ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Cap. I
Il trattamento penitenziario

Maria Rosaria Calderone, 2005

1. Il nuovo ordinamento penitenziario - legge 26 luglio 1975, n. 354

A metà degli anni Settanta il carcere era ancora disciplinato dal Regolamento penitenziario fascista, emanato dal Ministro di Giustizia Rocco nel 1931, il quale non prevedeva alcuna misura alternativa, mentre il codice penale prevedeva la liberazione condizionale che, al più, si poteva considerare come un intervento straordinario dall'alto, simile alla grazia.

Nel periodo 1968-1975 esplosero diverse rivolte dei detenuti che chiedevano a gran voce una riforma penitenziaria. Lo Stato rispose con la repressione, con i trasferimenti, gli internamenti nei manicomi criminali o addirittura con il ricorso all'esercito (1).

Oltre alle lotte interne al carcere, non bisogna dimenticare il fenomeno terroristico che caratterizzava il contesto sociale italiano in quegli anni. Tale fenomeno ha contribuito ad incrementare la popolazione carceraria, comportando una sostanziale differenziazione della sua composizione: non vi erano più solo delinquenti comuni, fanno la loro apparizione i prigionieri politici.

Il carcere diveniva, sempre di più, terreno fertile per le lotte contro il sistema istituzionalizzato. Facile era, infatti, l'attività di proselitismo all'interno delle mura degli istituti di reclusione, dove le rivendicazioni legittime dei detenuti per il riconoscimento di maggiori diritti e di una maggiore umanizzazione della pena, si confondevano con la lotta politica contro l'intero sistema.

Nel frattempo, il Parlamento continuava a discutere sui progetti di riforma ma emergevano contrasti e divergenze sia tra le diverse forze politiche, sia all'interno di ognuna di esse. Le problematiche del carcere divennero sempre di più un'emergenza: da un lato, aumentavano le rivolte e le rivendicazioni dei detenuti, dall'altro si faceva più concreta l'esigenza della lotta contro i terroristi che sembravano trovare nel carcere un utile terreno di propaganda.

Alla riforma si giunse con la legge 26 luglio 1975, n. 354 "Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà".

Questa legge è il risultato finale di un lungo e faticoso processo di revisione del sistema penitenziario in risposta sia al nuovo contesto socio - culturale, sia ai nuovi valori emergenti dalla Carta Costituzionale e dalle Convenzioni internazionali. (2)

Le iniziative di riforma dell'ordinamento penitenziario hanno preso avvio sin dal 1947. I vari progetti di legge non giunsero mai in Parlamento e solo nel 1965 il Consiglio dei Ministri presentò all'organo legislativo un disegno di legge di riforma, ma a causa della fine anticipata della legislatura il progetto fu esaminato solo al Senato. In seguito fu costituito un comitato ristretto per l'aggiornamento del testo e ripresentato in Parlamento nel 1968, ma ancora una volta la fine anticipata della legislatura portò all'arresto del procedimento di riforma dell'ordinamento penitenziario.

Il disegno di legge, sottoposto all'esame del Parlamento costituiva un sicuro adeguamento delle norme che disciplinano l'esecuzione penitenziaria ai principi stabiliti al terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione e ai principi contenuti nelle regole minime dell'O.N.U. per il trattamento dei detenuti, che ripudiano l'impostazione meramente punitiva, segregazionista e autoritaria dell'ancora vigente regolamento del 1931.

La riforma del 1975 ha introdotto una serie di principi fondamentali di estrema importanza nel sistema penitenziario italiano. Uno dei pilastri portanti della nuova normativa è stata l'introduzione del trattamento penitenziario ispirato ai principi di umanità e dignità della persona (3), proprio in attuazione della funzione rieducativa enunciata all'art. 27, terzo comma, della Costituzione (4). Tale trattamento secondo l'articolo 13 O.P. deve essere individualizzato, ovvero rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto (5). I parametri di comportamento del personale che opera all'interno degli istituti di pena, devono ispirarsi ai principi di dignità e umanità della persona e rispondere alla finalità del reinserimento sociale dei soggetti sottoposti a trattamento rieducativo. Il trattamento individualizzato, che deve essere formulato attraverso l'osservazione scientifica della personalità, diventa lo strumento attraverso il quale ricondurre il reo nel contesto sociale dal quale si è distaccato. Il principio dell'individuazione della pena, non solo doveva adeguare la pena al fatto commesso dal soggetto nell'ottica della proporzionalità della reazione all'azione svolta, ma soprattutto doveva consentire l'applicazione delle misure alternative, che possono essere considerate l'estrinsecazione più ampia del trattamento risocializzante (6).

I diritti e le facoltà riconosciuti dalla riforma dell'ordinamento penitenziario ai detenuti e internati, unitamente alla possibilità per gli stessi di esercitarli anche se eventualmente si trovino in posizione di interdizione legale (7), rappresentano un'altra rilevante novità introdotta dalla legge n. 354 del 1975, mediante la quale viene data attuazione al disposto costituzionale degli articoli 24 e 3 Cost. Per la prima volta, dunque, anche chi è privato della libertà personale ha la concreta possibilità di tutelare i propri diritti (8). Tra le altre novità introdotte dalla riforma in esame, si ricordano, l'apertura del carcere alla comunità esterna e la previsione di tutta una serie di benefici a favore dei detenuti. L'art. 17 O.P. prevede la possibilità a favore di soggetti esterni all'istituto di pena di partecipare all'azione rieducativa (9) e i benefici hanno la finalità di reinserire, gradualmente, il reo nel tessuto sociale.

Ulteriore pregio della riforma del 1975 è l'introduzione, nel sistema penitenziario, di un doppio grado di giurisdizione (10), affidando la fase esecutiva della pena ad un apposito apparato giurisdizionale, affiancando all'allora giudice di sorveglianza - dopo la riforma del 1986, magistrato di sorveglianza - le sezioni di sorveglianza, competenti sulle questioni relative al trattamento penitenziario e ai diritti dei detenuti.

I principi contenuti nella legge di riforma, hanno creato nei detenuti legittime aspettative, subito deluse dalla carenza di personale e di strutture che hanno, di fatto, limitato la portata applicativa delle innovazioni.

La prospettiva rieducativa scelta dal nuovo ordinamento penitenziario, si adattava ad un tipo di autore del reato disadattato e poco integrato nel tessuto sociale, invece, si è dimostrata inadeguata nei confronti di quei soggetti culturalmente preparati che hanno guidato e sostenuto il fenomeno terroristico sviluppatosi durante gli anni della riforma dell'O.P. I protagonisti del terrorismo - ai quali non erano mancate opportunità di adeguato inserimento nel contesto sociale - avevano elaborato un sistema di valori alternativo e antagonistico a quello statuale, incompatibile con la metodologia rieducativa pensata dal legislatore. In un tale contesto, pur nell'ottica di una maggiore umanizzazione del sistema carcerario, il mantenimento di ordine e sicurezza erano esigenze non solo imprenscindibili ma anche irrinunciabili. Ciò non è privo di riscontro nel dato normativo, laddove la legge 354/75, art. 1, dopo aver espresso che i contenuti normativi in cui si ravvisino i principali pilastri su cui si basa la complessa costruzione giuridica dell'ordinamento penitenziario, al terzo comma afferma che negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. L'articolo 90 dell'ordinamento penitenziario ne è un'altra dimostrazione, prevedendo la possibilità attribuita al Ministro "di sospendere le ordinarie regole di trattamento, quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza".

Alla luce di quanto sopra, appare evidente la limitata portata normativa della riforma dell'ordinamento penitenziario, considerata la soccombenza delle esigenze di razionalizzazione ed umanizzazione delle strutture carcerarie attuative del dettato costituzionale (per il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato), alle finalità sovrane del mantenimento dell'ordine e della sicurezza.

La legge 663/86, così detta legge Gozzini ha costituito una vera e propria riforma dell'ordinamento penitenziario, dando maggiore attuazione ai principi che avevano ispirato la riforma del 1975. In tema di trattamento di notevole importanza e l'abolizione dell'art. 90 e l'introduzione del regime di "sorveglianza particolare", questo permetterà una maggiore individualizzazione del trattamento, in quanto si isolano dalla popolazione carceraria i detenuti che compromettono l'ordine e la sicurezza del carcere. La novella del 1986 interviene, anche sulle misure alternative alla detenzione ampliando il loro ambito operativo, sia per attuare in modo più efficace il trattamento rieducativo, sia per cercare di limitare il problema del sovraffollamento del carcere.

Altro ambito in cui interviene la novella del 1986 è la riorganizzazione in maniera sistematica della magistratura di sorveglianza, trasformando le sezioni di sorveglianza in tribunali di sorveglianza ed ampliando il numero e la tipologia d'intervento della suddetta autorità giudiziaria. In particolare, rilevano le funzioni di vigilanza e di controllo che sono attribuite all'organo monocratico, ma di queste se ne parlerà successivamente, inoltre il magistrato di sorveglianza è competente a decidere sui provvedimenti di applicazione, esecuzione o revoca, anche anticipata della misura di sicurezza e sulle modifiche delle misure alternative alla detenzione. Nella prospettiva di una completa giurisdizionalizzazione dell'esecuzione della pena, è ampliata la competenza del tribunale di sorveglianza che oltre a decidere sulle misure alternative, decide in tema di rinvio facoltativo o obbligatorio dell'esecuzione e, in sede di appello, sui ricorsi in materia di riesame delle misure di sicurezza.

2. La concezione del "trattamento" contenuta nella l. 354/75

La l. 354/75 si preoccupa di definire le linee e le modalità del trattamento penitenziario, conciliando le esigenze di ordine e di organizzazione degli istituti con le esigenze della personalità del detenuto.

All'art. 1 O.P. il legislatore definisce il trattamento con due aggettivi diversi: "trattamento penitenziario" e "trattamento rieducativo".

Il "trattamento rieducativo" è riferito esclusivamente ai detenuti condannati, in quanto destinatari di interventi diretti alla loro "reinserimento sociale". La formula "trattamento penitenziario" si riferisce ai detenuti indipendentemente dal loro status, infatti è rivolta a definire in termini generali il quadro delle regole e dei modi che regolano la vita dei detenuti all'interno dell'istituto penitenziario.

La definizione di "trattamento" viene, inoltre, specificata dall'art. 1 reg. esec. (11) ove si distingue: tra l'offerta di interventi rivolta a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali degli imputati; e il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati "rivolto a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti professionali, nonché delle relazioni familiari e sociali, che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale". Quindi, la nozione di trattamento, contenuta sia nella l. 354/75 che nel relativo reg. di esec., non ha alcun carattere impositivo, anzi presuppone una adesione volontaria da parte dei soggetti detenuti. Specificando, si può affermare che i condannati non sono tenuti ad alcun obbligo di adattamento agli interventi di trattamento, mentre dagli articoli su menzionati deriva un obbligo di attivarsi da parte degli organi dell'amministrazione penitenziaria.

È evidente come per gli imputati il trattamento deve essere conforme al principio stabilito all'art. 27, 2º comma Cost., ove si afferma che essi "non sono considerati colpevoli fino alla condanna definitiva". Per questi soggetti il trattamento non può proporre una finalità rieducativa, ma si deve tradurre nel riconoscimento agli imputati dei diritti non incompatibili con le esigenze giudiziarie che hanno motivato la custodia in carcere. Inoltre, all'art. 15, 3º comma O.P. si sancisce che gli imputati sono ammessi a fruire del trattamento offerto normalmente ai condannati solo su loro richiesta. In questa ipotesi gli obblighi dell'amministrazione di predisporre l'attività di trattamento si configurano solo se vi è un'esplicita richiesta del trattamento da parte del soggetto interessato.

Come già accennato, la sottoposizione all'osservazione della personalità non costituisce un dovere per il detenuto, quanto invece un obbligo di fare dell'amministrazione penitenziaria. A questo proposito la Corte di Cassazione ha ribadito l'importanza del consenso dell'interessato e la rinunciabilità del diritto al trattamento. Infatti, pur ribadendo l'obbligo di fare per l'amministrazione penitenziaria che si concretizza in una offerta di interventi finalizzati, tramite l'osservazione scientifica della personalità del soggetto, alla predisposizione di un programma individualizzato di trattamento, i cui risultati devono essere periodicamente valutati per le esigenze previste dall'ordinamento penitenziario. Inoltre, se l'amministrazione penitenziaria non si è attivata a predisporre l'offerta trattamentale, la Corte ha affermato che in quest'ipotesi è il giudice a dover esaminare la personalità del soggetto, al fine di verificare se l'espiazione della pena ha comportato una positiva modificazione della personalità del condannato (12).

2.1. Il trattamento individualizzato

Altra caratteristica del trattamento penitenziario, affermata all'art. 13 O.P. è che esso "deve rispondere ai particolari bisogni della personalità del soggetto", quindi l'individualizzazione del trattamento comporta un'attenta considerazione dei bisogni di ciascun individuo. Attraverso l'individualizzazione del trattamento si tenta di ovviare al livellamento della popolazione detenuta, dando rilievo e rispetto all'individualità di ciascun detenuto.

Lo strumento principale per perseguire questo fine è individuato nell'istituzione di circuiti detentivi differenziati, ai quali assegnare i soggetti sulla base delle necessità di trattamento e dei livelli di progressione del trattamento.

L'art. 14 O.P. individua i criteri da seguire per operare una distinzione e una separazione dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari. In più la sua collocazione, dopo la norma fondamentale riferita al trattamento, evidenzia lo stretto legame funzionale fra il trattamento penitenziario e l'assegnazione dei detenuti agli istituti.

La competenza a disporre l'assegnazione o i trasferimenti dei detenuti è attribuita al provveditore distrettuale o al Ministero. Riguardo all'assegnazione l'art. 14 detta alcuni criteri nella prospettiva della riuscita del trattamento risocializzante. Proprio in vista dell'obiettivo della risocializzazione, l'art. 14 O.P. raccomanda la limitazione del numero dei detenuti presenti negli istituti o nelle sezioni, inoltre stabilisce che deve essere assicurata la separazione non solo fra imputati e condannati, ma anche "dei giovani al di sotto dei venticinque anni dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all'arresto dai condannati alla reclusione". Questi ultimi all'ingresso in istituto devono essere sottoposti ad un osservazione diretta alla formulazione di un programma di trattamento. Solo dopo questa prima osservazione il soggetto viene definitivamente assegnato ad un istituto penitenziario o ad una sezione dell'istituto, ove dovrebbero essere raggruppate soggetti il più possibile omogenei ai fini del trattamento penitenziario.

La disposizione in esame stabilisce che il raggruppamento dei detenutivi ha come obiettivo la necessità di evitare influenze nocive reciproche. Infatti, il pilastro fondamentale per la riuscita di qualsiasi tipo di intervento rieducativo è il mantenimento dell'ordine e della disciplina all'interno degli istituti e l'espresso riferimento al pericolo di influenze negative sottolinea la forte preoccupazione del legislatore di fronteggiare comportamenti che possono risultare dannosi, tali da compromettere il trattamento (13). Questo concetto è ribadito anche all'art. 32 reg. esec. (14) che prevede l'assegnazione dei "detenuti e gli internati, che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni, sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia più agevole adottare le su dette cautele".

Lo stesso articolo stabilisce che l'assegnazione disposta per i motivi cautelari su menzionati, deve essere verificata semestralmente (15).

Da quanto emerge l'assegnazione definitiva dei detenuti è basata sul presupposto che si creino istituti o sezioni differenziate fra loro, ciascuno organizzato per attuare un particolare tipo di trattamento. L'assegnazione dei detenuti nelle sezione o negli istituti deve sempre avvenire in base alle informazioni acquisite con l'osservazione della personalità del soggetto, ma si devono tenere in considerazione anche il luogo di residenza dei soggetti.

3. La censura della corrispondenza

L'ordinamento penitenziario, in conformità all'art. 15 della Costituzione, non vieta la corrispondenza, ma prevede la possibilità di un controllo su di essa da parte dell'amministrazione penitenziaria, previa l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria competente.

L'art. 14 quater, 2º comma o.p. (16), permette all'amministrazione penitenziaria di includere nel provvedimento che dispone la sorveglianza particolare il visto di controllo sulla corrispondenza, previa l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria competente. La motivazione di questa restrizione deve sempre riferirsi al pregiudizio che può essere arrecato alla sicurezza e all'ordine del carcere.

L'ordinamento penitenziario prevedeva, per motivazioni diverse, la censura della corrispondenza, anche, all'art. 18. In base a tale norma, infatti, la censura sulla corrispondenza poteva essere disposta anche per motivi attinenti ad indagini investigative o per prevenire altri reati.

L'art. 18 O.P. (17) disciplinava la materia dei colloqui e della corrispondenza dei detenuti, in materia di corrispondenza epistolare il 7º comma stabiliva che a disporre il visto di controllo sulla corrispondenza provvedeva il magistrato di sorveglianza per i soggetti già condannati, mentre, per gli imputati la competenza era affidata all'autorità giudiziaria procedente.

Secondo quanto disposto dall'art. 38, 6º comma, reg. esc. (18) il direttore dell'istituto, quando sospettava che nella corrispondenza possono essere contenuti elementi di reato o elementi che pregiudicano l'ordine e la sicurezza, trattiene la missiva e informa l'autorità giudiziaria competente. La corrispondenza in arrivo e in partenza era sottoposta ad ispezione al fine di rilevare l'eventuale presenza di valori o altri oggetti non consentiti, ma l'ispezione doveva avvenire in modo che non vi sia alcun controllo sullo scritto.

Riguardo alla corrispondenza con il difensore l'art. 103, 6º comma c.p.p., vieta ogni forma di controllo della corrispondenza fra imputato e difensore, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. L'art. 35, 4º comma, disp. att. c.p.p. esclude l'applicabilità della normativa penitenziaria sulla corrispondenza tra imputato e difensore, inoltre prevede che sulla busta della missiva devono essere scritti i nominativi dell'imputato e del difensore e la dicitura "corrispondenza per ragioni di giustizia", nonché l'indicazione del procedimento cui si riferisce la missiva.

Le differenze fra la censura della corrispondenza così come era prevista all'art. 18 e quella per motivi di sicurezza ex art. 14 O. P., erano diverse.

La prima differenza riguarda le motivazioni per cui viene richiesto il visto sulla corrispondenza: si ricorre all'art. 14 quater per motivi di ordine e sicurezza; si ricorre all'art. 18 per motivi attinenti ad indagini investigative o se sussiste il sospetto che possono essere commessi altri reati.

La dottrina e la giurisprudenza erano pienamente d'accordo nel riconoscere una ulteriore diversità fra i provvedimenti: ovvero si riconosceva carattere amministrativo al provvedimento di censura della corrispondenza ex art. 18, per questo motivo non era previsto alcun mezzo di impugnazione contro tale decisione (19); mentre, si riconosceva una natura giurisdizionale al provvedimenti di censura ex art. 14 quater, infatti, contro tale provvedimento poteva farsi ricorso al tribunale di sorveglianza ex art. 14 ter.

Le perplessità sulla conformità delle disposizioni dell'ordinamento penitenziario, alla Costituzione e alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo del 1950, erano molte.

Sulla inviolabilità del diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza la Corte Costituzionale ha affermato che tale diritto appartiene "al nucleo essenziale dei valori della personalità, che inducono a qualificarlo come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana" (20). Quindi, tale diritto non può subire limitazioni o restrizioni se non in ragione del soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, inoltre, tale limitazione deve essere espressamente prevista dalla legge e adottata con atto motivato dell'autorità giudiziaria.

La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha più volte condannato l'Italia per il mancato rispetto della Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo del 1950, proprio riguardo al diritto alla corrispondenza così come disciplinato all'art. 18 O.P.

La Corte nelle sue pronunce ha ritenuto in contrasto con il diritto europeo:

  • l'eccessiva discrezionalità, attribuita dalla legge italiana, all'autorità pubblica, sia amministrativa che giudiziaria, nel disporre i controlli e i limiti alla corrispondenza, senza che vi siano nella legge dei precisi limiti e condizioni a tale potere;
  • la carenza di un'adeguata tutela giurisdizionale del detenuto contro eventuali atti lesivi dell'autorità pubblica (21);
  • la mancanza di appositi strumenti per comprovare l'effettiva consegna della corrispondenza sottoposta a censura. (22)

In conseguenza di questa critica l'amministrazione penitenziaria con circolare 14/3/1994 n. 3382/5832, ha disposto che la corrispondenza in arrivo sottoposta a visto di controllo fosse annotata in un apposito registro, dando immediata comunicazione al detenuto interessato che doveva controfirmare il registro al momento della ricezione della corrispondenza controllata.

In una successiva sentenza la Corte Europea (23) ha affermato alcuni principi fondamentali riguardo alla tutela della corrispondenza: non può essere sottoposta a visto di controllo la corrispondenza indirizzata alla Corte Europea; deve essere previsto un termine di durata massima della sottoposizione al visto di controllo; il legislatore deve prevedere dei motivi specifici che giustificano l'adozione del visto di controllo.

Quest'ultimo principio è, tra l'altro, in perfetta coerenza con il disposto dell'art. 15 della Costituzione italiana che sancisce la doppia garanzia della riserva di legge e della riserva di giurisdizione.

Il legislatore italiano ha cercato di adeguarsi a questi principi impartiti dalla Corte Europea con la l. 95/04. La nuova normativa ha introdotto una disciplina organica dei controlli della corrispondenza, introducendo nell'ordinamento penitenziario un nuovo articolo, l'art. 18 ter, abrogando le disposizioni preesistenti. Altra importante innovazione è la completa giurisdizionalizzazione del procedimento di sottoposizione a visto di controllo della corrispondenza, infatti, viene estesa a questa materia la procedura di reclamo ex art. 14 ter. Inoltre, la l. 95/04, indica tassativamente le motivazioni per l'attivazione della misura restrittiva. Viene anche stabilito un termine di durata massima del provvedimento di censura, che è di sei mesi, prorogabili successivamente per periodi di tre mesi. La l. 95/04 dispone che i provvedimenti di censura della corrispondenza sono adottati con decreto motivato dall'autorità giudiziaria competente, su richiesta del pubblico ministero o su proposta del direttore dell'istituto. Così facendo la legge chiarisce, rispetto al passato, che l'autorità giudiziaria non procede d'ufficio per disporre le restrizioni.

Dopo l'emanazione di questa legge, l'amministrazione penitenziaria ha provveduto al coordinamento tra il nuovo art. 18 ter e le disposizioni regolamentari. Nella Circ. DAP n. 0245732/04 1/7/04 si osserva che "l'art. 18 ter o.p. ha come finalità la tutela della riservatezza del detenuto, mentre le norme del regolamento esecutivo riguardano la gestione e l'organizzazione dell'istituto penitenziario. Quindi, essendo compito dell'amministrazione penitenziaria garantire l'ordine, la sicurezza e la disciplina, si ritiene necessario continuare ad adottare tutte le cautele idonee ad evitare che attraverso la corrispondenza indirizzata ai detenuti possono essere introdotti in istituto valori o altri oggetti non consentiti".

Nella su menzionata circolare, l'amministrazione penitenziaria non fa altro che riaffermare la sua autorità in materia di corrispondenza, riaffermando la piena operatività dell'art. 38 reg. es. ed annullando le innovazioni introdotte dalla l. 95/04. Ad oggi possiamo affermare che la novità rilevante è la sola giurisdizionalizzazione del procedimento.

Proprio in merito alla mancata coordinazione tra la l. 95/04 e le fonti secondarie che l'Italia è stata ancora una volta condannata dalla Corte Europea (24).

La Corte chiamata a pronunciarsi su un ricorso contro l'applicazione dello speciale regime detentivo di cui all'art. 41 bis, 2º comma O.P., nei cui confronti era stata disposta la speciale misura del controllo della corrispondenza, ha rilevato la violazione dell'art. 8 della Convenzione europea. Infatti, secondo la Corte l'art. 41 bis, non attribuisce alcun potere al Ministro in materia di censura della corrispondenza dei detenuti sottoposti allo speciale regime detentivo, la procedura da applicare è quella dell'art. 18 ter O.P. Quindi, la Corte Europea ravvisa la mancanza di un "fondamento legale" del potere del Ministro, poiché il diritto alla corrispondenza dei detenuti può essere limitato solo con un atto motivato dall'autorità giudiziaria. Inoltre, la Corte ha rilevato che al detenuto era stata censurata la corrispondenza diretta alla stessa Corte Europea e ciò in violazione anche del 2º comma art. 18 ter.

4. Regime disciplinare

L'art 1, 3º comma O.P. è previsto che "negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la sicurezza. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili per le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non dispensabili a fini giudiziari". Con questa previsione si pongono le premesse per l'adozione di una serie di restrizioni a carico dei detenuti che risultano legittime per soddisfare le esigenze di ordine e disciplina. In questa prospettiva, si collocano le misure restrittive applicate come sanzioni disciplinari previste dall'ordinamento penitenziario. Lo stesso regolamento di esecuzione all'art. 2 (25) considera, il mantenimento dell'ordine e della disciplina come garanzie essenziali per realizzare la finalità di trattamento dei detenuti e degli internati. Il rispetto delle regole di vita penitenziaria è affidato al direttore, che per nel perseguire il mantenimento della sicurezza e dell'ordine si avvale del corpo di polizia penitenziaria. Proprio al fine della tutela dell'ordine e della sicurezza possono essere disposte le perquisizioni personali dei detenuti (26), ovviamente nel rispetto della personalità del soggetto che le subisce, sempre allo stesso fine sono disposti gli eventuali trasferimenti ex art. 42, 1º comma O. P.

Inoltre, per sottolineare, ancora una volta, l'importanza attribuita nell'ordinamento penitenziario al mantenimento dell'ordine e della sicurezza, si devono ricordare l'art. 32 reg. esc. che in materia di assegnazione dei detenuti stabilisce che i soggetti che richiedono particolare cautele, devono essere assegnate ad apposite sezioni ed istituti dove sia più agevole adottare le suddette cautele. Al mantenimento della sicurezza interna fanno riferimento le norme in materia di "sorveglianza particolare", che saranno esaminate nei capitoli successivi. Prima di esaminare il regime disciplinare come previsto dall'ordinamento penitenziario, bisogna ricordare che nelle situazioni eccezionali di rivolta o di altre grave situazioni di emergenza, l'art. 41 bis, 1º comma O.P. autorizza il Ministro della Giustizia a sospendere nell'istituto interessato le ordinarie regole di trattamento. La sospensione deve essere motivata dall'esigenza di tutelare l'ordine e la sicurezza dell'istituto, e ha la durata necessaria a ristabilire la situazione di normalità nell'istituto interessato. Quest'ultima disposizione sembra assimilabile all'abrogato art. 90 O.P. ma, con l'introduzione della "sorveglianza particolare" (27) si è circoscritto il suo ambito di applicazione, ovvero non può essere applicato ad un singolo detenuto, ma riguarda effettivamente delle situazioni gravi che potrebbero succedere all'interno delle carceri.

Dall'insieme di queste disposizioni si deduce l'importanza che l'ordinamento penitenziario attribuisce al mantenimento dell'ordine e della sicurezza, esse sono indispensabili per un ordinata vita del carcere e soprattutto per permettere l'attuazione dei programmi individualizzati del trattamento penitenziario.

4.1. Cenni storici

Il Regolamento Rocco del 1931 dedicava un intero capitolo all'indicazione di comportamenti che potevano essere puniti con sanzioni disciplinari, prevedendo sia il modo di accertamento dei comportamenti sanzionabili che l'applicazione delle punizioni o delle ricompense (28). Era previsto, un sistema disciplinare dualistico che doveva servire da motivazione positiva o negativa del detenuto (29).

Una buona parte degli articoli dedicati al sistema disciplinare, prevedevano la descrizione minuziosa delle condotte punibili. Quindi, il regolamento era ispirato ad un rigido rispetto del principio di tassatività, ma una deroga a tale principio si poteva trovare nell'art. 167 che prevedeva la punibilità di condotte, non espressamente previste dal regolamento, basandosi sull'indole e la gravità del fatto. In pratica, qualsiasi fatto ritenuto pregiudizievole per l'ordine e la disciplina poteva essere punito con una sanzione disciplinare, l'unico limite era che il fatto non fosse previsto già come infrazione disciplinare dal regolamento, poiché in tale ipotesi doveva applicarsi la sanzione appositamente prevista.

Per quanto riguarda il contenuto delle sanzioni si poteva notare che miravano a tutelare la disciplina al lavoro allo studio e alla religione. Si puniva la mancata presenza al lavoro o alla scuola, oppure il contegno irriverente durante le funzioni di culto. In genere la sanzione consisteva nell'isolamento del detenuto, impedendogli l'uso della corrispondenza o negandogli le visite dei familiari. Inoltre, il detenuto che subiva la sanzione disciplinare, veniva isolato dagli altri detenuti, vietandogli la possibilità di presentare reclami collettivi (30).

La competenza ad applicare le sanzioni disciplinari era del direttore, anche se si prevedeva che la decisione venisse presa dal Consiglio di disciplina. Quest'organo è composto da quattro membri (compreso il direttore) e decide a maggioranza, in caso di parità di voti, prevale la deliberazione votata dal direttore.

Molte delle sanzioni disciplinari previste dal regolamento del '31 consistevano in pene corporali (31).

4.2. Le novità della riforma del 1975, riguardo al regime disciplinare

Anche nella legge 354/75 il regime disciplinare è impostato sul binomio premio - castigo, ovvero si prevedono non solo le sanzioni disciplinari, ma anche le ricompense.

L'art. 36 o.p. prevede che il regime disciplinare è attuato in modo da stimolare il senso di responsabilità e la capacità di autocontrollo. Esso è adeguato alle condizioni fisiche e psichiche dei soggetti. Il successivo articolo definisce le ricompense come il riconoscimento del senso di responsabilità del soggetto (32). Da questi articoli traspare, quindi, la volontà del legislatore di considerare il regime disciplinare non solo come mezzo di gestione delle carceri, ma soprattutto come mezzo utile all'opera di rieducazione del detenuto (33). Sia le punizioni che le ricompense dovrebbero avere la funzione di stimolare nel detenuto un atteggiamento critico nei confronti della propria condotta. Tale finalità è però smentita dall'applicazione del regime disciplinare ai soggetti in custodia cautelare, rispetto ai quali fino alla sentenza di condanna non vi deve essere alcun tipo di trattamento rieducativo (34).

La riforma del '75 ha cercato di introdurre un minimo di garanzie all'interno di detto regime, nell'intento di affermare il principio di legalità rimanda al regolamento di esecuzione per elencare le condotte punibili e le sanzioni da applicare. Infatti, l'art. 38 o.p. prevede che i detenuti non possono essere puniti se non per un fatto che sia espressamente previsto come infrazione dal regolamento. Il procedimento disciplinare è lasciato alle competenze dell'amministrazione penitenziaria, ma rispetto al passato si può riconoscere una diminuzione della discrezionalità decisionale, grazie alla tipizzazione delle condotte (35).

Notevoli innovazioni si hanno nel contenuto delle sanzioni, numerosi sono i richiami al senso di umanità e alle condizioni fisiche e psichiche dei soggetti. Considerando la sanzione più grave, l'isolamento può avere la durata massima di 15 giorni e la sua applicazione può essere contestata mediante reclamo al magistrato di sorveglianza.

Alcune critiche da parte della dottrina (36) si sono dirette alla poche innovazione delle norme riguardanti l'uso della forza fisica (37) e i trasferimenti (38). Infatti, si evidenzia che, anche nella legge di riforma 354/75, non è prevista la partecipazione del magistrato di sorveglianza sulla decisione dei trasferimenti. Inoltre, riguardo all'uso della forza fisica da parte degli agenti di custodia si evidenzia la genericità della norma nel definire quando può usarsi questo mezzo di coercizione.

Proprio riguardo ai trasferimenti si denuncia l'estrema genericità dei casi in cui possono essere disposti, infatti, anche se non menzionata tra le sanzioni disciplinari, il trasferimento ha costituito in passato e costituisce tutt'oggi il più grave dei provvedimenti punitivi.

5. Gli illeciti disciplinari

Come già accennato l'art. 38 O.P. rinvia al regolamento per l'individuazione delle condotte punibili in via disciplinare. L'art. 77 (39) reg. esec. prevede ventuno ipotesi di infrazioni dirette a tutelare l'ordinario svolgimento della vita all'interno delle carceri, le condotte elencate nel suddetto articolo si collocano come indicatori della insofferenza del detenuto, che le mette in atto, alle forme di trattamento penitenziario offerte (40). Oltre alla punibilità di condotte che violano le norme che regolano la vita interna dell'istituto penitenziario è prevista, anche, la punibilità in via disciplinare del mancato rientro dai permessi, dalle licenze o anche il ritardato rientro del soggetto che usufruisce della semilibertà (41). Nel vecchio regolamento di esecuzione (D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431) all'art. 72 venivano puniti anche con una sanzione disciplinare gli schiamazzi e il linguaggio blasfemo.

Il numero delle infrazioni si raddoppia, poiché è prevista la punizione dell'ipotesi di "tentativo". La dottrina è stata molto critica sulla punibilità del "tentativo", non solo perché raddoppia (42) il numero di comportamenti punibili, ma rende difficile capire ciò che lecito e ciò che non lo è.

Alcune condotte ex art. 77 reg esec., non sono semplici infrazioni disciplinari, ma costituiscono dei veri e propri reati:

  • Atti osceni o contrari alla pubblica decenza;
  • Intimidazione dei compagni o sopraffazione nei confronti dei medesimi;
  • Falsificazione di documenti provenienti dall'Amministrazione affidati alla custodia del detenuto o dell'internato;
  • Appropriazione o danneggiamento di beni dell'Amministrazione;
  • Fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, operatori penitenziari o di visitatori;
  • Evasione.

Quando l'autorità competente per il giudizio disciplinare ravvisa, nel fatto oggetto d'esame, gli estremi di un reato perseguibile d'ufficio è tenuto a farne denuncia al pubblico ministero, ex art. 331, 4º comma, c.p.p.

Il giudizio disciplinare in questi casi può essere sospeso e la direzione deve informarsi periodicamente sull'esito del procedimento penale (43).

6. Procedimento disciplinare

La competenza a decidere sulle infrazioni disciplinari è affidata, a seconda della gravità, al direttore e al consiglio di disciplina.

Il direttore è competente ad irrogare il richiamo e le ammonizioni, mentre il consiglio di disciplina è competente ad irrogare l'esclusione dalle attività ricreative, l'isolamento e l'esclusione dalla permanenza all'aria (44).

Il procedimento per l'applicazione della sanzione disciplinari ha varie fasi: la segnalazione dell'infrazione solitamente è promossa dall'agente o dall'operatore penitenziario che viene a conoscenza dell'illecito. Questi dopo la contestazione dell'infrazione trasmette un rapporto sulle circostanze del fatto al direttore. Il direttore venuto a conoscienza dell'infrazione è obbligato a contestare l'addebito al soggetto interessato, alla presenza del titolare del servizio di custodia, ovvero l'ispettore di sezione. Durante la contestazione il direttore deve informare il detenuto della facoltà di esporre le proprie discolpe, inoltre, ha la facoltà di svolgere ulteriori accertamenti sul fatto, al fine di decidere l'adeguata sanzione da applicare. In questo caso, il direttore, dovrà convocare l'interessato in una apposita udienza davanti a lui o al consiglio di disciplina.

Come si può notare il direttore nel procedimento disciplinare ha funzioni sia inquirenti che giudicanti. Per limitare tale inconveniente la dottrina ha suggerito di affidare le funzioni istruttorie o la presidenza del consiglio di disciplina al vice direttore dell'istituto, in modo da non affidare ad uno stesso soggetto più funzioni, tra loro incompatibili (45). Nel corso, dell'udienza davanti al direttore, il detenuto potrà esercitare la facoltà di esporre le proprie discolpe, sicuramente non è una semplice facoltà concessa dal regolamento, ma un vero e proprio diritto di difesa (46). L'applicazione del diritto al contraddittorio è compromessa, poiché l'organo titolare del potere decisionale non è imparziale, in quanto sia il direttore che il consiglio di disciplina sono autorità che rappresentano la virtuale controparte (47). Quando nel corso dell'udienza emerge un fatto diverso e più grave di quello contestato, è possibile rimette la questione al consiglio di disciplina, nel caso di incompetenza di materia del direttore.

L'art. 78 reg. esc., prevede la possibilità di adottare i provvedimenti disciplinare in via cautelare, anche in questo caso bisogna evidenziare una piccola differenza con il regolamento di esecuzione del 1976 (48), il quale non prevedeva l'obbligo di motivazione del provvedimento urgente da parte del direttore. Nella formulazione attuale l'articolo del regolamento stabilisce tassativamente le ipotesi in cui il provvedimento cautelare può essere adottato: "In caso di assoluta urgenza, determinata dalla necessità di prevenire danni a persone o cose, nonché l'insorgenza o la diffusione di disordini o in presenza di fatti di particolare gravità per la sicurezza e l'ordine dell'istituto". In questi casi, il direttore con provvedimento motivato può disporre che il detenuto il quale abbia commesso un'infrazione disciplinare punibile con l'esclusione dall'attività in comune, permanga in camera individuale in attesa della convocazione del consiglio di disciplina.

Nonostante la natura cautelare del provvedimento, l'art. 78 dispone che il soggetto verso cui si dispone il provvedimento deve essere, comunque, sottoposto a visita sanitaria, prima dell'applicazione della sanzione che comporta l'esclusione delle attività in comune.

La misura cautelare non può durare più di dieci giorni e il direttore deve al più presto attivare il procedimento disciplinare. Lo stesso articolo si preoccupa di sottolineare che il periodo trascorso in misura cautelare si detrae dalla durata della sanzione eventualmente applicata.

7. Determinazione delle sanzioni disciplinari

Il 3º coma dell'art. 38 O.P. detta alcuni criteri per l'individuazione della sanzione disciplinare, da applicare all'infrazione commessa dal detenuto. Nell'applicazione della sanzione si dovrà tenere conto della natura e della qualità del fatto, ma anche del comportamento e delle condizioni personali del soggetto che commette l'infrazione. Questi criteri permettono anche l'individuazione del dolo e della colpa, ma sono elementi irrilevanti nell'illecito disciplinare, infatti, è sufficiente il solo requisito della volontarietà (49).

Nell'articolo 38 O.P. non c'è alcun cenno ad una correlazione tra i fatti illeciti e il tipo di sanzione da applicare, un tipo di legame si trova, invece, nell'art. 77, 3ºcomma, reg. esc. (50), dove è previsto che la sanzione dell'esclusione delle attività in comune non può essere inflitta nell'ipotesi di infrazioni lievi. Lo stesso articolo del regolamento prevede che se l'infrazione è commessa nel termine di tre mesi da una precedente infrazione, anche le infrazioni lievi possono essere punite con l'isolamento.

L'omissione di una previsione specifica che attribuisce ad ogni fatto illecito la sanzione da applicare, sicuramente ha ampliato il potere amministrativo in materia disciplinare, e i criteri elastici e generici previsti all'articolo 38 O.P. non servono molto a frenare tale potere (51).

La sanzione disciplinare è deliberata e pronunciata dal direttore o dal consiglio di disciplina. Durante le udienze, deve essere redatto un verbale sulle attività che sono state svolte per l'accertamento dei fatti. L'art. 38 O.P., prevede un obbligo di motivazione del provvedimento disciplinare, a garanzia del soggetto che subisce la decisione. La motivazione deve riguardare la natura e la gravità del fatto ed anche le condizioni personali del soggetto. Il provvedimento disciplinare deve essere comunicato all'interessato e al magistrato di sorveglianza, inoltre, deve essere annotato nella cartella personale del detenuto. Proprio in merito alla comunicazione del provvedimento disciplinare, la Corte di cassazione ha puntualizzato che l'omissione della comunicazione al detenuto del rapporto disciplinare, pur pregiudicando il diritto del soggetto a proporre reclamo ex art. 69, 6º comma, O.P., non preclude la possibilità che il magistrato di sorveglianza ne tenga conto ai fini della decisione sulla richiesta della liberazione anticipata (52).

Una volta a conoscenza del provvedimento disciplinare, il soggetto può proporre reclamo al magistrato di sorveglianza ex art. 69, 6º comma, O.P. Dal tenore letterale dell'articolo citato il controllo del magistrato di sorveglianza può riguardare: le condizioni e le modalità dell'esercizio del potere disciplinare, la regolarità della composizione dell'organo preposto alla contestazione dell'addebito disciplinare, inoltre, la regolarità della contestazione del fatto. La Corte di Cassazione ha più volte sottolineato che il controllo del magistrato di sorveglianza non può riguardare i motivi, l'opportunità della sanzione disciplinare o la condotta del detenuto, infatti, tali materie sono affidate alla discrezionale valutazione dell'autorità penitenziaria preposta (53). Al contrario la giurisprudenza dei magistrati di sorveglianza ha da sempre rivendicato un controllo più incisivo sui provvedimenti disciplinari, esso infatti secondo molti magistrati, dovrebbe investire anche la legittimità dell'atto amministrativo, per poter verificare che l'amministrazione penitenziaria abbia rispettato le norme di legge che impongono tassativamente i presupposti delle infrazioni e tipi di sanzioni (54).

Il potere di intervento del magistrato di sorveglianza risulta poco incisivo poiché non sono previsti strumenti di intervento immediato. La natura del provvedimento disciplinare, necessita la sua immediata applicazione, infatti, se non interviene un fattispecie sospensiva, il magistrato non dispone di strumenti diretti a bloccare l'esecuzione del provvedimento sanzionatorio (55). Quindi, la valutazione del magistrato va ad incidere sulla concessione della liberazione anticipata e non sull'esecuzione della sanzione.

Il reclamo non sospende il provvedimento disciplinare, i casi di sospensione della sanzione sono previsti all'art. 80 reg. esec. Il regolamento prevede la sospensione della sanzione per sei mesi, se entro tale scadenza, il soggetto non commette alcuna infrazione, la sanzione si estingue. Nell'ipotesi contraria la sanzione deve essere eseguita. Un'ipotesi particolare si ha per la sospensione della sanzione dell'esclusione dall'attività in comune, che può essere sospesa per motivi di salute, o nei confronti delle donne in gravidanza, o durante il periodo di allattamento. In questi casi la sanzione sarà eseguita nel momento in cui cessa la causa impeditiva.

L'autorità che ha deliberato la sanzione disciplinare può decidere, se ricorrono particolari circostanze, di condonare la sanzione. Quali siano queste circostanze particolari, non è specificato dalla legge, un parte della dottrina sostiene che si debba fare riferimento a quelle circostanze, per cui l'applicazione della sanzione si rileverebbe controproducente per lo sviluppo del senso di responsabilità e di autocontrollo del soggetto (56). Altra parte della dottrina sostiene che il condono è un beneficio applicabile di fronte a circostanze straordinarie che colpiscono gli affetti del soggetto (57).

8. L'isolamento

L'isolamento è la più grave delle sanzioni disciplinari, l'esperienza nella sua applicazione ha dimostrato che produce effetti deleteri sulla psiche e sul fisico del soggetto che lo subisce. L'ordinamento penitenziario, proprio per la particolarità di questo istituto ha posto specifiche limitazioni alla sua applicazione.

L'art. 33 O.P. stabilisce che l'isolamento è ammesso in tre ipotesi:

  • per ragioni sanitarie: in questo caso è il medico dell'istituto a disporre che il soggetto venga trasferito in una particolare sezione, prevedendo le misure idonee per le necessarie cure del detenuto ed eventuali prevenzioni nel caso di malattie infettive;
  • come sanzione disciplinare: disposta dal consiglio di disciplina e con una durata massima di quindici giorni;
  • per motivi di giustizia: è disposto dall'autorità giudiziaria competente nei confronti degli imputati, per esigenze di carattere processuale e di cautela per il pericolo di inquinamento delle prove.

La disciplina dell'art. 33, non si preoccupa di stabilire quali devono essere le restrizioni applicabili al regime penitenziario dell'isolamento. Dall'art. 73 reg. esc. (58), in conformità ai principi che ispirano l'ordinamento penitenziario, si deduce che l'esclusione dall'attività comune non può riguardare l'alloggio, il vestiario l'igiene personale e le ore di permanenza all'aperto. Queste ultime devono essere organizzate in modo da non consentire contatti con altri detenuti (59).

Il regolamento penitenziario si preoccupa di dare alcune direttive su come deve essere applicato l'isolamento. Infatti, L'art. 73 reg. esec. prevede che l'esclusione dall'attività in comune deve essere eseguita in una camera ordinaria secondo le prescrizioni dell'art. 6 O.P. Ai detenuti è precluso ogni contatto con altri compagni e con l'ambiente esterno. Durante l'isolamento, sono limitate sia la corrispondenza telefonica che i colloqui, è consentito tenere quotidiani, periodici e libri. La limitazione della corrispondenza epistolare deve essere disposta secondo quanto previsto dall'art. 18 ter O.P., si deduce che l'isolamento non comporta automaticamente una limitazione della corrispondenza. Il provvedimento dell'isolamento non può mai comportare limitazioni ai colloqui con il difensore, tale diritto è stato confermato anche dalla Corte costituzionale (60).

Il detenuto sottoposto ad isolamento deve essere oggetto di particolare attenzione e controllato da parte del personale penitenziario e del medico dell'istituto. L'intervento del personale penitenziario deve, comunque attenersi strettamente all'adempimento di controllo, sembra escludersi qualsiasi forma di osservazione e trattamento penitenziario (61).

L'art. 33 O.P. sembra elencare tassativamente i casi un cui può disporsi l'isolamento, ma così non è, infatti, altra ipotesi si possono trovare negli art. 72 e 184 c.p., ove si prevede l'isolamento diurno come aggravante della pena dell'ergastolo. Una parte della dottrina con l'entrata in vigore dell'art. 33 O.P. ha ritenuto abrogate implicitamente le norme del codice penale che prevedevano l'isolamento, quindi le ipotesi da considerare applicabili sono quelle contenute nell'ordinamento penitenziario (62). Altra dottrina afferma che nell'ordinamento penitenziario non vi è alcuna indicazione circa l'abrogazione degli articoli del codice penale riguardanti l'isolamento, quindi se ne deduce la loro operatività. Inoltre, per la diversa natura dei due istituti non si può prospettare una abrogazione tacita, dato che la disciplina dell'art. 33 O.P. non contempla l'ipotesi di isolamento del codice penale, né vi è incompatibilità fra i due istituti (63). La diversità fra i due istituti è confermata anche dalla Corte di Cassazione, che definisce l'isolamento previsto dal codice penale non una modalità di regime penitenziario, ma una vera e propria sanzione penale (64). Quindi, in caso di condanna all'ergastolo ancora oggi il soggetto può essere condannato a scontare la pena in isolamento diurno. In conformità alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la circolare D.A.P. 14 maggio 2002, afferma che l'amministrazione penitenziaria è tenuta a dare esecuzione immediata all'isolamento, fin dall'ingresso del soggetto in istituto. Quindi, l'isolamento diurno può essere eseguito senza la certificazione scritta del medico, che attesti che il soggetto può sopportare l'isolamento. Sulle modalità dell'esecuzione della suddetta misura, l'art. 73 reg. esec. afferma che la condanna all'isolamento diurno non esclude per i detenuti l'ammissione alle attività lavorative scolastiche e religiose.

Riguardo all'isolamento diurno nei confronti dei condannati all'ergastolo, l'art. 73 reg. esec. afferma che tale restrizione non può comportare l'esclusione, dei soggetti che la subiscono, dalle attività che si svolgono in carcere. Infatti, data la natura diversa dell'istituto e l'afflittività che comporta, sembra idoneo raggruppare i detenuti ergastolani sottoposti a tale ulteriore pena in apposite sezioni ove possono accedere alle attività lavorative, scolastiche e religiose.

La Cassazione ha stabilito che nell'ipotesi di isolamento dei condannati alla pena all'ergastolo, ex art. 72 c.p., una forma di trattamento penitenziario, anche se attenuato, deve sempre essere garantita (65). In questo caso l'isolamento non è considerato una modalità di esecuzione della pena, ma è una sanzione penale, quindi al soggetto che la subisce deve essere garantita l'ordinaria vita di detenzione, compatibilmente con la suddetta sanzione (66). Anche questo tipo di isolamento è caratterizzato dalla temporaneità, infatti, l'art. 72 c.p. prevede una durata massima di tre anni. A tale proposito, la Corte di Cassazione ha stabilito che tale limite massimo stabilito dalla legge, non può essere superato nell'ipotesi di cumulo di più reati che prevedono la pena dell'ergastolo. Ma se il soggetto, durante l'esecuzione del cumulo, commette un nuovo reato, nel caso che la condanna preveda un ulteriore periodo di isolamento diurno, nella nuova determinazione del cumulo non si tiene conto di quello eventualmente già sofferto, quindi è possibile il superamento, in concreto, del limite dei tre anni (67).

In riferimento al rapporto dell'isolamento diurno con i regimi particolari di detenzioni ex art. 14 bis ed ex art. 41 bis, la giurisprudenza di merito ha ritenuto applicabile una fungibilità fra i suddetti istituti. Infatti, nel caso concreto il soggetto era stato sottoposto al regime detentivo ex art. 90, molto simile a quello previsto nell'ipotesi di isolamento. Il soggetto nel corso della detenzione aveva intrapreso un percorso rieducativo che era sfociato nell'ammissione al lavoro all'esterno del detenuto. Quindi, la successiva condanna che comportava anche l'isolamento diurno era incompatibile con la misura del lavoro all'esterno. La Corte di Assise di Roma ha quindi dichiarato la fungibilità del periodo in cui il soggetto fu sottoposto al regime detentivo ex art. 90 con la sanzione dell'isolamento diurno (68). Questa decisione è notevolmente importante per risolvere l'incompatibilità della sanzione dell'isolamento con le forme di trattamento penitenziario extramurarie.

La Corte di Cassazione ha, al contrario, ribadito la diversità esistente fra l'istituto dell'isolamento diurno e quello della sospensione delle ordinarie regole di trattamento, previsto dall'art. 41 bis o.p. escludendo che possa riconoscersi la fungibilita', ai sensi dell'art. 567 c.p.p., tra il periodo di custodia cautelare in cui sia stata fatta applicazione del citato art. 41 bis e la durata dell'isolamento diurno inflitto, con la definitiva sentenza di condanna alla pena dell'ergastolo (69).

L'incompatibilità dell'art. 72, 2º comma c.p. con l'art 27 della Costituzione è stata sollevata anche davanti alla Corte Costituzionale, che dichiarò la manifesta inammissibilità della questione su due profili:

  • mera eventualità della questione, non spettando al rimettente l'eventuale revoca del lavoro esterno (sotto questo profilo solo il Magistrato di Sorveglianza avrebbe potuto adire la Corte);
  • difetto di motivazione sulla rilevanza (non c'è stata un'indagine tendente ad accertare se il detenuto fosse stato sottoposto al regime ex art. 90 abrogato l. 354/75 ovvero ex art. 14-bis Ord. Pen.).

Riguardo alla possibilità di applicazione del principio di fungibilità tra il periodo che il soggetto ha trascorso in regime di massima sicurezza o di sorveglianza particolare e l'isolamento diurno la Corte non ha escluso che ciò possa avvenire, ma si è limitata a rilevare che nel caso in esame non vi era prova dell'assegnazione del soggetto ad un regime speciale di detenzione. Prova, che doveva essere acquisita dal soggetto mediante la richiesta di esibizione della sua cartella personale.

La Corte ha riconosciuto l'incompatibilità fra l'isolamento diurno e il beneficio del lavoro all'esterno. Invece ha affermato che la condanna all'isolamento diurno non comporta una automatica perdita del beneficio della semilibertà, infatti, la sospensione o la revoca del beneficio deve essere valutata dal magistrato e dal tribunale di sorveglianza ex art. 51 bis O.P. (70)

9. La disciplina dei trasferimenti

Il trasferimento ha costituto da sempre un mezzo, utilizzato dall'amministrazione penitenziaria, per allontanamento dall'istituto dei soggetti di difficile gestione. La prospettiva della riforma del 1975 era quella di fare del trasferimento un strumento utile per attuare l'assegnazione dei detenuti agli istituti appropriati per rispondere alle esigenze del trattamento.

L'art. 42 O.P. stabilisce che "i trasferimenti possono essere disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell'istituto, per motivi di giustizia, di salute di studio e familiari". Alcuni di questi motivi, dovrebbe servire a soddisfare i particolari bisogni della personalità del soggetto, altri sono collegati a problemi di carattere organizzativo, come per esempio un eccesso di presenza di detenuti nell'istituto rispetto alla capienza dello stesso. Altri ancora, si riferiscono alla presenza nel carcere di soggetti particolarmente pericolosi, che l'istituto per la sua organizzazione o struttura non è in grado di controllare. Analizzando specificatamente i motivi dei trasferimenti, si nota che i "motivi di giustizia" riguardano il soddisfacimento di esigenze processuali. In questi casi si dispone il trasferimento provvisorio, dell'imputato o condannato, per dargli la possibilità di partecipare a procedimenti giudiziari che li riguardano.

Una volta soddisfatte le esigenze giudiziari, il soggetto dovrebbe rientrare nell'istituto di provenienza. L'art. 85 reg. esec. (71) dispone che il trasferimento per motivi di giustizia, relativo alla comparizione del soggetto alle udienze dibattimentali, è richiesto dall'autorità giudiziaria procedente alla direzione del carcere, che deve disporlo "senza indugio", informandone il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Il regolamento si preoccupa di prevedere anche il trasferimento per motivi di giustizia diversi dalla semplice comparizione del soggetto alle udienze dibattimentali, infatti, al 5º comma dell'art. 85 reg. esec. stabilisce che i trasferimenti per motivi di giustizia penale o civile, diversi da quelli su descritti, sono consentiti solo quando secondo l'autorità giudiziaria procedente sussistono gravi motivi che rendono inopportuno l'espletamento dell'attività giudiziaria nel luogo ove il detenuto è ristretto.

Il trasferimento può essere disposto anche per esigenze organizzative dell'istituto, in questo caso non deve farsi alcun riferimento alla condotta del detenuto (72). Invece, riguardo ai motivi di sicurezza secondo l'art. 42 O.P. devono essere "gravi e comprovati", questo richiamo alla gravità del motivo su indicato, non limita l'ampia discrezionalità di decisione dell'amministrazione penitenziaria. I motivi di sicurezza sono quelli più frequentemente usati per allontanare dall'istituto particolari individui, o gruppi di individui, che possono creare situazioni di disturbo, con ciò si deve far riferimento a quei soggetti refrattari al trattamento e pericolosi per gli altri detenuti. Nella provvedimento con cui si dispone il trasferimento per motivi di sicurezza, l'amministrazione penitenziaria deve menzionare esplicitamente il riferimento all'incapacità dell'istituto a gestire questi soggetti.

Come si può osservare i motivi posti alla base del trasferimento per motivi di sicurezza possono essere diversi, dall'eccessivo sovraffollamento all'incapacità strutturale dell'istituto, questa indeterminatezza dei motivi ha fatto del trasferimento un utile strumento sanzionatorio per quei soggetti che non si uniformano alle regole interne del carcere.

Come analizzeremo nei capitoli successi, la gestione dei detenuti pericolosi, ha causato diversi problemi, spesso tamponati dall'amministrazione penitenziari attraverso l'uso improprio dei trasferimenti. Inoltre, già in sede di discussione parlamentare della riforma del '75 si avanzarono emendamenti tendenti a dare un maggior controllo sui trasferimenti alla magistratura di sorveglianza, ma queste proposte furono accantonate in quanto vi era la convinzione che la gestione, e di conseguenza l'assegnazione dei soggetti, soprattutto dei detenuti pericolosi, doveva rimanere di esclusiva competenza del Ministro.

Da un lato, l'amministrazione penitenziaria ha da sempre rivendicato la sua ampia discrezionalità in materia di assegnazione, trasferimento dei detenuti, soprattutto di quelli che destano problemi alla vita del carcere. Dall'atro la magistratura di sorveglianza, in quanto garante dei diritti dei detenuti, ha sostenuto l'importanza del suo controllo su queste decisioni.

La competenza in materia di trasferimenti è del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, per gli spostamenti tra istituti situati in distretti diversi, mentre la competenza spetta al provveditore regionale, per gli spostamenti in istituti situati all'interno dello stesso distretto (73). il trasferimento definitivo dei condannati e degli internati, deve essere comunicato, ex art. 85 reg. esec. 4º comma, al magistrato di sorveglianza. Da questa norma si può dedurre un generico obbligo di motivazione del provvedimento che dispone il trasferimento (74).

Sull'operato dell'amministrazione penitenziaria non è previsto alcun controllo giurisdizionale. Questa carenza è stata fortemente criticata dalla dottrina (75), in quanto il trasferimento del detenuto incide sul suo trattamento penitenziario, determinando in alcuni casi una regressione della risocializzazione.

A questa problema ha cercato di porre rimedio l'art. 83 reg. esec. (76), che al 9º comma stabilisce che quando si rendono necessari trasferimenti collettivi di detenuti non possono essere inclusi:

  • i detenuti e gli internati per i quali sono in corso attività trattamentali, particolarmente in materia di lavoro, istruzione e formazione professionale o per i quali sia in corso procedura di sorveglianza per l'ammissione a misure alternative;
  • i detenuti e gli internati nei cui confronti sono in corso trattamenti sanitari non agevolmente perseguibili in altra sede;
  • le detenute con prole in istituto;
  • gli imputati prima della sentenza di primo grado o gli appellanti quando sia già stata fissata udienza per la decisione dell'impugnazione.

Nonostante questa previsione si deve affermare che gli abusi in materia di trasferimenti sono molti, infatti, spesso i detenuti vengo trasferiti per generici "motivi di opportunità", pregiudicando così tutta l'attività trattamentale iniziata nell'istituto di provenienza. È anche vero, che l'osservazione della personalità dei detenuti è dettagliatamente descritta nella sua cartella personale che dovrebbe sempre seguire il detenuto ovunque vada, ma i ritardi nella comunicazione delle informazioni fra gli istituti e fra gli uffici giudiziari, spesso, non impedisce che si verifichi la temuta regressione del trattamento.

Sempre riguardo al controllo giudiziario esercitabile sull'operato dell'amministrazione penitenziaria in materia di trasferimenti, bisogna sottolineare lo sforzo della dottrina di ravvisare nell'intervento del magistrato di sorveglianza, ex art. 69, 5º comma O.P., uno strumento di contenimento. Ma a ciò si obietta che non è configurabile un diritto del detenuto ad essere assegnato o trasferito ad un determinato istituto, si può al massimo ravvisare un suo interesse giuridicamente tutelato, quindi un interesse legittimo (77).

In conclusione, si può affermare che, in questi casi, le possibilità di tutela del detenuto, oltre al generico diritto di reclamo previsto all'art. 35 O.P., è il ricorso davanti al T.A.R., contro il provvedimento amministrativo che dispone il trasferimento, in quanto lesivo di un interesse legittimo. Anche se tale forma di tutela appare inidonea a porre rimedio tempestivamente agli eventuali abusi.

Note

1. I casi più eclatanti: le rivolte di Alessandria che si sono concluse con un bilancio di sette morti (di cui cinque ostaggi) e quattordici feriti; e quelle del carcere fiorentino delle Murate, un morto e numerosi feriti.

2. G. Di Gennaio, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997.

3. L. 26 luglio 1975, n. 354 Art. 1. (Trattamento e rieducazione).

  1. Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.
  2. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.
  3. Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari.
  4. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.
  5. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.
  6. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.

4. Articolo 27 Costituzione.
La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.

5. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 13, (Individualizzazione del trattamento).

  1. Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto.
  2. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l'osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale. L'osservazione è compiuta all'inizio dell'esecuzione e proseguita nel corso di essa.
  3. Per ciascun condannato e internato, in base ai risultati dell'osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell'esecuzione.
  4. Le indicazioni generali e particolari del trattamento sono inserite, unitamente ai dati giudiziari, biografici e sanitari, nella cartella personale, nella quale sono successivamente annotati gli sviluppi del trattamento praticato e i suoi risultati.
  5. Deve essere favorita la collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e di trattamento.

6. In tal senso G. DI GENNAIO, R. BREDA, G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997, pag, 5 e ss. - Volendo parlare di trattamento rieducativo, in ogni caso, occorre predisporre un'indagine sulle condizioni del soggetto che si vuole rieducare, finalizzata all'individuazione del trattamento più idoneo al caso. Non si tratta di un'osservazione tipica di un rapporto sussistente tra un paziente ed un medico, essa è finalizzata ad individuare un trattamento da fornire ad un soggetto specifico ovviando alla massificazione della popolazione penitenziaria. In tal senso A. BERNASCONI, Commento all'art. 13 O.P., in Ordinamento penitenziario, Commento articolo per articolo, a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Cedam, Padova, 2000, pag. 136 e ss. - Tra l'osservazione scientifica della personalità ed il trattamento penitenziario individualizzato, intercorre lo stesso rapporto che è riscontrabile tra la diagnosi effettuata in vista della terapia da prescrivere e da effettuare. Così che, proprio come durante lo svolgimento di una terapia è necessario verificare a mano a mano i risultati ottenuti. In tal senso M. CANEPA, S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, Milano, 2002, pag. 109.

7. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 4 (Esercizio dei diritti dei detenuti e degli internati). I detenuti e gli internati esercitano personalmente i diritti loro derivanti dalla presente legge anche se si trovano in stato di interdizione legale.

8. Una moderna gestione penitenziaria si esprime attraverso un concreto riconoscimento della facoltà di esercitare i propri diritti. L'ordinamento penitenziario, infatti, predispone idonei strumenti di tutela, onde evitare che le enunciazioni di diritto, rimangano tali e non trovino alcuna applicazione tangibile. Occorre quindi, innanzi tutto, individuare questi diritti, anche alla luce delle disposizioni costituzionali, ed evidenziare la possibilità concessa ai detenuti ed internati di esercitare personalmente i diritti previsti dalle leggi ordinarie. In tal senso, M. CANEPA, S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, Milano, 2002, pag. 133 e ss.; DI RONZA, Manuale di diritto dell'esecuzione, Padova, 1995, pag. 22.

9. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 17 (Partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa).

  1. La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all'azione rieducativa.
  2. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l'autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l'opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera.
  3. Le persone indicate nel comma precedente operano sotto il controllo del direttore.

10. Vedi Capo II, Titolo II della legge 354/75.

11. D.P.R. 29 Aprile 1976 n. 431, art. 1. (Interventi di trattamento).

  1. Il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell'offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali.
  2. Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale.

Quest'articolo è stato sostituito dall'art. 1 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, con identica formulazione, aggiungendo solo il 3º comma che recita: "Le disposizioni del presente regolamento che fanno riferimento all'imputato si estendono, in quanto compatibili, alla persona sottoposta alle indagini".

12. Cassazione sezione I, 24.3.1982, Balido, in Rassegna penitenziaria e criminologia 1983, pp 872. Cassazione sezione I 29.3.1985, La Rosa, in Cassazione penale 1986, pp. 1178.

13. Queste regole per l'assegnazione dei detenuti erano state affermate anche all'art. 63 reg. min. ONU in si afferma l'opportunità di realizzare un sistema elastico di classificazione dei detenuti in gruppi, tesi a favorire l'individualizzazione del trattamento, nonché a contenere il numero dei detenuti rinchiusi negli stabilimenti.

Inoltre, all'art. 12 reg. min. eur. stabilisce che: "la classificazione o riclassificazione dei detenuti deve avere la finalità:

  • di separare dagli altri quei detenuti che, in ragione dei loro precedenti penali o per la loro personalità, hanno interesse a beneficiare di tale separazione o che possono esercitare una influenza negativa sugli altri;
  • di assegnare i detenuti in modo da facilitare il loro trattamento ed il loro reinserimento sociale tenendo conto delle esigenze dell'amministrazione e della sicurezza."

14. Art. 32 D.P.R. 29 Aprile 1976, n. 431 (Assegnazione e raggruppamento per motivi cautelari). I detenuti e gli internati che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni e sopraffazioni, sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia più agevole adottare le suddette cautele.

Quest'articolo è stato sostituito dall'art. 32 D.P.R. 30 Giugno 2000 n. 230. (Assegnazione e raggruppamento per motivi cautelari).

  1. I detenuti e gli internati, che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni, sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia più agevole adottare le suddette cautele.
  2. La permanenza dei motivi cautelari viene verificata semestralmente.
  3. Si cura, inoltre, la collocazione più idonea di quei detenuti ed internati per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni. Sono anche utilizzate apposite sezioni a tal fine, ma la assegnazione presso le stesse deve essere frequentemente riesaminata nei confronti delle singole persone per verificare il permanere delle ragioni della separazione delle stesse dalla comunità.

15. Il termine temporale di verifica delle esigenze cautelari per l'assegnazione dei detenuti costituisci una novità, rispetto al precedente art. 32 del D.P.R. 29 Aprile 1976, n. 431.

16. Articolo introdotto nell'ordinamento penitenziario dall'art. 3 della legge 10 ottobre 1986, n. 663.

17. In materia di corrispondenze epistolare le disposizioni dell'art. 18 e quelle dell'art. 14 quater O.P. sono sostituite dalle disposizioni dell'art. 18 ter O.P. introdotto dalla l. 8 aprile 2004, n. 95.

18. D.P.R. 29 Aprile 1976, n. 431, art. 37 (Corrispondenza epistolare e telegrafica).

  1. I detenuti e gli internati sono ammessi a inviare e a ricevere corrispondenza epistolare e telegrafica. La direzione può consentire la ricezione di fax.
  2. Al fine di consentire la corrispondenza, l'Amministrazione fornisce gratuitamente ai detenuti e agli internati, che non possono provvedervi a loro spese, settimanalmente, l'occorrente per scrivere una lettera e l'affrancatura ordinaria.
  3. Presso lo spaccio dell'istituto devono essere sempre disponibili, per l'acquisto, gli oggetti di cancelleria necessari per la corrispondenza.
  4. Sulla busta della corrispondenza epistolare in partenza il detenuto o l'internato deve apporre il proprio nome e cognome.
  5. La corrispondenza in busta chiusa, in arrivo o in partenza, è sottoposta a ispezione al fine di rilevare l'eventuale presenza di valori o altri oggetti non consentiti. L'ispezione deve avvenire con modalità tali da garantire l'assenza di controlli sullo scritto.
  6. La direzione, quando vi sia sospetto che nella corrispondenza epistolare, in arrivo o in partenza, siano inseriti contenuti che costituiscono elementi di reato o che possono determinare pericolo per l'ordine e la sicurezza, trattiene la missiva, facendone immediata segnalazione, per i provvedimenti del caso, al magistrato di sorveglianza, o, se trattasi di imputato sino alla pronuncia della sentenza di primo grado, all'autorità giudiziaria che procede.
  7. La corrispondenza epistolare, sottoposta a visto di controllo su segnalazione o d'ufficio, è inoltrata o trattenuta su decisione del magistrato di sorveglianza o dell'autorità giudiziaria che procede.
  8. Le disposizioni di cui ai commi 6 e 7, si applicano anche ai telegrammi e ai fax in arrivo.
  9. Ove la direzione ritenga che un telegramma in partenza non debba essere inoltrato per i motivi di cui al comma 6, ne informa il magistrato di sorveglianza o l'autorità giudiziaria procedente, che decide se si debba o meno provvedere all'inoltro.
  10. Il detenuto o l'internato viene immediatamente informato che la corrispondenza è stata trattenuta.

Quest'articolo è stato sostituito dall'art. 38 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, con la stessa formulazione, aggiungendo solo un ultimo comma:

  1. Non può essere sottoposta a visto di controllo la corrispondenza epistolare dei detenuti e degli internati indirizzata ad organismi internazionali amministrativi o giudiziari, preposti alla tutela dei diritti dell'uomo, di cui l'Italia fa parte.

19. R. Alessandri, G. Catelani, il codice penitenziario, IV ed., Roma, 1992.

Cassazione 22/5/87, Rapisarda, in Giustizia italiana, 1988.

Cassazione 5/12/91, Vallanzasca, Cassazione penale, 1993.

20. Corte Costituzionale, sentenza 366/91.

21. Corte Europea dei Diritti dell'Uomo 15/11/1996, Diana c. Italia.

22. Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, 23/2/93, Messina c. Italia, in Cassazione penale, 1994.

23. Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, 26/7/2001, Di Giovine c. Italia.

24. Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, 6/7/2004, Madonia c. Italia.

25. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 2. (Sicurezza e rispetto delle regole).

  1. L'ordine e la disciplina negli istituti penitenziari garantiscono la sicurezza che costituisce la condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento dei detenuti e degli internati. Il direttore dell'istituto assicura il mantenimento della sicurezza e del rispetto delle regole avvalendosi del personale penitenziario secondo le rispettive competenze.
  2. Il servizio di sicurezza e custodia negli istituti penitenziari diversi dalle case mandamentali è affidato agli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria, che esercitano le loro attribuzioni in conformità delle leggi e dei regolamenti vigenti.

Quest'articolo ha sostituito l'art. 2 D.P.R. 29 Aprile 1976, n. 431, senza apportare modificazioni.

26. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 34, (Perquisizione personale). I detenuti e gli internati possono essere sottoposti a perquisizione personale per motivi di sicurezza.

La perquisizione personale deve essere effettuata nel pieno rispetto della personalità.

27. L. 10 ottobre 1986, n. 663.

28. Regolamento Rocco del 1931, capo IX art. 147 e ss.

29. E.LOI e N. MAZZACUVA, Il sistema disciplinare nel nuovo ordinamento penitenziario, in Il carcere riformato, a cura di F. BRICOLA, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 63.

30. G. Neppi Modona, Vecchio e nuovo nella riforma dell'ordinamento penitenziario, in Carcere e società, a cura di M. Cappelletto, A. Lombroso, Venezia, Marsilio, 1976, pp. 64.

31. Le sanzioni disciplinari nel regolamento penitenziario del 1931, potevano consistere: in una semplice ammonizione verbale; ma anche la cella con letto ordinario o la cella a pane e acqua e pancaccio graduata a seconda dell'infrazione commessa. Nel caso di persistenza della cattiva condotta, il detenuto era trasferito in una casa di punizione. La cintura di sicurezza era usata solo in casi eccezionali, ovvero per impedire che i detenuti provochino danno materiale a stessi e agli altri. La durata di quest'ultima sanzione era stabilita dal direttore, sentito il medico dell'istituto.

32. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 37, (Ricompense).

  1. Le ricompense costituiscono il riconoscimento del senso di responsabilità dimostrato nella condotta personale e nelle attività organizzate negli istituti.
  2. Le ricompense e gli organi competenti a concederle sono previsti dal regolamento.

33. G. Catelani, Il codice penitenziario, 2001.

34. A. Presutti, Profili premiali dell'ordinamento penitenziario, Milano, 1986.

35. G. Nespoli, Potere disciplinare e ordinamento penitenziario, in Rassegna studi penitenziari, 1977, fasc. 6, pp. 703.

36. E. LOI e N. MAZZACUVA, Il sistema disciplinare nel nuovo ordinamento penitenziario, in Il carcere riformato, a cura di F. BRICOLA, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 63.

37. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 41, (Impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione).

  1. Non è consentito l'impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all'esecuzione degli ordini impartiti.
  2. Il personale che, per qualsiasi motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti o degli internati, deve immediatamente riferirne al direttore dell'istituto il quale dispone, senza indugio, accertamenti sanitari e procede alle altre indagini del caso.
  3. Non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque, non vi si può far ricorso a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire la incolumità dello stesso soggetto.
  4. L'uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario.
  5. Gli agenti in servizio nell'interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore.

38. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 42, (Trasferimenti).

  1. I trasferimenti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell'istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari.
  2. Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie.
  3. I detenuti e gli internati debbono essere trasferiti con il bagaglio personale e con almeno parte del loro peculio.

39. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 77, (Infrazioni disciplinari e sanzioni).

  1. Le sanzioni disciplinari sono inflitte ai detenuti e agli internati che si siano resi responsabili di:
    1. negligenza nella pulizia e nell'ordine della persona o della camera;
    2. abbandono ingiustificato del posto assegnato;
    3. volontario inadempimento di obblighi lavorativi;
    4. atteggiamenti e comportamenti molesti nei confronti della comunità;
    5. giochi o altre attività non consentite dal regolamento interno;
    6. simulazione di malattia;
    7. traffico di beni di cui è consentito il possesso;
    8. possesso o traffico di oggetti non consentiti o di denaro;
    9. comunicazioni fraudolente con l'esterno o all'interno nei casi indicati nei numeri 2) e 3) del primo comma dell'articolo 33 della legge;
    10. atti osceni o contrari alla pubblica decenza;
    11. intimidazione di compagni o sopraffazioni nei confronti dei medesimi;
    12. falsificazione di documenti provenienti dall'Amministrazione affidati alla custodia del detenuto o dell'internato;
    13. appropriazione o danneggiamento di beni dell'Amministrazione;
    14. possesso o traffico di strumenti atti ad offendere;
    15. atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori penitenziari o di altre persone che accedono nell'istituto per ragioni del loro ufficio o per visita;
    16. inosservanza di ordini o prescrizioni o ingiustificato ritardo nell'esecuzione di essi;
    17. ritardi ingiustificati nel rientro previsti dagli articoli 30, 30 ter, 51, 52 e 53 della legge;
    18. partecipazione a disordini o a sommosse;
    19. promozione di disordini o di sommosse;
    20. evasione;
    21. fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari o di visitatori.
  2. Le sanzioni disciplinari sono inflitte anche nell'ipotesi di tentativo delle infrazioni sopra elencate.
  3. La sanzione dell'esclusione dalle attività in comune non può essere inflitta per le infrazioni previste nei numeri da 1) a 8) del comma 1, salvo che l'infrazione sia stata commessa nel termine di tre mesi dalla commissione di una precedente infrazione della stessa natura.
  4. Delle sanzioni inflitte all'imputato è data notizia all'autorità giudiziaria che procede.

40. A. Presutti, Profili premiali dell'ordinamento penitenziario, Milano 1986.

41. Queste condotte possono anche integrare la fattispecie del reato dell'evasione ex art. 385 c.p.

42. E. Loi e N. Mazzacuva, Il sistema disciplinare nel nuovo ordinamento penitenziario, in Il carcere riformato, a cura di F. BRICOLA, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 63. G. Nespoli, Potere disciplinare e ordinamento penitenziario, in Rassegna studi penitenziari, 1977, fasc. 6, pp. 703.

43. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 79, (Procedimento penale e provvedimenti disciplinari).

  1. Il giudizio disciplinare dinanzi al consiglio di disciplina può essere sospeso allorché, per lo stesso fatto, vi è informativa di reato alla autorità giudiziaria.
  2. In tal caso la direzione avrà cura di richiedere periodicamente l'esito del procedimento penale. I definitivi provvedimenti disciplinari sono emessi al termine del procedimento medesimo.

Quest'articolo ha modificato l'art. 74 D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, (Procedimento penale e provvedimenti disciplinari). Quando il giudizio disciplinare deve essere sospeso ai sensi dell'art. 3 del codice di procedura penale, i definitivi provvedimenti disciplinari sono emessi dall'esito del procedimento penale.

44. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 40, (Autorità competente a deliberare le sanzioni). Le sanzioni del richiamo e della ammonizione sono deliberate dal direttore.

Le altre sanzioni sono deliberate dal consiglio di disciplina composto dal direttore o, in caso di suo legittimo impedimento, dall'impiegato più elevato in grado, con funzioni di presidente, dal sanitario e dall'educatore.

45. Borsini, in Legislazione giustizia, 1988.

46. S. Bellomia, Ordinamento penitenziario, Enciclopedia del diritto XXX, pp. 919.

47. M. Ferraioli, Il sistema disciplinare: ricompense e punizioni, in Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di V. Grevi, Bologna, Zanichelli, 1981, pp. 222. E. Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Bologna, Il Mulino, 1982.

48. Art. 73 D.P.R. 29 aprile 1976, n.431, (Provvedimenti disciplinari in via cautelare).

  1. In caso di assoluta urgenza determinata dalla necessità di prevenire danni a persone o cose, nonché l'insorgenza o la diffusione di disordini o in presenza di fatti di particolare gravità per la sicurezza e l'ordine dell'istituto, il direttore può disporre, in via cautelare, che il detenuto o l'internato, che abbia commesso un'infrazione sanzionabile con l'esclusione dall'attività in comune, permanga in camera individuale, in attesa della convocazione del consiglio di disciplina.
  2. Subito dopo l'adozione del provvedimento cautelare, il sanitario visita il soggetto e rilascia la certificazione preveduta dal penultimo comma dell'art. 39 della legge.
  3. Il direttore convoca al più presto il consiglio di disciplina per l'inizio del procedimento disciplinare.
  4. La durata della misura cautelare non può comunque eccedere i dieci giorni. Il tempo trascorso in misura cautelare si detrae dalla durata della sanzione eventualmente applicata.

Quest'articolo è stato sostituito dall'art. 78 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, (Provvedimenti disciplinari in via cautelare).

  1. In caso di assoluta urgenza, determinata dalla necessità di prevenire danni a persone o a cose, nonché l'insorgenza o la diffusione di disordini o in presenza di fatti di particolare gravità per la sicurezza e l'ordine dell'istituto, il direttore può disporre, in via cautelare, con provvedimento motivato, che il detenuto o l'internato, che abbia commesso una infrazione sanzionabile con la esclusione dalle attività in comune, permanga in una camera individuale, in attesa della convocazione del consiglio di disciplina.
  2. Subito dopo l'adozione del provvedimento cautelare, il sanitario visita il soggetto e rilascia la certificazione prevista dal secondo comma dell'articolo 39 della legge.
  3. Il direttore attiva e svolge al più presto il procedimento disciplinare, applicando il disposto dei commi 2 e seguenti dell'articolo 81.
  4. La durata della misura cautelare non può comunque eccedere i dieci giorni. Il tempo trascorso in misura cautelare si detrae dalla durata della sanzione eventualmente applicata.

49. M. G. Copetta, Commento all'art. 38 ordinamento penitenziario, in Ordinamento penitenziario, Commento articolo per articolo, a cura di V Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Cedam, Padova, 2000.

50. L'art. 77 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, sostituisce l'art. 72 D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431.

51. Di Gennaio G., Breda R., La Greca G., Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997; M. G. Copetta, Commento all'art. 38 ordinamento penitenziario, in Ordinamento penitenziario, Commento articolo per articolo, a cura di V Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Cedam, Padova, 2000; E. Fassone, T. Basilio, G. Tuccillo, La riforma penitenziaria, Napoli, Jovene, 1987.

52. Cassazione 15/12/1995, Sorrentino, in Cassazone penale, 1997.

53. Cassazione 17/10/1988, Adamo, in Cassazione penale, 1990; Cassazione 2/6/1992, in Rassegna penitenziaria, 1993; Cassazione, Molinari, in Cassazione penale, 1996; Cassazione 3/5/96, Armenio, in Cassazione penale, 1997; Cassazione 28/4/1997, Bucinca, Cassazione penale, 1998.

54. Mag. Sorv. Alessandria, 15/9/1995, Carta, Cassazione penale, 1996.

55. V. Grevi, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, in Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di V. Grevi, Bologna, Zanichelli, 1981.

56. F. C. Palazzo, La recente legislazione penale, Padova, Cedam, 1982.

57. G. Di Gennaro, R. BREDA, G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997.

58. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 73, (Isolamento).

  1. L'isolamento continuo per ragioni sanitarie è prescritto dal medico nei casi di malattia contagiosa. Esso è eseguito, secondo le circostanze, in appositi locali dell'infermeria o in un reparto clinico. Durante l'isolamento, speciale cura è dedicata dal personale all'infermo anche per sostenerlo moralmente. L'isolamento deve cessare non appena sia venuto meno lo stato contagioso.
  2. L'isolamento continuo durante l'esecuzione della sanzione della esclusione dalle attività in comune è eseguito in una camera ordinaria, a meno che il comportamento del detenuto o dell'internato sia tale da arrecare disturbo o da costituire pregiudizio per l'ordine e la disciplina. Anche in tal caso, l'isolamento si esegue in locali con le caratteristiche di cui all'articolo 6 della legge.
  3. Ai detenuti e gli internati, nel periodo di esclusione dalle attività in comune di cui al comma 2, è precluso di comunicare con i compagni.
  4. L'isolamento diurno nei confronti dei condannati all'ergastolo non esclude l'ammissione degli stessi alle attività lavorative, nonché di istruzione e formazione diverse dai normali corsi scolastici, ed alle funzioni religiose.
  5. Sono assicurati il vitto ordinario e la normale disponibilità di acqua.
  6. Le condizioni delle persone sottoposte ad indagini preliminari che sono in isolamento non devono differire da quelle degli altri detenuti, salvo le limitazioni disposte dall'autorità giudiziaria che procede.
  7. La situazione di isolamento dei detenuti e degli internati deve essere oggetto di particolare attenzione, con adeguati controlli giornalieri nel luogo di isolamento, da parte sia di un medico sia di un componente del gruppo di osservazione e trattamento, e con vigilanza continuativa ed adeguata da parte del personale del Corpo di polizia penitenziaria.
  8. Non possono essere utilizzate sezioni o reparti di isolamento per casi diversi da quelli previsti per legge.

Quest'articolo ha sostituito l'art. 68 D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, (Isolamento).

  1. L'isolamento continuo per ragioni sanitarie è prescritto dal medico nei casi di malattia contagiosa. Esso è eseguito, secondo le circostanze, in appositi locali dell'infermeria o in un reparto clinico. Durante l'isolamento, speciale cura è dedicata dal personale all'infermo anche per sostenerlo moralmente. L'isolamento deve cessare non appena sia venuto meno lo stato contagioso.
  2. L'isolamento continuo durante l'esecuzione della sanzione della esclusione dalle attività in comune è eseguito in una camera ordinaria, a meno che il comportamento del detenuto o dell'internato sia tale da arrecare disturbo o da costituire pregiudizio per l'ordine e la disciplina. In tal caso, l'isolamento si esegue, presso un'apposita sezione, in una camera che deve avere le caratteristiche indicate all'articolo 6 della legge e che comunque, in mancanza di una o più di queste caratteristiche, deve essere igienicamente idonea, dotata di letto, materasso cuscino e delle coperte necessarie, nonché di tavolo e sgabello.
  3. Ai detenuti e gli internati, nel periodo di esclusione dalle attività in comune, è precluso di comunicare con i compagni né avere corrispondenza telefonica o colloqui; ad essi è consentito tenere soltanto quotidiani, periodici e libri.
  4. Il colloquio con i familiari o i conviventi è consentito quando ricorrono circostanze eccezionali.
  5. Sono assicurati il vitto ordinario e la normale disponibilità di acqua.
  6. Le condizioni degli imputati durante l'istruttoria e degli arresti nel procedimento di prevenzione, che sono in isolamento, non devono differire da quelle degli altri detenuti, salvo le limitazioni disposte dall'autorità giudiziaria che procede.

59. G. Di Gennaro, R. BREDA, G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997.

60. Corte costituzionale sentenza 212/97.

61. Canepa, Merlo, Manuale diritto penitenziario, 1996.

62. G. Di Gennaro, R. BREDA, G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997.

63. Fassone, Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1984.

64. Cassazione 28/2/1980, in Cassazione penale, 1982.

65. Cassazione penale sez. I, Natoli, 21 marzo 2000, n. 2116.

66. Cassazione penale, sez. VI, Magni, 16 gennaio 1985, Giustizia penale, 1986.

67. Cassazione penale sez. I, Riina, 5 dicembre 2000, n. 4381.

68. Corte di Assise di Roma, ordinanza 14/5/2001.

69. Cassazione penale sez. I, Paolello, 28 gennaio 2000, n. 613.

70. Corte Costituzionale ordinanza n. 237/99.

71. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 85, (Autorità che dispongono i trasferimenti tra istituti o le traduzioni).

  1. Il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria dispone i trasferimenti tra istituti di diversi provveditorati ovvero quelli ad esso riservati dalla normativa vigente. I trasferimenti tra istituti dello stesso provveditorato sono disposti dal provveditore regionale. I trasferimenti degli imputati per motivi diversi da quelli di giustizia sono disposti previo nulla osta della autorità giudiziaria che procede.
  2. Quando, sussistendo gravi e comprovati motivi di sicurezza, occorre trasferire gli imputati, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, dopo aver chiesto il nulla osta all'autorità giudiziaria che procede precisandone i motivi, la durata e la sede di destinazione, può dare anticipata esecuzione al trasferimento, che, comunque, deve essere convalidato dall'autorità giudiziaria procedente.
  3. I trasferimenti o le traduzioni per la comparizione degli imputati alle udienze dibattimentali sono richiesti dall'autorità giudiziaria alle direzioni degli istituti, che vi provvedono senza indugio, informandone il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. La stessa disposizione si applica ai trasferimenti e alle traduzioni per la comparizione davanti ai tribunali di sorveglianza.
  4. La direzione dell'istituto comunica senza indugio al magistrato di sorveglianza ogni trasferimento definitivo di un detenuto o internato.
  5. I trasferimenti o le traduzioni per motivi di giustizia penale diversi da quelli indicati dal comma 3 ed i trasferimenti o le traduzioni per motivi di giustizia civile sono consentiti solo quando, a giudizio dell'autorità giudiziaria competente, gravi motivi rendono inopportuno il compimento dell'attività da espletare nel luogo dove il detenuto è ristretto.
  6. Soddisfatte le esigenze giudiziarie, il soggetto viene restituito all'istituto di provenienza.
  7. Nei casi di assoluta urgenza, determinata da motivi di salute, il direttore provvede direttamente al trasferimento, informandone immediatamente l'autorità competente.
  8. Il trasferimento dei condannati o degli internati è comunicato all'organo del pubblico ministero competente per la esecuzione.
  9. L'assegnazione prevista dal secondo comma dell'articolo 28 è disposta dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.

Quest'articolo ha sostituito l'art. 80 D.P.R. 29 Aprile 1976, n. 431, (Autorità che dispongono i trasferimenti tra istituti o le traduzioni).

  1. I trasferimenti tra istituti dello stesso distretto sono disposti dall'ispettore distrettuale, il quale ne informa immediatamente il Ministro, ad eccezione di quelli preveduti dal comma 5 dell'art. 14 quater della legge e del comma 9 dell'art. 32 bis del presente regolamento, i quali sono disposti dal Ministro. I trasferimenti degli imputati per motivi diversi da quelli di giustizia sono disposti previo nulla osta dell'autorità giudiziaria che procede.
  2. Quando, sussistendo gravi e comprovati motivi di sicurezza, occorre trasferire gli imputati, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, dopo aver chiesto il nulla osta all'autorità giudiziaria che procede precisandone i motivi, la durata e la sede di destinazione, può dare anticipata esecuzione al trasferimento, che, comunque, deve essere convalidato dall'autorità giudiziaria procedente.
  3. I trasferimenti o le traduzioni per la comparizione degli imputati alle udienze dibattimentali sono richiesti dall'autorità giudiziaria alle direzioni degli istituti, che vi provvedono senza indugio, informandone il Ministro. La stessa disposizione si applica ai trasferimenti e alle traduzioni per la comparizione davanti ai tribunali di sorveglianza.
  4. La direzione dell'istituto comunica senza indugio al magistrato di sorveglianza ogni trasferimento definitivo di un detenuto o internato.
  5. I trasferimenti o le traduzioni per motivi di giustizia penale diversi da quelli indicati dal comma 3 ed i trasferimenti o le traduzioni per motivi di giustizia civile sono consentiti solo quando, a giudizio dell'autorità giudiziaria competente, gravi motivi rendono inopportuno il compimento dell'attività da espletare nel luogo dove il detenuto è ristretto.
  6. Soddisfatte le esigenze giudiziarie, il soggetto viene restituito all'istituto di provenienza.
  7. Nei casi di assoluta urgenza, determinata da motivi di salute, il direttore provvede direttamente al trasferimento, informandone immediatamente l'autorità competente.
  8. Il trasferimento dei condannati o degli internati è comunicato all'organo del pubblico ministero competente per la esecuzione.
  9. L'assegnazione prevista dal secondo comma dell'articolo 28 è disposta dal Ministro.

72. G. Zappa Trasferimenti dei detenuti e poteri del Magistrato di Sorveglianza, in Rassegna di studi penitenziari, 1982, pp. 617.

73. L. 15 dicembre 1990 n. 395.

74. G. Nespoli, Rilievi sulla funzione amministrativa nel rapporto di esecuzione. in Rassegna penitenziaria e criminologia, 1982, pp. 35.

75. M. G. Coppetta, Commento all'art. 42 ordinamento penitenziario, in Ordinamento penitenziario, Commento articolo per articolo, a cura di V Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Cedam, Padova, 2000, pp.357.

76. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 83, (Trasferimenti).

  1. Nei trasferimenti per motivi diversi da quelli di giustizia o di sicurezza si tiene conto delle richieste espresse dai detenuti e dagli internati in ordine alla destinazione.
  2. Il detenuto o l'internato, prima di essere trasferito, è sottoposto a perquisizione personale ed è visitato dal medico, che ne certifica lo stato psico-fisico, con particolare riguardo alle condizioni che rendano possibile sopportare il viaggio o che non lo consentano. In quest'ultimo caso, la direzione ne informa immediatamente l'autorità che ha disposto il trasferimento.
  3. All'atto del trasferimento la direzione consegna al detenuto o all'internato gli oggetti personali che egli intende portare direttamente con sé, nei limiti previsti dalle disposizioni in vigore in materia di traduzioni.
  4. Il capo scorta riceve in consegna dalla direzione:
    1. generi alimentari in quantità e qualità adeguate alle esigenze del soggetto durante il viaggio o, alternativamente, una somma di denaro per l'acquisto dei detti generi, nella misura giornaliera che viene fissata con decreto del Ministro della giustizia;
    2. la cartella personale;
    3. il certificato sanitario previsto dal comma 2;
    4. la nota degli oggetti costituenti il bagaglio personale;
    5. il peculio, in tutto o in parte, costituito in fondo disponibile;
    6. il certificato dell'ammontare del peculio consegnato.
  5. Il capo scorta rilascia ricevuta degli oggetti, dei valori e dei documenti a lui consegnati dalla direzione dell'istituto di provenienza e ottiene, a sua volta, ricevuta dalla direzione dell'istituto di destinazione di quanto da lui consegnato.
  6. Il peculio del detenuto o dell'internato e gli altri oggetti di sua spettanza, che non sono stati consegnati alla scorta o inclusi nel bagaglio personale sono, nel più breve tempo possibile, trasmessi alla direzione dell'istituto di destinazione, contemporaneamente al fascicolo personale.
  7. Le spese per la spedizione degli oggetti indicati nel comma 6 sono, in ogni caso, sopportate dall'Amministrazione fino al limite di dieci chilogrammi di peso e, per l'eccedenza, dal detenuto o dall'internato che sia stato trasferito a sua domanda.
  8. Nel caso di trasferimenti temporanei di breve durata, le disposizioni dei commi 4, 5 e 6 si applicano nella misura richiesta dalle circostanze, considerati anche i desideri dell'interessato.
  9. Quando si rende necessario un trasferimento collettivo di detenuti o di internati non sono inclusi, ove possibile:
    1. i detenuti e gli internati per i quali sono in corso attività trattamentali, particolarmente in materia di lavoro, istruzione e formazione professionale o per i quali sia in corso procedura di sorveglianza per la ammissione a misure alternative;
    2. i detenuti e gli internati nei cui confronti sono in corso trattamenti sanitari non agevolmente proseguibili in altra sede;
    3. le detenute con prole in istituto;
    4. gli imputati prima della pronuncia della sentenza di primo grado o gli imputati appellanti quando sia già stata fissata udienza per la decisione della impugnazione.

Quest'articolo ha sostituito l'art. 78 D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, l'unica modifica apportata è stata l'introduzione del comma 9.

77. Genghini, Consiglio Superiore Magistratura, Diritto penitenziario, 1986. G. Zappa Trasferimenti dei detenuti e poteri del Magistrato di Sorveglianza, in Rassegna penitenziaria e criminologia, 1982, pp. 617.