare la manifesta contraddizione che, si sarebbe determinata tra il giudizio di probabilità di recidiva, insito nella dichiarazione di pericolosità sociale, e quello di idoneità delle prescrizioni a prevenire il pericolo di compimento di altri reati, richiesto per l'ammissione all'affidamento.

Inoltre nel caso di pene pecuniarie convertite in detenzione potevano dar luogo ad affidamento in prova senza limiti di durata. (81)

Appare allora evidente, dalla rilettura dell'articolo e dell'intero sistema (82), come la visuale di campo della prospettiva prescelta fosse estremamente limitata: l'idea di rieducare risocializzando si rivolgeva essenzialmente a delinquenti autori di reati di modesta gravità, in correlazione con la ridotta entità della pena inflitta (il limite allora era di due anni e sei mesi). La ratio collegata, era, allora, quella di evitare l'ingresso in carcere di persone di non elevata pericolosità sociale. (83)

Essa si saldava, nel sistema, alla sospensione condizionale della pena, per i casi in cui la prognosi di non recidiva nel reato non potesse formularsi in relazione alla semplice sospensione della pena, ma richiedesse l'imposizione di prescrizioni e controlli.

Quindi nella sua fisionomia originaria, l'affidamento era concepito come misura di controllo e di sostegno indirizzato verso la criminalità medio-piccola dell'emarginato sociale. Era lo stesso legislatore ad indicare espressamente come l'istituto fosse finalizzato al superamento delle "difficoltà di adattamento alla vita sociale", con ciò ribadendo l'individuazione di uno specifico target di destinatari. (84)

Il probation dunque in Italia nacque da una scelta ben precisa, secondo la quale i destinatari della misura risultavano coloro che, non solo per le loro condizioni personali, ma anche per la loro ridotta capacità a delinquere, apparissero idonei al trattamento (85).

1.4.1. Evoluzione normativa e giurisprudenziale istituto affidamento in prova

La disciplina dell'affidamento in prova al servizio sociale, così come attualmente è prevista dall'art. 47 dell'ordinamento penitenziario è il risultato di una lunga evoluzione legislativa. Dal '75 ad oggi sono infatti intercorse numerose riforme nel settore. L'originaria politica tracciata con l'emanazione della legge n. 354 ha incontrato infatti notevoli difficoltà attuative. Da allora una molteplicità di provvedimenti si sono succeduti nel tempo, incidendo sullo schema dell'affidamento e più in generale sulla riforma penitenziaria.

La legge penitenziaria del 1975, come sappiamo ha le sue radici nei principi dettati dalla carta costituzionale (in primis art. 27 c.3), dagli impegni assunti dall'Italia negli accordi internazionali intervenuti nel frattempo (Raccomandazione (73) 5 del Consiglio d'Europa) e negli orientamenti del pensiero penale-criminologico affermatosi in quegli anni (pensiamo al "riduzionismo carcerario").

L'opzione di fondo della legge è, quella di un'esecuzione penale "utile" (86) al reinserimento sociale e, per questo, da realizzarsi anche e, soprattutto, attraverso contatti con il mondo esterno. Viene proposto un sistema in cui il carcere perde la sua centralità come unico momento dell'esecuzione penitenziaria, per divenire il punto di partenza di un percorso, controllato e assistito, progressivamente aperto a spazi maggiori di libertà e con contatti più frequenti con la società libera. In questa visione di trattamento, la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale rappresenta il momento di massima apertura dell'esecuzione penale verso la società.

Con essa (e con le altre misure alternative), si sostiene, lo Stato pone in essere il patto sociale, il cosiddetto sinallagma rieducativo, in base al quale lo stesso rinuncia ad "esigere" una parte della pena detentiva ancora da eseguire in cambio dell'impegno del condannato a fruire delle occasioni di socializzazione che gli vengono offerte a questo fine (87).

Al di là, delle enunciazioni programmatiche, bisogna dire che l'ordinamento penitenziario presupponeva che la sua attuazione avvenisse gradualmente, nessuno poteva illudersi che il cambiamento di mentalità nel personale penitenziario, o che le modificazioni strutturali e funzionali che avrebbero dovuto riguardare la realtà del carcere ed i suoi programmi di attività interna e di apertura verso l'esterno, si sarebbero prodotti solo per il fatto che era cambiata la legge. Era evidente che l'avvio alla soluzione dei più importanti nodi della riforma avrebbe richiesto uno sforzo che si sarebbe esteso a medio-lungo termine. (88)

Nonostante questa premessa, occorre prendere atto del distacco esistente tra la realtà penitenziaria dell'epoca ed il suo profilo disegnato dalla riforma. Diversi fattori hanno contribuito a determinare questa situazione, tra i quali occorre considerare le carenze e i ritardi organizzativi del sistema penitenziario, le difficoltà di gestione del sistema stesso derivanti dagli avvenimenti storici che hanno attraversato la vita del nostro paese (estendersi del terrorismo e della criminalità organizzata), l'accoglienza in carcere ed il trattamento di soggetti con problemi di tossicodipendenza, nonché di detenuti stranieri (per lo più extracomunitari), ed ancora il fenomeno dell'incremento quantitativo della popolazione detenuta (sovraffollamento carcerario).

A questo quadro occorre poi aggiungere l'incidenza che ha avuto l'attività legislativa e giurisprudenziale prodottasi nel settore che volta a volta ha favorito od ostacolato un razionale sviluppo del sistema normativo nella direzione della riforma.

I provvedimenti intervenuti sono stati infatti ispirati da "logiche" diverse, così da dar vita a sviluppi della legislazione e della prassi non sempre congruenti. Molte volte è apparso che il favore accordato dal legislatore ai principi della riforma sia stato influenzato dal consenso che poteva essere riscosso a livello di opinione pubblica.

Ripercorrendo l'evoluzione normativa dell'affidamento in prova, si può subito affermare che l'istituto nasce alla luce degli aggiustamenti imposti dalla politica emergenziale di quegli anni. La situazione italiana all'inizio degli anni Settanta è infatti allarmante per l'avanzare di un tipo di criminalità di natura terroristica e per un aumento dei fenomeni di criminalità comune di particolare gravità che porta ad introdurre leggi emergenziali in contrasto con la riforma penitenziaria. (89)

L'ordinamento penitenziario come abbiamo già visto, non rimane immune da questa ondata di restaurazione, che riesce ad incidere, nella fase finale dei lavori preparatori, sulla disciplina di diversi istituti, tra cui l'affidamento.

Le scelte finali del parlamento, portarono subito dopo il varo della riforma ad una situazione di ingovernabilità degli istituti portando all'istituzione del carcere di massima sicurezza destinato alla neutralizzazione dei detenuti più pericolosi.

Da quella prima configurazione, l'affidamento ha subito, per effetto di molteplici interventi normativi, cambiamenti radicali che ne hanno gradualmente stravolto la struttura e la funzione.

La prima modifica che ha inciso sulla disciplina dell'istituto è avvenuta nel 1977, con la legge 12 gennaio 1977, n.1, con la quale viene rimossa la condizione ostativa alla concessione rappresentata dalla recidiva. Successivamente la stessa disposizione viene modificata dall'art. 7 della legge 13 settembre 1982, n. 646, detta anche legge "Rognoni - La Torre", con la quale sotto la pressione dell'opinione pubblica, viene introdotta per la prima volta nell'ordinamento penitenziario una disposizione che colpisce specificamente la criminalità di stampo mafioso, inserendo fra i reati che ostano alla concessione delle misure alternative (e quindi dell'affidamento) anche l'art. 416 bis c.p. (associazione di tipo mafioso), con l'intento di rafforzare la valenza generalpreventiva della disposizione penale contestualmente inserita nel quadro dei delitti contro l'ordine pubblico. (90)

La Corte Costituzionale intervenne al riguardo, con la sentenza 7 luglio 1980, n. 107 (91), dichiarando non fondata la questione di legittimità della dispozione nella parte in cui, vietando l'ammissione alle misure alternative per i condannati di determinati delitti, rendeva impossibile il fine rieducativo. Nonostante la pronuncia della Corte, tale reato (associazione mafiosa) sarebbe stato eliminato dalla futura "legge Gozzini" secondo la quale, invece che stabilire delle preclusioni oggettive nei confronti di qualcuno, risultava sufficiente svolgere delle procedure di osservazione corrette nei confronti di tutti i soggetti che chiedevano la concessione di una misura alternativa. Successivamente la condizione ostativa (l'art. 416 bis c.p. associazione di tipo mafioso) venne reintrodotta dalla legge 203/1991.

Dall'inizio degli anni Ottanta si assiste, ad una regressione del fenomeno terroristico, cui consegue un generale allentamento della pressione emergenziale sul piano legislativo. L'area degli istituti di massima sicurezza viene gradualmente ridimensionata. Alcune riforme che intervengono nel settore processuale, tendendo a limitare il ricorso alla carcerazione preventiva mediante anche l'introduzione della nuova misura degli arresti domiciliari, producono positive conseguenze anche sul piano penitenziario, per gli effetti di sfoltimento della popolazione detenuta. A ciò contribuisce anche la legge n.297 del 1985, sia riducendo ad un mese il periodo obbligatorio di osservazione della personalità per la concessione dell'affidamento, sia adeguando la struttura di questa misura alle esigenze di soggetti tossicodipendenti e alcooldipendenti (art. 47 bis ord. Penit.) al fine di consentire il trattamento in ambiente extracarcerario, l'intera "filosofia" dell'istituto mutava per effetto di questa novità. L'affidamento a "casi particolari", da applicarsi prima dell'incarcerazione, e quindi, a prescindere dall'osservazione della personalità (questa è la peculiarità), nasce dall'esigenza di evitare, al momento di eseguire un titolo divenuto esecutivo, l'interruzione del trattamento terapeutico riabilitativo, che sia stato iniziato dal soggetto nelle more del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

La riduzione del periodo di osservazione da tre mesi ad uno è stata effettuata anche al fine di evitare che della misura fossero esclusi i condannati a pene detentive brevi o brevissime. (92)

Con questi provvedimenti il legislatore si poneva già su quella linea di "decarcerizzazione", che troverà più ampia e incisiva conferma nella riforma penitenziaria del 1986, proiettata verso scelte di deflazione carceraria.

Nel 1986 infatti la cosiddetta "legge Gozzini" (legge 10 ottobre 1986, n.663), eliminando ogni residuo reato ostativo alla concessione delle misure alternative e introducendo degli istituti nuovi (il permesso-premio e la detenzione domiciliare) sviluppa al massimo le potenzialità della riforma valorizzando il criterio della individualizzazione della pena.

La politica criminale del nostro paese in quegli anni risente delle linee di tendenza manifestate a livello internazionale. Gli esperti del settore puntano il dito sugli effetti addirittura destrutturanti dell'istituzione totale. Si asserisce la dannosità del carcere sostenendo, che il trattamento intramurario debba non tanto consistere in interventi rieducativi, quanto piuttosto in offerte di mezzi atti a limitare i danni derivanti dalla carcerazione e, quando non si arriva a chiedere l'abolizione del carcere, se ne giustifica l'esistenza solo come extrema ratio nei confronti di soggetti per i quali si sia dimostrata inadeguata qualsiasi altra forma di controllo sociale. (93)

Quindi dissoltasi l'idea che attraverso il carcere si possa rieducare, la tendenza a proiettare all'esterno dell'istituzione le istanze della rieducazione, ogni volta in cui questo sia possibile, si manifesta in maniera dirompente.

Questa nuova concezione dell'esecuzione penale, porta nella disciplina dell'affidamento in prova ad un'intera riformulazione del testo dell'art. 47 ord. Pen. tramite l'art. 11 della legge Gozzini.

Innanzitutto superate le precedenti distinzioni, era fissato in tre anni (dai precedenti due anni e sei mesi) il limite unico e massimo di pena per la concedibilità della misura a tutti i condannati. A ciò si aggiunse l'eliminazione del comma 2, come modificato dalle leggi 12 gennaio 1977, n.1, e 13 settembre 1982, n. 646, che prevedeva le cause di esclusione per l'ammissione alla misura. Non si considerava più preclusiva alla concessione dell'affidamento la circostanza che alla pena dovesse seguire una misura di sicurezza detentiva. L'art. 31 della legge infatti risolveva l'incompatibilità tra i due provvedimenti affermando che il giudizio di pericolosità sociale per l'esecuzione delle misura di sicurezza personale si doveva ritenere assorbito da quello di previsione sulla possibilità di controllo del pericolo di recidiva, a mezzo della misura dell'affidamento e delle relative prescrizioni. (94)

La mancata riproposizione di preclusioni oggettive, allentando le esigenze della prevenzione generale a favore di istanze special-preventive anche nei confronti di autori di reati non propriamente lievi, amplia la gamma dei destinatari dell'istituto.

Inoltre l'obiettiva impossibilità di garantire a tutti i condannati l'osservazione ed il successivo trattamento rieducativo in ambiente carcerario, induceva il legislatore sempre in ossequio ad una politica di decarcerizzazione, ad introdurre con i commi 3 e 4 dell'art. 47 ord. Penit., una diversa ipotesi di accesso all'affidamento in prova al servizio sociale, modulata su quella prevista per l'art. 47-bis ord.penit., che prescindeva dall'osservazione in istituto.

Il condannato, che, dopo un periodo di custodia cautelare, avesse goduto di un periodo di libertà, serbando un comportamento tale da consentire di formulare un giudizio di affidabilità, poteva essere ammesso alla misura senza necessità di osservazione. L'istanza doveva essere presentata al magistrato del pubblico ministero, competente per l'esecuzione, che sospendeva l'emissione o l'esecuzione dell'ordine di carcerazione e rimetteva gli atti al tribunale di sorveglianza del luogo, il quale decideva nel termine di quarantacinque giorni.

La deroga esonerava dalla necessità di una previa incarcerazione di colui che avesse espiato, una sia pur simbolica custodia cautelare, con riferimento al reato di cui alla condanna, ed avesse tenuto, nel corso della successiva vita in libertà, un comportamento tale da permettere un giudizio prognostico favorevole in termini rieducativi. Benché coerente con la struttura tipica dell'affidamento in prova, la soluzione adottata si era rilevata fonte di una discriminazione paradossale perché impediva l'accesso dalla libertà proprio ai soggetti di minore pericolosità, tali essendo quelli non sottoposti a limitazioni della libertà personale per ragioni processuali.

La Corte costituzionale, chiamata a controllare, la compatibilità con i principi affermati nella Carta fondamentale della nuova previsione, riteneva assolutamente priva di significato, con particolare riferimento alla finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 3 Cost.), la necessità del ricorso di un pur breve periodo di custodia cautelare, quindi ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 47 o.p. laddove presupponeva, per la formulazione dell'istanza dallo stato di libertà, l'esistenza di una pregressa custodia cautelare. (95)

Con l'intervento della Corte, quindi venne generalizzato un doppio sistema d'accesso all'affidamento: quello generale, secondo cui l'affidamento in prova si raffigurava come premio alla disponibilità alla rieducazione dimostrata nel corso dell'osservazione e dell'eventuale, successivo trattamento penitenziario; quello speciale o "anticipato" che invece consentiva l'ammissione alla misura prima che avesse inizio l'esecuzione, quando dalla condotta in libertà, tenuta successivamente alla commissione del reato, si fosse desunta la volontà del condannato di reinserirsi nella vita sociale.

In questa nuova ottica, il soggetto è ancora al centro della vicenda espiativa ma, all'osservazione scientifica della personalità, si sostituisce quello che ha come referente il parametro dei comportamenti. Su questi la pena viene a modularsi, è la condotta, tenuta in libertà o in detenzione, a seconda delle circostanze che assume rilevanza. Questa nuova politica penitenziaria nascondeva però molte insidie, primi fra tutti i rischi di una strumentalizzazione della disciplina per il raggiungimento di scopi contrari a quelli propugnati. (96)

Il vantaggio rappresentato dalla riacquisizione della libertà in tempi brevi era talmente rilevante per il condannato, da rendere ipotizzabile una sua adesione al trattamento di tipo meramente opportunistico; dall'altro canto, si poteva prevedere una gestione penitenziaria, tesa alla realizzazione di risultati apprezzabili dal punto di vista disciplinare piuttosto che da quello risocializzativo. Solo un forte incremento di risorse e di strutture avrebbe potuto evitare strumentalizzazione di tal genere. Ma questo non avvenne, queste carenze hanno, così reso difficile la spontanea adesione del condannato ai modelli proposti, le opportunità trattamentali quindi acquisirono la funzione di sfoltimento e di controllo della popolazione carceraria. L'affidamento in prova assieme alle altre misure alternative assunsero la natura di strumenti di gestione del penitenziario. (97)

La regolamentazione all'accesso dell'istituto, fu infatti dalla dottrina (98) tacciata di irragionevolezza. I motivi della discussione infatti riguardavano la possibilità di bloccare l'inizio dell'esecuzione e quindi di evitare l'ingresso in carcere. Questa scelta dipendeva sostanzialmente dalla tempestività dimostrata dal condannato nel contrastare l'iniziativa del p.m., possibilità a sua volta legata alla conoscenza dell'emissione dell'ordine di carcerazione.

Da un punto di vista sociologico (99) il fatto che la procedura per accedere all'affidamento dalla libertà fosse in gran parte delineata dalla giurisprudenza e avesse scadenze perentorie e molto ravvicinate favoriva quei soggetti che avevano una buona dimestichezza con i Tribunali, frutto o dei consigli di un avvocato esperto o, in molti casi, di una lunga carriera giudiziaria.

Negli anni successivi alla novella del 1986, sia gli interventi del legislatore che quelli della giurisprudenza, soprattutto costituzionale, sono inquadrabili nella scia di quella riforma. Un intervento di ampia incisività su tutta la disciplina viene realizzato dalla Corte costituzionale con una serie di pronunce, in gran parte orientate ad interpretare in via estensiva, i criteri posti a base dell'applicazione dell'affidamento. (100)

La pronuncia della Corte costituzionale che ha prodotto gli effetti più "pesanti" sull'applicazione dell'istituto dell'affidamento è del 11 luglio 1989 (101). Prendendo lo spunto da un caso di cumulo di pene, la Corte infatti afferma il principio innovatore secondo il quale nel conteggio della pena, ai fini dell'applicabilità di una misura (nella fattispecie si trattava di un affidamento in prova) non ci si deve ricondurre alla nozione di "pena inflitta", ma a quella sostanziale di "pena in concreto espianda", di fatto aprendo l'applicazione a una serie di casi in cui la pena iniziale (e in parte già scontata) è di ben più lunga durata rispetto a quella originariamente indicata come massima dal legislatore. L'istituto dell'affidamento, a seguito della sentenza costituzionale, vide allargarsi notevolmente il suo campo di applicazione, perdendo però alcune delle sue connotazioni originarie. Il perimetro di operatività dell'istituto infatti venne allargato a favore di una fascia di destinatari diversa, sotto il profilo criminologico, da quella individuabile tramite la parificazione sostanziale tra pena inflitta e penna irrogata in sentenza. L'affidamento quindi viene a porsi quale beneficio fruibile nel momento finale dell'esecuzione, con sua conseguente applicabilità anche a soggetti condannati per gravi reati.

L'indirizzo dettato dalla Corte costituzionale verrà recepito dal legislatore nella legge 7 agosto 1992, n. 356 ove verrà fornita una "interpretazione autentica" della disposizione del primo comma dell'art. 47 della l. 26 luglio 1975, n. 354.

Nonostante la validità dei principi affermati nella riforma e riconfermati dalla Corte, gli unici risultati positivi di questa politica penitenziaria sono alla resa dei conti secondo la dottrina, il blocco dell'incremento della popolazione e la pianificazione della vita all'interno del carcere. (102) Nel lasso di tempo che va dalla promulgazione della legge "Gozzini" ai primi anni novanta il problema del sovraffollamento fu infatti risolto. Ma una nuova ondata di criminalità, tanto di piccolo calibro che di tipo mafioso e camorristico fece tornare di attualità la questione penitenziaria.

L'allarme sociale creato da questi eventi, condusse l'opinione pubblica a reclamare al momento esecutivo della pena un maggior carico di afflittività. Il legislatore non tardò ad intervenire cercando di risolvere il problema della criminalità attraverso l'isolamento e l'emarginazione della parte deviante della società.

Gli anni che seguirono infatti furono caratterizzati da importanti norme restrittive. L'obiettivo è costituito dai soggetti coinvolti in reati di tipo mafioso ed altre gravi forme di pericolosità sociale, quello che colpisce in questa fase è il cambio di orientamento seguito dal legislatore, e cioè il passaggio da una prospettiva di individualizzazione a una prospettiva di tendenziale automatismo, ove non vale più tanto la considerazione della condizione umana del detenuto, quanto piuttosto quella del reato commesso. Si tratta, di un ritorno, al principio del "reato ostativo" che come si è visto, la riforma del 1986 aveva completamento superato.

Sulla disciplina dell'affidamento in prova, incidono in maniera restrittiva, le disposizioni del d.l. 13.5.1991, n.152 (convertito nella l. 12.7.1991, n.203) e del d.l 8.6.1992, n.306 (convertito nella l. 7.8.1992, n.356) che hanno determinato una sorta di doppio binario con riferimento a determinate ipotesi delittuose. (103)

Tale normativa, finalizzata a fronteggiare il preoccupante espandersi della criminalità organizzata, ha stabilito rigorose preclusioni per gli autori dei reati di cui al nuovo art. 4 bis ord. Penit. L'art. 4 bis stabiliva che nei confronti dei soggetti condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. nonché per i delitti di cui agli art. 416 bis c.p., 630 c.p. e art. 74 t.u.stup. le misure alternative possono trovare applicazione solo nel caso di collaborazione con la giustizia ai sensi dell'art. 58 ter.ord. penit. La norma stabilisce poi che, in relazione ai delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ord.cost. o degli altri delitti elencati, fra cui gli art. 575 c.p., 628 c. 3 c.p., 629 c. 2 c.p., 291ter del T.U. delle leggi doganali, 73 D.P.R. 309/90 aggravato ai sensi comma 2º art. 80, nonché il delitto di cui all'art. 416 c.p., e dagli artt. 609-bis, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale, i benefici possono essere concessi solo se non sussistono elementi tali da far ritenere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.

L'applicabilità dell'affidamento in prova agli autori di questi reati è stato subordinato al concreto accertamento dell'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. (104) Contestualmente però si è previsto che la misura potesse essere concessa agli autori dei reati di cui all'art. 4 bis che avessero "collaborato" con la giustizia, così conferendosi all'istituto un'anomala connotazione premiale. Sono collaboratori di giustizia coloro che -secondo quanto previsto dall'art. 58 ter.ord. penit., richiamato dall'art. 4 bis- anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati. L'art. 4 bis prevede che i benefici possano essere concessi anche a persone la cui collaborazione sia oggettivamente irrilevante, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, quando sia stata applicata l'attenuante del risarcimento del danno (art. 62 n.6 c.p.), oppure quando l'interessato abbia concorso nel reato ai sensi degli artt. 114 o 116 c.p.

La legge del 7 agosto 1992 n. 356 (in tema di criminalità mafiosa) oltre che introdurre limiti restrittivi all'applicazione dell'affidamento ha fornito come già detto in precedenza, con l'art. 14-bis un'interpretazione autentica dell'art. 47 c.1 nell'espresso "pena detentiva inflitta non superiore a tre anni". L'art. 14 bis ha stabilito infatti che "deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell'applicazione di eventuali cause estintive". Ciò significa che i tre anni di pena detentiva che costituiscono il limite per l'applicabilità della misura possono essere il residuo di una pena ben più grave, al netto da ogni possibile detrazione di pena. La giurisprudenza, interpretando a sua volta la norma di interpretazione autentica, ha ritenuto che, ai fini della determinazione del quantum di pena utile per la concessione della misura, debbano essere considerate rilevanti tutte le cause estintive intervenute dalla data della condanna a quella della decisione sulla relativa istanza, non esclusa l'espiazione anche parziale, della pena a qualunque titolo sofferta.

Questa lettura della norma, che configura l'affidamento in prova come beneficio concedibile nella fase finale dell'esecuzione di pene anche di lunga durata, ha dato il via ad una strategia di contenimento della popolazione carceraria di dubbia razionalità, poiché, essendo giocata sui residui di pena, prescinde completamente dalla gravità oggettiva della condanna. (105)

Un'ulteriore e significativa dilatazione dell'ambito di operatività dell'istituto è stata poi apportata dalla l. 27.5.1998, n.165 (cosiddetta legge Simeone), che si propone come principale obiettivo lo sfoltimento della popolazione carceraria attraverso una più ampia fruibilità delle misure alternative (106). In adeguamento al principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 22 dicembre 1989 n.569, la legge ha eliminato la necessità di un previo periodo di carcerazione per l'ammissione alla misura. E' stato abrogato l'art. 47 comma 3 ord. Penit., che disciplinava la sospensione dell'esecuzione non ancora iniziata, su istanza del condannato libero, perché previsione resa superflua dall'art. 656 comma 6 c.p.p.; è stato sostituito l'art. 47 comma 4 ord. Penit., che prevedeva la relativa procedura, con una nuova norma che attribuisce al magistrato di sorveglianza il potere di sospendere l'esecuzione della pena, quando l'istanza di affidamento in prova al servizio sociale viene proposta quando l'espiazione ha già avuto inizio.

Altro intervento normativo in relazione alla disciplina dell'affidamento in prova è la l. 12 luglio 1999, n. 231 che prevede la possibilità di disporre la misura - in alternativa alla detenzione domiciliare o al rinvio dell'esecuzione - al condannato affetto da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria e che abbia in corso, o intenda intraprendere, un programma terapeutico, (art. 47 quater ord. Penit.) e ciò "anche oltre i limiti di pena previsti nell'art. 47 ord. Penit.".

L'articolo 3 della l. 27 maggio 1998, n. 165, inoltre ha provveduto ad abrogare l'art. 47 bis concernente l'affidamento in prova in casi particolari. La disciplina dell'affidamento in prova di condannati tossicodipendenti o alcooldipendenti è divenuta quindi di competenza del T.U. delle leggi sugli stupefacenti agli artt. 94 e 116, comma 6, lett. a) del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

Recentemente, sono stati emanati altri provvedimenti che concernono l'affidamento in prova. Innanzitutto, il 19 dicembre 2002 con l'intervento dal titolo "Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di liberazione anticipata", il legislatore ha inteso ampliare la concessione del beneficio della liberazione anticipata (art. 54 o.p.) anche all'affidato in prova, tramite l'aggiunta di un nuovo comma all'art. 47, ossia il 12-bis.

La detrazione di pena può essere concessa a patto che l'affidato abbia dato prova di un suo concreto recupero sociale, "desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità".

Di tutt'altro segno è invece l'altro intervento normativo avvenuto il 5 dicembre 2005 con legge 251 (107). Il legislatore qui reintroduce diciamo il principio di condizione ostativa, già caro alle vecchie leggi. L'art. 9 del testo aggiunge infatti alle condizioni ostative previste dall'art. 656 del c.p.p. la recidiva prevista dal nuovo art. 99 quarto comma del codice penale. Si assiste quindi ad un enorme passo indietro, in quanto la recidiva specifica era già stata abrogata con la legge Gozzini del'86, in futuro è prevedibile quindi un aumento della popolazione carceraria.

Infine è intervenuta la legge 21 febbraio 2006, n. 49 (108), con la quale il legislatore (109) ha modificato il testo unico in materia di stupefacenti. Uno degli obiettivi principali della legge va rintracciato nell'assicurare al soggetto tossicodipendente un percorso di recupero mediante l'affievolimento delle misure detentive in favore di misure alternative, ritenute più efficaci nella lotta di contrasto al fenomeno. In questo quadro è stato profondamente modificato l'articolo 94 del testo unico avente ad oggetto l'affidamento in prova in casi particolari.

Tra le novità più rilevanti rispetto alla disciplina vigente si segnala che ai fini della concessione della misura, il limite massimo di pena detentiva inflitta (anche residua, e congiunta a pena pecuniaria) passa da 4 a 6 anni ampliandone, quindi, l'ambito di concessione. Il limite dei 4 anni rimane solo in relazione a condanne per reati di cui all'art. 4-bis ord. Penit.

Inoltre la certificazione sanitaria da allegare alla domanda potrà essere ora rilasciata non solo dalle aziende sanitarie locali ed altre strutture pubbliche, ma anche da strutture private accreditate. La concessione della misura è specificamente condizionata dalla convinzione del tribunale di Sorveglianza dell'efficacia del programma terapeutico in relazione al recupero del condannato ed alla prevenzione della recidiva. Si prevede poi un allargamento della possibilità di trasformare l'affidamento ex articolo 94 in affidamento «ordinario» al servizio sociale (articolo 47 della legge n. 354 del 1975), quando sia positivamente concluso il programma terapeutico.

La legge 21 febbraio 2006, n. 49 ha infine provveduto a modificare (110) l'istituto dell'affidamento in prova "ordinario" nel suo 12º comma. La disposizione suddetta dell'articolo 47 della legge 354/1975 sull'ordinamento penitenziario, prevedeva infatti, che l'esito positivo del periodo di prova estinguesse la pena ed ogni altro effetto penale. La modifica introdotta specifica che l'esito positivo della prova estingue invece la sola pena detentiva ma non anche quella pecuniaria; quest'ultima - se non riscossa - si estingue comunque, su pronuncia del tribunale di Sorveglianza, quando l'«affidato» si trovi in condizione economiche disagiate. Rimane a questo punto da capire se l'innovazione concerne solamente gli affidati tossicodipendenti o concerne tutti gli affidati genericamente; da una lettura dei lavori parlamentari non pare emergere una differenziazione di disciplina ma bensì la volontà di estenderla a tutti gli affidati.

L'ambito di applicazione dell'affidamento in prova al servizio sociale si presenta oggi al termine di questa lunga evoluzione legislativa ben più ampio rispetto al passato, anche se recenti interventi normativi fanno pensare ad un ritorno alle "origini".

1.5. Dibattito sulla natura istituto affidamento in prova

Sull'individuazione della natura giuridica dell'affidamento in prova al servizio sociale vi è contrasto tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Due orientamenti si confrontano: da un lato v'è chi propende per la natura di vera e propria pena dell'affidamento, sia pure alternativa a quella detentiva (Di Gennaro, Bonomo, Breda, 1984, 225; Paliero, 1978, 1487; Cass. 18-11-1992, Angioni, CP, 1994, 1224; Cass. 20-04-1994, Baracchetti, CP, 1995, 1972) dall'altro, vi è chi considera il beneficio quale misura sospensiva della pena, attribuendo quindi una natura di alternativa integrale della stessa (Mantovani, 1977, 77ss., Pagliaro, 1979, 1198; Cass., 30-05-1978, Novelli, CP, 1979, 986).

Quindi da un lato, si colloca l'orientamento che considera l'affidamento in prova al servizio sociale come "una pena essa stessa, alternativa alla detenzione, o, se si vuole, una modalità di esecuzione della pena" (111); dall'altro, muovendo dall'effetto estintivo della pena e degli altri effetti penali che si ricollega all'esito positivo della prova si sostiene che l'affidamento si configura come una causa di sospensione della pena (112).

Tra le due tesi, l'elaborazione dottrinale più recente pare aver decisamente imboccato la prima via, ossia di una pena, alternativa alla detenzione. La natura di vera e propria pena è, del resto, univocamente riconosciuta dalla consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale. Quest'ultima infatti in una nota sentenza del 29.10.1987, n. 343 (113) ha ribadito quanto aveva già affermato nelle precedenti decisioni n. 185 e 312 del 1985 circa il carattere sanzionatorio delle prescrizioni inerenti all'affidamento in prova. La Corte le definisce "norme di condotta che investono l'intera attività del reo e comportano significative limitazioni all'esercizio di una serie di diritti costituzionalmente garantiti: sicchè, qualunque sia la nozione di pena che si ritenga accogliere, non è dubbio che esse rientrino a pieno titolo tra quelle restrizioni della libertà personale la cui imposizione l'art. 13 Cost. circonda di particolari cautele".

Il tema di spunto che fece prendere questa decisione alla Corte, riguardava la revoca dell'affidamento in prova ed il ripristino dell'esecuzione della pena in regime carcerario. In dottrina infatti da un lato si afferma la natura di diritto sostanziale dell'affidamento (mediante il quale lo Stato sospende un'esecuzione già iniziata) e quindi il suo esito negativo comporta la revoca che opera retroattivamente dando luogo al ripristino originario del rapporto punitivo. Al lato opposto si colloca invece chi, argomentando dalle sensibili restrizioni alla libertà personale che la misura comporta la concepisce come istituto di diritto penitenziario avente sostanza di pena, quindi come una modalità esecutiva della pena medesima, che perciò, anche in caso di revoca, va scomputata dalla pena da espiare.

A questa seconda impostazione sono state inizialmente favorevoli, alcune pronuncie della Corte di Cassazione, secondo le quali in caso di revoca si sarebbe dovuto scomputare l'intero periodo trascorso in affidamento prima del provvedimento di revoca. In prosieguo di tempo, però, è prevalsa, consolidandosi, l'opinione favorevole alla prima tesi: ed è appunto su tale presupposto interpretativo che si fondavano le censure mosse dal giudice "a quo" alla disposizione impugnata. Al riguardo, la Corte costituzionale prese la decisione (già enunciata in precedenza) di confermare il carattere sanzionatorio dell'affidamento e quindi la sua natura di pena, alternativa alla detenzione.

A seguito della sentenza n. 343, il Tribunale di Sorveglianza con l'ordinanza che dispone la revoca dell'affidamento deve stabilire il quantum di pena residua da espiare tenuto conto delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento.

La possibilità di computare nella determinazione della pena da scontare in carcere per effetto della revoca una parte più o meno consistente del periodo trascorso in affidamento induce quindi a ritenere che anche la misura costituisca una vera e propria sanzione penale, infatti se si esclude che il periodo positivamente trascorso in affidamento possa essere scomputato l'affidamento stesso si trasformerebbe da misura alternativa a misura aggiuntiva alla detenzione, senza che questo supplemento di pena trovi fondamento e sia legittimato da una sentenza di condanna. (114)

Siffatta impostazione (affidamento che costituisce una sanzione penale) appare preferibile anche per altre ragioni: innanzitutto il concetto di pena non si identifica nella sola pena detentiva, ma comprende tutte le misure limitative della libertà personale (115). Il sistema delle prescrizioni che vengono imposte dal Tribunale di Sorveglianza, che costituiscono il contenuto della misura e che possono incidere in modo rilevante sulla libertà personale del condannato, comporta che lo svolgimento della prova sia connotato da un grado talvolta anche accentuato di afflittività, elemento che, come è noto costituisce uno degli aspetti distintivi e caratterizzanti della pena. (116)

In quest'ottica la Cassazione Sez. I nella sentenza 18.11.1992 ha affermato che l'affidamento "comportando per il condannato l'osservanza di prescrizioni restrittive della sua libertà e la soggezione ai costanti controlli del servizio sociale, nonché alla vigilanza del magistrato di sorveglianza cui il servizio sociale è tenuto a fornire periodicamente dettagliate notizie, costituisce non una misura alternativa alla pena, ma una pena essa stessa alternativa alla detenzione, nel senso che viene sostituito al trattamento in istituto quello fuori dall'istituto, perché ritenuto più idoneo alle finalità di emenda della pena". (117)

Un'altra ragione che fa apparire questa tesi preferibile è quella secondo cui la durata dell'affidamento coincide con quella della pena che il condannato deve espiare in forza della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dal giudice di cognizione. L'ordinanza applicativa della misura non comporta la sospensione dell'esecuzione della pena, quest'ultima prosegue extramoenia, se la misura è concessa ad un condannato detenuto, ovvero inizia a decorrere ab origine - precisamente dal giorno della sottoscrizione del verbale di accettazione delle prescrizioni - se il beneficio è concesso ad un condannato che si trova in libertà.

Infine la recente legge 19 dicembre 2002, n. 277 (già citata nel paragrafo precedente), che ha inserito nel corpo della legge 20 luglio 1975, n. 354 l'art. 12-bis, ha esteso anche all'affidamento in prova al servizio sociale l'istituto della liberazione anticipata, circostanza che conferma che l'affidamento costituisce "una forma o modalità di espiazione", ancorché attenuata, della pena inflitta con la sentenza di condanna.

Note

1. Legge 26 luglio 1975, n.354, Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà in G.U. 9 agosto 1975, n. 212, suppl. ord.

2. Art. 47 o.p.

3. F. Bricola, L'affidamento in prova al servizio sociale: "Fiore all'occhiello" della riforma penitenziaria, in Questione Criminale, 1976, p. 373.

4. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, 2002, p. 238.

5. G. Catelani, Manuale dell'esecuzione penale, Milano, 2002, p. 330.

6. Corte cost., 29.10.1987, n.343, RP, 1988, 19; CP, 1988, 26, con nota di A. Presutti, ove si afferma che l'introduzione, nel nostro come in altri ordinamenti, europei ed extraeuropei, di misure - alternative alla detenzione - genericamente definibili di "prova controllata" (o probation) trae origine, dalle congiunte crisi della pena detentiva e delle misure clemenziali, rivelatesi inadeguate, la prima a svolgere il ruolo d unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale, le seconde a promuovere reali manifestazioni d emenda.

7. "Regole minime per il trattamento dei detenuti", ONU 1955; Risoluzione (73)5 del 1973 Consiglio d'Europa; Raccomandazione R (87)3 del 12 Febbraio 1987 Consiglio d'Europa; Raccomandazione R (92)16 Comitato dei Ministri, 19 ottobre 1992.

8. Relazione della Commissione ordinaria di studio per la riforma penitenziaria: La riforma carceraria in Italia e il progetto di regolamento per gli istituti di prevenzione e pena, 1949, p. 111, tratto dal sito CNPDS. In questo studio vengono prospettati principi ancora validi nelle più recenti elaborazioni legislative (1975). Abbandonato il criterio della afflittività della pena, viene esaltato quello della sua funzione rieducativa e preventiva.

9. L. Ferrajoli, Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, in Quaderni di questione giustizia (a cura di G. Borrè e G. Palombarini), Milano, F. Angeli, 1998, p. 39 ove si auspica "un ritorno del diritto penale alla sua natura di extrema ratio, ossia di strumento costoso utilizzabile nei soli casi di assoluta necessità, e quindi il suo ruolo esclusivo di garanzia di beni fondamentali".

10. A. Scull, Decarceration, Englewood Cliffs, N. J. 1977; nella sua opera il sociologo americano utilizza per la prima volta scientificamente il termine "decarcerizzazione", intendendo con essa il fenomeno, empiricamente osservabile, di una flessione consistente della risposta di tipo custodiale nelle prassi di disciplina sociale delle condotte devianti.

11. F. Mantovani, Il problema della criminalità, Cedam 1984, p.427. "La prevenzione speciale consiste nel complesso di misure neutralizzatrici, terapeutiche e rieducativo-risocializzatrici, volte ad impedire che il singolo individuo cada o ricada nel delitto".

12. G. Di Gennaro, R. Breda e R. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997, p.1.

13. Art. 27, c.3 Cost. "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

14. A. Morrone, Il trattamento penitenziario e le alternative alla detenzione, Cedam 2003, p. 13.

15. F. Mantovani, La criminalità: il vero limite all'effettività dei diritti e libertà nello Stato di diritto, in Riv. Trim. dir. proc. pen., 2003, p. 707 e ss. F. Palazzo, Introduzione ai principi del diritto penale, Torino 1999, p. 90, secondo cui niente impedisce di accogliere una "ampia accezione di rieducazione, intesa cioè quale acquisita consapevolezza da parte del reo dei valori disattesi col comportamento trasgressivo, con la conseguente capacità di assumere le norme penali a guida della propria condotta".

16. F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1992 p. 749 che sottolinea come "l'idea retributiva resta l'idea forza, l'idea centrale del diritto penale della libertà".

17. Corte Costituzionale, Sentenza 313/1990, Foro it., 1990, I, c. 2385, con nota di G. Fiandaca e di G. Lozzi.

18. Cass. Sez. II, 18 febbraio 1991, in Cass. Pen., 1992, p. 1604.

19. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997, p. 224.

20. T. Padovani, L'utopia punitiva, Giuffrè, Milano, 1981, p. 52. Sulle origini della probation.

21. S. M. Bunzel, The probation Officer and The Federal Sentencing Guidelines... in The yale law journal 1995, vol.104, p. 936.

22. B. Allen, F. Carlson, A. Parks, The development of Probation in Probation, Parole and Community Corrections (a cura di R. Carter, L. Glaser, D. Wilkins) John Wiley & Sons Inc., 1984, p. 3.

23. F. Clear, Three dilemmas in community supervision, 1984, p. 213.

24. T. Padovani, L'utopia punitiva, Giuffrè, Milano, 1981, p. 174.

25. T. Padovani, op. cit. p. 44; E. Dolcini, C. Paliero, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell'esperienza europea, Milano, A. Giuffrè, 1989, p. 6.

26. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale, Retribuzione Riabilitazione e Riparazione in Collana crimine e devianza, Milano, F. Angeli, 1997, p. 80.

27. S. Ciappi, A. Coluccia, op. cit. p. 79.

28. J. Augustus, A report of the Labors of John Augustus for the last ten years in aid of the unfortunate, 1852, in H. Abadinsky, Probation and Parole, p. 27.

29. H. Abadinsky, Probation and Parole: Theory and Practice, Upper Saddle River, N.J., Prentice Hall, 1994, p. 27.

30. Corpus Iuris Secundum, A legal Enciclopedia, Criminal Law: Probation and Suspension of Sentence, vol. 24, p. 1549.

31. H. Abadinsky, op. cit. p. 41.

32. E. Dolcini, C. Paliero, op. cit., p. 1.

33. E. Dolcini, C. Paliero, op. cit., p .2.

34. F. Mantovani, Il problema della criminalità, Cedam, 1984, p. 3. "Le diverse ideologie sulla criminalità hanno trovato una prima loro razionalizzazione in quei contrapposti indirizzi della criminalistica, che, a partire dalla metà del secolo scorso, affrontarono tali problemi e che vanno sotto i nomi di Scuola Classica e di Scuola Positiva, nonché dell'indirizzo mediatore della Terza scuola. La Scuola classica maturata nell'ambiente illuminista, muove dal postulato dell'uomo libero nella scelta delle proprie azioni, essa pone a fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto quale rimproverabilità del male commesso e quindi la concezione etico-retributiva della pena".

35. A. A. Calvi, La teoria dello scopo nel diritto penale, Milano, Giuffrè, 1962, p. 52. Manifesto di questo indirizzo è il Programma di Marburgo (Von Liszt, La teoria dello scopo).

36. E. Dolcini, C. Paliero, op. cit. p. 8.

37. T. Padovani, L'utopia punitiva, Il problema delle alternative alla detenzione nella sua dimensione storica, Giuffrè, Milano, 1981, p. 90.

38. Sull'importanza di tale testo normativo soprattutto al fine di consentire la nomina di un maggior numero di Police Court Missionaries (utilizzati da organizzazioni private come ausiliari nella supervisione: cfr. T. Sellin, voce "Probation and Parole", in Enc. Soc. Sciences, XII, 1934, p. 436), senza che la sua introduzione impedisse peraltro la continuazione della prassi sospensiva presso le corti superiori (in cui essa si attuava nella forma della recognizance), v. Timasheff, One Hundred Years of Probation, I, 1941, p. 25.

39. Charles e van Drooghenbroeck, Suspension, Sursis et Probation, Extrait du Répertoire pratique du droit belge, Compléments, tome IV, 1974, p. 35 s.

40. Spesso limitata ai soli reati più gravi: v., ad esempio, l'art. 9 della l. belga 31 maggio 1888, che subordinava l'effetto estintivo alla sola condizione che il beneficiario della sospensione non riportasse, nel termine stabilito, una nuova condanna per crimine o delitto (cfr. Charles van Drooghenbroech, op. cit., p.36); l'art. 3 della l. italiana 26 giugno 1904, n. 267, che limitava la rilevanza della recidiva ai soli delitti (cfr. Pola, Commento, cit., p.136 s.).

41. Cfr., per tutti, D. Tallack, Penological and Preventive Principles, p. 409. Nel provvedimento del 1879 l'obbligo di serbare buona condotta era alternativo rispetto a quello di prestare idonea cauzione di presentarsi in giudizio per la pronuncia della condanna. L'obbligo della cauzione finiva tuttavia con l'esplicare la stessa funzione dell'obbligo "to keep the peace and be of good behaviour", e cioè quella di assicurare da parte del reo non soltanto il rispetto della legge, ma, più in generale, un contegno socialmente positivo.

42. T. Padovani, op. cit. p. 92.

43. La legge Lejeune poteva, ad esempio, applicarsi soltanto alle condanne inferiori a sei mesi (cfr. Charles e van Drooghenbroeck, op. cit., p. 35), ed in limiti più o meno altrettanto angusti si mantennero in origine tutti gli ordinamenti (per l'Italia, anch'essa ancorata al livello dei sei mesi, v. Pola, op. cit., p. 57).

44. Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata a Parigi il 10 dicembre 1948.

45. A partire dal primo convegno di Ginevra, nel 1955, vengono organizzati con frequenza quindicinale, a cura dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, congressi internazionali su vari temi riguardanti la criminalità minorile e adulta, la prevenzione della criminalità, le metodologie scientifiche impiegate nel trattamento e le finalità cui esso si aspira, la necessità di adeguamento dei sistemi giuridici ecc.

46. L'Unione Europea (UE) è un'organizzazione di tipo sovranazionale e intergovernativo, che dal 1 maggio 2004 raggruppa 25 paesi europei. Nasce dal Trattato di Maastricht (dal nome della città olandese in cui fu stipulato il 1 novembre 1993), al quale gli stati aderenti sono giunti dopo il lungo cammino delle precedenti Comunità Europee fino ad allora esistenti.

47. Articolo 2: Diritto alla vita; Articolo 3: Divieto di tortura; Articolo 4: Divieto di schiavitù e lavori forzati; Articolo 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza; Articolo 6: Diritto ad un processo equo; Articolo 7: Nessuna pena senza legge.

48. ONU, Organizzazione della Nazioni Unite è la più estesa organizzazione internazionale, ricomprendendo la quasi totalità degli Stati del pianeta. Ad oggi gli stati membri sono 191.

49. Fonte Consiglio d'Europa. Il Comitato dei ministri è l'organo decisionale del Consiglio d'Europa, è composto dai ministri degli esteri di tutti gli stati membri o dai loro rappresentanti diplomatici permanenti a Strasburgo.

50. Nazioni Unite, Probation and related measures, 1951.

51. Fonte Confèrence permanente europèenne de la probation (CEP). E' un'associazione privata, alla quale partecipano organismi pubblici, tra cui lo Stato italiano, e privati, con la finalità di promuovere la cooperazione internazionale, lo scambio di esperienze, di documentazione, di giurisprudenza nonché l'esame della operatività dei servizi sociali preposti, relativamente al probation e all'assistenza post-penitenziaria.

52. Preambolo della raccomandazione nº R (92) 16 del Comitato dei Ministri: Tale applicazione deve mirare alla conservazione di un equilibrio necessario ed auspicabile tra, da una parte, le esigenze di difesa della società, nel suo duplice aspetto di protezione dell'ordine pubblico e di applicazione di norme che tendano a riparare il danno causato alla vittima, e dall'altra, il tenere in debito conto le necessità del reo di reinserimento sociale.

53. Regola 23: La natura, il contenuto ed i metodi di esecuzione delle sanzioni e misure alternative alla detenzione non devono mettere a rischio la vita privata o la dignità del reo o della sua famiglia, né provocare uno stato di stress. Allo stesso modo non devono intaccare il rispetto di sé, i legami familiari e con la comunità e la possibilità degli autori di reato di essere parte integrante della società. Dovranno essere adottate delle misure di tutela per la loro protezione da ogni attacco, curiosità o pubblicità inopportuni.
Regola 30: L'applicazione e l'esecuzione delle sanzioni e delle misure alternative alla detenzione devono perseguire lo scopo di sviluppare in chi ha commesso un reato il senso delle proprie responsabilità nei confronti della società e, in particolare, nei confronti della o delle vittime.
Regola 44: Si devono diffondere informazioni appropriate sulla natura ed il contenuto delle sanzioni e misure alternative alla detenzione, nonché sulle modalità della loro esecuzione, affinché l'opinione pubblica, in particolare i privati, e le organizzazioni e i servizi pubblici e privati che si occupano dell'esecuzione di tali sanzioni e misure, possano comprenderne i fondamenti e considerarle come delle risposte adeguate e credibili ai comportamenti delinquenziali.
Regola 55: L'esecuzione delle sanzioni e delle misure alternative alla detenzione dovrà essere concepita in modo tale che esse abbiano il massimo significato per il reo e contribuiscano allo sviluppo personale e sociale dello stesso, allo scopo di permettere il suo reinserimento sociale. I metodi di presa in carico e di controllo dovranno perseguire tali obiettivi.

54. Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa - Racc. n. R(99)22 del 15.09.1999, "Raccomandazione relativa alla mediazione in materia penale"; Economic and social council delle Nazioni Unite n. 2000/14 del 27.07.2000, "Risoluzione sui principi base sull'uso dei programmi di giustizia riparativa in materia criminale".

55. M. P. Giuffrida, - Presidente della Commissione "Mediazione penale e giustizia riparativa" - Verso la giustizia riparativa, Dedalo, 2004, p. 82.

56. Dichiarazione di Vienna su criminalità e giustizia, X Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei detenuti - Vienna 17.04.2000.

57. R. Breda, C. Coppola, A. Sabattini, Il servizio sociale nel sistema penitenziario, Giappichelli, Torino, 1999, p. 3.

58. La prima commissione venne costituita il 20 aprile 1947, ad essa ne seguirono altre rispettivamente il 26 aprile 1957, il 31 ottobre 1958 ed infine il 23 gennaio 1964.

59. La circolare 1 agosto 1951 costituisce la prima svolta innovativa del dopoguerra: riguardava il regolamento carcerario, dettando una serie di disposizioni che attenuano il sistema affittivo della vita detentiva.

60. Rassegna di studi penitenziari, 1951, IV. Gli istituti interessati inizialmente erano quelli di Milano, Roma, Napoli e Palermo.

61. Il primo disegno di legge decadde nel 1963 e fu poi rielaborato e presentato nella quarta, quinta, sesta legislatura ed il 31 ottobre 1972 riuscì ad essere posto all'esame della Commissione giustizia del Senato.

62. V. Rassegna di studi penitenziari, 1959, IV, dove il ministro Gonella sottolinea come la realizzazione del moderno e funzionale istituto di osservazione di Roma-Rebibbia sia la prova della diversa concezione della pena e rappresenti un passo avanti verso l'applicazione del precetto costituzionale secondo il quale essa vuole essere uno strumento non di vendetta sociale, ma di rieducazione della persona umana.

63. Le ricerche sono pubblicate sui Quaderni dell'Ufficio studi, ricerche e documentazione, dal n.1 del 1971 al n.14 del 1976. Le pubblicazioni sono state riprese nel 1983, sino al 1991, con il n.24.

64. Nelle more dell'approvazione della legge riforma l'Amministrazione penitenziaria emana la circolare n. 2153/4618 del 24.4.1974 con la quale, nel richiamare l'attenzione sugli innovati criteri di organizzazione della comunità penitenziaria, più consona ai principi costituzionali di umanizzazione e rieducazione, invita gli operatori penitenziari ad ispirarsi "da subito ai nuovi orientamenti e a dare il massimo impulso ad una tempestiva sperimentazione concernente la partecipazione della collettività esterna al reinserimento dei detenuti e all'attività di assistenza sociale".

65. S. Ciappi, A. Coluccia, op. cit., p. 61.

66. R. Breda, C. Coppola, A. Sabattini, op. cit., Giappichelli, Torino, 1999, p. 71.

67. Con la legge 27 luglio 2005, n. 154 che ha modificato l'art. 72 della legge 26 luglio 1975 n. 354 sono stati istituiti gli Uffici di esecuzione penale esterna (UEPE) in sostituzione dei Centri di servizio sociale per adulti (CSSA).

68. L. Filippi, G. Spangher, Manuale di esecuzione penitenziaria: annotato con la giurisprudenza, Milano, Giuffrè, 2003, p. 39. Il nostro ordinamento prevede, tuttavia, strumenti di probation di carattere giudiziale, cioè applicabili nel corso del processo di cognizione (anziché nella fase dell'esecuzione). Un'ipotesi di tal genere è stata introdotta solo col nuovo codice di procedura penale del 1988, nel processo minorile, dagli art. 28 e 29 del d.p.r. 22 settembre 1988 n.448. La competenza è del giudice per le indagini preliminari o del tribunale, entrambi per i minorenni, che possono sospendere il processo e mettere alla prova il minore. La limitatezza della sfera di applicazione di queste ultime ipotesi fa sì che il termine di affidamento in prova (art. 47 o.p.) sia sinonimo di misura alternativa alla detenzione per eccellenza e costituisca il richiamo comparativo alle figure di probation tipiche di altri ordinamenti.

69. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, op. cit. pag. 224. In un quadro sistematico che può delinearsi con riferimento alle vari ipotesi di probation contenute nelle legislazioni di diversi paesi (Stati Uniti d'America; Inghilterra; Spagna; Portogallo; Danimarca; Svezia; Belgio; Germania; Austria; Francia; Svizzera; Olanda) si individuano i seguenti tipi di probation: A. Probation di polizia; B. Probation giudiziale nella fase istruttoria; C. Probation giudiziale nella fase del giudizio con sospensione della pronuncia; D. Probation giudiziale nella fase del giudizio con sospensione della esecuzione della condanna; E. Probation penitenziario.

70. M. D'onofrio, M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, Milano, Giuffrè, 2004, p. 51."Il legislatore italiano, intervenendo con la legge 354/75, adottò la scelta della cosiddetta probation penitenziaria, prevedendo l'applicazione della misura alternativa dell'affidamento in prova all'inizio dell'esecuzione della pena detentiva, più che nella fase finale dell'esecuzione stessa".

71. La liberazione condizionale non si colloca nell'ambito della legge sull'Ordinamento penitenziario n. 354/75, ma trova il suo fondamento giuridico-normativo proprio nel Codice Rocco, che la prevedeva e disciplinava, già nella versione originaria, quale modalità e causa di estinzione della pena detentiva, art. 176 c.p.

72. G. Flora, I destinatari dell'affidamento in prova, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1977, p. 62, che si associa agli atteggiamenti critici espressi in dottrina fin dai primi anni di applicazione della riforma penitenziaria, nei confronti dell'opzione del legislatore a favore di una forma di "probation penitenziario"; cfr, nello stesso senso, F. Bricola, op. cit. p. 373.

73. Nel testo originario, la L. 26 luglio 1975, n.354, prevedeva una osservazione minima trimestrale. Tale periodo è stato ridotto ad un mese dall'art. 4-bis L. 21 giugno 1985, n. 297, che consentendo l'affidamento in prova senza osservazione penitenziaria per soggetti tossicodipendenti o alcooldipendenti, ha ritenuto di dover attenuare anche le condizioni temporali di concedibilità della misura alternativa ordinaria.

74. Atti senato, VI legislatura, stampato n. 538. Relaz. Gonella, ministro grazia e giustizia, a un disegno di legge concernente ordinamento penitenziario, in La legislazione italiana, (a cura di Fragali), 1975, p. 390.

75. G. Vassalli, La riforma penale del 1975, I, Giuffrè, Milano, 1975, pp. 65 ss. L'autore afferma in merito alle modifiche del libro primo del codice penale, la rinuncia ad introdurre la disciplina del probation Le motivazioni sono attribuibili alla concreta difficoltà di realizzare la probation per mancanza di strutture appropriate e al costante orientamento politico inteso ad ampliare l'ambito di applicabilità dell'istituto della sospensione condizionale della pena.

76. Atti Senato, VI legislatura, Votazione e approvazione del disegno di legge: Ordinamento penitenziario (538), Relaz. Follieri, 18 dicembre 1973. L'onorevole presentava all'aula le modifiche al disegno di legge riferendosi alla necessità "che gli istituti di pena non vengano considerati avulsi dalla realtà sociale, come isole del male in un mondo di onesti". La commissione giustizia di cui fa parte aveva potuto acquisire elementi di valutazione in ordine a quanto è operato in ordinamenti, come l'Inghilterra ove i carcerati "non perdono del tutto il contatto con la vita esterna, non solo familiare, ma anche sociale".

77. Atti camera, VI legislatura, stampato n. 2624-A. Relaz. Felisetti, per la IV Commissione permanente, in La legislazione sociale, (a cura di Fragali), 1975, p. 391.L'onorevole afferma la bontà del disegno di legge in esame, evidenziando come con gli istituti alternativi alla detenzione, si libera dal contagio la delinquenza minore (soggetti con lievi reati, con modestissime condizioni socio-economiche) tenendo vivo il contatto tra società esterna e mondo carcerario.

78. F. Bricola, op. cit. p. 380.

79. A. Pedrinazzi, Le misure alternative in Europa: principi ispiratori e linee operative, in Dignitas, n. 2, 2003, p. 54-60.

80. G. N. Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, in "La Questione criminale" 1976, p. 319.

81. Il limite di pena stabilito dall'art. 47 comma 1 ord. Penit. per l'affidamento in prova al servizio sociale, in relazione alla durata della pena inflitta, non trova applicazione rispetto alle pene detentive derivanti dalla conversione di pene pecuniarie; né per il suo computo si tiene conto della pena pecuniaria congiunta a quella detentiva. V. in questo senso Cass. 14 aprile 1978, Loschi, in Cass. Pen. 1979, p. 1330.

82. S. Pietralunga, L'affidamento in prova al servizio sociale, Cedam, 1990, p. 50:

"Risulta del tutto evidente, ed è stata infatti universalmente riconosciuta, la essenziale rispondenza delle scelte in tal modo operate dal legislatore del'75 ad esigenze preventive e di difesa sociale, progressivamente accentutate, a partire da un grado iniziale, derivante dal comprensibile intento di limitare la fruibilità della misura alternativa alle categorie di soggetti a più ridotta pericolosità sociale (limiti di pena e misure di sicurezza); fino all'opzione, politica, di tacitare mediante la previsione dei "reati ostativi" l'allarme sociale suscitato dal dilagare, a cavallo degli anni '70, della criminalità organizzata così come quella a sfondo politico e terroristico".

83. F. Bricola, L'affidamento in prova al servizio sociale "fiore all'occhiello" della riforma penitenziaria, in Quest. Crim., 1976, p. 402.

84. G. Flora, I destinatari dell'affidamento in prova, I, in Riv. It. Dir .proc. pen., 1977, p. 690.

85. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, op. cit. p. 226.

86. A. Presutti, Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, in Testi studi e ricerche di scienze giuridiche, Milano, Cortina, 1994, p. 4.

87. E. Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 228-230.

88. R. Breda, Il servizio sociale nel sistema penitenziario, Giappichelli, Torino, 1999, p. 79.

89. V. legge 14 ottobre 1974, n.497 contenente "Nuove norme contro la criminalità" e la legge 22 maggio 1975, n. 152 "Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico" cui seguiranno fino al 1980, nella stessa prospettiva emergenziale altre leggi.

90. L'art. 7 della legge 13 settembre 1982, n. 646 arricchiva di questa ulteriore ipotesi l'elenco dei reati ostativi alla concessione dell'affidamento in prova contenuto nell'art. 47 c. 2.

91. In Riv. it. dir e proc. Pen. 1981, p. 1137, con nota di L. Cesaris, Corte costituzionale e misure alternative alla detenzione: una decisione discutibile.

92. E. Fassone, Commento all'art. 4 bis d.l. 22.4.1985 in Legislazione penale, 1986, p.45.

93. Nel VII congresso dell'ONU tenutosi a Milano nel 1985 in tema di prevenzione del crimine e trattamento del delinquente, questi sono da un lato i risultati e dall'altro gli orientamenti emergenti.

94. In base allo stesso principio è risolta l'incompatibilità logico-giuridica tra l'affidamento in prova al servizio sociale e le misure di prevenzione di cui alla l. 22 dicembre 1956, n.1423.

95. Corte costituzionale, 22 dicembre 1989 n. 569, in Cass. Pen. 1990, p. 1442, con nota di F. Della Casa, Corte costituzionale e affidamento "anticipato": perfezionamento e rilancio del più recente modello di probation.

96. E. Fassone, Luci ed ombre della "legge Gozzini", p. 661, il quale esprime preoccupazione che una legge "pensata per risparmiare il carcere al ladruncolo ed alla marginalità sociale" finisca poi "per far uscire il mafioso". Manifesta serie perplessità circa i pericoli insiti in una politica penitenziaria tendente a decarcerizzare attraverso le misure alternative in difetto di una verificabilità effettiva della sussistenza dei presupposti per "lo scambio penitenziario" da parte dell'organo giudicante.

97. P. Fornace, Affidamento in prova al servizio sociale, in Giurisprudenza di merito, 1992, p. 1049. L'autore afferma che con "l'istituto dell'affidamento in prova senza osservazione, in cui è privilegiato unicamente il comportamento tenuto in libertà, si esprime lo scopo che il legislatore ha inteso perseguire in modo prioritario, con la normativa 663 anno 1986, che è stato così esplicitato nella relazione Gallo con le seguenti espressioni: "Contenere la popolazione carceraria"".

98. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, op. cit., p. 230.

99. Avv. R. Tucci e prof. E. Santoro, Rapporto conclusivo Progetto Misura sulla recidiva, Firenze 30 aprile 2004.

100. Corte cost. sentenze n.185/85, 343/87, 386/89, 569/89 in tema di affidamento in prova al servizio sociale.

101. Corte cost., 11.07.1989, n.386, FI, 1989, I, 3340, con nota di F. Albeggiani.

102. E. Fassone, T. Basile, G. Tuccillo, La riforma penitenziaria, Commento teorico pratico alla l. 663/1986, Napoli, Jovene, 1989, p. 40.

103. F. Della Casa, Ordinamento penitenziario - Commento articolo per articolo, Cedam, Padova, 1997, p. 92.

104. F. P. C. Iovino, Osservazioni sulla recente riforma dell'ordinamento penitenziario, in CP, 1992, p. 440, ove si osserva come in tale ipotesi la ripartizione degli oneri della prova tornerebbe alla "fisiologia" con il gravarne il p.m.

105. A. Bernasconi, Affidamento in prova e semilibertà nell'epoca post-rieducativa in Esecuzione penale e alternative penitenziarie, Cedam, Padova, 1999, p.134, secondo il quale "l'affidamento in prova si atteggia dunque a beneficio finale fruibile nel momento finale dell'esecuzione, con sua seguente applicabilità anche a condannati per reati di spiccata gravità: la sua metamorfosi, da strumento di assistenza e controllo riservato ad una fascia di reclusi per pene di media durata - tipica espressione della marginalità sociale - a sollievo indulgenziale elargibile anche in coda a pene di lunga durata, testimonia un progressivo snaturarsi della misura, che mette in dubbio l'opportunità della stessa sua sopravvivenza".

106. E. Dolcini, Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena? In Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1999, p. 857.

107. Gazzetta Ufficiale n. 285 del 7 dicembre 2005. "Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione".

108. Gazzetta Ufficiale n. 48 del 27 febbraio 2006 - Supplemento Ordinario n. 45. "Conversione in legge, con modificazioni del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, recante misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonche' la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi".

109. XIV LEGISLATURA- Scheda lavori preparatori, Atto parlamentare: 6297 (Fase iter Camera: 1^ lettura). Commissione Referente II Giustizia e XII Affari Sociali.

110. Supplemento Ordinario n. 45, n. 49. Articolo 4-vicies semel. Modificazione all'articolo 47 della legge n. 354 del 1975. Al comma 12 dell'articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, le parole: «e ogni altro effetto penale» sono sostituite dalle seguenti: «detentiva ed ogni altro effetto penale. Il tribunale di sorveglianza, qualora l'interessato si trovi in disagiate condizioni economiche, può dichiarare estinta anche la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa».

111. Corte Costituzionale 6.12.1985, n.185, in Giur. Cost., 1985, 1, p.1283 - che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 47 della legge 354/1975, nella parte in cui non consentiva di considerare come espiazione di pena il periodo di affidamento in caso di annullamento del provvedimento di pena il periodo di affidamento in caso di annullamento del provvedimento di ammissione.

112. F. Mantovani, Diritto Penale. Parte generale, Cedam, Padova 1992, p.782.

113. In Cass. Pen., 1988, n.5, con nota di A. Presutti, Il nuovo regime degli effetti conseguenti alla revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale: verso il tramonto della funzione rieducativi della pena.

114. Cass. Sez. I, 20.04.1994, Barachetti, in Ced, 197821.

115. F. Mantovani, Diritto Penale, Parte Generale, Padova, 1992, p.741, per la puntualizzazione secondo cui "concettualmente la pena è la limitazione dei diritti del soggetto quale conseguenza della violazione di un obbligo, che è comminata per impedire tale violazione ed ha carattere eterogeneo rispetto al contenuto dell'obbligo stesso".

116. F. Mantovani, op. cit., p. 742.

117. Cass. Sez. I, 18.11.1992, Angioni, in Ced, 194495.