ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo II
Le novità in materia di esecuzione penale

Leonardo Bresci, 2006

1. Premessa

La legge ex Cirielli ha dunque notevolmente inciso sul sistema penale del nostro ordinamento innovando anche la disciplina dell'esecuzione penale attraverso una serie di modifiche apportate al Libro X del c.p.p. e alla legge penitenziaria. Ed anche in questo ambito la recidiva (in particolare la recidiva reiterata) è uno dei motivi determinanti della riforma.

La legge, espressione di una disciplina fortemente restrittiva, si inserisce in quella sequela di interventi normativi che efficacemente qualcuno descrive come fenomeno del "pendolarismo tra il permissivo e il restrittivo", proprio per sottolineare l'atteggiamento oscillante tenuto dal legislatore in materia penitenziaria. Nel corso degli anni l'atteggiamento del legislatore è stato probabilmente speculare alle mutevoli sensibilità delle ideologie presenti nel nostro Paese.

Infatti, la legge 354 del 1975, con la quale venivano attuati per la prima volta i principi costituzionali della funzione rieducativi della pena e venivano introdotte le misure alternative alla detenzione, ha subito nel corso del tempo varie modifiche determinate da specifiche situazioni contingenti piuttosto che da una visione ampia e strategica dei problemi. Si è così assistito a volte ad una restrizione del concetto di flessibilità della pena a tutela della sicurezza dell'intera collettività, altre volte ad un ampliamento di tale concetto per un'opposta avvertita esigenza di garantismo.

Con la legge 663/1986 (nota come "legge Gozzini"), il legislatore ha ad esempio rilanciato le innovazioni introdotte con la legge del 1975: individualizzazione del trattamento rieducativo, le misure alternative alla detenzione; le garanzie del controllo giurisdizionale sull'esecuzione penale.

Agli inizi degli anni '90 si assiste, invece, alla produzione di una normativa restrittiva volta a ridimensionare l'ambito applicativo di tutti gli istituti premiali dell'ordinamento penitenziario, con speciale riguardo ai condannati per reati di criminalità organizzata e per altri reati di elevato allarme sociale. In tal senso vanno ricordati il DL. 13 maggio 1991, n. 152 e il D.L. 8 giugno 1992, n. 306 rispettivamente convertiti, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203 e nella legge 7 agosto 1992, n. 356.

Un nuovo ritorno al garantismo è segnato dalla legge 165/1998 (la c.d. "legge Simeone") con la quale si è tentato di rendere maggiormente agevole l'accesso alle misure alternative e, al contempo, conseguire effetti deflativi nella popolazione carceraria.

Ebbene, anche la legge ex Cirielli si ascrive a pieno titolo nel fenomeno descritto rappresentando un ritorno ad un atteggiamento di chiusura da parte del legislatore, anche in questa occasione sensibile alla crescita dell'allarme sociale dovuta all'incremento degli episodi criminali e alla diffusione della consapevolezza dell'insuccesso dell'ideologia del trattamento rieducativo.

A parte la disposizione di cui all'art. 7, comma 2, della legge 251/2005 che prevede la possibilità di espiare la pena in detenzione domiciliare senza limiti di durata per gli ultrasettantenni che non siano stati condannati per reati di particolare allarme sociale, tutte le altre norme comportano infatti una cospicua restrizione delle maglie esecutive. E tale restrizione è organizzata lungo tre direttrici principali, collegate prevalentemente alla situazione di recidivo reiterato: a) previsione di limiti più severi per l'accesso alle misure alternative alla detenzione (artt. 30- ter; 47- ter; 50- bis ord. pen.); b) esclusione dei recidivi dal meccanismo di sospensione dell'ordine di esecuzione (art. 656, comma 9, c.p.p.); c) limitazione dei benefici ottenibili (art. 58-quater ord. pen.).

Nei prossimi paragrafi esamineremo, dunque, le singole modifiche apportate alla disciplina dell'esecuzione operando, per esigenze di chiarezza espositiva, una distinzione tra le novità che sono vincolate e coordinate alla recidiva reiterata e quelle che invece ne prescindono.

Cercheremo, inoltre, di affrontare i problemi posti dalla nuova normativa indicando le possibili soluzioni alla luce non solo dei primi orientamenti dottrinali ma anche della prima giurisprudenza seguita dagli organi giudiziari di Firenze.

2. La recidiva reiterata e la delimitazione dell'operatività dell'art. 656, comma 5, c.p.p.

Una prima modifica riguarda le modalità di esecuzione della pena detentiva da parte del pubblico ministero, attraverso la novella dell'art. 656 c.p.p. introdotta dall'art. 9 della legge ex Cirielli.

Come sappiamo l'art. 656 c.p.p. era già stato parzialmente modificato con la legge Simeone che, aggiungendo i commi da 5 a 10, ha introdotto una procedura applicabile esclusivamente a coloro che si trovano al momento dell'emissione dell'ordine di esecuzione, nello stato di libertà, per il fatto oggetto della condanna da eseguire.

Secondo tale procedura, il pubblico ministero aveva l'obbligo di sospendere l'ordine di esecuzione qualora il condannato sia in stato di libertà e la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non sia superiore a tre anni ovvero a quattro anni nei casi di cui agli artt. 90 e 94 D.P.R. 309/90.

Oltre che conseguire finalità decarcerizzanti, la legge Simeone aveva l'obiettivo di evitare la privazione della libertà a persone che, pur condannate, avessero in astratto i presupposti per fruire delle misure alternative alla detenzione.

Più precisamente si voleva porre rimedio quell'iniquo sistema creatosi dopo il doppio intervento del legislatore (legge Gozzini) e della Corte costituzionale (1). La legge Gozzini, dopo la dichiarazione di parziale incostituzionalità dell'art. 47, comma 3, ord. pen., permetteva infatti alle persone in stato di libertà di formulare istanza di ammissione ad una misura alternativa, con l'obbligo per il pubblico ministero di sospendere l'emissione o l'esecuzione dell'ordine di carcerazione in attesa delle decisioni della magistratura di sorveglianza. Trattasi delle c.d. misure alternative ab initio che miravano a sottrarre il condannato al contatto con l'ambiente carcerario, ma realizzando tuttavia un discriminatorio sistema di accesso per due motivi:

  • soltanto il condannato in condizione di permettersi una buona difesa poteva presentare la domanda di misura alternativa nei tempi necessari per ottenere il differimento della carcerazione e per conseguire da libero la concessione del beneficio;
  • chi era detenuto doveva necessariamente attendere in carcere per lungo tempo le determinazioni della magistratura di sorveglianza finendo per scontare, per intero, la pena inflitta.

Con l'introduzione del quinto comma all'art. 656 c.p.p. si elimina dunque alla radice l'iniquità del precedente sistema prevedendo la regola dell'automatica sospensione del procedimento di esecuzione da parte del pubblico ministero e l'obbligo di avviso, per il condannato, della possibilità di presentare istanza al Tribunale di Sorveglianza per la concessione della misura. La stessa legge Simeone ha previsto tuttavia delle eccezioni alla descritta regola, introducendo al comma 9 due ipotesi di inoperatività di detto automatismo::

  1. nei confronti del condannati per i delitti di cui all'art. 4bis ord. pen;
  2. nei confronti di coloro che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva.

Ebbene, a queste ipotesi la legge ex Cirielli ne aggiungendo un'altra legata al particolare status di recidivo reiterato del soggetto condannato. Tale novella è rilevante per le sorti dei nostri penitenziari. L'istituto della sospensione dell'ordine di esecuzione pur non riguardando direttamente l'ordinamento penitenziario, lo coinvolge in maniera determinante in quanto concerne le modalità di richiesta delle misure alternative: nei confronti dei "delinquenti comuni" che devono espiare una pena di tre o quattro anni* viene mantenuta la possibilità di richiedere dallo stato di libertà l'espiazione della stessa in forma alternativa; al contrario per coloro che pur trovandosi nelle medesime condizioni relative alla pena ma tuttavia differenziandosi per lo status di recidivo reiterato, l'unica possibilità di richiesta di misura alternativa sarà dallo stato di detenzione, non potendo il pubblico ministero sospendere l'ordine di esecuzione di fronte a tale ultima situazione.

La nuova disposizione ha suscitato in dottrina molte perplessità soprattutto con riferimento alle conseguenze pratiche che potrebbero derivare al sistema carcerario Si è detto infatti che il divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione potrà comportare un drammatico aumento della popolazione detenuta tale da rendere ingestibili le carceri. Come vedremo, è proprio per tale preoccupazione che in dottrina si è posto il problema di elaborare interpretazioni correttive volte a limitare l'impatto della nuova normativa.

L'allarme è tuttavia parzialmente rientrato grazie alla successiva precisazione contenuta nell'art. 4 del decreto legge 272/2005 che limita l'operatività della nuova disposizione attraverso l'esclusione dal suo ambito applicativo i tossicodipendenti o alcooldipendenti che abbiano in corso un programma di recupero (2).

La norma mira chiaramente al evitare che i soggetti, i quali hanno intrapreso un programma di recupero, possano vedersi interrotto tale programma a causa dell'esecuzione di una pena detentiva.

3. La recidiva reiterata come limite all'accesso alle misure alternative e ai benefici penitenziari

a. Considerazioni preliminari

La norma cardine dell'intervento in materia di esecuzione penale è l'art. 7, il quale contiene una serie di modifiche all'ordinamento penitenziario che introducono, nei confronti dei recidivi reiterati, limiti speciali per l'accesso ai benefici e misure alternative.

Contrariamente a quanto sostenuto da molti, la ex Cirielli non apporta in assoluto un regime di esclusione dai benefici penitenziari per coloro che sono stati dichiarati recidivi ai sensi del novellato art. 99, comma 4, c.p., tuttavia in molte ipotesi si introduce per tale categoria di condannati un sistema più gravoso di accesso alle misure, tanto premiali quanto alternative alla detenzione. Si può dire che il legislatore, con questo intervento, abbia costruito per il recidivo reiterato una apposita corsia differenziata per l'accesso ai benefici e alle misure alternative. Come vedremo, l'applicazione dell'art. 99, comma 4, c.p. produce un deciso contraccolpo nella sfera dei benefici penitenziari: l'aggravamento di pena irrogato dal giudice di cognizione condiziona, da un lato, il tempo che il condannato deve trascorrere in carcere prima di poter beneficiare del trattamento esterno, dall'altro il numero delle possibili opportunità di poter fruire dei benefici concesse dall'ordinamento.

Nel dettaglio, l'art. 7 modifica la legge penitenziaria in relazione ai permessi premio, alle misure alternative della semilibertà e detenzione domiciliare, nonché al divieto generale di concessione sancito all'art. 58-quater. Sono tutte innovazioni che introducono una variazione di disciplina negli istituti considerati in riferimento alla sussistenza della recidiva reiterata in capo al condannato, tranne il nuovo primo comma dell'art. 58-quater che invece comporta, al verificarsi della fattispecie in esso descritta, una estensione del divieto di concessione dei benefici nei confronti di ogni condannato.

b. I permessi premio

Passando all'esame delle specifiche disposizioni, l'art. 7, comma 1, della legge ha previsto limiti più rigorosi per la concessione ai recidivi dei permessi premio, ossia delle autorizzazioni concesse ai condannati, che hanno tenuto regolare condotta e non risultano socialmente pericolosi, di trascorrere un breve periodo di tempo fuori dall'istituto per coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro.

L'istituto dei permessi premio è stato introdotto nell'ordinamento penitenziario dalla legge 663/1986 e fu accolto con grande favore dalla dottrina prevalente.

Prima della legge Gozzini esisteva soltanto l'istituto del permesso di necessità (art. 30 ord. pen.) che era stato concepito dalla riforma del 1975 quale semplice strumento di umanizzazione della pena e, pertanto, estraneo alla logica trattamentale. Il permesso premio nasce invece per dare attuazione al principio costituzionale dell'art. 27, comma 3, della Costituzione perché essenzialmente funzionale alla rieducazione del condannato; lo stesso ordinamento penitenziario inserisce l'esperienza dei permessi premio tra gli elementi del trattamento ritenendola "parte integrante del programma di trattamento e deve essere seguita dagli educatori ed assistenti sociali penitenziari in collaborazione con gli operatori sociali del territorio".

Così concepito l'istituto si caratterizza essenzialmente per una duplice funzione: una funzione special- preventiva, perché contribuisce al mantenimento degli interessi affettivi, culturali e lavorativi del detenuto oltre a consentire di mettere alla prova il comportamento del detenuto in libertà: una funzione premiale perché stimola il condannato ad un atteggiamento maggiormente aderente alle norme che regolano la vita dell'istituto (3).

Le finalità perseguite dall'istituto spiegano anche i requisiti oggettivi richiesti per la sua concessione. Anzitutto è richiesto il requisito della regolare condotta che è tale, ai sensi del comma 8 dell'art. 30-ter, quando l'interessato ha manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle attività lavorative e culturali (4).

In secondo luogo, l'art. 30-ter richiede la mancanza di pericolosità sociale del soggetto che si desume, secondo la consolidata interpretazione, da un giudizio sulla probabilità di recidiva. Un giudizio che deve riferirsi in modo particolare alla situazione del detenuto nel momento in cui formula l'istanza. Un indagine rivolta non tanto al passato, quanto al presente e al futuro del recluso, senza perdere di vista la finalizzazione risocializzativa di una breve uscita dal carcere (5).

Oltre ai suddetti presupposti soggettivi l'art. 30-ter prevede anche limiti oggettivi, infatti i permessi premio possono essere concessi nei confronti:

  1. dei condannati all'arresto od alla reclusione non superiore a tre anni anche se congiunta all'arresto
  2. dei condannati alla reclusione superiore a tre anni, dopo l'espiazione di almeno un quarto di pena;
  3. dei condannati alla reclusione per taluno dei delitti di cui all'art. 4-bis ord. pen., dopo l'espiazione di almeno metà pena e, comunque, non oltre 10 anni;
  4. dei condannati all'ergastolo, dopo l'espiazione di almento 10 anni.

Ebbene, la novella del legislatore ha introdotto un diverso e apposito percorso per i recidivi nell'accesso ai permessi premio. Il nuovo art. 30- quater prevede, infatti, una sensibile elevazione della quota di pena necessaria all'accesso a tali benefici; nel dettaglio, la rimodulazione dei limiti di ammissibilità nei confronti del recidivo reiterato consiste:

  • nella espiazione di metà di un terzo della pena nelle ipotesi di cui sub 1);
  • nella espiazione della metà della pena nelle ipotesi di cui sub 2);
  • nella espiazione di due terzi della pena e, comunque, di non oltre quindici anni nelle ipotesi sub 3) e 4).

Occorre avanzare mestamente qualche perplessità sulla nuova disposizione tenuto conto dell'inquadramento dogmatico dei permessi premio. Non tanto per la legittima scelta del legislatore di elevare le aliquote di pena da espiare per aspirare al beneficio, quanto per il criterio seguito nella scelta dei soggetti da penalizzare.

Abbiamo visto infatti che la valenza rieducativa dell'istituto determina la scarsa rilevanza dei precedenti penali ai fini della valutazione della concedibilità dei permessi premio. In questa prospettiva, l'ulteriore aggravio collegato alla mera qualifica di recidivo reiterato mal si giustifica rispetto alla natura dell'istituto che essendo per eccellenza improntato alla progressività del trattamento, rimane invece piegato da una logica di segregazione. Riaffiora quindi alla mente quella immagine di un carcere isolante ed ispirato ad un logica penitenziaria "inserita nella spirale della politica dell'ordine pubblico" (6)

c. Semilibertà: un'ulteriore complicazione

Anche l'intervento in materia di semilibertà si ascrive alla linea dura scelta dal legislatore nella lotta contro la recidiva.

La misura alternativa della semilibertà è stata introdotta fin dal 1975 ed è contemplata agli artt. 48 ss dell'ord. pen. La precedente normativa è stata oggi ampliata attraverso l'inserimento nell'articolato della legge penitenziaria dell'art. 50-bis, introdotto dall'art. 7, comma 5, della legge 251/2005. Queste modifiche sono state però apportate dal legislatore senza considerare né la fisionomia né l'evoluzione storica della semilibertà.

In termini generali, la semilibertà consiste nella concessione al condannato o all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto penitenziario per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque risocializzanti in base ad un programma di trattamento predisposto dalla direzione dell'istituto di pena. Caratterizzandosi per l'accostamento nell'arco della giornata di un periodo di detenzione ed uno di attività libera, la semilibertà è dunque considerata più che in una misura alternativa una modalità particolare di esecuzione della detenzione.

Nonostante l'unicità contenutistica della misura, emergono dalla normativa tre diverse species di semilibertà rispetto alle quali il nuovo art. 50-bis si pone, a mio avviso, come un ulteriore elemento complicatorio.

L'art. 50 ord. pen. prevede, anzitutto, una semilibertà relativa a pene detentive brevi, la cui funzione è quella di evitare al condannato gli effetti desocializzanti del carcere quando la condanna riguarda la pena dell'arresto ovvero della reclusione non superiore a sei mesi. Questa forma di semilibertà, prevista al comma 1 e 6 del menzionato articolo, è applicabile a prescindere dalla espiazione di un quantum di pena sul presupposto della mera volontà di reinserimento del condannato.

Vi è poi una semilibertà relativa alle pene detentive medio-lunghe avente una funzione preparatoria al ritorno in libertà. Tale misura rappresenta lo strumento che per eccellenza realizza il trattamento risocializzativo progressivo, sia perché costituisce un forte stimolo per il detenuto di proseguire sulla via del riadattamento, sia perché consente di sperimentare in ambiente libero i risultati del trattamento condotto all'interno del carcere.

Per la concessione di questa species di semilibertà sono richiesti requisiti soggettivi ed oggettivi. Quanto ai primi, l'interessato deve aver compiuto progressi nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento. La valutazione del magistrato atterrà, sotto questo profilo, sia ai risultati del trattamento individualizzato riferito dal GOT (7), sia alle occasioni che l'ambiente extra- murario offre al condannato.

Sul piano oggettivo sono inoltre previsti limiti di pena all'ammissibilità della misura. Il condannato può infatti esservi ammesso soltanto dopo l'espiazione di:

  1. metà della pena ovvero due terzi della stessa nei casi di condanna per uno dei delitti di cui all'art. 4bis ord. pen. (art. 50, comma 2, primo periodo);
  2. 20 anni di pena da parte nei casi di condanna all'ergastolo (art. 50, comma 5)

Infine l'ordinamento penitenziario prevede una fattispecie di semilibertà con funzione surrogatoria dell'affidamento in prova al servizio sociale. Ai sensi dell'art. 50, comma 2, secondo periodo, il condannato a pena detentiva non superiore a tre anni può essere infatti ammesso alla semilibertà prima dei limiti suddetti se mancano i presupposti per l'affidamento in prova.

Quanto alle finalità, la "semilibertà sostitutiva" consente l'applicazione anticipata della misura realizzando così anche un coordinamento con l'affidamento in prova al servizio sociale nella logica del trattamento progressivo. In altre parole, la possibilità anticipare la semilibertà all'affidamento permette il graduale reinserimento del condannato nell'ambiente libero, attuando la progressione da forme meno aperte a forme più aperte di trattamento alternativo. Il sistema di misure alternative appare quindi variegato in modo tale da consentire al giudice, in ossequio al principio di individualizzazione del trattamento, di modellare in sede esecutiva la risposta sanzionatoria alle diverse situazioni concrete presentate dai singoli condannati.

In questo complesso quadro interviene dunque la novella introdotta con l'art. 50- bis che, ignorando le varie articolazioni dell'istituto, pone dei profili di complicazione all'interno della disciplina. La nuova disposizione suona:

La semilibertà può essere concessa ai detenuti, ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma del codice penale, soltanto dopo l'espiazione dei due terzi della pena ovvero, se si tratta di un condannato per uno dei delitti indicati nel comma 1 dell'art. 4- bis della presente legge, di almeno tre quarti di essa.

Se è vero che il nuovo art. 50- bis si pone tendenzialmente in sintonia con la semilibertà prevista per le pene medio- lunghe, perché si limita innalzare le soglie di pena che il recidivo reiterato deve espiare per ambire a tale misura (8). E' altrettanto vero che la nuova figura non si raccorda con le altre due fattispecie di semilibertà (ossia, quella relativa alle pene detentive brevi e quella sostitutiva dell'affidamento). In queste ultime due ipotesi lo status di recidivo reiterato del condannato annichilisce l'operatività dei due ultimi menzionati istituti, a totale spregio della funzione loro attribuita.

Cerchiamo di capire meglio. Anzitutto, per il recidivo reiterato perde qualsiasi rilevanza la pena detentiva inferiore ai sei mesi ai fini della concessione della semilibertà prevista al primo comma dell'art. 50 ord. pen.; egli si vede precluso l'accesso alla misura fino all'espiazione di almeno due terzi della pena.

Si prospetta, dunque, la seguente situazione. Partiamo dalla considerazione che una persona condannata con una dichiarazione di recidiva reiterata a sei mesi di reclusione è, di regola, responsabile di un reato bagatellare. Trattasi infatti di autori di reati la cui pena, tenuto conto della maggiorazione richiesta per la recidiva, non può essere superiore a quattro mesi di reclusione. Questa premessa ci porta alla conclusione che chi è condannato a sei mesi di reclusione senza la dichiarazione di recidiva reiterata potrà essere ammesso alla semilibertà ab initio, al contrario il recidivo reiterato condannato alla stessa pena, ma per un reato di minore gravità, non potrà fruire della medesima possibilità proprio in base al nuovo art. 50- bis.

Perciò il previsto trattamento deteriore non fondandosi sulla maggiore gravità del reato, porterebbe a concludere che l'unica giustificazione della norma risiede nella presunzione di antisocialità e pericolosità del delinquente recidivo. La logica seguita dal legislatore per giustificare il trattamento deteriore, stante la scarsa gravità dei reati, si ricondurrebbe così all'esaltazione di quegli indici di pericolosità e antisocialità che, secondo alcune scuole, immancabilmente caratterizzano i recidivi reiterati: una modifica pensata guardando ad un diritto penale per "tipo di autore" (9).

Almeno che non si ravvisi, in alternativa alla predetta spiegazione, una leggerezza del legislatore che, non considerando la complessità dell'intera disciplina, ha realizzato una inspiegabile penalizzazione di soggetti responsabili di reati minimi nell'accesso alla semilibertà per pene detentive brevi. Così argomentando non può non ipotizzarsi un contrasto insanabile della norma con l'art. 3 Costituzione.

La norma potrebbe altresì peccare di irragionevolezza rispetto all'art. 50, comma 2, terzo periodo, con riferimento cioè alla semilibertà sostitutiva dell'affidamento. Non è dato capire infatti il motivo per cui gli effetti restrittivi operino soltanto sulla semilibertà e non anche sull'affidamento in prova, dal momento che quest'ultima ha contenuti meno segreganti e afflittivi della prima.

Viene a crearsi quindi una situazione paradossale: il recidivo reiterato condannato a 3 anni potrà uscire dal carcere ed essere affidato al servizio sociale una volta esaurita l'osservazione scientifica (10), mentre per essere ammesso alla più afflittiva misura della semilibertà dovrà comunque attendere di avere espiato i due terzi della pena.

d. Le modifiche alla misura della detenzione domiciliare

Molte sono le novità relative alla misura della detenzione domiciliare. Nuovamente oggetto di intervento normativo, tale istituto ha conosciuto una convulsa evoluzione legislativa. Prima di scendere nel dettaglio delle modifiche, occorre quindi una breve esposizione delle origini e delle successive modificazioni che hanno contribuito a delineare la figura della detenzione domiciliare.

Non contemplato dalla riforma del 1975, questo istituto è stato introdotto nel capo VI del titolo II dell'ordinamento penitenziario grazie alla legge Gozzini. Priva di ogni contenuto risocializzante, questa misura consente al condannato di espiare la pena detentiva nella propria abitazione, in un altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza. Coerentemente con le finalità di natura umaniatario-assistenziale, l'unico obbligo imposto all'interessato concerne infatti il divieto di allontanarsi dal luogo indicato.

La prima ipotesi di detenzione domiciliare è stata dunque introdotta dalla legge 663/1986, così come successivamente modificata dalla L. 165/1998. La cosiddetta detenzione domiciliare umanitaria ha la funzione di salvaguardare beni di rilevanza costituzionale (salute, maternità, infanzia, gioventù) che potrebbero essere compromessi dall'esecuzione di una pena in carcere.

Oltre alla pena della reclusione non superiore a quattro anni, i presupposti della misura sono collegati alle particolari condizioni dei condannati ritenute meritevoli di tutela. Ai sensi del primo comma dell'art. 47-ter, i destinatari della misura sono pertanto:

  1. donna incinta, donna madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente;
  2. padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;
  3. persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedono costanti contatti con i presidi sanitari territoriali;
  4. persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente;
  5. persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.

Successivamente, la legge Simeone introdusse un'altra ipotesi di detenzione domiciliare (c.d. detenzione domiciliare generica) con l'inserimento del comma 1- bis nell'art. 47-ter ord. pen. Con questa norma si è previsto la generale possibilità di applicazione della detenzione domiciliare per l'espiazione di pene detentive in misura non superiore a due anni, indipendentemente dalla sussistenza delle condizioni previste dal primo comma, quando non ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati.

I presupposti per la sua concessione sono il limite di pena da un lato, e l'inidoneità dell'interessato all'affidamento in prova assieme all'assenza di pericolo di recidiva.

E' evidente dunque che la ratio ispiratrice di questo istituto è quella di arginare il fenomeno del sovraffollamento carcerario, sia perché il contenuto della misura è privo di qualsiasi elemento risocializzativo, sia perché l'applicazione della stessa richiede la sussistenza di una prognosi infausta in ordine alla rieducazione del condannato.

Sempre alla legge Simeone si deve l'ulteriore tipologia di detenzione domiciliare sostitutiva del differimento, così come prevista all'art. 47- ter, comma 1-ter, ord. pen. Anch'essa ispirata ad una logica umanitaria ed assistenziale, richiede per la sua applicazione la sussistenza delle condizioni per la concessione del differimento dell'esecuzione ex artt. 146 e 147 c.p. indipendentemente dalla quota di pena detentiva da espiare.

Basti infine accennare che, sempre in una prospettiva umanitaria e assistenziale, sono state introdotte altre due species di detenzione domiciliare, grazie a due successive leggi che hanno introdotto nella legge penitenziaria gli artt. 47-quater e 47-quinquies. Si parla di detenzione domiciliare speciale nei confronti di soggetti affetti da AIDS nel primo caso e di detenzione domiciliare residuale nel secondo (11).

In questo quadro, già abbastanza complesso, è dunque intervenuta la novella del 2005 che ha introdotto il nuovo comma 01, nonché sostituito l'originario comma 1 e 1-bis; si è pertanto provveduto non solo alla modifica di alcune forme di detenzione domiciliare già esistenti (speciale e generica), ma anche all'introduzione di un'ennesima fattispecie che potremmo definire detenzione domiciliare anagrafica e di cui parleremo avanti in relazione alle modifiche indipendenti dalla recidiva (V. par. 6).

In riferimento alla detenzione domiciliare generica, l'art. 7 della legge ex Cirielli ha modificato il comma 1- bis escludendo l'applicabilità di tale misura nei confronti dei recidivi reiterati. I condannati rientranti in tale categoria che non siano idonei all'affidamento in prova e nei cui confronti residua una pena non superiore a due anni, non potranno d'ora in poi fruire della detenzione domiciliare generica. Il senso di tale stretta nei confronti dei recidivi ben si coglie, guardando al fondamento applicativo della misura considerata e alla recente rilevanza attribuita dal legislatore al nuovo statuto della recidiva.

Di fronte ad una misura esclusivamente pensata come strumento di soluzione del problema carcerario che richiede come presupposto applicativo la mera mancanza del pericolo di commissione di ulteriori reati, il legislatore non poteva far altro che precluderne l'accesso a coloro che sono stati condannati con la più grave formula di recidiva, poiché da tale comportamento delittuoso si evince, nella nuova concezione politico-criminale, una tendenza al delitto incompatibile con la misura alternativa.

Relativamente alla detenzione domiciliare speciale, il precedente comma 1 è stato sostituito con i nuovi comma 1 e 1.1. che ne ridefiniscono la disciplina. Il primo comma viene riprodotto in maniera identica, mentre il nuovo comma 1.1. dispone che "al condannato, al quale è stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, del codice penale, può essere concessa la detenzione domiciliare se la pena detentiva inflitta, anche se costituente parte residua di maggior pena, non superi tre anni".

Al fine di evitare incongruenze sistematiche bisogna che ritenere il comma 1.1. configuri una limitazione riferita alla detenzione domiciliare speciale e non un'autonoma fattispecie di detenzione domiciliare per i recidivi. I commi 1 e 1.1. disciplinerebbero quindi la detenzione domiciliare istituita a favore dei condannati in particolari situazioni personali tali da consentire di scontare in modalità non carceraria una pena residua fino a tre anni se recidivo reiterato, fino a quattro in tutti gli altri casi.

Tale interpretazione è favorita anche dalla tecnica legislativa utilizzata dal legislatore che ha congiuntamente sostituito il precedente comma 1 che disciplinava la detenzione domiciliare speciale con i due nuovi commi (1 e 1.1), i quali devono pertanto essere letti in correlazione.

Al contrario, diversa lettura che non contestualizzi il comma 1.1 nell'ambito della detenzione domiciliare quadriennale porterebbe inevitabilmente a configurare una autonoma figura di detenzione domiciliare con pesanti distorsioni sistematiche.

Dal quadro complessivo emergerebbe infatti un regime complessivamente più vantaggioso per la categoria dei condannati recidivi reiterati rispetto ai condannati "ordinari". Scindendo le previsioni contenute nei commi 1 e 1.1 si avrebbero risultati aberranti che di seguito illustro in modo schematico:

  1. la detenzione speciale (comma 1) sarebbe applicabile a qualsiasi condannato (recidivo o meno) purché si trovi nei limiti di pena e nelle condizioni previste dalla norma;
  2. fuori dalla ipotesi di cui sopra, i recidivi reiterati potrebbero fruire della detenzione domiciliare con una quota di pena residua più elevata rispetto a quella prevista per i condannati ordinari, richiedendo il comma 1.1 una pena non superiore a tre anni in luogo dei due anni contemplati dal comma 1-ter.

Senza contare poi che una simile ricostruzione oltre a porsi in assoluto contrasto con lo spirito della riforma, si esporrebbe inevitabilmente a censure di irragionevolezza da parte della Corte costituzionale.

4. La nuova formulazione dell'art. 58-quater. Limiti numerici di benefici al recidivo reiterato

La legge ex Cirielli è anche intervenuta sull'art. 58-quater sostituendone il primo comma e aggiungendo il nuovo comma 7-bis. Relativamente alla prima modifica rinviamo a quanto diremo nel prossimo paragrafo. Invece il nuovo comma 7- bis contribuisce all'esasperazione di quel regime restrittivo che il legislatore ha voluto riservare alla categoria dei condannati recidivi reiterati

L'art. 58-quater è frutto di quella legislazione emergenziale che negli anni 1991-1992 ha profondamente inciso nella materia penitenziaria. Le modificazioni operate alla legge penitenziaria dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152 e dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306 furono ritenute infatti necessarie soprattutto in relazione alla riforma effettuata con la legge Gozzini, alla quale fu rimproverato un eccessivo garantismo ed una ingiustificata tutela della popolazione carceraria con particolare riferimento a quella parte di essa legata alle organizzazioni criminali.

Attraverso questi interventi legislativi furono introdotti divieti ed eccezioni al sistema premiale in considerazione della particolare pericolosità sociale del condannato per taluni delitti, dell'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (art. 4-bis), ovvero ancora della realizzazione di una condotta di evasione o della revoca di un precedente beneficio penitenziario (art. 58-quater). In altri termini, venne introdotto il principio in base al quale per pene uguali sono previsti termini di recupero diversi sulla base di una persistente pericolosità sociale del condannato desumibile, oltre che dalla pena irrogata dal giudice, anche dalla natura del reato commesso e dal comportamento del condannato successivo alla condanna.

Le nuove disposizioni in materia penitenziaria si posero dunque in aperto contrasto con uno dei principi ispiratori della riforma del 1986, ossia l'abbandono di ogni presunzione legale di pericolosità dei condannati in ordine ai reati commessi.

La decretazione di urgenza dei primi anni novanta introdusse dunque l'art. 58-quater relativo al divieto di concessione dei benefici, rispetto al quale si registra la recente modifica che ne sostituisce il primo comma e ne aggiunge uno nuovo.

Concentriamoci per il momento soltanto sul nuovo comma 7-bis che, nell'ambito della disciplina relativa al divieto di concessione dei benefici, costruisce una ulteriore fattispecie preclusiva. La norma dispone invero nei confronti dei recidivi reiterati, il divieto di concessione, per più di una volta, dell'affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare e della semilibertà; ossia di ogni misura alternativa eccettuato l'affidamento terapeutico previsto dall'art. 94 D.P.R. 309/1990.

Come vedremo nel prosieguo della trattazione tale disposizione è suscettibile di una diverse interpretazioni. Ma laddove si accedesse alla lettura più ristretta che sostanzialmente concede una sola misura alternativa fruibile nell'arco dell'intera vita del recidivo reiterato, nei confronti di quest'ultimo la pena perderebbe ogni tratto di flessibilità esaurendosi esclusivamente in uno strumento di contenimento della pericolosità del soggetto.

5. Divieto di benefici in caso di evasione

Passiamo adesso in rassegna le modifiche non collegate al nuovo istituto della recidiva. Seguendo l'ordine logico dell'esposizione non possiamo non iniziare dalla modifica apportata al primo comma dell'art. 58-quater, del cui comma 7-bis abbiamo invece parlato nel paragrafo che precede.

Secondo quanto disposto dalla vecchia formulazione l'evasione, dimostrativa di inaffidabilità del soggetto, comportava conseguenze diverse in base al titolo di reato per cui il condannato scontava la pena. Alcuni benefici penitenziari (quali l'assegnazione al lavoro esterno, permessi premio, affidamento in prova, detenzione domiciliare e semilibertà) erano quindi preclusi ai condannati per uno dei delitti di cui all'art. 4- bis responsabili di una condotta punibile ai sensi dell'art. 385 c.p.

Ebbene, la legge ex Cirielli ha generalizzato l'originario divieto estendendolo a tutti i condannati che si siano resi colpevoli del reato ostativo (l'evasione); la preclusione ai benefici, in caso di evasione o revoca, varrà adesso anche per i condannati per delitti non previsti dall'art. 4-bis.

Sotto un profilo strettamente costituzionale, il nuovo primo comma ha inoltre il pregio di ridefinire con maggiore chiarezza i presupposti normativi per l'operatività del divieto.

Durante il periodo ante riforma si era infatti posta la questione relativa all'individuazione del momento temporale di operatività del divieto. Apparentemente del tutto insensibile ai principi costituzionali, parte della dottrina collegava l'operatività del divieto alla semplice notitia criminis, prescindendo quindi dalla irrevocabilità della condanna per evasione (12). Anche la giurisprudenza di legittimità si esprimeva attraverso posizioni poco garantiste finendo con l'escludere addirittura che il provvedimento di archiviazione non costituisse atto idoneo a determinare la revoca del divieto (13).

Soltanto con l'intervento della Corte costituzionale si affermò che la sentenza di assoluzione con le formule "perché il fatto non sussiste" o "per non aver commesso il fatto", attribuisce all'interessato il diritto di chiedere al Tribunale di Sorveglianza la revoca del divieto (14).

Consapevole del problema prospettato, il legislatore sostituisce la precedente dizione "posto in essere una condotta punibile" con l'espressione "sia stato riconosciuto colpevole di una condotto punibile a norma dell'art. 385 c.p.".

Ne consegue che, alla luce del principio costituzionale di presunzione di innocenza, per l'operatività del divieto si rende necessaria la condanna definitiva per evasione, non essendo al contrario sufficiente il mero accertamento incidentale della condotta operato dal Tribunale di Sorveglianza. Tale interpretazione è, per di più, avallata dalla giurisprudenza in materia di liberazione condizionale (15).

La nuova formulazione del primo comma ha il sapore dell'interpretazione autentica e sembra dunque aver messo da parte ogni problema di costituzionalità, richiedendo la necessità di un provvedimento irrevocabile di condanna.

Inoltre, la ratio nuova previsione appare raccordarsi anche con le norme procedurali relative alla misure cautelari personali. Il codice di procedura penale (art. 276 c.p.p.) configura infatti il reato di evasione come una ipotesi di revoca degli arresti domiciliari, prescindendo dal titolo di reato per cui si procede nei confronti della persona imputato o indagata.

Occorre infine tenere presente che la dottrina più accreditata include tra le condotte punibili ai sensi dell'art. 385 c.p. oltre alla fuga dal carcere anche quelle di sottrazione alla semilibertà o agli arresti domiciliari (16). Se questo orientamento fosse confermato nella vigenza della nuova norma il divieto di concessione dei benefici subirebbe sicuramente una forte estensione applicativa, con tutte le ulteriori ripercussioni sul sistema carcerario.

Invariata invece la durata del divieto che rimane fissata nei tre anni decorrenti dal momento in cui è ripresa l'esecuzione della custodia (art. 58-quater, comma 3).

6. La detenzione domiciliare anagrafica

Non tutte le novità relative alla detenzione domiciliare sono collegate allo status di recidivo reiterato del condannato (vedi quanto detto al par. 3 lettera C), infatti l'art. 7 della legge introduce un'ulteriore fattispecie che abbiamo definito detenzione domiciliare anagrafica.

Nella formulazione dell'art. 47-ter viene premesso il nuovo comma 01, che prevede per gli ultrasettantenni la possibilità di espiare la pena della reclusione in regime di detenzione domiciliare, indipendentemente dall'entità della pena stessa.

Unici limiti normativi all'applicabilità sono rappresentati dalla sussistenza di condizioni attinenti al titolo di reato e allo status del condannato; precisamente questa detenzione domiciliare non può essere concessa:

  1. in presenza di condanne per delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I e dagli articoli 609 bis, 609- quater e 609octies codice penale, art. 51, comma 3 bis codice di procedura penale e art. 4- bis ordinamento penitenziario;
  2. al soggetto che sia stato dichiarato delinquente abituale professionale o per tendenza né sia mai stato condannato con l'aggravante della recidiva.

La previsione contenuta nel nuovo comma 01 mi pare riassumere un po' la particolare filosofia ispiratrice della legge in commento, che è protesa a prevedere un trattamento deteriore nei confronti di alcuni soggetti presunti pericolosi da un lato, e un trattamento favorevole per altri soggetti presunti non portatori di particolare pericolosità (17).

La detenzione domiciliare anagrafica prescindendo da qualsiasi tutela di beni costituzionalmente garantiti (salute, gioventù, famiglia ecc) e da qualsiasi entità di pena, rimane legata quasi esclusivamente all'età del condannato, salvo il temperamento dovuto all'operatività dei limiti oggettivi e soggettivi previsti nella norma stessa. Questo significa che il legislatore così come ha individuato nel recidivo (in particolare in quello reiterato) un soggetto portatore di un particolare pericolosità sociale in relazione alla carriera criminis, alla stessa maniera ha individuato, in modo apparentemente poco ragionevole o ragionato, nel compimento del settantesimo anno di età il momento al partire dal quale la persona deve ritenersi portatrice di una minore pericolosità. È vero che il limite costituito dai reati ostativi riduce di molto l'operatività dell'istituto, ma è altresì vero che il condannato ulterasettantenne condannato per altri gravi delitti (rapina semplice; estorsione; lesioni personali anche gravissime; reati finanziari non associativi) potrebbe comunque fruire della misura con evidente frustrazione di un'equa giustizia retributiva.

Si è creata quindi una misura alternativa del tutto atipica, la cui applicazione è in larga parte rimessa all'età del condannato in relazione alla sua presunta mancanza di pericolosità.

Ebbene, non potendo includere tra le funzioni sottese alla fattispecie in esame né la necessità di sfollamento delle carceri né l'esigenza di fini rieducativi possiamo ipotizzare che la detenzione domiciliare anagrafica persegua la finalità di non infierire su una tipologia di condannati che per la particolare anzianità non è ritenuta idonea al carcere.

Consentire di espiare pene anche di un certo rilievo in forma alternativa, per mezzo di una misura legata principalmente alla sola età dell'istante e svuotata di qualsiasi contenuto rieducativo, dovrebbe quantomeno aprire una riflessione sulla natura polifunzionale che la pena assume nel nostro ordinamento e che ormai le è stata ampiamente riconosciuta dalla Corte costituzionale.

La detenzione domiciliare anagrafica ha posto in giurisprudenza anche il problema della obbligatorietà o meno della sua concessione. In altri termini, di fronte ad una istanza volta ad ottenere tale misura, il tribunale di sorveglianza è tenuto soltanto a verificare la sussistenza dei presupposti normativi richiesti dalla nuova fattispecie ovvero conserva un margine di potere discrezionale nella decisione sulla sua concessione?

Sul punto possiamo riportare la giurisprudenza seguita dal Tribunale si Sorveglianza di Firenze (18). Relativamente ad una istanza volta ad ottenere il beneficio di cui al comma 01, la difesa dell'interessato assumeva consistesse in una misura vincolata, nel senso che al Tribunale di Sorveglianza non fosse concesso nessun altro potere se non quello di accertare l'età dell'interessato e l'assenza dei reati ostativi. Il collegio di Firenze, pur ammettendo il condannato alla misura de quo, ha optato per una diversa soluzione interpretativa. Facendo ricorso all'interpretazione letterale della norma che utilizza la dizione "può", ha infatti ritenuto la detenzione anagrafica una misura non vincolata permanendo in capo all'organo giudiziario un potere discrezionale, sia pure limitato, circa la sua concessione. Potere discrezionale che, in ultima analisi, non può che riguardare la pericolosità sociale dell'ultrasettantenne. Il collegio fiorentino nella fattispecie sottoposta al suo esame accertata la sussistenza di elementi negativi (recidiva e reati ostativi) concede la detenzione domiciliare precisando però che essa consente di "formulare la presunzione dell'adeguatezza della misura in parola a svolgere la funzione neutralizzatrice della pericolosità che anche questa specie di detenzione domiciliare è, in funzione dell'età del condannato, destinata ad attuare".

Tale interpretazione se sarà avallata anche presso altri sedi giudiziarie consentirà di attenuare il problema sopra prospettato dell'incongruenza derivante da una misura che, legandosi in gran misura alla esclusiva età del condannato, non offre garanzie per la tutela della società esterna.

Concludo con due osservazioni a margine della disciplina della nuova misura.

Merita infatti spendere qualche parola sulla tecnica legislativa utilizzata nella formulazione del nuovo comma: per la prima volta nel nostro ordinamento si assiste alla formulazione di un comma numerato con 0.1. Con buona probabilità ciò si spiega in relazione alla difficoltà per il legislatore di inserire altrove la fattispecie di detenzione domiciliare anagrafica. Come abbiamo avuto modo di vedere, il nostro ordinamento penitenziario contempla in effetti molteplici fattispecie di detenzione domiciliare che si sono sviluppate nel tempo con successivi inneschi legislativi. Il legislatore si è trovato dunque ad inserire un ulteriore specie di detenzione domiciliare in un quadro normativo già notevolmente complesso e caratterizzato da problemi di sovrapposizione applicativa tra le varie figure. Di qui la scelta di anteporre la nuova ipotesi alla figure già esistenti con la particolare numerazione di cui abbiamo dato conto.

In secondo luogo, non è superfluo evidenziare che la modalità di costruzione delle varie fattispecie ostative alla detenzione domiciliare anagrafica, ha rappresentato un preciso riferimento per le successive modificazioni apportate all'art. 4- bis con la legge 38/2006 (19).

In entrambe le norme (art. 47- ter e art. 4- bis) vengono con chiarezza indicati i reati sessuali come presupposti normativi delle rispettive fattispecie.

In precedenza, infatti, erano sorti dubbi interpretativi sul terzo periodo dell'art. 4-bis: la questione era se il divieto ivi contenuto si estendesse financo ai reati a sfondo sessuale non oggetto di associazione criminale (artt. 609-bis; 609-quater; 609-octies). Siccome l'orientamento giurisprudenziale prevalente, attraverso l'ermeneutica del primo comma terzo periodo, riteneva che i reati sessuali "semplici" rimanessero fuori dalla previsione dell'art. 4-bis; il riferimento alle violenze sessuali rimaneva di fatto lettera morta all'interno della legge poiché difficilmente ipotizzabile nella pratica un'associazione finalizzata alla commissione di tali delitti (20). Ed in effetti in base alla locuzione introdotta con la legge 4/2001, il regime speciale previsto dalla seconda parte dell'art. 4-bis era applicabile ai detenuti o internati per i delitti (tra gli altri) di cui all'art.".. 416 realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I e dagli articoli 609 bis, 609 quater, 609 quinques, 609 octies del codice penale.."

Per merito delle recenti modifiche anche i delitti a sfondo sessuale sganciati dalla configurazione di un'associazione a delinquere concorrono invece a rendere operativo l'art. 4-bis e a precludere l'applicabilità della nuova figura della detenzione domiciliare anagrafica prevista nel neonato comma 01. dell'art. 47-ter.

Note

1. Corte costituzionale, sentenza. N. 569 del 1989.

2. L'art. 4, comma 2, del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni nella L. 21 febbraio 2006, n. 49, ha previsto che la disposizione di cui alla lettera c) dell'art. 656 del c.p.p. non "si applica nei confronti dei condannati, tossicodipendenti od alcooldipendenti, che abbiano in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti ovvero nell'ambito di una struttura autorizzata e l'interruzione del programma programma può pregiudicarne la disintossicazione".

3. Sulla natura polifunzionale oltre alla dottrina maggioritaria, si è espressa più volte la Corte costituzionale. V. per tutti Corte cost, sentenza. N. 188 del 1990 secondo cui il permesso premio è al contempo "un incentivo alla collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria e uno strumento di rieducazione, in quanto consente un iniziale reinserimento del condannato in società, ed è quindi parte integrante del trattamento rieducativi".

4. Il senso di responsabilità e correttezza nel comportamento è stato diversamente interpretato. In alcune pronunce si è sostenuta la sussistenza della regolare condotta con riferimento al mero "supino adattamento alle regole" del condannato (Cass. 13 marzo 1983, Campria); in altre occasioni è stato invece richiesto un "assiduo e costante impegno all'opera di rieducazione" (così, Trib. Sorv di Milano 9 marzo 1997, Gaddi).

5. V. La Greca, Le disciplina dei permessi premio nel quadro del trattamento penitenziario, in L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, a cura di Grevi, 1994, p. 254 che parla di un giudizio prognostico ossia orientato in avanti e che non deve lasciarsi imbrigliare da elementi che appartengono al passato quali la gravità del fatto commesso. Oppure v. G. Zappa, Il permesso premiale: analisi dell'istituto e profili operativi, in Rass penit. Criminol. 1988, p.15 che sostiene chiaramente che il giudizio di pericolosità non può che fondarsi su precisi elementi di fatto, tra i quali non possono evidentemente rientrare i precedenti penali, altrimenti i recidivi e i condannati per gravi delitti mai potrebbero fruire dei permessi; mentre la legge consente anche agli ergastolani tale beneficio.

6. F. Bricola, Introduzione, in Il carcere riformato, a cura dello stesso autore, Bologna, 1977, p. 11.

7. Con GOT si indica il Gruppo di Osservazione e Trattamento previsto in ogni istituto di pena dal nostro ordinamento penitenziario.

8. In realtà l'art. 50- bis pone dei problemi interpretativi anche in relazione alla semilibertà alternativa a pene detentive lunghe quali l'ergastolo. Tacendo sul punto sono possibili due interpretazioni che portano entrambi a risultati non accettabili: 1) nel silenzio della nuova legge sulla pena perpetua si dovrebbe continuare ad applicare il quinto comma dell'art. 50 all'ergastolano quantunque dichiarato recidivo reiterato. Ne deriverebbe un sistema normativo che privilegia i condannati alla più grave delle pene che sarebbe l'unica a sottrarsi al regime della recidiva reiterata;. 2) Ritenere applicabile l'art. 50- bis anche agli ergastolani. Ne deriverebbe l'esclusione totale dell'ergastolano dal beneficio perché la pena perpetua non può per definizione essere oggetto del frazionamento richiesto dall'art. 50-bis.

9. Tale sospetto è paventato in alcune riflessioni dottrinali, si veda ad es. S. Ciampi, Permeessi premio e semilibertà: dalle nuove condizioni di accesso significavi riverberi sui profili funzionali degli istituti, in Nuove norme su prescrizione del reato e recidiva, Cedam, 2006, p.258 ss.

10. L'osservazione scientifica e quindi il trattamento murario sarà comunque imprescindibile vista l'operatività della nuova disposizione dell'art. 656 c.p.p. che vieta la sospensione dell'ordine di esecuzione nei confronti del recidivo reiterato, sempreché non si tratti di un tossicodipendente con un programma terapeutico in corso.

11. I due articoli sono stati introdotti rispettivamente: dall'art. 5 della legge 12 luglio 1991, n. 231 e dall'art. 3 della legge 8 marzo 2001, n. 40.

12. Canepa - Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Ed. Giuffrè, Milano, 2004, p. 498; G. Casaroli, Misure alternative alla detenzione, in D. disc. Pen., VIII, Torino, 1994, p. 31; G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1997, p. 287; B. Guazzaloca - M. Pavarini, L'esecuzione penitenziaria, Ed. Utet, Torino, 1995, p. 329.

13. Così, Cass., sez. I, 9 marzo 1994, Curti, in Mass. Uff., 197165.

14. V. Corte cost., sentenza. 31 maggio 1996, n. 181, in Giur. Cost., 1996 p. 1685.

15. V. Corte cost., sentenza 23 dicembre 1998, n. 418.

16. P. Di Ronza, Manuale di diritto dell'esecuzione penale: guida ragionata alle problematiche e alla casistica, 2ª ed., Cedam, Padova, 1994. In senso contrario, ossia per l'irrilevanza della condotta punibile ex art. 385 c.p. ma posta in essere prima che sia stato acquisito lo status di condannato nel corso della custodia cautelare, V. Della Casa, La magistratura di sorveglianza, 2a ed., Torino, 1994; Cass. 21 ottobre 1992, Brusegan.

17. In realtà nell'originario progetto di legge era prevista un'ulteriore previsione a favore degli ultrasettantenni. Si prevedeva, infatti, all'interno dell'art. 62 c.p. un nuovo numero 6-bis il quale configurava nei confronti di questi soggetti una circostanza attenuante. In sede di seconda lettura in Senato la norma è stata poi opportunamente abrogata, poiché introduceva un'attenaunte completamente estranea dal fatto e dalla personalità e collegata solamente all'età del soggetto agente.

18. Vedi, ad es., Trib. Sorv. Firenze, ordinanza 29.12.2005, nº 5211/05.

19. V. art. 15 della legge 6 febbraio 2006, n. 38.

20. Al più può configurarsi una violenza sessuale di gruppo che, come tale, integra un'autonoma fattispecie di reato prevista all'art. 609- octies c.p.