ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Cap. 2: La penalità nell'epoca feudale

Tommaso Buracchi, 2004

Carcer ad continendos homines, non ad puniendos haberi debet. (1)

1: Evoluzione delle pene nel passaggio dall'alto al basso Medioevo

Con il termine Medioevo, la cronologia tradizionale identifica quel periodo storico che va dall'antichità all'età moderna, il cui inizio è fissato alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente (476 d.C.) e la cui fine è posta all'anno della scoperta dell'America (1492). Il Medioevo è solitamente suddiviso in due parti: l'Alto Medioevo si protrae fino all'anno mille, il Basso Medioevo va dall'anno mille in poi. Questa suddivisione è resa necessaria dai mutamenti che, ovviamente, si verificano in un così ampio lasso di tempo, e da cui l'argomento da noi trattato non è esente. Difatti vedremo come, in linea di massima, nel primo Medioevo le pene consistessero principalmente in sanzioni pecuniarie, mentre nel tardo Medioevo si affermeranno crudeli punizioni corporali. Ma per comprendere come si sia potuto verificare un così radicale mutamento delle forme punitive adottate, è necessario rivolgere uno sguardo d'insieme alla società in esame, ponendo contemporaneamente attenzione, ove necessario, alle differenze esistenti tra i due suddetti periodi. "La realtà materiale e sociale nettamente prevalente nel mondo medievale era l'isolamento, un fattore che predeterminava il quadro di tutte le attività umane, crimine compreso. Il livello e il tipo di contatti umani erano limitati; consuetudini sociali e modelli economici riflettevano la mancanza di scambi e comunicazioni quotidiane. La gente viveva in piccole unità separate" (2). Il fatto che i centri abitati fossero così isolati tra di loro, era però controbilanciato da un elevato livello di contatti personali all'interno di ciascun ambiente. Spesso la popolazione di un intero villaggio era composta da parenti, e nelle città "ogni piccolo quartiere, formato dai confini della parrocchia, era abitato da persone che potevano vantare qualche legame formale, professionale, familiare o sociale con tutti coloro che abitavano in quella zona della città" (3). La concezione medievale della società era essenzialmente teocratica; "il principio di autorità veniva a costituire un tessuto connettivo continuo che legava tra loro tutti gli aspetti del mondo contadino feudale e che aveva alla propria base il rapporto di subordinazione diretta, giuridica-politica-militare-religiosa, del lavoratore al suo signore" (4). Similmente ad ogni altro aspetto della società feudale, il diritto e la pena riflettevano il campanilismo dell'epoca. Ogni magnate feudale rivendicava potere giudiziario sul suo regno particolare, ogni istituzione feudale invocava l'autorità legale di pronunciarsi su certi tipi di controversia. "La molteplicità di giurisdizioni rifletteva l'assenza di una effettiva autorità centralizzata; rifletteva anche l'incapacità dei primi monarchi di estendere la loro sovranità in modo sostanziale e generale" (5). In particolare, i monarchi medievali sovente accettavano di scambiare l'autorità giuridica con la possibilità di sfruttare varie fonti di reddito; di conseguenza assai spesso "spettava alle singole regioni escogitare un metodo proprio per controllare il crimine. Così la frammentazione dell'autorità legale determinò la nascita di metodi informali del controllo del crimine che soddisfacevano le esigenze della varie popolazioni locali" (6). Queste sistemi, che apparentemente seguivano norme generali di procedura legale e giudiziaria, in realtà a livello locale tendevano a conformarsi alle tradizioni ed alle pratiche legate alla situazione sociale particolare. Difatti, i metodi locali di controllo del crimine si avvalevano di un gran numero di pratiche cooperative; ci si affidava cioè all'intera popolazione civile affinché essa contribuisse a mantenere la pace sociale. Ciò favorì la perpetrazione del carattere privato del diritto penale. In che misura la giustizia penale fosse un affare privato è dimostrato anche dalla tradizione feudale dell'asilo, che era un aspetto preminente dell'autorità clericale. Per diritto d'asilo si intende l'immunità accordata a coloro che, indiziati di qualche reato, si siano rifugiati in un edificio od altro luogo sacro (7). Alla persona cui era riconosciuto tale diritto (8) era consentito restare nell'edificio per quaranta giorni, dopo i quali poteva essere prelevata con ogni mezzo possibile (9). "L'asilo consentiva a un individuo di sfuggire ai suoi inseguitori. ... I quaranta giorni di grazia erano considerati sufficienti perché la notizia dell'evento si diffondesse nella comunità, spingendo così le autorità legalmente costituite a intervenire nella vicenda" (10); il presunto criminale, quindi, avvalendosi di questo suo diritto, si sottrae alla vendetta privata, trovando rifugio nelle mani dell'autorità pubblica. L'asilo appare come espressione del concetto cristiano della 'charitas', e mostra come la Chiesa cattolica, almeno in origine, come vedremo, mirasse ad attenuare il rigore dell'esecuzione della pena afflittiva. Nel primo periodo medievale, in ambito penale, predomina il sistema accusatorio (11), correlato a specifici mezzi di prova. Il procedimento penale si basa su "l'abbandono dell'azione ai cittadini, il giudizio per gli eletti del popolo, la oralità e la pubblicità dei dibattimenti. Risalendo ai Germani, ... troviamo che i capi giudicavano degli affari minori, il popolo di quelli di maggior momento, e ad ognuno era lecito portare innanzi l'accusa" (12). Esaminando la procedura presso i popoli barbari rileviamo che il procedimento "fu militare tutto, pubblica l'accusa, vocale il processo. Citato il reo per bannum, se legittimo impedimento non proponesse, doveva innanzi a quello comparire. Comparendo poi esso reo e l'accusatore avanti ... al giudice, l'accusatore domandava la permissione e ad alta voce proponeva l'accusa. Rispondeva il reo, e qualora avesse negato, o proposta qualsiasi eccezione, contestava la lite; e per lo più nel giorno medesimo si determinava il giudizio" (13). Posta l'accusa, il delitto era provato, e si procedeva alla punizione del reo, in due casi; o quando l'imputato era confesso, o quando il fatto fosse noto e pubblico. "Allora il giudice pronunziava la sentenza sulla confessione o pubblicità e non discendeva ad altre prove. Ove ciò non si avverasse, le prove, svariate a seconda dei luoghi e dei tempi, erano costituite sopra tutto dai Giudizi di Dio, ordalie e duelli, dal giuramento e dalle testimonianze" (14). L'autorità pubblica si limita ad assistere alla controversia tra le parti e interviene nella maggior parte dei casi a seguito di sollecitazione della parte offesa, limitandosi attraverso un suo giudice a scegliere il mezzo di prova, in genere ordalico, che deciderà la lite. Nell'Alto Medioevo l'uso della tortura era pressoché sconosciuto ed ignorato. Quando si veniva accusati di avere commesso un delitto, il modo più immediato per discolparsi consisteva nel chiamare Dio come testimone della propria innocenza, attraverso dei veri e propri esperimenti atti ad indicare la colpevolezza o meno del sospettato. Tale metodo è denominato Ordalia (15). Si trovano innumerevoli esempi di come questa prova fosse eseguita materialmente, ma vi erano forme che si diffusero più delle altre, e che vennero perciò legalmente disciplinate in modo più dettagliato (16). Con il civilizzarsi dei popoli, tali prove vennero considerate "troppo rozze e quasi infantili" (17) per continuare ad essere adottate; tuttavia si fece sempre affidamento al Giudizio di Dio, che si applicò alla solenne e cavalleresca prova del duello. "Alcuni ritengono sia la forma più evoluta delle ordalie, che sorge quando lo esperimento si vuole affidare piuttosto alla forza e alla destrezza dello stesso imputato, che al puro caso. Altri sostengono che sia l'ultima e delimitata applicazione del diritto di guerra privata, cui solo accessoriamente si ricollegherebbe la idea del giudizio di Dio che invece nelle ordalie ne costituisce il carattere precipuo" (18). In ogni caso, il duello si connette indubbiamente all'ordalia, in quanto in entrambi i metodi si fa dipendere l'esito della controversia da una prova che non ha nulla a che vedere con il fatto in disputa. Siamo ancora nel campo della prova ostensoria (19), ma anziché riferirsi ad un mezzo puramente materiale, si attiene alla forza, alla destrezza, al valore individuale dei contendenti; "si decide facendo appello alla personale abilità dello avversario" (20). Difatti "il coraggio, la destrezza, il vigore, la tolleranza di una lunga azione, il disprezzo dei pericoli erano presso i popoli barbari la virtù del cittadino, erano le virtù preziose allo Stato e care al Governo. Unicamente interessato a formare dei guerrieri, l'oggetto principale delle leggi e della educazione era d'ispirare il coraggio, di promuoverlo, di onorarlo" (21). Il duello, quindi, era adatto a dirimere qualsiasi tipo di controversia, ed era per questo disciplinato con una serie di minuziose regole. "I combattenti pigliavan le mosse dal rinfacciarsi a vicenda le colpe, e tosto dalle parole passavano alle armi. Il vinto perdeva la causa: allora veniva disarmato e dichiarato pubblicamente infame" (22). Se l'accusato vinceva, l'accusatore era tenuto a versargli metà della pena cui sarebbe andato incontro in caso di sconfitta (23). Oltre ai Giudizi di dio, grande importanza è attribuita, nel primo periodo medievale, alla confessione dell'imputato ed alle testimonianze. Entrambi questi mezzi di prova si ricollegano inscindibilmente ai Giudizi di Dio. Infatti i testimoni, nel periodo Alto Medievale, "non delimitavano il loro compito ad affermare o negare una determinata circostanza di fatto; ma, quasi addossandosi tutta la personale responsabilità del contendente, a cui favore si erano prodotti, venivano obbligati a sostenere i loro detti con gli stessi mezzi con cui lo accusatore sosteneva l'accusa e lo imputato la sua innocenza" (24). Nacquero così, nell'ambito della confessione, i 'testimoni congiuratori', e nell'ambito dei Giudizi di Dio, i 'testimoni campioni'; i quali non erano propriamente dei semplici testimoni, ma delle figure complementari e sussidiarie delle stesse parti in causa. Il giuramento assume, in questo periodo, grande efficacia probatoria; esso va distinto, per forme e finalità assai diverse, "da quello poi ammesso dal diritto canonico e dalle leggi del secondo periodo medievale" (25). Il giuramento dell'Alto Medioevo ha carattere essenzialmente negatorio. "Di fatti lo scopo del giuramento era dapprincipio diretto alla conferma della innocenza ed alla negazione del delitto da parte dello stesso imputato" (26). Fintanto che si continuò a temere la vendetta divina nei confronti dello spergiuro, tale mezzo di prova non cessò di avere largo credito; esso "bastava a purgare l'uomo dall'accusa, e non si chiedeva altro perché fosse da ogni addebito assolto" (27). Più tardi, poi, il solo giuramento non è più sufficiente a dimostrare la propria innocenza, ed è necessario avvalorarlo tramite le ordalie, i duelli o il giuramento di altre persone. Durante il Basso Medioevo il giuramento perde carattere negatorio, ed assume esclusivamente carattere confessorio (28); "si fa innanzi il concetto che lo imputato col giuramento non debba purgarsi, negando, ma debba proclamarsi colpevole;...onde... ai Giudizi di Dio e le compurgazioni, sottentra ... la tortura" (29), ma ci occuperemo più tardi di questo cambiamento. Durante l'Alto Medioevo era consuetudine giurare toccando armi che erano state benedette da un sacerdote, oppure stendendo la mano sopra oggetti particolarmente venerati. Se il sospettato giurava la sua innocenza, ciò era sufficiente per essere prosciolto; "se avesse mentito, restava a Dio il carico di punirlo" (30). Ma, analogamente a quanto accadde per le ordalie, tale procedura cominciò ad apparire troppo semplicistica, insufficiente a purgare l'imputato dall'accusa; "allora coloro i quali lo ritenevano innocente, dovevano assumere anche loro tutta la responsabilità dello spergiuro davanti allo inesorabile Iddio" (31). I testimoni così, in questo ambito, assumono un ruolo del tutto particolare: essi, denominati adesso 'conjuratores' o 'compurgatores', devono non rivelare al giudice la verità su fatti di cui siano a conoscenza, quanto farsi garanti dell'onestà del sospetto. Essi dovevano giurare che l'accusato era innocente, senza essere obbligati a dare alcuna giustificazione. Spesso i compurgatori non sapevano come si erano svolti realmente i fatti, ma si schieravano a favore di un contendente in base al legame personale con esso, ed in base alla considerazione che avevano riguardo alla sua rettitudine ed alla sua capacità presunta di commettere o meno un reato. "L'imputato conduceva seco parecchi compagni, che giuravano insieme con lui, e confermavano così le sue asserzioni, a guisa di testmonj della di lui veracità e innocenza; questo allora bastava e l'imputato si considerava purificato. Siffatto sistema si connetteva coll'intima costituzione del comune e della famiglia" (32), sulla base della comunanza religiosa. Il giuramento (33) venne adottato anche dal diritto canonico, e dissipava qualunque sospetto, senza che vi fosse necessità di passare alla vera procedura probatoria. Comunque, "quando lo accusato presenta testimoni per asseverare che egli non ha commesso il delitto, lo accusatore può chiamarli alla pugna; poiché è giusto che chi si offrì a giurare...non abbia difficoltà a combattere" (34) per sostenere la veridicità delle proprie affermazioni. (35) Da tale combattimento dipendeva l'esito del giudizio, senza che le parti potessero aggiungere altre prove. Nella società feudali il crimine "era considerato solo nel suo contesto individuale: era un'azione illegale, un'offesa arrecata da una persona a un'altra. Di conseguenza la giustizia penale medievale era una questione privata, non voleva tanto punire quanto mantenere relazioni sociali equilibrate tra parti di rango uguale" (36). La giustizia, cioè, ruotava intorno al concetto di vendetta personale (37). Il crimine era una faccenda "strettamente legata ai rapporti basilari di amicizia, parentela e status che dominavano le relazioni sociali medievali. ... I crimini più gravi erano quelli che minacciavano di turbare il precario equilibrio sociale della comunità; tutto il resto era risolvibile in via privata" (38). La parte lesa aveva generalmente la possibilità di controllare l'intero processo attraverso il quale l'imputato veniva giudicato, condannato e punito; e poteva vendicare il suo senso di perdita senza far subire realmente al suo avversario tutta la forza della legge. "Le pene erano spesso miti, avendo lo scopo di costringere il criminale a accettare la responsabilità pubblica delle sue azioni, oltre a fare pubblica ammenda per il suo comportamento" (39). Il sistema si fondava sulla necessità di risarcire la vittima, piuttosto che sulla volontà di punire il criminale; questo secondo elemento era in effetti davvero marginale, anche nel caso di crimini gravi. "Nel primo periodo del Medioevo lo stato non era ancora giunto a fare della giustizia punitrice un ufficio esclusivamente suo proprio, vincendo del tutto la concorrenza della famiglia o della comunità privata. Conseguentemente la pena ... continuava ad avere anche e soprattutto lo scopo di dar soddisfazione all'offeso o - in una prospettiva strettamente teocratica - di favorire la riconciliazione dell'intera società con la divinità turbata dalla commissione dell'illecito da parte del singolo delinquente-peccatore" (40). Sia nella procedura privata che in quella pubblica, il processo era avviato dalla vittima, che diveniva il querelante. Nel sistema privato, basato sulla procedura accusatoria, egli restava "l'agente principale durante tutta la procedura. Intentava la causa, presentava le prove e le testimonianze necessarie per dare fondamento alle sue richieste di risarcimento, e decideva perfino se l'imputato doveva o no essere condannato dal tribunale" (41). Nel corso di tutto il periodo storico esaminato, "il ricorso all'azione penale sovente dipendeva esclusivamente dalla vittima, che doveva richiamare l'attenzione delle autorità sul crimine" (42), e presentare tutte le prove e i testimoni al riguardo. Quando la vittima si sentiva risarcita del danno subito, e l'offesa era stata denunciata e vendicata, poteva far interrompere il procedimento. Infatti, l'elemento più significativo della procedura era costituito dal fatto che la parte lesa poteva rendere pubblici i torti subiti, e ripristinare il prestigio e l'onore che pensava di avere perduto. In tutti i centri urbani esisteva almeno un banditore municipale che andava di strada in strada gridando le notizie, per informare l'intera popolazione di un episodio particolare e rilevante. "Il governatore aveva per legge l'ordine di informare in tal modo la popolazione locale circa le sue attività; quindi il sistema giudiziario, così come agiva a livello locale, era un metodo perfetto per diffondere la notizia di un avvenimento particolare in tutta la comunità del villaggio" (43). Il querelante veniva consultato all'avvio di ogni nuova fase del processo, e, potendo ritirare la querela in qualsiasi momento, aveva un potere illimitato su tutta la questione. "Nella maggioranza delle cause penali ... il querelante a un certo punto del procedimento rinunciava all'accusa originale e permetteva all'imputato di rispondere di un'accusa minore, che finiva con una ammenda per coprire le spese processuali, anziché scontare una pena più severa a seguito di una condanna vera e propria" (44). Una volta avviato il procedimento, si tendeva, in genere, a raggiungere una conclusione che permettesse al magistrato di comminare almeno una piccola ammenda per coprire i costi processuali; "ma gli incentivi a perseguire fino in fondo un crimine erano molto scarsi, ... e si davano al querelante frequenti occasioni di domandare una soluzione anticipata della causa" (45). Allo stesso tempo, si cercava di convincere l'imputato a confessare, perché ciò avrebbe accorciato sensibilmente i tempi ed avrebbe determinato una sentenza molto mite. "Invece nella procedura pubblica la causa originale intentata dal querelante era il primo e ultimo momento in cui le sue azioni costituivano la ragione per portare avanti la causa" (46). Dopo la denuncia, la procedura veniva affidata ad autorità esterne, che portavano avanti la causa per conto dello stato. Il querelante era quindi privato di tutta l'autorità discrezionale che possedeva nella procedura privata e, come l'imputato, diveniva solo una delle parti in causa. Quest'ultimo sistema era pressoché inesistente nell'Europa medievale, e cominciò a diffondersi solo a partire dal Basso Medioevo. Come abbiamo detto, "nel periodo feudale, il sistema di giustizia penale si basava sull'avvio di un procedimento legale da parte della vittima o dei suoi rappresentanti, e solo in rare occasioni i magistrati intervenivano d'autorità per avviare il processo. Di conseguenza, poiché i primi sistemi giudiziari erano soggetti all'intervento personale delle parti in causa, essi agivano nell'interesse di coloro che contavano, sul piano materiale o sociale, nella comunità locale. Questi sistemi giudiziari 'personalizzati' ... favorivano la partecipazione e l'intervento, ma solo da parte di coloro che potevano permettersi di intervenire" (47). Il fatto che il sistema privato di persecuzione del crimine prevalesse nettamente su quello pubblico è un indicatore importante dei fattori sociali che permeavano tutti gli aspetti della vita feudale. Ciò "rifletteva in primo luogo l'ethos dell'uguaglianza che governava la coscienza popolare a tutti i livelli, e in secondo luogo l'assenza di valori di classe e di distinzioni sociali" (48). Tale senso di parità ed eguaglianza "faceva sì che il sistema legale fosse strutturato in modo da imporre il giudizio dei pari grado a ogni livello della società feudale" (49). Un siffatto funzionamento della procedura penale privata esprimeva inoltre la debolezza delle misure coercitive alla base del sistema di giustizia feudale; ogni gruppo sociale che voleva far rispettare le proprie leggi senza ricorrere alla forza, doveva far affidamento alla "volontà di tutti i suoi membri di ripartire su una base di parità il peso dell'applicazione della legge. Questo tipo di cooperazione poteva aver luogo solo tra persone di status uguale o quasi uguale. (50) La natura privata del diritto penale medievale derivava anche "dall'assenza si un corpo di polizia o di altri tipi di forze organizzate per la prevenzione del crimine" (51). La comunità si assumeva la piena responsabilità di prevenire il crimine, e di assicurare che le sentenze fossero eseguite fino in fondo. La pena svolgeva una vera e propria "funzione sociale: permetteva a un individuo di vendicare il suo senso di perdita e permetteva alla comunità di identificare al suo interno gli individui molesti" (52). Nell'Alto Medioevo, dunque, "la giustizia penale era un metodo per appianare le controversie personali tra persone di pari rango. Quindi non c'era posto per una brutalità eccessiva. La giustizia feudale si fondava inoltre su una reciprocità di rapporti sociali, basata sui legami personali tra le parti di un processo penale" (53); inoltre, dato che il crimine era considerato come l'aggressione di una persona a un'altra, la pena era intesa non tanto come castigo sociale ma come riparazione personale. "La forma principale di punizione in tutti i sistemi privati era l'ammenda, comminata solitamente anche quando il colpevole era giudicato innocente di una parte delle accuse contestategli" (54). Nel primo Medioevo "non esisteva molto spazio per un sistema punitivo di Stato. La faida e la penance finivano per costituire un sistema giuridico di rapporti tra soggetti eguali per stato sociale e per censo (55), basato sull'esistenza di terra sufficiente a far fronte ai bisogni di una popolazione in continua crescita, senza che questo significasse un abbassamento del tenore generale di vita" (56). La pena pecuniaria del primo Medioevo riflette quindi in modo sistematico i rapporti sociali di un mondo contadino scarsamente popolato. "La possibilità dell'insediamento su terre libere impedisce ogni pesante pressione sociale sulle classi inferiori e porta ad una diffusione abbastanza equilibrata della ricchezza" (57). I delitti contro la proprietà hanno scarsa importanza, poiché "difficilmente un contadino può sottrarre beni al suo vicino, che egli non possa procurarsi con il lavoro" (58). Le violazioni della proprietà non avevano peso rilevante in una società composta essenzialmente da proprietari agricoli. Le condizioni delle classi inferiori erano abbastanza buone, sia grazie alla costante domanda di forza lavoro, sia per la possibilità di emigrare verso le città da poco formatesi. "Tutti questi avvenimenti indussero i feudatari a trattare i propri servi con maggiore attenzione" (59). Si trattava di condizioni che erano complessivamente in grado di prevenire il prodursi di tensioni sociali, e che assicuravano la coesione sociale caratteristica di questo periodo. "Il diritto penale vi giocava un ruolo secondario, come strumento di difesa della gerarchia sociale: la tradizione, un equilibrato sistema di dipendenza sociale e la celebrazione religiosa dell'ordine stabilito, costituivano una garanzia più che sufficiente" (60). Il diritto penale aveva il suo ruolo principale nell'assicurare l'ordine tra soggetti uguali. Solitamente, in caso di dispute, "si teneva un raduno solenne di uomini liberi, in cui si pronunciava il giudizio e si costringeva il colpevole a pagare ... la penance; in tal modo la vendetta delle parti offese non degenerava nella faida e nell'anarchia" (61). La società cioè si adoperava per la composizione dei dissidi, per evitare che questi sfociassero nella guerra delle parti coinvolte nella lite. L'elemento più efficace nella prevenzione del delitto era costituito "dal timore della vendetta della parte offesa, poiché il reato era considerato un atto di guerra; in assenza di un forte potere centrale, la pace veniva posta in pericolo dalla minima contesa tra vicini, che automaticamente coinvolgeva parenti e servi" (62). Per il legislatore era "più importante condurre i nemici alla riconciliazione sulla base di riconosciuti principi, che combattere il reato per mezzo dello strumento penale nel senso odierno" (63). La legge penale aveva quindi, quale obiettivo primario, il mantenimento della pace, perseguito, appunto, attraverso l'imposizione di pene pecuniarie. "Le distinzioni di classe si manifestavano nelle caratteristiche della penance; questa era attentamente misurata sulla base sociale del reo e della parte che aveva subito il torto. Il secondo tipo di pena inflitta nell'Alto Medioevo era il bando dal luogo particolare del crimine. Tale condanna era "molto severa, perché significava che l'individuo doveva trovare posto come straniero in una società che conferiva il più grande valore alla familiarità. ... Nelle campagne l'esilio coatto era riservato di solito a quei criminali il cui crimine rappresentava una minaccia per il bene della comunità, ... a tutti coloro la cui condotta quotidiana poteva rivelarsi dannosa per il delicato edificio sociale che ospitava la comunità locale" (64). Tale pena è un'altra indicazione di quanto la società feudale si fondasse sul campanilismo e sulla permanenza all'interno di un gruppo particolare. "Era inoltre una pena che richiedeva la collaborazione dell'intera comunità per essere efficace" (65). Il ricorso alla pena corporale era, nell'Alto Medioevo, piuttosto sporadico. Essa veniva in genere comminata come forma sostitutiva di pena, nel caso in cui il reo non fosse stato in grado di pagare la penance; ma il ricorso diretto a pene fisiche rimase assai raro (66). Con una certa frequenza, invece, si adottava la gogna, o berlina, "una condanna eseguita in pubblico in cui la vittima era esposta al ludibrio ed agli insulti degli altri membri della comunità" (67). La gravità della pena dipendeva quindi dall'atteggiamento della popolazione nei confronti del reo; se la riprovazione della comunità era elevata, tale pena poteva risultare anche molto gravosa. "La gogna era usata spesso per punire i crimini di natura pubblica, quali i comportamenti commerciali poco scrupolosi" (68); era una pena ignominiosa e infamante. Anche in questo caso, la motivazione principale di tale punizione era vendicare il senso di perdita avvertito dalla comunità, più che punire in modo grave il trasgressore. In modo analogo al ruolo svolto dal pubblico banditore, "l'uso della gogna ... avvertiva l'intera comunità delle attività dubbie di un individuo particolare. ... Ancora una volta, la pena sottolineava la difesa di relazioni sociali tradizionali, più che la punizione di un colpevole per sé" (69). La pena di morte era riservata a violazioni di particolare gravità, ma era, in genere, redimibile con il denaro. In questo periodo non sono previsti particolari modi di esecuzione della pena capitale, sui quali invece si sbizzarrirà la malsana ferocia del periodo Basso medievale. Le esecuzioni capitali non erano tuttavia sconosciute. "In teoria la pena di morte era comminabile per ogni crimine, compresi furto e aggressione. Ma il numero di verdetti di colpevolezza era sempre di gran lunga superiore al numero di condanne a morte, e il numero di persone condannate a morte era sempre di gran lunga maggiore del numero di esecuzioni capitali" (70). Difatti, pochi tra i condannati a morte finivano effettivamente davanti al carnefice, per vari motivi. Innanzitutto, "i tribunali erano restii a emettere una condanna severa contro un imputato conosciuto nella comunità, che probabilmente era amico degli stessi membri del personale giudiziario" (71); poi erano previste, nel diritto medievale, "circostanti attenuanti, quali malattia, povertà o pazzia, di cui tenere conto nella condanna di un imputato" (72); Infine, era normale un ampio uso della grazia, che "non solo era comune nei delitti capitali, ma era anche un comodo pretesto per aumentare l'ammenda pecuniaria comminata al posto di una condanna a morte" (73). Il procedimento accusatorio, che aveva dominato per tutto il periodo medievale, venne gradualmente affiancato ed infine sostituito, nel Basso Medioevo, da quello inquisitorio (74). Quest'ultimo venne introdotto dalla Chiesa, come mezzo per combattere l'eresia degli Albigesi, per mano di Bonifacio VIII, nel XIIº secolo. Egli ordinò che "se, nel procedere contro gli eretici, il giudice si fosse accorto essere pericoloso ai testimoni e alla ricerca delle prove che gli accusati conoscessero preventivamente il loro nome, ricevesse in segreto le loro deposizioni" (75). "La denuncia sostituisce l'accusa e la persecuzione di officio si sostituisce all'azione privata" (76) Tale innovazione, che era parsa utile, ed effettivamente lo era, in casi eccezionali, prese ad essere applicata poi in maniera sempre più diffusa a tutti i processi, giungendo a soppiantare la forma accusatoria. Ma analizziamo meglio le caratteristiche delle due forme fondamentali secondo cui si può trattare il processo penale (77). Il processo accusatorio si basa sulla presenza di un accusatore privato, e la procedura si agita tra lui e l'accusato; nell'inquisitorio invece si ha un inquirente che procede d'ufficio. "Ben diverso è nell'uno e nell'altro tanto l'indirizzo generale, quanto il carattere fondamentale di ogni singolo stadio" (78). Lo sviluppo storico delle due forme di procedura ci mostra che "la costituzione politica dello Stato concorre a far adottare l'una piuttosto che l'altra. Dove domina un principio popolare, ivi domina pure la forma accusatoria" (79). Infatti il popolo identifica in ogni accusa contro un cittadino un pericoloso attacco alle libertà pubblica e privata, "e guarda con diffidenza ai mezzi d'offesa, che il Potere ha, per tal modo, in sue mani. Perciò cerca di avere il maggior numero di guarentigie contro i possibili abusi, e considera il carattere politico del processo penale, più importante che non il carattere meramente giudiziario" (80). Il processo inquisitorio appartiene invece principalmente ai sistemi monarchici, "e vige in quei paesi in cui il movimento politico è infrenato da un potere che si diffonde dal centro, e agisce per mezzo d'una lunga serie di pubblici funzionari di infinite gradazioni" (81). Il potere supremo fa quindi processare i delitti nell'interesse della sicurezza generale e dell'ordine, e i processi sono trattati in modo cauto, indagatore, analogamente a come è trattato ogni altro aspetto della pubblica amministrazione. "Nel Medioevo poi questo principio acquistò una assoluta prevalenza in quegli Stati in cui il potere andò aumentando, e dove, più che in altri, la pena si rappresentò come una conseguenza necessaria del delitto" (82). Il processo accusatorio si fonda su "una specie di lotta tra due forze, ciascheduna delle quali si adopera a dimostrare la verità delle proprie asserzioni. ... L'accusatore impiega tutti i mezzi per provare la verità dell'accusa e farne persuasi i giudici; l'accusato si difende con ogni arma, e cerca di guadagnare in suo favore il loro convincimento" (83). Tale metodo è definito sintetico, poiché "ognuna delle due parti pone innanzi delle asserzioni determinate, colle prove che le dimostrano" (84); se l'accusatore non riesce a dimostrare le proprie accuse, il sospettato deve essere assolto. L'accusa è palese e non segreta, e l'accusatore deve provarla; "ond'è che la confessione dell'accusato non può essere il suo scopo. Parimenti non si può in nessun modo costringere l'accusato a rispondere; dal che deriva essere la tortura estranea al processo accusatorio." (85) E poiché tutti gli atti relativi alla verifica delle prove devono essere svolti innanzi ai giudici, e la società civile ha un interesse diretto di conoscere l'esito della controversia, essa deve necessariamente svolgersi in pubblico, e la trattazione deve essere orale, e comunque visibile, non scritta né segreta. Il principio che guida il processo inquisitorio è invece quello di "giovarsi di tutte le tracce che conducono a scoprire i delitti, e di tutti i mezzi legali atti a far conoscere il vero. E ciò per mezzo di un giudice nominato dal governo e vincolato a certe istruzioni date dalla legge, allo scopo di constatare la verità materiale, assoluta, e di decidere se sia stato commesso un determinato delitto, e se l'autore ne sia quella determinata persona che ne è imputata" (86). Il metodo seguito è quello analitico; "l'inquirente, mantenendosi in una specie di scetticismo, mette a profitto tutto ciò che può somministrar materiali per la scoperta del vero" (87). Non c'è una lotta tra forze contrastanti, né una accusa determinata, né una affermazione positiva che l'imputato sia autore del delitto. Il metodo di indagine è segreto, si indaga nel silenzio per scoprire la verità. Lo scopo del processo inquisitorio è quindi quello di ottenere la confessione del reo, di ottenere la verità assoluta e incontrovertibile, non importa con quali mezzi (88). Da qui a legittimare l'uso della tortura per estorcere ammissioni di colpa il passo fu breve (89). Le uniche prove riconosciute dal processo inquisitorio erano infatti la testimonianza (90) e la confessione; in entrambe l'uso della tortura era concepito come un mezzo ineccepibile per fugare ogni dubbio sulla veridicità delle affermazioni dei seviziati (91). La confessione assunse tanta importanza a seguito del ruolo preminente che occupava nel diritto canonico. La Chiesa infatti proclamava il principio della emendazione e del miglioramento, "e ravvisando nella confessione un segno di pentimento e di sommissione alla pena, cercò di ottenerla" (92). Il giudice doveva cercare con ogni sforzo la verità assoluta, di conseguenza la confessione dell'accusato. "E quanto più si diffondeva l'uso della tortura, tanto più s'accresceva il valore della confessione" (93). La procedura inquisitoria, condotta gradatamente e secondo un preconcetto disegno risulta alquanto lenta, e deve necessariamente essere scritta. Spesso il giudice inquirente, però, e questo è uno dei rischi del processo inquisitorio che contribuirono a rendere il Basso Medioevo quell'epoca sanguinaria che si suole identificare con le camere di tortura dell'inquisizione cattolica, "parte dalla presunzione che colui ch'egli tratta come sospetto sia anche veramente colpevole: e però, con artificiosi esami e con scaltre domande (e con l'uso della tortura), esercita su di lui una morale coazione a manifestare la verità (94), per modo che l'imputato si trova naturalmente condotto a dovere egli stesso dimostrare la propria innocenza" (95). Il giudice, che rappresenta a un tempo anche l'accusa, procede senza una incolpazione determinata, basandosi invece sulla bieca denuncia privata anonima, su voci, su sospetti, addirittura sulla 'diffamatio' della pubblica opinione, in una parola, sulla presunzione di colpabilità del sospettato. L'imputato, per il solo fatto di essere tale, era già considerato verosimilmente colpevole. La presunzione di colpevolezza fu protagonista dei processi inquisitoriali e delle loro implicazioni ideologiche e confessionali. All'affermazione di tale forma nel secondo Medioevo contribuì un'idea in voga in quell'epoca, che la procedura accusatoria non offrisse "una sufficiente guarentigia che i reati abbiano ad essere indubbiamente investigati e scoperti" (96); si impone così il giudice inquisitorio, che deve indagare la verità con ogni mezzo possibile. A partire dal XII-XIIIº secolo, tre forze giocarono contro il carattere privato che il diritto penale aveva mantenuto sino a quel momento, "contribuendo a trasformarlo in uno strumento di dominio" (97). Innanzitutto, una crescente funzione disciplinare, il cui unico limite era costituito dalla giurisdizione di un altro signore, venne assunta dal signore feudale nei confronti di coloro che si trovavano in uno stato di soggezione economica; si voleva cioè far percepire ai sudditi la forza delle autorità in carica (98). In secondo luogo, si ebbe "la lotta delle autorità centrali per rafforzare la loro influenza estendendo i propri diritti di intervento giudiziario" (99); si verificò, cioè, una lenta centralizzazione del potere. Infine, aumentò l'interesse per le entrate fiscali; "poiché il pagamento di coloro che amministravano la legge ... era finanziato con il ricavo delle spese legali imposte a chi si trovava sotto processo, l'amministrazione della giustizia, lungi dal rappresentare una spesa, significava un'entrata considerevole, sotto forma delle confische e delle pene pecuniarie imposte in aggiunta o in sostituzione delle penances dovute alla parte offesa" (100); l'obiettivo era trarre un cospicuo vantaggio economico dalle pene pecuniarie. "Con lo spostamento ... della gestione del potere penale dalla comunità locale a un organismo centrale sempre più influente, la sanzione patrimoniale si era trasformata da una compensazione della parte offesa in un metodo per arricchire giudici e funzionari di giustizia" (101). Le pene pecuniarie furono riservate ai benestanti, mentre quelle corporali continuarono ad essere applicate a coloro i quali non erano in grado di ottemperare a obblighi di natura economica, ed ai cosiddetti outsiders, cioè i soggetti ritenuti ai margini della società. Le pene pecuniarie erano nell'Alto Medioevo l'ideale per punire le classi abbienti, essendo originariamente sorte proprio per soddisfare l'esigenza dell'aristocrazia feudale di scontare la pena, evitando le pene corporali. "Ma il sistema delle ammende pecuniarie non funzionava altrettanto bene in generale, perché le classi inferiori non potevano semplicemente permettersi di pagarle" (102). Anche questo fu uno dei fattori che contribuirono all'evoluzione del sistema verso l'introduzione di pene corporali, poiché, appunto, l'impossibilità delle classi inferiori di far fronte al pagamento delle penances, condusse a sostituirle, nel Basso Medioevo, con le pene fisiche, che finirono per prenderne il posto. "Il sistema punitivo tradizionale si restrinse sempre di più, in questo modo, ad una minoranza della popolazione" (103), quella minoranza abbiente in grado di permetterselo. La pena pecuniaria dell'Alto Medioevo svolgeva la duplice funzione di afflizione, nei confronti del reo, e di risarcimento del danno subito, nei confronti della vittima e, ove la penance era ricevuta dall'autorità, anche nei confronti della comunità. Con il versamento della somma di denaro da parte del reo alla vittima o alla sua famiglia, o allo stato, si veniva così a ristabilire la pace turbata, e nulla era più dovuto al soggetto leso. In origine la misura della compositio non era prefissata, ma era diretta conseguenza della richiesta dell'offeso, rapportata alla gravità della lesione e alle condizioni personali delle parti. Progressivamente la definizione del suo ammontare fu sottratta alla disponibilità delle parti e dei gruppi parentali, e si formarono delle regole consuetudinarie. In seguito al processo di frantumazione del gruppo parentale, la compositio, oltre ad andare a vantaggio dell'offeso, non spetterà più al gruppo parentale, ma diverrà pertinenza, dapprima solo in alcuni casi, in seguitò più frequentemente, del 'fiscus regis', in modo tale da costituire una sorta di multa. In tal modo questa parte della pena perse il carattere originario di riparazione dell'offesa causata al gruppo parentale per l'attentato ad uno dei suoi membri e di compenso per l'assistenza offerta al medesimo nel sostenere l'accusa, per divenire progressivamente pena pubblica. Nel primo Medioevo si venne a costituire un nuovo tipo di solidarietà tra individui dimoranti nello stesso luogo; essa non originava più da vincoli di sangue, ma da interessi economici e da motivi di difesa comune della pace pubblica. Si vennero a creare delle consuetudini locali e un ampliamento del regime delle 'compositiones', con cui la comunità risolveva al suo interno qualsiasi tipo di controversia. Progressivamente, con l'evolversi della società verso strutture più partecipative, la materia penale venne sottratta alla disponibilità del singolo e si affermò il principio che la sanzione doveva essere irrogata da un organo dell'ordinamento; la sovranità venne esercitata in nome e nell'interesse della comunità. La pena venne ad assumere carattere pubblico in quanto comminata nell'interesse della generalità a tutela dell'ordine pubblico, della sicurezza interna e della 'pax communis'. Il salto di qualità avvenne comunque con l'introduzione del procedimento inquisitorio, che prima si affianca all'accusatorio per poi di fatto prevalere. Agli atti criminosi non viene più riconosciuto, almeno ufficialmente ed a livello teorico, il carattere di offese private; l'irrogazione della pena scaturisce esclusivamente dalla violazione della norma posta dall'ordinamento, per cui il reo non solo è soggetto esclusivamente alla legge, che ha posto il precetto, ma può essere punito solo dalla pubblica autorità. Ciò perché l'ordinamento avverte un sempre più pressante bisogno di non lasciare impunito il reato, per cui l'autorità interviene non solo in presenza dell'inerzia di chi ha la titolarità dell'azione, ma anche a favore dei più deboli sforniti di tutela. Il lento passaggio dall'Alto al Basso Medioevo era già cominciato. Durante il XVº secolo si assiste ad un peggioramento delle condizioni di vita delle classi inferiori della popolazione. "Si misero in moto taluni sviluppi sociali ed economici che avrebbero finito per trasformare radicalmente la forma della società europea, cambiando anche la natura stessa dl crimine" (104). Il declino demografico causato dalla peste nel secolo precedente era stato assorbito, e "la popolazione urbana, che era rapidamente tornata ai livelli precedenti a causa dell'afflusso dalla campagna, prese ad aumentare in maniera consistente; con essa aumentò ovunque il numero degli oppressi, dei disoccupati, della gente senza alcuna proprietà" (105). Si verificò una sorta di rivoluzione demografica, che comportò un massiccio movimento migratorio; tale mobilità contrastava in modo netto con l'esperienza demografica tipica del Medioevo sino a questo momento. Nei centri urbani "sorsero interi quartieri nuovi per ospitare l'enorme nuova popolazione urbana" (106). La terra disponibile andò esaurendosi, e i raccolti erano sempre più miseri, dato che in seguito all'aumento della popolazione, non era più possibile far riposare i campi per farli tornare fertili. "Il poco spazio libero rimasto venne presto riempito, e la crescente riserva di forza lavoro fece sì che i proprietari poterono deprimere il tenore di vita dei contadini che da essi dipendevano" (107); l'oppressione dei lavoratori agricoli da parte dei proprietari terrieri raggiunse livelli prima sconosciuti. La popolazione delle campagne si trova quindi costretta a fuggire "da una situazione ormai insostenibile" (108). Anche la posizione vantaggiosa degli artigiani venne messa in pericolo dall'afflusso nelle città di torme di contadini affamati, che non potevano essere assorbiti da centri urbani di dimensioni ancora ridotte. Questi disperati, "obbligati a rimanere sulle strade, divennero nomadi derelitti, vagabondi, mendicanti, formando bande, sempre in movimento, che presero a costituire un vero flagello" (109). L'accresciuta domanda di terra ne aveva aumentato sensibilmente il valore, ed i proprietari, che prima si accontentavano di dare in affitto i terreni in cambio di somme pressoché nominali, e ammettevano l'uso da parte delle popolazioni della terra comune, adesso non erano più disposti a concedere tanto, e prese piede il fenomeno delle recinzioni, con la conseguente espulsione dalla campagne di masse di contadini che non avevano alcuna possibilità di sostentamento. Se fino ad ora gli uomini erano più desiderati della terra, adesso tale situazione si stava rapidamente capovolgendo, con le funeste conseguenze che abbiamo visto. In breve tempo, si verifica il sovraffollamento dello spazio vitale esistente. Il fenomeno più esplicativo di questa situazione è da riscontrarsi, appunto, nella recinzione delle terre comuni (110), con cui il capitale penetra nelle campagne cacciando la popolazione locale che inevitabilmente si riversa nelle città per cercare di sopravvivere lavorando, mendicando, o attraverso ogni sorta di reato. Mentre le città del primo Medioevo difficilmente ospitavano emigranti o viaggiatori, "ora l'immigrazione da una regione all'altra acquistò una dimensione nazionale" (111); le città infatti, con lo sviluppo dell'attività economica, erano divenute un polo d'attrazione notevole. La città europea non era più una piccola comunità compatta "in cui la maggior parte della gente aveva un rango sociale o economico identificabile. Si andava trasformando in un enorme agglomerato che conteneva una popolazione assai varia" (112). Nel primo Medioevo "il capitale costituiva un elemento trascurabile rispetto al lavoro personale del mercante e degli artigiani" (113); adesso la situazione si era completamente rovesciata. L'economia europea subisce uno sviluppo fondamentale, si assiste alla nascita di una economia internazionale che ruota intorno al commercio di prodotti di massa, ed al passaggio da una economia rurale di sussistenza a un'economia mista, caratterizzata dall'estensione del credito, dal miglioramento dei mezzi di trasporto, dalla diffusione dell'istruzione e dall'elaborazione di nuove tecnologie. Nel tardo Medioevo "si verificano lotte che tendiamo in genere a considerare caratteristiche del diciannovesimo secolo: scioperi per ottenere paghe più alte, salariati che incrociano le braccia e boicottano i loro padroni" (114). Si creano orde di mendicanti, disordini sociali, rivolte; la criminalità muta completamente il proprio aspetto. "Ne risultò un rapido incremento dei reati contro la proprietà" (115). Le carovane di mendicanti, ladri, grassatori divennero una pubblica calamità. Questa intensa fase di lotta di classe "portò alla creazione di un severo diritto penale rivolto contro le classi inferiori" (116). La costante crescita della criminalità all'interno dei ceti bassi "rese necessario, per le classi dominanti, cercare metodi con cui rendere maggiormente efficace l'amministrazione della giustizia penale. Il sistema delle pene, con il doppio regime delle punizioni corporali e di quelle pecuniarie, rimase il medesimo, anche se veniva applicato differentemente a seconda del ceto sociale di provenienza del condannato" (117). Le pene pecuniarie non erano più adatte a fronteggiare la situazione, ed il raggio di intervento della giustizia dovette mutare completamente. Ogni crimine veniva valutato non tanto in base alla sua gravità, quanto in base alla persona che lo aveva commesso; questa sarebbe stata trattata con assai maggiore severità se la si fosse trovata senza fissa dimora o di basso lignaggio. "Sino a che l'attacco alla proprietà era portato da membri delle classi superiori, il diritto non era particolarmente severo. ... Il concetto di faida offrì una copertura giuridica ad atti di rottura dell'ordine e a ruberie di ogni tipo commessi da appartenenti alle classi superiori" (118); essi godevano di un vasto campo di immunità nei confronti di atti che sarebbero stati puniti in modo assai severo se a compierli fossero stati membri delle classi inferiori (119). Tramite la penance, o il perdono ecclesiastico, era possibile commutare la pena corporale o addirittura la morte in una condanna alternativa. Esiste già, dunque, un principio di differenziazione del trattamento. Chi può pagare, o ha conoscenze altolocate, fruisce di una pena incruenta, mediata dall'assoluzione o dal denaro; chi non possiede privilegi, viceversa, soccombe. Si ha così una divisione tra recuperabili ed irrecuperabili, sotto forma di collocazione di classe; tra chi ha un posto in cui essere richiamato, e chi, invece, è un senza ruolo."La pena pecuniaria finì poi col tramutarsi da una compensazione alla parte offesa in uno strumento di arricchimento da parte di giudici e funzionari di giustizia; essa era in pratica riservata solo ai ricchi, mentre per i poveri c'erano le punizioni corporali" (120). Oltre alla semplice differenza di classe, per cui la pena pecuniaria o quella corporale venivano comminate sulla base della capacità del condannato di adempiere, in molti paesi esistevano privilegi propri del ceto; certe punizioni venivano evitate per membri di determinati strati sociali, ed erano sostituite da altre, oppure venivano applicate con particolari modifiche. I ceti abbienti avevano "la possibilità, in un ampio numero di casi, di sostituire le pene scorporali o la pena di morte con una pena pecuniaria, o, nei casi più gravi, con il bando" (121). Così, mentre coloro che avevano denaro sufficiente erano in grado di comprarsi l'immunità, la grande maggioranza della popolazione non aveva modo di sottrarsi al duro trattamento. La maggior parte dei fatti criminosi erano reati contro la proprietà compiuti da disperati, e ciò spiega quanto una pena pecuniaria sarebbe stata inadatta al loro caso. Inoltre "era diventata una questione di fondamentale importanza sopprimere le bande di vagabondi, mendicanti, rapinatori che infestavano le campagne" (122). Più le masse si impoverivano, più le pene si facevano severe, al fine di mantenere il loro valore di deterrente. Le punizioni corporali crebbero in maniera considerevole, sino a che divennero non più una forma sostitutiva di pena, bensì la forma dominante. Se all'inizio esse furono ancora redimibili col denaro, in seguito però si affermarono come strumento universale di pena, il solo che sembrava in grado di garantire una certa difesa contro la criminalità della crescente massa dei diseredati. "Le esecuzioni, le mutilazioni e la frusta non furono affatto introdotti d'un colpo ad opera di qualche mutamento rivoluzionario, ma divennero gradualmente la regola all'interno di una situazione che si trasformava" (123). Le pene si fecero più severe rispetto al passato; sino al XIVº secolo "la pena di morte e le mutilazioni gravi erano usate solo in casi estremi per sostituire il complicato e accuratamente calibrato sistema di pene pecuniarie, ma ora divennero le misure più comuni e i giudici le comminavano ogniqualvolta si convincevano che l'imputato fosse un pericolo per la società" (124). Nel XVIº secolo, apice di questo mutamento, si assiste ad un incremento straordinario nel numero delle sentenze di morte. "La pena di morte acquistò un nuovo significato; essa non era più lo strumento estremo destinato ai reati più gravi, ma un mezzo per liberarsi sicuramente di individui pericolosi e, con questo tipo di procedure, non ci si curava troppo dell'innocenza o della colpevolezza di un sospetto" (125). Anche i metodi di esecuzione si fecero più brutali, dato che le autorità cercavano di continuo nuovi strumenti attraverso i quali rendere la pena di morte più dolorosa; "la sostituzione di quest'ultima con varie forme di mutilazione può difficilmente essere definita una misura mitigatrice della pena, dato che la mutilazione generalmente serviva per identificare il criminale più o meno come la moderna fedina penale: potevano annoverarsi casi di taglio delle mani, delle dita, di falangi, della lingua, altri nei quali gli occhi e le orecchie venivano asportati, casi di castrazione" (126). A parte la sofferenza fisica propria della pena, era praticamente impossibile per chi fosse stato punito in questo modo trovare un impiego onesto, con inevitabili ricadute verso il crimine. Le rinnovate modalità punitive rappresentavano inoltre per le autorità "uno strumento con il quale convogliare l'odio delle masse nei confronti dei singoli criminali, ... uno strumento per deviare da sé le responsabilità per la difficile situazione economica" (127). "Tutto il sistema punitivo del tardo Medioevo mostra chiaramente come non vi fosse carenza di forza lavoro" (128). Col diminuire del prezzo del lavoro, diminuisce anche il valore della vita umana; il diritto penale divenne "uno degli strumenti attraverso i quali contenere un aumento eccessivo della popolazione" (129). Ufficialmente si riteneva che il carattere pubblico delle esecuzioni ne aumentasse il valore deterrente; i ladri spesso venivano lasciati penzolare in aria anziché sepolti, in modo che ognuno potesse vederli e temere una sorte analoga. "Questa è la ragione per cui la più torbida immaginazione oggi può difficilmente raffigurarsi la varietà delle torture inflitte" (130). Tale politica criminale ebbe un successo relativamente scarso; essa infatti spingeva i fuorilegge, i marchiati, i mutilati lontano dalla società degli uomini onesti, ove essi non erano più accettati, e li costringeva inesorabilmente ad intraprendere ancora una volta la strada del crimine, quale unica alternativa per sopravvivere. Anche la pena dell'esilio era molto diffusa nel Tardo Medioevo, e "significava frequentemente un destino per gli appartenenti alle classi inferiori assai peggiore di quanto si possa pensare; essi evitavano la morte nella propria patria d'origine, ma spesso il patibolo li aspettava là ove essi cercavano rifugio" (131). Per gli appartenenti alle classi agiate, invece, l'esilio non costituiva una pena molto severa; "esso significava un viaggio di studi, stabilire all'estero qualche nuovo insediamento d'affari, ..., con la prospettiva di un ritorno imminente e rispettato" (132). Mentre nell'Alto Medioevo la discrezionalità dell'autorità nella determinazione della pena è abbastanza limitata, nel Basso Medioevo prende sempre più spazio la pena arbitraria; se da un lato si assiste alla nascita della scienza penalistica con una sempre maggiore individuazione degli elementi del reato e alla definitiva prevalenza dell'autorità dell'ordinamento nella repressione dei reati, dall'altro lato si moltiplicano tipi di pene che non hanno eguali nel periodo precedente per la loro efferatezza e ignominiosità. La pena esemplare prende il sopravvento su qualsiasi altro tipo di pena; a tutte le pene si assegna un carattere espressivo, assicurato tra l'altro dalla pubblicità dell'esecuzione. La pena, inoltre, deve essere tale che non distrugga nel reo la possibilità del pentimento e della correzione, ma ordinata anzi al conseguimento di questo effetto. Deve essere una medicina che guarisca l'anima infetta dal peccato. La riabilitazione etico-religiosa del colpevole è il suo scopo. "Né ciò bastava. La influenza del male poteva essersi diffusa attorno, e avere con lo scandalo contaminato gli animi altrui: bisognava guarire anche questi, e la pena doveva esserne il mezzo; la pena inflitta al reo, ma a tutti manifesta, affinché vedessero la riparazione del male, e dal loro animo si distaccasse ciò che da questo vi si era comunicato" (133). Naturalmente questo non era il fine unico delle leggi penali; bisognava anche provvedere al bene pubblico, che andava sempre anteposto a quello privato e individuale. Quindi, "lo scopo massimo che si propone alla pena è di allontanare dalla pace pubblica ogni pericolo. ... Apertamente si dichiara che, se è necessario che gli uomini stiano in pace con Dio, altrettanto occorre che stiano in pace col Re; che la pena si impone dalla potestà pubblica per evitare le guerre tra i privati" (134). Iniziano così ad affermarsi, riguardo i fini della pena, oltre ai concetti di pentimento e di riconciliazione del reo con la divinità, anche quelli di intimidazione ed esemplarità; si verifica un primo timido tentativo di sganciare quantomeno uno degli aspetti del diritto penale dalla morale religiosa, anche se l'individuazione dei precetti la cui violazione costituisce reato rimane ancorata ai dettami dell'etica cristiana. "Il colpevole dia prova di pentimento e correzione, ovvero la neghi, l'interesse pubblico è che la pena si applichi egualmente, senza riguardo a quel fatto che dipende dalla volontà della privata persona. Anzi non si deve far conto su di esso, ...perché essendo un fatto individuale, non interessa, o tutto al più indirettamente, il bene pubblico; e perché dandosi al pentimento la maggiore efficacia, esso non garantisce se non contro la ricaduta nel reato da parte di chi ne fu l'autore, non degli altri che possono averne subito il contagio" (135). La legge quindi assegna un altro fine alla pena, un fine che serva tanto al reo, affinché non delinqua più, memore della punizione, quanto agli altri, incutendo nel loro animo, tramite l'esempio, la stessa repulsione per il delitto. "I concetti di intimidazione e di esemplarità ... comportano l'idea della prevenzione di fatti futuri" (136). Mentre le legislazioni alle origini si erano concentrate sul fatto compiuto e sulla necessità di reprimerlo, di modo che la pena assunse esclusivamente funzione di retribuzione della colpa e di riparazione del danno, con i nuovi concetti ora descritti inizia a prendere corpo, seppure a livello embrionale, l'idea che la pena non deve essere fine a se stessa, ma deve mirare a uno o più scopi ben determinati. L'assunzione da parte dell'ordinamento di un intervento sempre più efficace ed esclusivo in materia criminale portò alla formulazione di norme dal dettato assai specifico; tutto doveva essere previsto e sanzionato dalla legge; dovevano essere colpiti esclusivamente quei comportamenti considerati illeciti dalla legge stessa. Ma non tutto poteva, ovviamente, essere previsto; e per non condizionare il magistero punitivo in maniera così pesante, in modo da lasciarlo libero di punire reati non previsti ma meritevoli di sanzione e di rendere più miti le condanne per certi reati non più considerati pericolosi dalla coscienza collettiva, si verificò una maggiore estensione della discrezionalità del giudice nella irrogazione della sanzione. Si ha così la distinzione tra crimini ordinari, di cui cioè è certa la pena perché espressamente indicata nella legge, e straordinari, la cui pena è rimessa all'arbitrio del giudice; eguale distinzione si applica al concetto di pena. Il concetto di pena straordinaria nacque, inizialmente, dall'opinione diffusa dai tribunali ecclesiastici, "che la vera ed ordinaria forma di procedura fosse quella d'accusa, e la inquisitoria fosse straordinaria, e che perciò uno processato in quest'ultima forma dovesse anche subire una pena diversa dalla ordinaria" (137). Quando si affermò il metodo inquisitorio, rimase tuttavia il concetto di pena straordinaria (138). Essendo sorta la "quistione se si potesse condannare sopra indizi (139), molti proposero come via di mezzo che per essi si potesse proferire una pena straordinaria" (140); infatti si considerava che la quantità della pena doveva essere proporzionata alla quantità della prova di reità "in guisa che se contro l'imputato v'abbia, non già una prova piena, ma soltanto un'alta verosimiglianza, egli debba anche soffrire una pena minore" (141). Nel Basso Medioevo la dottrina intermedia tendeva a "negare ogni valore alla prova raggiunta per indizi e presunzioni" (142); si avvertiva l'esigenza di un'assoluta pienezza di prova per irrogare una condanna penale (143). A tal fine, il diritto intermedio elaborò "una fitta rete di regole e limiti intorno alla prova" (144), per cercare di limitare al massimo l'arbitrio dei giudici; si voleva evitare che, come in passato avveniva, prove di tipo diverso o non perfettamente convergenti potessero cumularsi per dare luogo ad una prova piena; ma proprio questo eccessivo rigore comportò una difficoltà crescente nell'ottenere una prova piena del reato, e si ottenne così un effetto opposto a quello sperato. Varie testimonianze leggermente discostanti, o molteplici indizi gravi e convincenti autorizzavano infatti la tortura (145) ma non la condanna (146). "L'insistenza sulla stretta corrispondenza tra pienezza della prova legale e carattere ordinario della pena permise di enunciare la regola ... che ad una prova insufficiente potesse ben corrispondere una pena più mite, ad arbitrio del giudice" (147). Il ricorso alle poenae extraordinariae (148) costituì una soluzione di compromesso di fronte alla difficoltà di adottare il sistema delle prove legali, eccessivamente rigido nella previsione delle fattispecie criminose ed inadeguato alle esigenze di repressività ed esemplarità (149). "L'osservanza integrale dei suoi schemi rigidi avrebbe spesso determinato, nella prassi, l'impossibilità di chiudere il processo con sentenze conclusive di condanna, anche quando esistessero a carico dell'accusato gravissimi e convincenti elementi di prova. Si giunse così a concludere che quando la prova era di un grado inferiore alla prova piena, ad essa poteva corrispondere una pena di un grado inferiore dell'ordinaria (150). Tale prassi si diffuse anche perché durante il Medioevo si riteneva che fosse l'accusato a dovere dare prova positiva della propria innocenza, per ottenere l'assoluzione. Inoltre era ritenuta necessaria l'attribuzione al giudice di una certa discrezionalità (151). Così il reo, quando era gravato da indizi e prove convincenti, ma formalmente non sufficienti, poteva legalmente essere condannato ad una pena minore extraordinaria arbitrio iudicis (152). La pena straordinaria svolgeva una vera e propria funzione di misura di sicurezza, in quanto veniva spesso usata per colpire persone che si temeva avrebbero commesso altri delitti analoghi una volta rimessi in libertà per insufficienza di prove (153). Proprio per evitare il rischio della insufficienza di prove, venne introdotto il regime delle prove privilegiate; frequentemente adottato per la persecuzione di alcuni delitti particolarmente gravi (lesa maestà, contrabbando, porto d'armi, falsificazione di monete) consisteva nel qualificare come prova piena una serie di elementi che normalmente non sarebbero stati considerati che meri indizi (154). Oltre a ciò, varie brecce furono aperte per fornire agili vie d'uscita alle formalità del sistema in relazione all'uso della tortura (155). "Ideologia inquisitoria e successive esasperazioni del probabilismo (156) confluivano nel designare dubbio e sospetto, anche all'interno del processo, come situazioni gravide di conseguenze: essi non autorizzavano soltanto un ulteriore approfondimento dell'indagine, ma finivano per esser considerati, di per sé, come indizi di parziale colpevolezza e presupposti di modiche punizioni" (157). Ma dopo questa breve parentesi, su cui torneremo più avanti, rivolgiamoci di nuovo al nostro argomento principale. Il modello cattolico da sempre si è basato sulla tecnica della selezione e differenziazione degli imputati. "Al presunto colpevole è concesso tenere due soli comportamenti: la collaborazione o la negativa. Di conseguenza ogni procedura inquisitoriale, dall'interrogatorio alla tortura, ha lo scopo dichiarato o di indurre alla confessione, o di acclarare con piena certezza l'innocenza dell'inquisito. Il dubbio non è un istituto tollerato dall'inquisizione: essa prosegue ed esaurisce, con altri mezzi, il giudizio di Dio. Dunque la tortura: spartiacque infallibile e benedetto che deve eliminare ogni possibilità mediana di giudizio e consacrare il verdetto alla verità" (158). Anche il trattamento dell'inquisito ha un suo significato. Le celle in cui viene gettato hanno lo scopo di consigliarlo, di metterlo alla prova. "L'isolamento, massima misura di pressione indiretta sulle coscienze riottose, celebra i fasti della tortura multiforme e impropria, ma riassume anche, con una pregnanza simbolica in senso forte, il rituale della sottomissione e dell'esclusione. L'isolamento affligge, e intanto discrimina; macera il corpo, e intanto segnala la perversità irriducibile" (159). L'isolamento e la separazione sono parte integrante del rituale in cui si articola la procedura inquisitoriale. L'isolato è sacrilego. Ci si può macchiare dei delitti più ignobili, sempre ci sarà la mano tesa della Chiesa, tramite ideale del recupero, attraverso la penitenza ed il perdono. "Ma se il colpevole non si sottomette, non esterna il pentimento, non scioglie con la piena dimostrazione di colpevolezza o innocenza il nodo del sospetto che pesa su di lui, allora egli sarà posto nella fossa sacrilega: la cella buia, isolata, simbolo concreto del peccato dei peccati" (160). La mancanza di collaborazione si configura infatti come massimo sacrilegio. "L'esclusione del sospetto che nega la colpa attribuitagli è fondamentale per un sistema di accertamento che, in ultima analisi, basa ogni dimostrazione sull'ammissione stessa dell'imputato. Se chi è sospettato non conferma le accuse, diventa assai difficile accertare una colpa che è essenzialmente interiore" (161). Il reo viene così esiliato dalla comunità spirituale, e sperimenta il massimo della vulnerabilità: di fronte a se stesso e di fronte all'autorità. "L'isolamento è regressione al buio, allo stretto, all'utero autoritario dal quale è possibile (ri)nascere solo accettando il (ri)modellamento dell'istituzione" (162). Abbiamo ricostruito un sufficiente spaccato della società, nel fumoso periodo che separa l'epoca antica da quella moderna. Possiamo quindi adesso occuparci più dettagliatamente del ruolo che in essa ha rivestito la privazione della libertà. La funzione del carcere è solo quella di custodire gli uomini, non di punirli. Questo è il principio dominante per tutto il Medioevo, ed in buona parte per i secoli successivi, fino all'incirca al XVIIIº secolo. "Le prigioni costituivano essenzialmente luoghi di reclusione in attesa del processo, ove gli accusati spesso erano costretti a passare parecchi mesi o anni prima di vedere il loro caso risolto" (163). Il carcere inteso come pena, nel senso che intendiamo noi oggi, non esiste. Punitiva e privatistica, la pena si fonda sulla categoria etico-giuridica del taglione, a cui si associa il concetto di 'espiatio', forma di vendetta basata sul criterio di pareggiare i danni derivati dal reato: ossia privando il colpevole di quei beni riconosciuti come valori sociali: la vita, l'integrità fisica, il denaro. La crudeltà e la spettacolarità assolvono la funzione di deterrente. "Non è tanto il carcere come istituzione ad essere ignorato dalla realtà feudale, quanto la pena dell'internamento come privazione della libertà" (164). Per la società feudale si può parlare di carcere preventiva, con finalità di custodia analoghe a quelle esistenti presso i popoli antichi, e di carcere per debiti, ove venivano rinchiusi i debitori sino a che non fossero stati in grado di saldare i loro conti, ma non si può "affermare che la semplice privazione della libertà, protratta per un periodo determinato di tempo e non accompagnata da alcuna sofferenza ulteriore, fosse conosciuta e quindi prevista come pena autonoma ed ordinaria" (165). In epoca barbarica, sotto il comando del re longobardo Liutprando, l'istituto andò assumendo specifico carattere di sanzione; egli infatti "volle che ogni magistrato fosse fornito di un luogo dove rinchiudere per due o tre anni i ladri non recidivi, dopo che avessero pagato la composizione al derubato" (166), e ammise "che il carcere potesse talvolta sostituire sanzioni pecuniarie insoddisfatte o pene infamanti, spesso inopportune per la loro gravità e dannose per l'intera famiglia del colpevole" (167). Tali disposizioni venivano applicate però solamente in presenza di casi eccezionali, e non erano assolutamente la regola. Il carcere aveva natura essenzialmente processuale. "Il carcere, inteso come pena, non esisteva o rappresentava, al più, una trascurabile eccezione" (168). Le condizioni di vita in tali luoghi erano terribili (169), in quanto le autorità si disinteressavano completamente del mantenimento dei reclusi; l'ufficio di guardiano invece rappresentava un affare vantaggioso. (170) "I detenuti più ricchi potevano procacciarsi condizioni di sopravvivenza più o meno tollerabili ad un alto prezzo, mentre la gran parte dei prigionieri poveri si manteneva mendicando e per mezzo delle elemosine offerte dalle confraternite religiose all'uopo fondate" (171). "Nate tra il XIV e il XVº secolo, ... le compagnie di giustizia ebbero vari compiti di pietà, tra cui quello dell'assistenza dei condannati a morte, assistenza che si riduceva il più delle volte alla semplice organizzazione del funerale religioso (172). "Il destino dei condannati a morte, la loro presenza tenebrosa, costituiva, nell'Europa medievale, uno dei più significativi esempi dei labili confini esistenti tra il mondo dei vivi e quello dei morti. ... Assistere i condannati a morte, assicurare conforto religioso negli ultimi momenti di vita, provvedere alla loro sepoltura cristiana e alle necessità materiali e spirituali delle loro famiglie, divenne già nel XIV secolo un'eccezionale esempio di pietà cristiana" (173). Oltre a tale compito, le compagnie di giustizia si operavano per fornire denaro ai carcerati per debiti, affinché potessero saldare il loro conto e tornare liberi: esse cioè avevano la cura di tutte le elemosine versate, a vario titolo, alle carceri, ed avevano la facoltà distribuirle a loro piacimento tra i reclusi; davano il pane ai detenuti poveri, provvedevano loro lume, olio e candela e, d'inverno, la brace per riscaldarsi; mantenevano dei salariati, incaricati di portare acqua e fornire altri servizi ai reclusi; procuravano sacerdoti per lo svolgimento delle funzioni sacre; aiutavano i prigionieri che erano stati incarcerati a lungo, procurando loro i vestiti; insomma svolgevano opere di carità per rendere meno duro il soggiorno in prigione. Durante il Medioevo, dunque, si avevano sentenze di incarcerazione, ma solo in casi eccezionali. La detenzione in questo periodo non è intesa come privazione della libertà personale, quanto come una pena corporale, come uno strumento di tortura del corpo del criminale. La maggior parte dei detenuti che non erano in attesa di giudizio, consisteva di membri dei ceti sociali svantaggiati, che venivano imprigionati perché non erano in grado di pagare le pene pecuniarie loro imposte. "Uno statuto della città di Sion del 1338 stabilì una multa di venti libbre nei casi di aggressione; se il colpevole non poteva pagare, doveva sottostare a una punizione corporale che consisteva nell'essere rinchiuso in prigione e tenuto a pane e acqua sino a che la cittadinanza non intercedeva per lui o il vescovo non lo perdonava" (174). Ciò dimostra non solo il carattere automatico della trasformazione della penance in pena corporale, ma anche il ruolo del carcere assunto in questa epoca; esso era infatti visto come una sorta di pena afflittiva del corpo del reo. I carcerati per debiti potevano sperare di essere rilasciati qualora avessero ricevuto elemosine sufficienti per estinguerli. Ciò "portava ad un circolo vizioso, poiché essi non potevano lasciare la prigione sino a che non fossero stati in grado di risarcire il guardiano del loro mantenimento. Spesso il primo compito di un prigioniero liberato era quello di risarcire del suo credito il guardiano" (175). Non era uno spettacolo insolito vedere ex-condannati che mendicavano per saldare il proprio debito col carceriere. Secondo una prassi amministrativa universalmente accettata, le carceri venivano condotte seguendo criteri economici; la loro gestione veniva affidata al miglior offerente privato. "L'incarcerazione era una forma di punizione comminabile, nei particolari casi in cui veniva applicata, anche per reati minori quali i piccoli furti. Ma le condanne a lunghe detenzioni non furono mai un elemento sistematico della pena nel Medioevo; quelle più lunghe previste nei codici penali medievali non superavano i cinque anni" (176). Nella grande maggioranza dei casi la detenzione faceva parte della procedura processuale, con finalità analoghe, come abbiamo detto, a quelle riscontrate per l'incarceramento in epoca antica (177). Il motivo della brevità della detenzione risiedeva nella struttura e nel tipo di amministrazione delle prigioni medievali. Come abbiamo visto, "il carceriere era sovente proprietario dell'edificio che ospitava le prigioni, oppure lo affittava allo scopo di organizzarvi una istituzione penale. In entrambi i casi la prigione doveva rendere un profitto e ai detenuti veniva chiesto, se possibile, di pagare i costi della loro incarcerazione" (178). Ovviamente, più il soggiorno si prolungava, meno i detenuti erano in grado di provvedere al pagamento dei costi del loro mantenimento, ed esisteva quindi un incentivo al ricambio più frequente possibile della popolazione carcerata. "Perciò, mentre le condizioni in prigione erano si solito terribili (179), le pene detentive erano in genere brevi e quindi abbastanza miti" (180). Un approfondimento del concetto medievale della pena può aiutarci a comprendere la scarso applicazione della pena detentiva. La concezione feudale della pena era incentrata sul concetto di equivalente; esso si incarnava nella forma del taglione, come sublimazione della vendetta, fondato su una pretesa privatistica della vittima del reato. La pena agiva quindi come equivalente che pareggiava il danno subito dalla vittima. "Il passaggio dalla vendetta privata alla pena come retribuzione ... impone, quale presupposto necessario, la dominanza culturale del concetto di equivalente, come scambio misurato sul valore" (181). La pena medievale conserva questo aspetto di equivalente, anche se il concetto di retribuzione non viene più connesso direttamente al danno subito dalla vittima del crimine, ma all'offesa a Dio. La pena assume sempre più la natura di espiazione, di castigo divino. "Questa natura in parte ibrida - retributio e espiatio - della sanzione penale in epoca feudale non può, per definizione, trovare nel carcere, nella privazione cioè di un quantum di libertà, la propria esecuzione" (182). Perché potesse affermarsi l'idea della possibilità di espiare il delitto con un 'quantum' di libertà astrattamente predeterminato, era necessario che tutte le forme della ricchezza venissero ricondotte al lavoro umano misurato nel tempo (183). Nel sistema feudale, tale concezione del lavoro e del tempo era sconosciuta, quindi la pena-retribuzione non era in grado di trovare nella privazione del tempo l'equivalente del reato. Tale equivalente si realizzava, invece, nella privazione di quei beni socialmente avvertiti come valori: la vita, l'integrità fisica, il denaro, la perdita di status" (184). Dal punto di vista della espiazione, la pena manteneva solamente finalità satisfattorie. "Attraverso la pena si operava, così, la rimozione della paura collettiva del contagio, originariamente provocato dalla violazione del precetto; in questo caso la difesa dal crimine e dal criminale non era tanto a tutela degli interessi concretamente minacciati dal fatto illecito commesso, quanto nei confronti di possibili, ma non prevedibili e quindi socialmente non controllabili, effetti negativi da questo primo stimolati" (185). La necessità di punire il trasgressore si impone come mezzo per prevenire una calamità futura; quindi il castigo doveva essere spettacolare e crudele, in modo da provocare per sempre negli spettatori l'inibizione ad imitarlo. "Se la sofferenza era socialmente considerata mezzo efficace di espiazione e di catarsi spirituale come insegnava la religione, nessun limite poteva più sussistere all'esecuzione della pena; infatti questa si traduceva nell'imporre sofferenze che in qualche modo potessero anticipare ed eguagliare la misura irraggiungibile della pena eterna; tale visione è tipica della società Basso-Medievale. Anche in questa prospettiva il carcere come pena si mostrava mezzo inidoneo allo scopo" (186). "Per molto tempo, a causa del suo carattere secondario e sussidiario rispetto a quelle corporali, la pena detentiva non fu oggetto di grandi attenzioni teoriche, né di vera e propria regolamentazione pratica. Spesso, prevaleva una sola preoccupazione: renderla sempre più disumana e dura, in modo che potesse reggere il confronto con le altre sanzioni criminali di natura più squisitamente corporali, delle quali, in definitiva, non era che un generoso surrogato" (187). Comunque, nel Basso Medioevo, "la pena detentiva sembra già abbastanza diffusa, e rappresenta un'alternativa frequente alle sanzioni più cruente, quantomeno nei riguardi di soggetti privilegiati, quali gli appartenenti ai ceti nobiliari" (188). Nel periodo feudale il carcere era una pena, appunto, sussidiaria, applicata a coloro che erano stati condannati a una pena pecuniaria finché non fossero stati in condizioni di pagare, o a coloro che non si riteneva conveniente, a causa del loro rango sociale, sottoporre alle pene corporali o infamanti previste per il delitto commesso. Nel corso dei secoli i ruoli andranno invertendosi; il carcere diverrà 'la' pena per eccellenza, rimanendo solo in via accessoria un luogo di custodia per l'imputato durante il processo. Ma oltre al carcere che abbiamo esaminato, in epoca medievale esisteva anche una forma particolare di carcere, settoriale e di nicchia, ma non per questo meno importante e significativo per comprendere l'evoluzione della pena detentiva; tale forma di carcere può a pieno titolo essere considerata come una delle esperienze ispiratrici, tra le altre, del carcere moderno, repentinamente ed inaspettatamente affermatosi alla fine del XVIIIº secolo. Vediamo dunque le caratteristiche di questa particolare forma di privazione della libertà personale.

2: Il carcere canonico

Abbiamo visto come il carcere, nell'universo penale medievale, occupi un ruolo marginale e secondario rispetto ad altre forme di punizione, ed abbiamo esaminato i motivi che determinarono tale situazione. Esiste però, anche in epoca medievale, una ipotesi, per certi aspetti alternativa al sistema punitivo feudale, in cui è chiaramente presente una esperienza penitenziaria: si tratta del diritto penale canonico, che sotto certi versi può essere interpretato quale precursore di alcune caratteristiche del carcere moderno. Naturalmente, anche all'interno dell'universo canonico le forme di pena erano assai svariate (189), simili in alcuni casi a quelle del mondo laico; era molto diffusa la conversione pecuniaria, data la composizione sociale elitaria del clero e dei conventi. Vi erano inoltre pene corporali, con varie e a volte sofisticate modalità di esecuzione; la diversità dei modi di applicazione del dolore fisico non era frutto di un elaborato sadismo, ma aveva un suo significato preciso: ogni tipo di tortura esplicava un simbolismo tale che "non si può non constatare come il dolore fosse un semplice effetto di supplizi pensati per altri scopi: raggiungere determinati organi e in determinate forme" (190). Il sistema penale canonico, tuttavia, nonostante l'accertato carattere teocratico dello stato feudale (191), conobbe forme originali ed autonome, non riscontrabili nell'esperienza penale laica. Queste forme "sono difficilmente individualizzabili a causa dello stato di profonda compenetrazione del potere ecclesiastico nell'organizzazione politica medievale; la rilevanza del pensiero giuridico canonico nel sistema punitivo variò infatti di intensità in funzione del grado di concorrenza esercitato dal potere ecclesiastico nei confronti di quello laico" (192). Le prime forme di sanzione esercitate dalla Chiesa erano rivolte a chierici che in qualche modo avevano mancato ai loro doveri. Si trattava in genere di mancanze che non è possibile qualificare come reati; erano per lo più infrazioni religiose che esercitavano però un riflesso nei confronti dell'autorità ecclesiastica o che destavano allarme sociale nella comunità religiosa. La reazione iniziale da parte della Chiesa aveva natura religioso-sacramentale, e si ispirava al rito della confessione e della penitenza; nacque così la "penitenza da espiare in una segreta, fino al momento in cui fosse sopraggiunto il ravvedimento (usque ad correctionem)" (193). Tale natura terapeutica della pena ecclesiastica venne poi difatti inglobata, e di conseguenza snaturata, dal nuovo carattere della pena: quello vendicativo. La punizione era ormai sentita socialmente come satisfactio. A partire dal Basso Medioevo, la Chiesa cristiana è caratterizzata da un quasi assoluto predominio del pensiero retributivo (194) riguardo al significato della pena, dopo gli inizi assai promettenti del cristianesimo primitivo. "La prassi della chiesa primitiva si autocomprende ... come correttivo della giurisdizione: la Chiesa protegge e difende l'imputato (195). I vescovi usano il loro diritto di intercessione del reo in quanto persona. ... Questa protezione ecclesiale ... mira originariamente a mitigare il ricorso alla pena di morte nell'impero romano" (196). Nel Basso Medioevo, invece, dicevamo, si assiste ad una rinascita del pensiero retributivo; "la teologia cristiana ... non incide più sul pensiero giuridico e penalistico in senso critico-correttivo" (197). La punizione inflitta da Dio viene interpretata univocamente sulla falsariga della punizione comminata dalla società civile ai trasgressori delle leggi civiche; "per contrapposto, il concetto profano di punizione viene ... ad acquistare, nel suo contenuto e nella sua validità, quell'afflato sublime e quella assolutezza religiosa che in definitiva competono solo alla punizione intesa in senso teologico" (198). Dovunque il cristianesimo si sia trasformato in religione di stato, tale da contribuire all'unità delle nazioni quale pilastro spirituale, "la non ortodossia nel pensiero religioso e nell'atteggiamento di fede diviene ben presto 'delitto di stato': il disastroso 'matrimonio' fra religione e potere politico raggiunge la sua massima espressione" (199). La nuova finalità vendicativa accentuò necessariamente la natura pubblica della pena. "Questa esce dal foro interno per assumere le vesti di istituzione sociale e quindi la sua esecuzione sarà resa pubblica, diverrà esemplare, al fine di intimidire e prevenire. Ma qualche cosa di quella originale finalità - sia pure a livello di valore - sopravvisse" (200). La penitenza mantenne in parte lo scopo correzionale, trasformandosi in reclusione in un monastero per un tempo determinato. "L'assoluta separazione dal mondo esterno, il più stretto contatto con il culto e la vita religiosa, davano al condannato l'occasione, attraverso la meditazione, di espiare la propria colpa" (201). L'esperienza penitenziaria canonica conobbe svariate forme; "oltre a differenziarsi in base al fatto che la pena fosse la semplice reclusione in monastero, la reclusione in cella o nella prigione vescovile, a volte si caratterizzò per la diversità di esecuzione: alla privazione della libertà si accompagnarono sofferenze di ordine fisico, altre volte l'isolamento cellulare (cella, carcer, ergastulum) e soprattutto l'obbligo del silenzio" (202). Il carcere canonico ignorò completamente il lavoro coatto come forma di esecuzione della pena. La pena carceraria canonica attribuì "al tempo di internamento il significato di un quantum di tempo necessario alla purificazione secondo i criteri propri del sacramento della penitenza; non era quindi tanto la privazione della libertà in se che fungeva da pena, ma solo l'occasione, l'opportunità perché, nell'isolamento dalla vita sociale, si potesse raggiungere quello che era lo scopo ideale della pena: il ravvedimento" (203). Questa finalità va intesa come emenda di fronte a Dio, e non come rigenerazione etica e sociale del condannato. "In questo senso la pena non poté che essere retributiva, fondata quindi sul parametro della gravità del reato e non sulla pericolosità del reo" (204). La finalità di tale forma di carcere è quindi essenzialmente ideologica, comprensibile solo all'interno di un rigido sistema di valori, teologicamente orientato alla conferma della presenza di Dio. Attraverso il convento "furono introdotti in occidente meccanismi particolari di codificazione e di programmazione, di 'smussamento', il cui scopo è quello di fiaccare la volontà dei sottoposti e di operare una sostituzione culturale. Tutto ciò al fine specifico del raggiungimento, per ogni monaco, di un'affinità con Dio" (205). I movimenti religiosi medievali non sono un unicuum compatto, ma una serie di ordini religiosi o sette ereticali (206), ognuno con una realtà ben differenziabile, e con caratteristiche talvolta opposte. Da questi movimenti e fermenti "ha la sua genesi anche lo stesso convento. Gli ordini monastici altro non sono che la risposta 'positiva' che la chiesa dà a questi moti, inglobando in sé, istituzionalizzando quanto poteva" (207). Il convento è qualcosa di altro rispetto al mondo esterno; lo spazio del monastero è uno spazio sacro; ed è lo stesso uomo che delimitandone il perimetro gli ha conferito la potenza della sacralità. "Vi si rinchiude con la certezza che il territorio sul quale cammina è fondato, ricreato da lui. La delimitazione del confine, del limite, e la consapevolezza che perciò ne discende, di quale sia il confine, il limite, riproduce nelle mani dell'uomo ciò che lo supera, lo trascende. È lo stesso meccanismo connesso alla ricreazione, alla rifondazione del tempo. La campana che suona all'ora stabilita non è un segnale, è un atto creatore" (208). Inserire l'asceta in questo spazio significa quindi non catapultarlo nel mondo, ma escluderlo definitivamente da esso, per porlo in un proprio universo. In questo modo si esplica una vera e propria tecnica di disciplinamento, che si esprime nel volere fare interiorizzare la disciplina e l'autocontrollo ai reclusi, e si avvale di metodi diversi, riconducibili comunque alla divisione del tempo, degli spazi, e al controllo interno da parte dei confratelli. "La Chiesa, in ogni epoca storica, organizza il suo potere punitivo operando una primaria divisione, in materia di pene, basata sui diversi soggetti cui tali pene sono dirette. Sicché essa per lungo tempo si allea con lo stato per la repressione di eresia e stregoneria, riservando agli individui devianti un'unica pena, la morte (se vogliamo, in numerosi casi accompagnata da torture fisiche, prima ma anche dopo l'estorta confessione)" (209). Già verso il XII-XIIIº secolo la Chiesa, nella sua persecuzione contro gli infedeli, era riuscita ad imporre all'autorità temporale il dovere combattere i suoi nemici (210). Verso i nemici esterni, come nel caso delle crociate, non si fanno prigionieri. "I colpevoli, infedeli, peccatori, vengono puniti con la morte; la punizione è dunque supplizio esemplare, la condanna diviene inappellabile" (211)."Ma la Chiesa deve controllare e far fronte anche a un nemico interno; gli stessi suoi membri" (212). Nei confronti dei chierici le soluzioni adottate sono completamente diverse; si cerca di conservare i corpi dei rei, di utilizzarli infliggendo loro una condanna. "Costoro, infatti, sono pur sempre parte di quel corpo sacro che è la comunità religiosa, e si pongono, rispetto a Dio, in una posizione potente, privilegiata; hanno con esso un rapporto immediato e diretto, che, compiendo crimini, infrangono. Prima di eliminare un membro malato, in un corpo sano, si tenta, dunque, di curarlo" (213). È questa necessità terapeutica che impone un diverso trattamento nei confronti dei chierici mancanti. Nasce così la pratica di rinchiudere, attuata, in un primo momento, con l'internamento in convento; solo in seguito furono creati appositi istituti, a causa della poca sicurezza dei conventi stessi, da cui i chierici spesso riuscivano a fuggire. È opportuno puntualizzare due aspetti del carcere canonico. In primo luogo, "con la segregazione in monastero si cerca anzitutto di rendere possibile il risanamento del colpevole, il ristabilire il suo colloquio con Dio attraverso la vita contemplativa e delle pratiche ascetico-disciplinari" (214). Questo tipo di internamento si basa quindi sul concetto di espiatio, e persegue finalità di ravvedimento, di purificazione dell'anima del colpevole. Spesso si riscontra un isolamento cellulare nei confronti del colpevole, ma il tempo così trascorso, "non avendo alcun valore economico, è insuscettibile di misurazione e quantificazione. I rapporti col mondo, per la verità, non interessano, perché il mondo è Dio, e dunque non serve la rigenerazione sociale del condannato, e non può esservi alcuna preoccupazione di disciplinamento diversa da quella che il convento stesso vuole perseguire; tant'è che il lavoro carcerario non può annoverarsi come esperienza del carcere canonico" (215). In secondo luogo, bisogna tenere presente che anche all'interno dei chierici si effettuava una distinzione tra abitanti del convento e religiosi esterni ad esso. Per i primi "si operava un isolamento sui generis, non permettendo loro di partecipare ai diversi momenti della vita di comunità, e, qualora si dimostrassero irrecuperabili, li si espelleva dal convento" (216). L'isolamento però non era mai completo, se non per specifici e gravi delitti (217); nulla lascia dedurre che, almeno inizialmente, i penitenti venissero rinchiusi in celle. Tale necessità non esisteva, in quanto i conventi erano già strutturati in celle; "il ritiro nella propria stanza era perciò pratica normale e necessaria, tanto più utile per i colpevoli; ma l'isolamento era di natura più psichica che fisica" (218). Solo col passare del tempo assistiamo a una progressiva collettivizzazione della vita monastica, caratterizzata da dormitori, mense e lavoro agricolo comuni. "È in questo momento che può farsi più viva l'esigenza di separare - estraniare - coloro che mancavano" (219). Per quanto riguarda i religiosi esterni, la reazione della Chiesa ai loro peccati-reati era proprio la reclusione in convento; si voleva con questo immetterli in un mondo diverso, il mondo sacro per eccellenza, per tentare un particolare diciplinamento; se ciò non funzionava, "si ricorreva anche per costoro, extrema ratio, alla segregazione cellulare, eventualmente alla morte (negando il cibo)" (220); difatti, elementi non rieducabili non potevano essere più utili né a Dio, né alla chiesa, né a se stessi. Tale forma di carcere mantiene poco della finalità di disciplinamento, divenendo casomai un sostituto della pena di morte, una pena corporale, o, al più, un luogo di transito che precedeva l'espulsione definitiva dal convento. Il carcere canonico inoltre continuò a mantenere la sua funzione classica di custodia degli imputati in attesa di giudizio. La carcerazione preventiva non poteva però "essere disposta se non nel caso in cui vi sia il timore di fuga, o in caso di delitto particolarmente grave" (221). Una ricostruzione storica dello sviluppo delle prigioni canoniche, assieme ad una lungimirante critica, venne compiuta, nei primi anni del XVIIIº secolo, da parte di Jean Mabillon, padre Benedettino. Egli si interessò delle pratiche punitive della Chiesa, schierandosi "contro le posizioni più conservatrici presenti all'interno della Chiesa di allora" (222), e assumendo posizioni che potrebbero essere definite pre-illuministe. Ma al momento, ci interessa non tanto il suo ruolo di precursore di alcuni temi dell'Illuminismo, quanto, appunto, la ricostruzione storica delle prigioni degli ordini religiosi, esistenti sin dai primi secoli del Medioevo. Mabillon ci informa che "la Chiesa e l'organizzazione conventuale si scontrarono per prime, e secoli in anticipo rispetto ai sistemi criminali 'laici', con i problemi connessi ad una penalità che si realizza nella sottrazione di libertà, in una sofferenza legale che si dà nella presa in carico di un tempo di vita coattivamente sequestrato" (223). Sin dall'inizio una sofferenza utile si realizza in una pratica correzionale, connotata però dalla "forza distruttiva della separazione tra giudizio e riprovazione per il fatto e giudizio e riprovazione per il modo di essere dell'autore. "Tra il momento sacramentale della penitenza e la penitenza come modalità di esecuzione di una pena criminale non esiste, né può mai esistere, alcuna differenza di qualità. E così, nella stessa prassi, finiscono per confondersi peccato e reato, confessione e processo, penitenza e pena" (224). Mentre la giustizia secolare si preoccupa di mantenere l'ordine e distogliere i cittadini dal commettere crimini, la giustizia ecclesiastica si preoccupa principalmente della salvezza delle anime. Conseguentemente deve adottare, nei confronti dei peccatori, delle pene che siano in grado di ispirare nei cuori dei condannati lo spirito di compunzione e di penitenza; inoltre, in base ai principi che regolano la religione cristiana, "la giustizia ecclesiastica dev'essere condizionata dallo spirito di carità, di compassione e di misericordia" (225). È anche per questo che la Chiesa, che per motivi intrinseci non poteva perciò comminare, almeno legalmente, la pena di morte, fu costretta ad escogitare altre forme di punizione, quali il carcere e le pene corporali. Senza addentraci nel suo pensiero, Mabillon sosteneva che le pene ecclesiastiche avrebbero dovuto consistere in "umiliazioni e pene afflittive quali il digiuno, la sospensione, ... la scomunica, ma non in pene materiali le quali non si addicono che ai tribunali secolari" (226); e che "la giustizia che viene praticata nei monasteri contro i criminali deve imitare il comportamento della Chiesa e la severità deve essere bandita; tutto deve essere paterno dacché si tratta della giustizia di un padre nei confronti di un figlio. Infine lo spirito di carità e misericordia deve dominare tutti questi giudizi" (227). Questo punto di vista era lo stesso condiviso da S. Benedetto nella sua 'Regola', riguardo al comportamento da assumere nei confronti dei chierici che hanno commesso gravi colpe. La pena inflitta loro consiste "nell'esclusione dalla vita in comunità, per quanto riguarda le attività svolte in chiesa, a tavola e allo studio" (228). Egli parla della "cura che i superiori devono avere per quei religiosi che egli chiama scomunicati; e ordina che questi ricevano, di quando in quando, la visita segreta di alcuni religiosi saggi e virtuosi per consolarli, nel timore che l'eccessiva tristezza non li opprima e non renda infruttuosa la loro penitenza e nel desiderio di dare loro coraggio e di portarli a sopportare serenamente la penitenza che è stata loro imposta" (229). Sintetizzando, S. Benedetto vuole che i superiori facciano ogni sforzo possibile per riportare questi peccatori sulla via del loro dovere; "nulla indica che S. Benedetto abbia mai rinchiuso questi penitenti in una cella; di ciò non parla nella sua regola" (230). Ma tale atteggiamento verso i chierici che avevano mancato ai loro obblighi non venne conservato a lungo, e la durezza di alcuni abati raggiunse talvolta pesanti eccessi; tanto che capitarono episodi in cui i superiori mutilavano le membra e cavavano gli occhi ai religiosi che avevano commesso gravi colpe. Tutto ciò portò all'intervento di Carlomagno, che nell'anno 730 incluse nei Capitolari il divieto di eseguire questi tipi di supplizi, permessi solamente nei tribunali secolari. Cinque anni dopo, durante il Concilio di Francoforte, tali limitazioni alle pene ecclesiastiche furono ribadite dall'imperatore. "Fu in seguito a questa proibizione che nell'anno 817 a Aix- la Chapelle, allorché tutti gli abati dell'ordine erano riuniti, questi diedero ordine che in ogni monastero vi fosse una cella separata, 'domus remota', ad uso dei colpevoli, cioè una stanza comprendente un focolare ed un'anticamera per il lavoro che possa essere riscaldata d'inverno (231). Le stanze nelle quali venivano condannati questi penitenti assomigliavano perciò più a dei luoghi di ritiro che ed una prigione, visto che comprendevano un focolare e persino un laboratorio dove poter compiere ciò che veniva loro ordinato di fare. Il secondo concilio di Verneuil, svoltosi nell'844, ordinava che coloro che avevano lasciato la tonaca o che erano stati cacciati dal monastero per via della loro incorreggibilità e che "fossero ripresi con la forza, venissero rinchiusi nelle prigioni, in ergastulis, e puniti con penitenze adatte ... fino a quando questi non avessero dato segni del loro pentimento e della loro conversione" (232). Nei tempi che seguirono la situazione peggiorò sensibilmente; "fu inventata una specie di prigione orrenda che non lasciava intravedere la luce del giorno, e siccome questa cella era destinata a coloro che dovevano finire lì la vita, venne chiamata: Vade in pace. (233) I condannati a tale pena giungevano alla disperazione in quanto erano anche esclusi da ogni consolazione umana, oltre ad essere privati della luce del giorno. "Il re considerò questi atti disumani con orrore, e ... ordinò che gli abati e gli altri superiori facessero loro visita due volte al mese e dessero per più di due volte al permesso ad altri religiosi, da loro scelti, di andare a trovarli" (234). Mabillon esprime le sue riprovazioni affermando che "è certamente molto strano che dei religiosi che dovrebbero essere modelli di dolcezza e di compassione, siano obbligati ad imparare dai principi e dai magistrati secolari i principi basilari dell'umanità da applicare nei confronti dei loro fratelli" (235). Sostiene inoltre che tali prigioni sono molto più dure di quelle secolari, nelle quali i detenuti sono liberi di vedersi a date ore e di ricevere visite di parenti, amici, ed altre persone caritatevoli, "mentre i prigionieri di certi ordini non hanno niente di tutto ciò, poche o punte visite o consolazioni, nessuna esortazione, infine una solitudine ed una reclusione perpetua, senza poter prendere una boccata d'aria, senza movimento, senza conforto insomma senza consolazione" (236). Il carcere canonico venne così accompagnato da un estremo rigore. Comunque, "più che alle grandi codificazioni canoniche ... che si limitano a fissare i principi generali, è ai sinodi che bisogna fare riferimento per stabilire quanto questo tipo di pena fosse in concreto diffuso. Sono essi infatti nella grande maggioranza dei casi a stabilire i comportamenti che al chierico sono vietati e le sanzioni in caso di trasgressione" (237). La lunga epoca medievale è così giunta al suo termine. L'Europa sta per entrare in una fase di grandi mutamenti economici, sociali e politici che cambieranno radicalmente la visione del mondo e della società. Vediamo dunque come l'avvento del mercantilismo influenza la penalità, e principalmente il ruolo e le finalità del carcere all'interno di essa.

Note

1. Digesto, 48,19,8,9 (9 de off., Proc.).

2. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.31.

3. Ibidem, pag. 31.

4. MELOSSI DARIO, "Istituzioni di controllo sociale e organizzazione capitalistica del lavoro: alcune ipotesi di ricerca.", op. cit., pag. 295.

5. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.49.

6. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.50.

7. Sono considerati luoghi sacri le chiese, anche non consacrate, i monasteri, gli ospedali e case di opere benefiche, ed anche i cimiteri.

8. Erano esclusi gli eretici, i traditori, i briganti ed i grassatori autori di omicidio o rapina, i devastatori ed incendiari dei raccolti dei campi, gli autori di omicidi nelle chiese o nei cimiteri, i sicari, i colpevoli di lesa maestà, gli autori di omicidi gravemente qualificati.

9. Persino distruggendo l'edificio sacro.

10. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.53.

11. cfr. nota 226 pag. 60.

12. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 92-93.

13. Ibidem, pag. 94.

14. Ibidem, pag. 97.

15. Il termine 'ordalia' deriva dall'antico linguaggio teutonico; pare che essa significasse non altro che gran giudizio. Gli anglosassoni chiamavano lada tale prova, ossia legittimo esperimento.

16. Elenchiamo alcune delle prove più in uso, più significative e rappresentative della mentalità dell'epoca. L'ordalia del pane e del formaggio era la più semplice ed innocua; il sospettato doveva mangiarli, tra le preghiere e gli scongiuri. Se li trangugiava era assolto. La prova dell'acqua fredda consisteva nel far immergere l'imputato in una vasca piena d'acqua; se galleggiava era ritenuto colpevole. Per la prova del fuoco si formavano due cataste con uno stretto spazio tra di esse, poi si appiccava il fuoco. Accusatore ed accusato dovevano attraversarle, e chi rimaneva illeso era dichiarato vincitore della contesa. In altri casi, il sospetto doveva immergere una parte del corpo in una caldaia di acqua bollente, e per essere prosciolto dall'accusa doveva tenervela per qualche minuto senza riportare in seguito scottature. Similmente, si obbligava il presunto reo a maneggiare oggetti roventi; se dopo un certo numero di giorni venivano rinvenute ustioni, la sua colpevolezza era certa.

17. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 102.

18. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 102-103.

19. Atta, cioè, a mostrare.

20. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 103. Il duello era ritenuto mezzo idoneo per desumere, dalla codardia di chi lo rifiutava, la sua ignobiltà e, di conseguenza, la sua capacità di commettere reati; si presumeva che il diritto stesse dalla parte del vincitore.

21. Ibidem, pag. 104.

22. Ibidem, pag. 108.

23. Per certe categorie di individui, quali, ad esempio, le donne, i minori di 21 anni ed i maggiori di 60, i sacerdoti, i chierici, gli ammalati, gli invalidi, era prevista una dispensa; in loro vece combattevano i cosiddetti 'campioni'. Dato il carattere formalistico ed ostensorio della prova, si ritenne infatti indifferente che essa fosse affrontata da un sostituto, anziché dall'imputato stesso. Nacquero così i campioni nei giudizi di Dio e nelle ordalie, ma soprattutto nei duelli; alcuni ne fecero una vera e propria professione. Quando perdevano la pugna, era vietato loro di presentarsi come campioni in qualsiasi altra disputa, ed incorrevano in pene diverse a seconda dei popoli.

24. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 110.

25. Ibidem, pag. 112.

26. Ibidem, pag. 112.

27. Ibidem, pag. 112.

28. Nel primo Medioevo il giuramento è spontaneo, e portano a purgare il sospettato da ogni accusa; nel tardo Medioevo invece si afferma, come vedremo in seguito, il concetto di confessione obbligatoria, da ottenere con qualsiasi mezzo.

29. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 112.

30. Ibidem, pag. 113.

31. Ibidem, pag. 114.

32. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", Libreria di Francesco Sanvito, Milano, 1858, pag. 550.

33. Si possono distinguere tre forme di giuramento. Il giuramento prestato dall'accusatore e dall'accusato; quello prestato dai semplici testimoni, e quello prestato dai compurgatores. Man mano che decadde l'uso dei compurgatores, ci si limitava al giuramento dell'imputato. Poi, con l'affermarsi del metodo inquisitorio, e la conseguente necessità di ricercare la verità materiale, cioè fondata su argomenti certi e provati, e seguendo regole stabilite dalla legge, e non più solamente quella formale, cioè accettata in quanto presentata secondo certe forme, (una delle quali è appunto il giuramento), il giuramento dell'imputato quale mezzo per discolparsi venne ritenuto inammissibile, in quanto incompatibile col sistema delle prove legali.

34. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 119.

35. Talvolta il testimone, per non incorrere nelle conseguenze del suo giuramento, prima di rendere la deposizione, faceva patto con l'accusato di essere da questo difeso. Così il testimone, se veniva accusato di falsità, anziché combattere, si faceva rappresentare dalla parte, la quale in tal modo diveniva campione del proprio campione.

36. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.50.

37. Le procedure penali furono adottate come mezzo per evitare faide interminabili. Il potere centrale cioè si pone come freno e come arbitro, per porre dei limiti allo altrimenti incontrollabile ricorso alla giustizia sommaria individuale. Allo scontro armato, così, venne gradualmente sostituendosi lo scontro legale; tale processo arriva ad un sufficiente livello di maturazione attorno al XII-XIIIº secolo.

38. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.62.

39. Ibidem, pag. 50-1.

40. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 79.

41. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.51.

42. Ibidem, pag. 14.

43. Ibidem, pag. 56.

44. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.57-58. Nella maggioranza dei casi al querelante non importava tanto il verdetto di colpevolezza, quanto vendicare il suo senso di perdita.

45. Ibidem, pag. 58.

46. Ibidem, pag. 51.

47. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.25.

48. Ibidem, pag. 52.

49. Ibidem, pag. 52. Ad esempio, i cavalieri del regno potevano giudicare i loro vassalli, ma giudicavano anche gli altri cavalieri.

50. Ibidem, pag. 52.

51. Ibidem, pag. 53.

52. Ibidem, pag. 62.

53. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.148.

54. Ibidem, pag. 59. Ciò per motivi economici, per ottenere almeno il necessario per coprire i costi del processo.

55. La visione medievale della penalità era fortemente teocratica e classista; come abbiamo visto, i crimini davano luogo o alla vendetta privata od alle composizioni, cioè alla corresponsione di somme alla parte lesa. Tale prassi, introdotta dalle legislazioni barbariche, fu incentivata anche dalla Chiesa, che intravide nelle penances la possibilità di evitare faide sanguinose. Nel XIVº secolo le pene pucuniarie erano praticamente in via di sparizione, sostituendosi sempre più alla vendetta parentale l'azione dell'autorità istituzionale, e con essa la pena pubblica, che non si poteva riscattare con il denaro. Tuttavia, ancora nel Basso Medioevo la vendetta privata era correntemente praticata, come provano i numerosi atti di remissione di delitti presenti nei protocolli notarili. In essi i parenti della vittima, in base ai dettami cristiani, accordano il perdono rinunciando alla vendetta; il reo, come controparte, si impegna a risarcire economicamente la parte lesa.

56. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.49.

57. RUSCHE GEORG, "Il mercato del lavoro e l'esecuzione della pena. Riflessioni per una sociologia della giustizia penale", op. cit., pag.529.

58. Ibidem, pag. 529.

59. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.50.

60. Ibidem, pag. 50.

61. Ibidem, pag. 50.

62. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.50.

63. RUSCHE GEORG, "Il mercato del lavoro e l'esecuzione della pena. Riflessioni per una sociologia della giustizia penale", op. cit., pag.539.

64. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.59.

65. Ibidem, pag. 59.

66. La loro applicazione nell'Alto Medioevo è sporadica e limitata a poche fattispecie, che per il loro contenuti erano considerate molto dannose per l'ordine sociale, e quindi perseguibili con pene espressive, che lasciassero sul corpo del reo i segni di riprovazione e di condanna. Esse consistono per lo più in due di tipo permanente: taglio o privazione di un membro e marchiatura; e in altre due di tipo temporaneo: decalvazione e fustigazione. Il taglio o la privazione di un membro riguarda i reati di falsità e di attentato contro il patrimonio. La marchiatura è pena afflittiva e infamante, riservata ai ladri recidivi. La pena del taglio dei capelli ha valore disonorante, considerata l'importanza assegnata alla capigliatura nella mentalità barbarica. La pena afflittiva che ebbe maggiore diffusione fu la fustigazione, inflitta sovente in caso di mancato pagamento della compositio, soprattutto nei confronti dei servi.

67. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.60.

68. Ibidem, pag. 60.

69. Ibidem, pag. 61.

70. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.61.

71. Ibidem, pag. 61.

72. Ibidem, pag. 61.

73. Ibidem, pag. 61. Oltretutto, alcuni individui erano virtualmente sicuri di potere ottenere la grazia, indipendentemente dal reato che avevano commesso; ad esempio, i soldati che avevano servito fedelmente nell'esercito del re. Spesso essi, al ritorno da lunghe campagne, non riuscivano a reinserirsi nella vita civile, e le loro attitudini venivano così impiegate per intraprendere l'attività criminosa. La grazia per questi individui era un riconoscimento dei sacrifici fatti per difendere il proprio re.

74. Le origini del metodo accusatorio risalgono all'epoca in cui la sfera dell'illecito veniva esclusivamente valutata dal punto di vista dell'interesse privato, nulla essendo la sensibilità per la lesione sociale, ed apparendo insita nella tutela individuale la tutela della società. Infatti, inizialmente il potere di accusa era unicamente conferito all'offeso ed ai suoi congiunti. In seguito, cominciando a cogliersi il peso della lesione sociale, tale potere venne esteso a qualunque cittadino. Da una accusa privata e da un privato accusatore si passava così ad una accusa pubblica e ad un pubblico accusatore; ogni cittadino si trovava così legittimato a proporre l'accusa quale membro della compagine sociale offesa. Sino a che, per evitare una moltiplicazione delle accuse, o, al contrario, una inerzia basata sulla fiducia nell'altrui iniziativa, si finì per disciplinare l'accusa come esercizio di un pubblico ufficiale, conferito a determinate persone.

75. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 121.

76. Ibidem, pag. 95.

77. Cfr. ivi, nota 66 pag. 60.

78. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", op. cit., pag. 30-31.

79. Ibidem, pag. 31.

80. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", op. cit., pag. 31.

81. Ibidem, pag. 31.

82. Ibidem, pag. 31.

83. Ibidem, pag. 32.

84. Ibidem, pag. 32.

85. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", op. cit., pag. 33.

86. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", op. cit., pag. 34-35.

87. Ibidem, pag. 35.

88. Nel corso dello sviluppo storico, al potere occulto della divinità si sostituisce la forza della legge, che stabilisce in modo rigoroso i mezzi per raggiungere la verità. La prova da ostensoria diviene legale.

89. Il giurista medievale si trovava innanzi ad un dilemma, legato al fatto che per potere condannare un sospetto il giudice doveva essere in possesso di prove assolutamente schiaccianti. Si trattava infatti o di rimandare impuniti i delinquenti, o di correre i rischi della fallibilità della sentenza, o di porsi al sicuro estorcendo la confessione con la violenza, rendendo così il reo in qualche modo partecipe della propria condanna. La soluzione adottata, in concomitanza con l'adozione del metodo inquisitorio, fu quest'ultima, ed il ricorso ineliminabile alla tortura giudiziaria segnò l'irruzione della forza entro un ambito propriamente legale, ed il prezzo da pagare alla ricerca della verità assoluta.

90. La testimonianza di un solo individuo era indizio vago; invece due testimoni costituivano prova piena. Alcuni soggetti erano considerati inidonei a testimoniare: le donne, a causa della loro pietà e debolezza; gli umili ed i poveri, per la loro capacità a corrompersi; chi si presentava in giudizio per la seconda volta contro lo stesso imputato, presumendo che volesse testimoniare per odio contro quello.

91. La confessione era considerata la prova regina; qualunque altro elemento probatorio non era sufficiente se non era ribadito dalla confessione dell'imputato. Di conseguenza, ogni mezzo per ottenerla divenne lecito e indispensabile. Infatti, dato che la procedura segreta del metodo inquisitorio faceva nascere sospetti di arbitri, si studiò un mezzo che facesse acquietare tali dubbi: si stabilì che nessuno poteva subire la pena ordinaria se egli stesso non si riconosceva colpevole, cioè confessava. La confessione valeva come prova del delitto, ed autorizzava la pena ordinaria. Le modalità scusanti, dichiarate anch'esse nella confessione, non venivano ritenute valide se non erano avvalorate da prove certe. La confessione si otteneva con l'interrogatorio, col giuramento o con la tortura. Nell'interrogatorio al giudice erano consentita ogni sorta di espediente ed inganno atti a strappare la confessione. Se con l'interrogatorio non si otteneva nulla, si faceva giurare il sospetto. Ma l'uso più generalmente ammesso era la tortura, vista come mezzo naturale e legittimo per appurare la verità. Se l'imputato nel suo interrogatorio confessava, era condannato alla pena ordinaria; se negava, veniva fatto giurare, poi veniva sottoposto alla tortura. E se ciò non bastava a farlo confessare, si teneva conto degli indizi raccolti contro di lui per condannarlo ad una pena straordinaria ad arbitrio del giudice. Si partiva infatti dal presupposto che, quando contro qualcuno esistevano indizi di reità, egli era, con molta probabilità, colpevole. Il diritto di difesa era pressoché inesistente, in modo che l'accusato non riuscisse ad evitare di confessare la verità e in modo che non gli venissero suggeriti modi per travisarla.

92. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", op. cit., pag. 291.

93. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", op. cit., pag. 291.

94. "Avvenuto un delitto e recata notizia all'autorità, lo inquisitore procedeva allo esame dei testimoni, registrando solo le deposizioni contrarie allo imputato, ed il più che tornasse possibile, l'una all'altra uniforme. Al testimone si faceva forza con le intimidazioni, il carcere, la tortura. Ed il peggio si era che il raccoglimento delle deposizioni si affidava ai notai della causa, i quali facevano indegno mercimonio del loro ufficio e scrivevano secondo il tornaconto di chi meglio li pagava. Dopo le informazioni si citava il reo: era prima interrogato. Se negava, veniva sottoposto al giuramento di dire il vero, e, persistendo ancora, subiva il tormento, fino a tre volte. Quando tutti siffatti mezzi fossero riusciti vani, si citavano di nuovo i testimoni non allo scopo sereno di conoscere la verità, ma con la irretrattabile prevenzione che vera fosse l'accusa e veridiche le precedenti deposizioni; onde essi dovevano confermare con giuramento il deposto che veniva loro letto dalla scrivano fuori la presenza dello imputato, e guai a chi avesse osato variare di una sola parola quanto innanzi aveva dovuto dichiarare!" (SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 96-97).

95. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", op. cit., pag. 40.

96. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", op. cit., pag. 44.

97. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.51.

98. La pena tuttavia non perde la caratteristica della sua origine: rimane vendicativa, anche se non è più data dall'individuo; è la vendetta pubblica anziché la privata. Il diritto di vendicarsi costituisce sempre la ragione della pena, e ne dirige lo scopo; la novità è che all'esercizio individuale di tale diritto si viene sostituendo quello della potestà pubblica. Lo Stato segue nel punire il medesimo criterio seguito dai privati, chiamando vendetta la propria giustizia, e viceversa, e cercando nel sistema del taglione la misura delle pene, appropriando a se le composizioni. Né la pena perde il suo scopo di espiazione, per allontanare dal gruppo l'ira divina scatenata dal reo.

99. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.51-52.

100. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.52. L'amministrazione della giustizia penale finì così per dimostrarsi una ricca sorgente di reddito, e ciò contribuì a trasformarla da mero arbitrato di interessi privati, con il rappresentante della pubblica autorità nella semplice posizione di arbitro, in una parte decisiva del diritto pubblico.

101. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 33.

102. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.59.

103. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.51.

104. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.65.

105. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.53.

106. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.65.

107. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.54.

108. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 32.

109. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.55.

110. Sul libero sfruttamento di tali terre da parte dei contadini più poveri si basava tutto l'equilibrio del sistema feudale, che infatti andava inesorabilmente disgregandosi.

111. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.66.

112. Ibidem, pag. 66.

113. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.56.

114. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.57.

115. RUSCHE GEORG, "Il mercato del lavoro e l'esecuzione della pena. Riflessioni per una sociologia della giustizia penale", op. cit., pag. 539.

116. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.58.

117. Ibidem, pag. 58.

118. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.59.

119. Chi poteva permetterselo, era praticamente immune dalle leggi penali, in quanto poteva giungere ad un accordo soddisfacendo la richiesta della parte lesa di risarcimento del danno. Anche chi era già stato giudicato e condannato poteva evitare l'esecuzione della pena attraverso il pagamento di somme di denaro alla vittima.

120. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.61. Il diritto penale medievale assunse le sue caratteristiche non tanto attraverso un mutamento del sistema penale, quanto della semplice applicazione delle pene. Il sistema della composizione, delle penances, delle pene pecuniarie, venne sostanzialmente sostituito, per la grande maggioranza della popolazione, da pene corporali. Tale fatto, assieme all'importanza crescente attribuita alla deterrenza, condusse ad un livello di brutalità e ferocia, quale prima dell'epoca Basso-medievale non si era mai conosciuto nel diritto penale.

121. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.62.

122. Ibidem, pag. 62.

123. Ibidem, pag. 62.

124. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.64.

125. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.64.

126. Ibidem, pag. 64.

127. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 138.

128. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.65.

129. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.65.

130. Ibidem, pag. 67. Si trovano esempi di esecuzioni effettuate con il coltello, con la mannaia, con la spada, di teste fatte cadere con tavole di legno o tagliate con aratri, di gente bruciata viva, lasciata morire di fame e sete, di chiodi conficcati nelle amni, negli occhi, nelle spalle, di strangolamenti, soffocamenti, affogamenti, dissanguamenti, sventramenti, squartamenti, di torture sulla ruota e con tenaglie roventi, di strisce ritagliate di pelle e di altre infinite forme di elaborata crudeltà. Praticamente ogni reato era punibile con la morte, e la questione essenziale era il modo in cui questa veniva eseguita.

131. Ibidem, pag. 65.

132. Ibidem, pag. 65.

133. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 81.

134. Ibidem, pag. 81.

135. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 81-82.

136. Ibidem, pag. 82.

137. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", op. cit., pag. 557.

138. Pena straordinaria, in questo contesto, va intesa come pena minore della ordinaria.

139. Con 'indizi' si intendono circostanze che attraverso altri elementi di coordinazione si riportavano al delitto.

140. MITTERMAIER CARL JOSEPH ANTON, "Teoria della prova nel processo penale", op. cit., pag. 557.

141. Ibidem, pag. 558.

142. ALESSI PALAZZOLO GIORGIA, "Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno", Jovene editore, Napoli, 1979, pag. 6.

143. Le fonti giuridiche medievali sottolineano con insistenza la raccomandazione a ricercare chiarissime prove per la condanna, in base alla massima: 'sanctiu est nocentem dimittere quam innocentem condemnare'. Al giudice, nell'emettere la sentenza, si consigliava di esaminare l'accusa e di ricercare gli elementi di giustificazione su tutte le circostanze e modalità riassunte nel noto verso: quid, l'oggetto dell'accusa; quis, l'autore del delitto; ubi, il luogo della consumazione; quibus auxiliis, i mezzi adoperati; cur, il perché del reato; quomodo, le modalità del fatto; quando, il tempo.

144. ALESSI PALAZZOLO GIORGIA, "Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno", op. cit., pag. 7. L'irrigidirsi di tali regole, assieme alla correlativa adozione del procedimento inquisitorio, determinò la formazione del sistema di prova legale; esso cominciò a profilarsi nella dottrina dei secoli XIII e XIVº, si impose nel XVº e continuo ad esistere ed a svilupparsi sino al XVII e buona parte del XVIII. Soprattutto il diritto canonico cercò di predeterminare i modi della certezza giudiziale, assegnando a ciascun mezzo di prova il corrispondente peso processuale. Si cercava di ottenere, tramite la procedura inquisitoria, una verità non processuale ma oggettiva. La prova legale si definisce in contrapposizione alle prove dipendenti dal libero convincimento del giudice. La legge detta quali prove debbano verificarsi perché l'imputazione si dichiari o no giustificata, e si dia luogo o meno alla condanna dell'imputato. Il giudice non guarda al contenuto della prova, ma al fatto che le procedure siano state ben rispettate, ed in base a ciò pronuncia la condanna o l'assoluzione. Da un certo punto di vista, sia le prove legali che quelle ostensorie hanno carattere formalistico. Il punto chiave per comprenderne la differenza risiede nel fatto che, mentre le prime sono legali in senso stretto perché il minuto e rigido intervento della legge nel regolarle appare più manifesto, le seconde si basano esclusivamente sull'esperimento materiale.

145. L'uso della tortura, già largamente diffuso nella prassi, venne formalmente autorizzato da Innocenzo IV con la bolla 'Ad extirpanda' del 1252, con il solo limite di essere irrogata 'citra membri diminutionem et mortis periculum'. Il processo si concludeva con una sentenza pubblica; non era ammesso appello contro tali sentenze.

146. Era necessaria la concordanza di due testimonianze per giungere alla condanna dell'accusato, il quale non aveva diritto a contestare le affermazioni dei testi, e ne ignorava persino i nomi. Inoltre egli non poteva valersi dell'opera di un difensore. In caso di contrasto tra le affermazioni dei testi e quelle dell'imputato, quest'ultimo veniva sottoposto a tortura. Un'altra via per ottenere la condanna era estorcere al sospettato una confessione giudiziale preceduta da indizi sufficienti e ratificata con ogni formalità.

147. ALESSI PALAZZOLO GIORGIA, "Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno", op. cit., pag. 19.

148. Il ricorso alle pene straordinarie non era limitato alle situazioni di insufficienza di prova o di irregolarità di rito, ma copriva tutta una serie di ipotesi - confusione normativa, lacuna, ecc.- che rendevano opportuno il ricorso alla discrezionalità del giudice.

149. Nel Basso Medioevo, stretto nel cerchio di ferro delle prove legali, ci si trovava in difficoltà molto spesso in casi in cui la sussistenza di indizi per un verso infondeva una certa convinzione della colpa, mentre per l'altro, a causa di mancata confessione da parte del reo, non autorizzava l'applicazione della pena. Assolvere sarebbe parso segno di eccessiva rilassatezza, ma condannare era legalmente proibito; non restava dunque che comminare al sospettato una pena straordinaria, proporzionata, secondo il giudice, agli indizi raccolti contro di lui.

150. Ciò rappresenta una esasperazione della concezione gradualistica e quantitativa della prova legale. Se la massima pena richiede la massima colpevolezza e la prova piena, minor rigore è richiesto per assegnare pene minori.. Tale equivalenza trovava largo spazio all'interno dell'ordinamento canonico, sempre assai rigido nel raccomandare al giudice la massima prudenza nei giudizi più gravi, ma assai propenso a forme di paterna correzione nelle ipotesi di pene minori.

151. Questo per due motivi: da una parte si riteneva che i magistrati partecipassero, data la loro posizione, ai diritti inerenti alla sovranità; dall'altro il carattere frammentario e lacunoso della legislazione penale rendeva indispensabile un continuo intervento da parte del giudice per adeguare le pene al reato.

152. Solo la prova piena poteva dar luogo alla pena ordinaria; in caso contrario la prova era detta semipiena, e dava luogo alla pena straordinaria. Era prova piena quella che rispondeva ai requisiti della legge, la quale tassativamente stabiliva al giudice nel concorso di quali elementi probatori dovesse pronunciare la condanna, senza attingere ad altri per il proprio intimo convincimento, non ritenuto necessario.

153. L'istituto della pena straordinaria serviva in verità anche a fornire ai giudici la possibilità di mitigare lo spaventevole livello di atrocità che le pene avevano raggiunto a partire dal Basso Medioevo. Esso poteva dirsi un benigno espediente contro l'efferatezza delle pene ordinarie; nella pratica, però, la pena straordinaria, contrariamente alle aspettative, contribuì ad accrescere l'iniquità giudiziale. Infatti, in seguito anche all'adozione del metodo inquisitorio, i giudici giunsero a ritenere l'uomo colpevole solo per fatto di essere inquisito, ed il loro compito non fu tanto di vedere se l'accusa corrispondeva o no al vero, ma di studiare ogni mezzo affinché le prove confermassero la presunzione di colpabilità, creata dall'accusa. Il giudice non aveva la facoltà di apprezzare la sussistenza dei dati di fatto ed il loro valore probatorio, doveva attenersi alla valutazione di essi in corrispondenza meccanica della regola stabilita dalla legge.

154. Questo perché la società si preoccupa tanto maggiormente di un reato, quanto più esso è grave. E siccome di solito i delitti più gravi si consumano più occultamente, per evitare l'impunità dei criminali più efferati, in questi giudizi si pongono meno limiti all'accettazione delle prove; i giudici cioè sono dispensati dagli impedimenti che incontravano seguendo le regole ordinarie.

155. Ad esempio si introdusse la prassi di torturare il reo con riserva delle prove già acquisite, per evitare che il suo silenzio o la mancata ratifica della sua confessione costringessero a proscioglierlo. Ma ci occuperemo meglio nel prossimo capitolo di tutte le questioni legate al sistema delle prove legali, e delle soluzioni di compromesso adottate dai giudici; infatti, anche se tale questione si presentò nel XII-XIIIº secolo, tuttavia i maggiori sviluppi si ebbero soprattutto nel XVIº secolo, nell'epoca dell'Ancien Regime.

156. Il fatto cioè che prove minori e procedimenti eccezionali potessero essere compensati con una diminuzione della pena rispetto alla ordinaria.

157. ALESSI PALAZZOLO GIORGIA, "Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno", op. cit., pag. 44-45.

158. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 36.

159. Ibidem, pag. 36.

160. Ibidem, pag. 37.

161. Ibidem, pag. 37.

162. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 38.

163. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 124.

164. MELOSSI DARIO, "Istituzioni di controllo sociale e organizzazione capitalistica del lavoro: alcune ipotesi di ricerca.", op. cit., pag. 21.

165. MELOSSI DARIO, "Istituzioni di controllo sociale e organizzazione capitalistica del lavoro: alcune ipotesi di ricerca.", op. cit., pag. 21.

166. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 23.

167. Ibidem, pag. 23. Ciò provocò la coesistenza, quanto al titolo che vi dava luogo, a tre tipi di incarcerazione, caratterizzati da altrettante diverse discipline: il carcere per custodia processuale doveva durare il tempo strettamente necessario alla conclusione del processo e all'esecuzione della pena; quello per inadempienza delle conseguenze patrimoniali dell'illecito poteva prolungarsi a tempo indeterminato, sino all'eventuale soddisfacimento del debito; l'ultimo tipo, quello inflitto come pena, doveva essere equamente proporzionato al fatto posto in essere dal reo.

168. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 27.

169. La violenza sui prigionieri, le condizioni igieniche deplorevoli e la corruzione facevano parte della vita quotidiana del sistema carcerario.

170. Ciò è dimostrato dal fatto che i guardiani, per sfruttare il maggior numero possibile di detenuti, erano soliti corrompere i giudici affinché mandassero i condannati al proprio stabilimento.

171. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.124.

172. In seguito quest'ultima opera divenne l'unica istituzionalmente loro competente. Tra il XVI e il XVIIIº secolo assunsero un ruolo di grande importanza nell'ambito della società urbana. Infatti divennero dei centri di potere politico e sociale, legati ai settori privilegiati della società; divennero dei veri e propri momenti di aggregazione delle élite urbane. Vedremo meglio nel prossimo capitolo il ruolo assunto e le funzioni svolte da tali confraternite religiose.

173. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna" Pubblicazioni dell'Università degli studi di Salerno, sezione studi storici, ed. scientifiche italiane, Napoli, 1985, pag. 92.

174. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.51.

175. Ibidem, pag. 124.

176. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.60.

177. Cfr. cap. 1.

178. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.60.

179. I prigionieri, vincolati da ceppi, erano normalmente custoditi in locali sotterranei, umidi e privi d'aria e di luce.

180. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.60.

181. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 22.

182. Ibidem, pag. 22.

183. Ciò avviene con l'affermazione del sistema capitalistico di produzione.

184. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 23.

185. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 23.

186. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 23.

187. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 24.

188. Ibidem, pag. 34.

189. La scala delle pene di maggiore impiego, ad esempio, presso i frati minori era molto ampia; la prima si risolve nella recita del rosario; la seconda è costituita dalla 'disciplina' che il reo si autoinfligge sul dorso nudo; la terza è il digiuno, meno grave se a pane e vino, più grave se a pane e acqua; la quarta è la 'commestio in terra'; la quinta è la perdita dell'elettorato attivo e passivo per le cariche nell'ordine; la sesta è la perdita della capacità di predicare, confessare, ecc, la settima è la privazione degli atti legittimi; l'ottava è costituita dalla sospensione; la nona rende il frate inferiore a tutti i suoi confratelli; la decima è la flagellazione, che deve comunque arrestarsi prima che fuoriesca sangue; la undicesima è costituita dall'esilio; la dodicesima infine dal carcere, temporaneo o perpetuo; la tredicesima, la più grave, è la condanna alla triremi, dalla quale non è sperabile alcuna emenda.

190. VEZZOSI ELENA, "Il carcere canonico come negazione del carcere: osservazioni sul testo di Mabillon- Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1987, Vol. III, pag. 433.

191. "Nel IX-X secolo il tribunale non è che l'altro nome dell'altare" (GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag.28). Ad amministrare la giustizia terrena è la Chiesa, forte di un mandato ultraterreno. La pace e la tregua d'armi voluta da Dio tendevano evidentemente a riportare un po' di ordine e di 'disciplina' tra la popolazione e i feudi naturali, sconvolti dalle faide e dalle guerricciole tra i potenti. Furono gli inermi, i deboli, i contadini, gli uomini del popolo, a invocare la pace; fu la Chiesa a incarnare il ruolo di paciere ufficiale, forte dei paramenti sacri e dell'appoggio popolare. La Chiesa di conseguenza incarnò il ruolo di prima istituzione universale.

192. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 24.

193. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 24.

194. È opportuno richiamare la teoria della delegazione divina. Secondo tale teoria, in quanto Dio è l'essere supremo, cui tutto va ricondotto, non esiste potestà che non si fondi in lui, compreso il diritto di punire. Anzi, l'attribuzione delle pene è una funzione specifica della giustizia divina. La rappresentante di Dio in terra è la Chiesa, che quindi diviene sua mandataria nell'amministrazione delle pene. Ne deriva che il sacerdote non solo può imporre penitenze per i peccati, ma può anche ordinare l'esecuzione di pene vere e proprie. Dalla teoria della delegazione divina deriva anche il fatto che la pena è essenzialmente vendetta; non privata, ma pubblica; non ispirata dall'odio ma cristiana. Ed è pure espiazione. Ciò che conta, nella pena, è il dolore che redime. Si pone in risalto il lato soggettivo dell'azione criminosa; e nel delitto si vede soprattutto il peccato.

195. S. Agostino considerava il peccato (il delitto) come malattia sociale, che non necessitava di punizione vendicativa ma di risanamento. Ogni sanzione perciò doveva avere come fine il miglioramento del reo, non la retribuzione.

196. WIESNET EUGEN, "Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena.", op. cit., pag. 141.

197. WIESNET EUGEN, "Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena.", op. cit., pag.143.

198. Ibidem, pag. 144. Secondo la nuova visione, l'ordine cosmico voluto da Dio viene turbato dal peccato-reato dell'uomo, che così ferisce ed offende immensamente ilo suo creatore. La giustizia di Dio esige che questo turbamento dell'ordine sia compensato, e sia resa a Dio soddisfazione per l'offesa patita (secondo il modello in uso presso principi e re); la remissione dei peccati non può avvenire senza che sia stato pagato il debito.

199. Ibidem, pag. 145. Si pensa di potere reprimere ed estirpare l'eresia in quanto delitto di stato solo con violenza bruta; inoltre contribuisce all'affermarsi della mentalità dell'inquisizione l'immagine, dominante in quei secoli, di un Dio inquisitore e vendicativo che esige la retribuzione sino alla vendetta. Si giunge così alla pubblica esecuzione di pene crudeli dopo lo sbrigativo accertamento della colpevolezza mediante confessioni ottenute con la tortura. Il giudice penale intende se stesso come strumento diretto della retribuzione divina, e deve distogliere dalla comunità l'ira divina scatenata dal delitto. Dio è per i cristiani l'essere unico a cui tutto deve essere ricondotto. La Chiesa è sua mandataria nell'amministrare la città terrena, e tutto ciò che essa compie, lo compie in suo nome. I tormenti della tortura e della stessa esecuzione capitale vengono perfino considerati come un'opera buona verso chi è punito, in quanto gli risparmiano una parte delle fiamme infernali che lo attendono. Quanto più severa e dolorosa, tanto più la pena risulterebbe gradita a Dio.

200. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 24.

201. Ibidem, pag. 24.

202. Ibidem, pag. 24-25.

203. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 25.

204. Ibidem, pag. 25.

205. VEZZOSI ELENA, "Il carcere canonico come negazione del carcere: osservazioni sul testo di Mabillon- Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 427.

206. Secondo la concezione della Chiesa medievale, una vita religiosa pienamente dedicata al servizio di Dio è concepibile solo entro i rigidi ordinamenti dello Stato monastico. Ogni comportamento religioso che non riconosca come obbligatori questi ordinamenti si stacca perciò dalla Chiesa e dalla vera religione, e diventa setta, eresia. I movimenti religiosi del Medioevo appaiono dunque allo sguardo dell'osservatore come sette e ordini.

207. VEZZOSI ELENA, "Il carcere canonico come negazione del carcere: osservazioni sul testo di Mabillon- Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 428.

208. VEZZOSI ELENA, "Il carcere canonico come negazione del carcere: osservazioni sul testo di Mabillon- Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 429.

209. VEZZOSI ELENA, "Il carcere canonico come negazione del carcere: osservazioni sul testo di Mabillon- Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 430.

210. Ciò fu reso possibile dall'istituzione della inquisizione medievale, la cui origine data dal momento in cui il Cristianesimo divenne, con Costantino, religione di Stato. L'inquisizione medievale rappresenta il primo esempio di autorità disciplinare sovranazionale, con archivi, articolazioni ed una fitta rete di collaboratori ed informatori; grazie a questi elementi essa ha potuto esercitare, per almeno due secoli, un controllo sociale perfetto, rafforzato dal sacro terrore che ispirava. L'Inquisizione del Santo Uffizio è stata un apparato di disciplina ideologica e sociale, preesistente alla nascita di qualsiasi funzione analoga in seno ai poteri laici e burocratici. Dove il potere temporale non ha sviluppato un'articolazione agile ed efficiente di controllo, schedatura e persecuzione, la Chiesa agisce da stimolo. Essa costringe l'autorità laica a mettersi al suo servizio, e così facendo ne provoca, spesso, lo snellimento e la razionalizzazione.

211. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 35.

212. VEZZOSI ELENA, "Il carcere canonico come negazione del carcere: osservazioni sul testo di Mabillon- Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 430.

213. Ibidem, pag. 430.

214. Ibidem, pag. 431.

215. VEZZOSI ELENA, "Il carcere canonico come negazione del carcere: osservazioni sul testo di Mabillon- Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 431.

216. Ibidem, pag. 431.

217. Come, ad esempio, l'omosessualità, delitto antisociale per eccellenza in una comunità conventuale.

218. VEZZOSI ELENA, "Il carcere canonico come negazione del carcere: osservazioni sul testo di Mabillon- Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 432.

219. Ibidem, pag. 432.

220. VEZZOSI ELENA, "Il carcere canonico come negazione del carcere: osservazioni sul testo di Mabillon- Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 432. Vediamo che anche nei conventi, o, comunque, tra gli ecclesiastici, si faceva ricorso alla pena di morte. Il carcere a vita spesso significava la morte in quanto era a discrezione degli abati il rifiuto del cibo al condannato, le condizioni igieniche erano precarie, le afflizioni gravate dalla tortura. La posizione della chiesa nei confronti della pena di morte è stata a lungo ambivalente e contraddittoria; se da un lato essa non poteva supportarla (almeno verso i propri membri...) per ragioni etiche, dall'altro dominava il principio aristotelico secondo il quale il tutto è prima delle parti. Lo stesso S. Tommaso sosteneva che se l'asportazione di un membro giova alla salute dell'intero corpo umano, è lodevole e salutare sopprimerlo; la sopravvivenza del corpo sociale nella sua totalità era quindi considerata un bene superiore alla vita e alla sopravvivenza di una delle sue parti.

221. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", Sapere 2000 S.r.l., Roma, 1984, pag. 33.

222. MABILLON DOM JEAN, "Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1987, Vol. I, pag. 121.

223. MABILLON DOM JEAN, "Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 125.

224. Ibidem, pag.125.

225. Ibidem, pag.129.

226. MABILLON DOM JEAN, "Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 129.

227. Ibidem, pag. 130.

228. Ibidem, pag. 130.

229. Ibidem, pag. 130.

230. Ibidem, pag. 131.

231. MABILLON DOM JEAN, "Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 131.

232. Ibidem, pag. 132.

233. Ibidem, pag. 132. Il priore di S. Martin des Champs fece costruire una cantina sotterranea a forma di sepolcro, dove condannò per il resto dei suoi giorni un disgraziato che pareva lui incorreggibile.

234. MABILLON DOM JEAN, "Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", op. cit., pag. 133.

235. Ibidem, pag.133-134.

236. Ibidem, pag. 135. Secondo Mabillon i superiori dei detenuti nelle carceri canoniche non si preoccupavano di conoscere i loro bisogni e non pensavano ai mezzi necessari per riportarli verso Dio ispirando loro un vero spirito di penitenza, Si voleva che essi si convertissero da sé, senza nessun aiuto da parte dell'ordine.

237. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 29.