ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Cap. 1: Introduzione

Tommaso Buracchi, 2004

Da millenni gli uomini si puniscono vicendevolmente - e da millenni si domandano perché lo facciano (1)

1: Presentazione

Ricostruire la storia del carcere è impresa non facile, per vari motivi. Innanzitutto, nel corso dei secoli, sotto lo stesso nome (2) sono state accomunate esperienze assai diverse, sia per le modalità di funzionamento, sia per le caratteristiche della loro istituzione, sia per le finalità che esse intendevano perseguire, sia per le diverse discipline che le caratterizzavano. Talvolta tali esperienze non si sono susseguite in maniera lineare, ma si sono trovate a coesistere anche per lunghi periodi di tempo (3). Inoltre, come vedremo in seguito, il carcere, durante il suo percorso di sviluppo, ha subito l'influenza di istituzioni (4) che originariamente erano nate con funzioni diverse da quelle privative della libertà come conseguenza delle commissione di una qualche sorta di reato, ma le cui caratteristiche vennero gradualmente assorbite dal carcere stesso in quanto congeniali e affini al suo funzionamento, contestualmente a quel determinato periodo storico. Il carcere appare oggi una realtà metafisica sempre esistita ed inevitabile. Tale visione, "storicamente inesatt(a) dipende dal fatto che, negli ultimi due secoli, si è assistito al definitivo tramonto delle pene corporali, di cui quella capitale rimane ... l'ultimo, anacronistico retaggio; e al progressivo, parallelo affermarsi della pena detentiva - graduabile e proporzionabile in ragione del tempo- come la principale tra le sanzioni criminali" (5). Sino alla seconda metà del 1700 le prigioni non erano difatti concepite come "istituzioni totali, finalizzate alla pacifica e fruttuosa convivenza di tutte le componenti del mondo carcerario e al recupero sociale dei detenuti" (6), ma erano considerate come "meri strumenti di afflizione e contenimento di costoro" (7). L'origine delle moderne istituzioni penitenziarie risale, infatti, all'epoca dell'Illuminismo, quando, abbandonate, per vari motivi che approfondiremo in seguito, le pene corporali e ridotto il ricorso alla pena capitale, il carcere comincia a divenire lo strumento principale per colpire i trasgressori della legge penale. Ed in effetti, è "solo con l'800 (che) la pena privativa della libertà, o pena carceraria, diventò 'la' pena" (8). Se tale forma di pena "comparve in termini di assoluta dominanza (tale da essere fondamentalmente e per lungo tempo, la sola sanzione criminale) solo nelle codificazioni ottocentesche, va però rilevato che il carcere aveva pur sempre avuto un qualche spazio nei sistemi e nelle procedure penali dei secoli passati" (9). Ma anche se già esistente in epoche assai remote, questa presenza carceraria era "funzionalizzata ad esigenze in parte estranee a quelle proprie di una sanzione criminale: fosse carcere ad custodiendum o ad incapacitandum, o fosse per i debitori morosi o per detenuti politici, esso finiva per adempiere a compiti di natura endo-processuale, ovvero di misura politico-amministrativa, ovvero, in alcune ipotesi, fu luogo in cui poteva venire irrogata una pena corporale" (10). Si rende a questo punto necessario individuare, seppure a grandi linee ed in maniera sommaria e schematica, le varie fasi attraversate dal carcere nel corso dei secoli, ed i vari significati connessi al suo utilizzo ed al suo funzionamento, che poi approfondiremo dettagliatamente durante l'analisi dei singoli periodi storici. In linea di massima, tralasciando epoche molto remote, in cui "il magistero punitivo non rientrava neppure tra i fini dello stato e la repressione degli illeciti era rimessa alla volontà di vendetta dell'offeso o all'arbitrio del pater o del capo, che disponevano liberamente della vita dei filii o dei sudditi" (11), possiamo affermare senza dubbio che "il carcere non fu in origine concepito come una pena in senso tecnico, ma come un mezzo per tenere l'incolpato in custodia perché non si sottraesse alla giustizia" (12). Durante lo svolgimento del processo, "la privazione della libertà personale dell'accusato ne impediva la fuga, permettendo di istruire la causa e di pervenire alla decisione; dopo la condanna, garantiva l'esecuzione della sentenza" (13). Presso tutti i popoli antichi la sanzione per eccellenza continuò ad essere quella corporale, ma il diritto romano "cominciò a intendere il carcere pure come forma di grave afflizione da riservarsi ai criminali peggiori, perché iniziassero a soffrire prima ancora della materiale esecuzione della condanna capitale" (14). Lungo tutto il medioevo il principio dominante fu quello secondo il quale la detenzione aveva carattere specifico di custodire gli uomini; le prigioni costituivano essenzialmente luoghi di reclusione e custodia "per assicurarsi che certi individui inaffidabili fossero presenti al processo o all'emissione del verdetto" (15). Si trattava quindi, nella maggior parte dei casi, di carcerazioni preventive, anche se durante l'Alto medioevo l'istituto andò assumendo, seppure in rari e sporadici casi eccezionali, specifico carattere di sanzione; ciò avvenne per volere di Liutprando, Re longobardo, che "volle che ogni magistrato fosse fornito di un luogo dove rinchiudere per due o tre anni i ladri non recidivi, dopo che avessero pagata la composizione al derubato. O quando si ammise che il carcere potesse talvolta sostituire sanzioni pecuniarie insoddisfatte o pene infamanti, spesso inopportune per la loro gravità e dannose per l'intera famiglia del colpevole" (16). Durante l'Alto medioevo le pene pecuniarie costituirono in pratica l'unico strumento penale adottato in modo costante e debitamente regolamentato; in questo periodo i delitti contro la proprietà sono pressoché inesistenti, e il compito del diritto penale è fondamentalmente quello di redimere controversie tra eguali al solo scopo di mantenere la pace pubblica; la qual cosa avviene solitamente tramite una compensazione economica a favore della parte offesa. Il crimine era considerato solo nel suo contesto individuale; "in sostanza la giustizia penale medievale ruotava intorno al concetto di vendetta personale" (17). "Non è tanto il carcere come istituzione ad essere ignorato dalla realtà feudale, quanto la pena dell'internamento come privazione della libertà" (18); per tutto il periodo feudale si può quindi parlare di carcere preventivo e carcere per debiti, ma non si può "affermare che la semplice privazione della libertà, protratta per un periodo determinato di tempo e non accompagnata da alcuna sofferenza ulteriore, fosse conosciuta e quindi prevista come pena autonoma ed ordinaria" (19). Durante il Basso medioevo le pene pecuniarie vennero sostituite, per motivi economico-sociali, da un ampia gamma di crudeli pene corporali; se le pene pecuniarie del primo medioevo riflettono i rapporti sociali di un mondo contadino scarsamente popolato, in cui è presente una diffusione abbastanza equilibrata della ricchezza, la ferocia delle pene corporali del secondo medioevo sono il risultato della rilevante crescita della popolazione, che portò "alla occupazione di tutto il terreno e al sovraffollamento dello spazio vitale esistente. Si determina una frattura di classe tra ricchi e poveri, nasce una classe di lavoratori senza alcun avere che si fanno concorrenza tra di loro facendo ribassare il salario ...; si creano orde di mendicanti, disordini sociali, rivolte. ... La criminalità mutò completamente il proprio aspetto. Ne risultò un rapido incremento dei reati contro la proprietà. Lentamente al posto delle pene fino allora comminate, si sostituirono la flagellazione, la mutilazione e la pena di morte, dapprima ancora redimibili con il denaro, poi come strumento di pena universale, il quale solamente sembrava in grado di garantire una certa difesa contro la criminalità delle crescenti masse dei diseredati" (20). Inoltre in questo periodo si presentano anche altri eventi fondamentali: "la centralizzazione del potere, la consequenziale necessità di far percepire ai sudditi l'autorità dello stato e quella di trarre vantaggio economico dalle pene pecuniarie comminate nei confronti di coloro che violano la pacifica convivenza. Con lo spostamento della gestione del potere penale dalla comunità locale a un organismo centrale sempre più influente, la pena pecuniaria si era trasformata da una compensazione della parte offesa in un metodo per arricchire giudici e funzionari di giustizia riservato ai soli benestanti, mentre le pene corporali divengono la tipica sanzione da comminare nei confronti di coloro che non sono in grado di ottemperare a quell'obbligo" (21). Seppure, quindi, la situazione sociale sia fondamentalmente diversa da quella rilevata nel corso dell'Alto medioevo, tuttavia il ruolo del carcere all'interno del sistema delle pene pare rimanere sostanzialmente invariato; difatti anche per tutto il Basso medioevo la sua funzione era quella di "luogo di custodia provvisoria per gli imputati in attesa di giudizio o dell'esecuzione dell'estremo supplizio o delle pene corporali" (22), "ove gli accusati spesso erano costretti a passare parecchi mesi o anni prima di vedere il loro caso risolto" (23). Nel corso di tutto il medioevo una posizione particolare è attribuita al carcere da parte del diritto penale canonico; fu infatti tale diritto che per primo, in un periodo che risale ai secc. V e VI, per opera della chiesa romana, burgundica, gotica e visigotica, adottò la pena carceraria nella forma di reclusione in monastero. Monasteri e prigioni vescovili erano destinati principalmente ai chierici che avevano commesso reati ed agli eretici, chierici o laici; la storia degli istituti penitenziari della chiesa si intreccia con quella dell'inquisizione. Il regime carcerario del diritto canonico era estremamente duro e prevedeva espressamente, a scopo di espiazione e penitenza, la sofferenza fisica del condannato, che era tenuto in isolamento assoluto, in locali stretti e privi di ogni comodità, senza potere fare nulla e a rigoroso digiuno. Il primato della Chiesa cattolica in questo campo era dovuto al fatto che essa, "disponendo della giurisdizione criminale sui chierici e non potendo lecitamente comminare sentenze di morte, fu costretta a ricorrere al carcere e alle pene corporali" (24). Ma vedremo meglio, in seguito, le caratteristiche di tale istituzione, che mantenne una rigida severità sino ed oltre la fine del XVII secolo. La situazione economico-sociale cambia di nuovo completamente verso la metà del XVI secolo; l'offerta di lavoro si fece più scarsa, sia in conseguenza dell'allargamento dei mercati derivante dalle scoperte geografiche e dal flusso dei metalli pregiati, sia a causa delle guerre e delle epidemie, che causarono una drastica riduzione della popolazione. Cominciò così un periodo di acuta carenza di manodopera. "I salari dei lavoratori salirono e le condizioni di vita delle classi inferiori migliorarono notevolmente. Gli uomini divennero preziosi e pigri: prima di mettere a disposizione la propria forza lavoro ci si pensava bene. I guadagni degli imprenditori scesero, l'economia decadde. Si cercò allora di sostituire la carente pressione economica con la coercizione" (25). Questo è il sistema del Mercantilismo; in tale situazione di scarsità della forza-lavoro "sarebbe stata una crudeltà economicamente insensata continuare ad annientare i delinquenti. La pena della privazione della libertà prende il posto delle pene corporali e capitali, l''umanità' sostituisce la crudeltà; dovunque erano luoghi di supplizio ora si costruiscono case di correzione" (26). Ma più che un rinnovato senso di pietà e comprensione per le umane miserie, fu l'aspetto economico della questione che spinse a costituire tali forme di internamento coatto; questa nuova forma di 'umanità' era difatti assai redditizia (27). Non è un caso nel periodo moderno si affermano tre particolari forme di sanzione, quali la servitù sulle galere, la deportazione ed i lavori forzati, tutte attività che comportano lo sfruttamento della forza lavoro dei condannati. Oziosi, ladri, vagabondi e autori di reati minori vengono così sottoposti al lavoro obbligatorio e ad una rigida disciplina. Nel corso dello sviluppo di tali istituzioni, furono internati anche condannati per delitti gravi e a pene lunghe, "giungendo in larga parte a sostituire con il carcere gli altri tipi di punizione. Per molto tempo tuttavia non vi fu alcuna rigida classificazione e separazione delle varie categorie umane e giuridiche internate" (28). Tra le varie cause di tale mutamento nella punizione della criminalità vanno annoverate, oltre al pur significativo fine di lucro, sia la dissoluzione della comunità feudale, ed il progressivo affermarsi dello Stato nazionale, che si concretizzerà nella formazione degli Stati Assoluti, con la conseguente necessità di trasformare la giustizia da affare privato in questione pubblica, sia l'affermarsi dell'etica protestante, che sconvolge, per quanto ci riguarda, sia la concezione del termine 'lavoro', sia l'atteggiamento sino ad allora tenuto nei confronti della mendicità e delle classi povere in generale (29). È questa l'epoca di passaggio dalla società medievale a quella industriale; comincia a formarsi, seppure a livello embrionale, quella classe che in seguito sarà appellata col termine 'proletariato'. In questo periodo l'internamento coatto assume la funzione di mezzo di addestramento della forza lavoro alle esigenze dei nuovi meccanismi di produzione. Ma evitiamo di addentrarci, per ora, in questioni che necessitano di una più accurata analisi, che svolgeremo successivamente. Con la formazione degli stati assoluti si intensificano le pene corporali, sia per quanto riguarda il loro numero, sia per quanto riguarda la loro crudeltà; lo stato assoluto "si autorappresenta e si legittima come tale nel momento dell'esecuzione della pena, ricorrendo a una inquietante ostentazione della propria potenza militare e appellandosi a un diritto e ad una autorità proveniente da Dio. In questo contesto politico, l'esecuzione della pena è una delle tante cerimonie utili ai sudditi e al sovrano per misurare concretamente la distanza che li separa, e per mostrare la forza dell'autorità. L'esecuzione pubblica diviene uno spettacolo teatrale in cui il potere assoluto del sovrano è mostrato pubblicamente sul corpo del condannato" (30). È durante questo lasso di tempo che la giustizia penale compie "il passo decisivo, dal settore privato al settore pubblico" (31). La penalità è divenuta un aspetto dell'autorità statale, e ciò porta ad inasprire le pene, che devono assumere ruolo di esemplarità, sia perché la percentuale di crimini è in aumento, sia perché il crimine ha assunto un carattere classista. "Man mano che il sistema di giustizia penale si allontanava dalla sua forma originale, cioè di mezzo per risolvere controversie tra eguali, esso diventava sempre più un sistema a base classista. Quindi cominciarono a scomparire i vincoli legali e morali all'uso della forza fisica nelle punizioni" (32). Ed è in questo periodo che gli illegalismi diffusi, che nelle epoche precedenti avevano permesso al sistema economico e sociale di mantenersi stabile, cominciano a venire mal tollerati dalla classe borghese emergente. Ma se il sistema delle case di correzione apportò benefici economici alle classi che posero in essere tali misure, pure tale redditizio sfruttamento venne poco alla volta meno; "il lavoro nelle case di correzione cominciò a scarseggiare, si ricominciò a punire i vagabondi con la frusta e con il marchio anziché con l'internamento; tuttavia la pratica della casa di correzione fece si che sempre più comunemente la punizione predisposta fosse di tipo detentivo e questa assorbì poco alla volta la vecchia...prigione di custodia" (33). Mentre c'era una continua pressione per 'mettere i poveri al lavoro' "la sempre maggiore affinità della casa di correzione con il vecchio carcere di custodia fa tornare sostanzialmente l'istituzione penale...al periodo tardo-medievale, per quanto riguarda il regime interno. Il lavoro scomparve completamente dalla prigione, si tornò alla pratica esiziale del profitto privato del guardiano, scomparve ogni tipo di classificazione e differenziazione, per quanto grossolana potesse essere stata praticata in precedenza. Le sezioni femminili delle carceri erano bordelli gestiti dal carceriere" (34). "La radice di tale progressiva decadenza va ricercata nelle grandi trasformazioni della seconda metà del Settecento" (35); i fragili equilibri sociali precedenti vengono sconvolti da una "eccezionale accelerazione del ritmo di sviluppo economico, il fenomeno della rivoluzione industriale" (36); "un repentino inclinarsi della curva dell'incremento demografico, insieme all'introduzione delle macchine e al passaggio dal sistema manifatturiero al vero e proprio sistema di fabbrica, vengono a segnare contemporaneamente l'età d'oro del giovane capitalismo insieme al periodo più buio della storia del proletariato. La notevolissima accelerazione della penetrazione del capitale nelle campagne e corrispondentemente dell'espulsione da queste della classe contadina...contribuisce a presentare sul mercato del lavoro una offerta di manodopera senza precedenti" (37). Al grande incremento del pauperismo corrisponde, necessariamente, un ampio acutizzarsi del problema della gestione di una criminalità dilagante. Le istituzioni internanti assumono quindi in questo periodo un carattere prettamente terroristico; esse non servono più per ottenere manodopera a buon mercato in presenza di carenza di forza lavoro; adesso il loro scopo è quello di convincere le classi subalterne ad accettare qualunque condizione di lavoro offerta loro dal mercato, pur di non finire rinchiusi in luoghi che di umano conservano ben poco. La rivoluzione industriale ha ormai reso "obsoleto e inutile il lavoro forzato nelle carceri e semmai più pressante una aperta esigenza di intimidazione e di controllo socio-politici" (38), in concomitanza alla diffusione della nuova dottrina del laissez-faire. È in questo periodo che si impone il noto concetto di less elegibility (39), ed è pure in questo periodo che le aspirazioni di controllo e di intimidazione si concretizzano, almeno a livello teorico, nel progetto architettonico di Bentham, il Panopticon, che oltre ad essere un luogo di esecuzione della pena è luogo di osservazione per il prodursi di un sapere clinico riguardante i detenuti; tale attitudine, come ha rilevato Foucalt, sarà applicabile a un ampio numero di istituzioni sociali, con le conseguenze che il pensatore francese ha individuato e che esamineremo più avanti. Proprio adesso il carcere comincia a proporsi come soluzione applicabile al posto delle innumerevoli punizioni corporali che avevano accompagnato l'umanità sin dalle sue origini; il carcere è visto come organizzazione esclusivamente destinata alla punizione dei trasgressori della legge penale. In questo contesto si inserisce, e ne determina il realizzarsi, l'opera dei pensatori Illuministi, il cui più illustre e famoso rappresentante, Cesare Beccaria, interpretando e sintetizzando in modo lucidissimo il pensiero dell'epoca, segnò il decisivo superamento delle pene corporali e infamanti, oltre che del larghissimo ricorso alla pena di morte, che aveva caratterizzato il diritto penale durante l'Ancien regime. Vi fu una razionale e calcolata critica nei confronti della eccessiva severità delle pene, fino ad allora mantenuta al fine "di inculcare un sincero senso di rispetto per l'autorità nelle classi inferiori" (40). Durante l'epoca dell'assolutismo la crudeltà delle esecuzioni simboleggiava il potere e la sua capacità di controllo; il fatto che il sovrano potesse disporre a proprio piacimento del corpo dei condannati (e, per estensione, del corpo di tutti i suoi sudditi) appariva una cosa del tutto normale. Grazie all'opera di pensatori, filosofi e filantropi illuministi, "gli ultimi 25 anni del XVIII secolo furono quelli in cui si avviò decisamente a conclusione il processo evolutivo della pena iniziatosi agli albori dell'evo moderno" (41), processo che sarebbe infine sfociato "nel definitivo abbandono delle sanzioni corporali e nella loro sostituzione con quella detentiva: un fenomeno che comportò, quali necessari corollari, la costruzione di apposite strutture e la elaborazione di sistemi penitenziari ispirati da una filosofia della pena e da un modo di concepire il trattamento carcerario dei criminali completamente nuovi" (42). Fino ad allora, "l'idea che la sanzione detentiva potesse soppiantare la pena di morte per i crimini di maggiore gravità, e le punizioni corporali o la deportazione e la galera per i delitti di media e piccola entità" (43) era assolutamente imprevedibile. Adesso però il pensiero illuminista aveva scosso l'Europa, "preparando il terreno a grandi sconvolgimenti socio-politici: in Inghilterra Hobbes e Locke avevano fondato la dottrina che la società è il prodotto di un patto tra gli uomini per passare dallo stato di natura allo stato sociale. In Francia, Montesquieu aveva inaugurato, col suo Spirito delle leggi, un esame storico critico delle istituzioni politiche; Rousseau, coi suoi eloquenti paradossi, aveva posto le fondamenta al dogma della sovranità popolare, Voltaire aveva scritto a Federico II di Prussia esser giunta l'ora di mettere il mondo sotto l'impero della filosofia" (44). Mancava però il tassello finale; "Nessuno aveva ancora osato censurare apertamente le istituzioni della giustizia penale, ponendo in dubbio il diritto del sovrano di disporre della vita, del corpo e della libertà dei propri sudditi, in nome di un potere arbitrario e indiscutibile: in ciò risiedette la principale novità del pensiero di Beccaria" (45). Con l'Illuminismo si attuò un radicale rivolgimento della giustizia penale come era stata intesa fino ad allora; si richiese la relativa dolcezza delle pene in generale, ed il declino di quelle corporali, in particolare; si sottolineò la necessità di precetti e sanzioni uguali per tutti i destinatari dell'ordinamento, e il rispetto di forme e di regole processuali meno autoritarie e non più arbitrarie. "E prese anche corpo la rivoluzionaria idea di far cessare gli abusi offensivi della personalità umana nelle carceri, e di utilizzare lo stato di detenzione, non solo a scopi punitivi e repressivi, ma anche per migliorare il detenuto e riadattarlo alla vita sociale" (46). Il cambiamento che investì la penalità dell'intera Europa e degli Stati uniti, tra la seconda metà del 1700 e il primo ventennio del 1800, fu clamoroso perché esso condusse non solo a una diminuzione della quantità e della intensità delle sanzioni criminali, ma a una progressiva sostituzione del loro bersaglio; da quel momento la punizione si sarebbe indirizzata non più verso il corpo, attraverso la manipolazione di esso, ma verso l'anima del reo. Tutte le misure intraprese dovevano rispondere a una esigenza di utilità pratica. "Una rapida accelerazione del processo evolutivo delle modalità di trattamento dei reclusi si ebbe quando salì alla ribalta il filantropo quacchero John Howard... il cui impegno finì col risultare decisivo per il declino delle sanzioni corporali e la loro sostituzione, nell'arco di pochi decenni, con quella detentiva" (47). Egli tracciò il quadro della raccapricciante situazione degli istituti internanti (48) in Europa e propugnò una completa revisione della funzione e dei criteri organizzativi della pena detentiva. Tra la fine del 1700 e i primi decenni del 1800 si formarono sia in Europa che nel Nordamerica vari sistemi o teorie penitenziarie, che si ponevano come obiettivo quello di organizzare nel modo più razionale ed efficace possibile la gestione degli istituti penitenziari. Ormai la privazione della libertà cominciava a proporsi come la più diffusa delle pene. Non bisogna però dimenticare che le teorie illuministe non prevedevano il carcere come unica forma di punizione, ma solo come una particolare forma di pena per certi particolari delitti; il sogno dei riformatori dell'epoca era costituire un vero e proprio Giardino della Legge, "che le famiglie visiteranno la domenica. ... Ecco dunque come bisogna immaginare la città punitiva. Agli incroci, nei giardini, sui bordi delle strade che vengono rifatte o dei ponti che vengono costruiti, nei laboratori aperti a tutti, nel fondo delle miniere che si vanno a visitare; mille piccoli teatri di castighi. Ad ogni crimine, la sua legge; ad ogni criminale la sua pena. Pena visibile, pena loquace, che dice tutto, che spiega, si giustifica, convince" (49). Foucault con la sua teoria ci spiega che il carcere si imporrà come pena unica in seguito al costituirsi, durante l'età classica, di alcuni grandi modelli di carcerazione punitiva, che "avrebbero spazzato via le meraviglie punitive immaginate dai riformatori e imposto la realtà severa della detenzione" (50). Ma affronteremo più avanti la questione Foucaultiana delle discipline e dell'universo carcerario. Tuttavia, come abbiamo già accennato, è ancora una volta la congiuntura economico-sociale a determinare un ulteriore evoluzione delle pratiche detentive. Le case di lavoro erano divenute, alla fine del '700, dei luoghi nei quali si affollavano gli elementi più eterogenei, con le nefaste conseguenze che si possono intuire; "la negligenza, l'intimidazione e il tormento dei detenuti divennero la regola giornaliera mentre il lavoro assumeva una funzione meramente afflittiva" (51), dato che, in seguito alla rivoluzione industriale, la disponibilità di manodopera continuava ad essere un problema, stavolta non per la sua scarsità, ma per la sua eccessiva sovrabbondanza. Ciò segnò la fine della politica demografica mercantilistica, e si affermarono le teorie di Malthus; "si riteneva che la popolazione andasse rapidamente crescendo, sino al punto in cui milioni di uomini in sovrannumero sarebbero stati spinti dalla fame sulla strada del crimine e di ogni altro tipo di vizio" (52), e che il tenore di vita dei poveri poteva essere alzato solo a spese degli altri settori della classe operaia, accusando le leggi sui poveri di non produrre altro che ulteriore miseria; tuttavia, anche se "tutto il sistema dell'assistenza pubblica decadde" (53), "neppure Malthus concluse mai che la gente in miseria poteva essere lasciata affamata com'era...e il pauperismo crescente delle masse fu accompagnata da un più benevolo trattamento dei poveri" (54) e dei detenuti, visto che in seguito ad una tale pressione economica non era più necessario disciplinare le classi inferiori per mezzo di pene selvagge. Si apri così a una lunga serie di tentativi di riforma carceraria, i cui risultati non furono tuttavia soddisfacenti. Durante la crisi industriale la criminalità raggiunse proporzioni estremamente preoccupanti, ed il timore di vedere crollare la nuova società borghese fu più forte di ogni intento umanitaristico; "le classi dominanti furono tentate di imboccare la strada della restaurazione di metodi premercantilistici di trattamento dei criminali e, mentre si diffuse la richiesta di metodi punitivi più severi, l'uso liberale del carcere in sostituzione delle forme punitive tradizionali venne severamente criticato" (55). Si ritenne che la pena sarebbe dovuta tornare "qualcosa che il malfattore poteva soffrire sin dentro al midollo delle sue ossa, qualcosa che lo torturasse e lo distruggesse ...: la mannaia, la frusta e la fame avrebbero dovuto essere reintrodotte al fine di sradicare finalmente i crimini dalla società" (56); l'idea della correzione del reo non trovò alcuno spazio. Tali posizioni furono elaborate ed esposte dai rappresentanti dell'Idealismo tedesco, che fornirono di fatto una base scientifica all'idea retribuzionistica, contro quelle utilitaristica che era stata difesa dai riformatori illuministi; "si ritornò a pensare che l'unico modo di trattare con un ladro fosse attraverso la sua pelle, e la frusta fu di nuovo una delle punizioni viste con maggior favore, perché non costava niente ed evitava il sovraffollamento delle carceri" (57). Kant ed Hegel si schierarono a favore del rispetto assoluto del principio di legalità e dell'esclusività del principio retributivo. "Una volta che il reato è stato commesso, la pena non ha alcun fine utilitaristico e va concepita come conseguenza automatica della commissione del reato" (58). Nella prima metà del XIX secolo la pena detentiva, da elemento marginale nel mondo penale, diviene la pena per eccellenza; il tempo è divenuto l'unità di misura di ogni aspetto dell'esistenza umana; ma proprio per questo le carceri esistenti non erano in grado di fronteggiare una tale estensione del ricorso alla pena detentiva, coadiuvata peraltro dal venir meno, in seguito ai rivolgimenti politico-economici, di altre forme di punizioni fino adesso assai diffuse, quali le galere, i bagni penali e la deportazione per i detenuti. Inoltre si assiste ad una sempre maggiore critica nei confronti delle condizioni carcerarie da parte delle classe borghese; si afferma in fatti che le condizioni all'interno degli istituti siano troppo buone rispetto alle condizioni delle masse povere all'esterno, e che quindi il principio della less elegibility sia venuto meno, e non si ottenga più quell'effetto deterrente ora così necessario per porre un freno alla criminalità dilagante. Si sostiene che "non è possibile che un carcerato possa godere di un tenore di vita pari a quello di un qualsiasi artigiano esterno. ... Accade così che nelle carceri i detenuti cominciano ad ammalarsi e anche a morire per l'inedia" (59). Infatti, dopo la decadenza delle case di correzione non era stata sostenuta e praticata nessuna ipotesi di trattamento dei detenuti. Il lavoro carcerario adesso non era più redditizio; le condizioni deplorevoli all'interno delle carceri non interessano più gli imprenditori; il lavoro assume finalità meramente afflittive. "È in questo clima che l'attenzione dei riformatori si rivolge alle esperienze americane" (60). Qui, a partire dalla fine del 1700, si erano affermati due modelli di penitenziario: nello stato quacchero della Pennsylvania si era dato vita a un regime di isolamento cellulare continuato, giorno e notte, noto come modello di Philadelphia, che era tipico della concezione calvinista basata su un'etica del lavoro tutta spirituale, e che nulla concedeva al lavoro produttivo; il sistema di Auburn, invece, si basava proprio sul lavoro produttivo, e prevedeva l'isolamento notturno e il lavoro diurno in comune, da compiere però in un rigoroso silenzio. Quest'ultimo sistema, dopo alterne fortune, prevalse in America, soprattutto per il grande fabbisogno di manodopera che era venuto a prodursi in quella congiuntura economica e politica (61), ma anche per il fatto che la permanenza all'interno di strutture che seguivano i principi di Philadelphia causava enormi danni psico-fisici agli internati, che spesso perdevano la ragione per colpa della totale solitudine e della totale mancanza di stimoli esterni, protratte per periodi anche molto lunghi. Comunque "entrambe le posizioni partivano dal presupposto della necessità di evitare la corruzione del contatto tra le varie categorie di detenuti, corruzione che si diceva essere alla base del fenomeno indicato allora come il più preoccupante della questione penale, l'aumento delle recidive" (62). In Europa, le condizioni economico sociali erano assai diverse rispetto agli Stati uniti, quindi la scelta tra i due modelli si basò su motivazioni diverse da quelle addotte dai nordamericani; comunque ormai la forma detentiva di pena era divenuta 'la' punizione per eccellenza. Quello che occorreva alla società europea, con il suo eccesso di manodopera, era "una pena che riuscisse a terrorizzare anche le masse che morivano di fame" (63). Ciò favorì l'introduzione della segregazione cellulare, poiché "il senso di completa dipendenza e di bisogno determinato dall'isolamento cellulare veniva infatti considerato il tormento più insopportabile che si potesse infliggere al condannato" (64). Era da considerarsi impossibile una utilizzazione economica vantaggiosa della forza lavoro detenuta. Si glorificavano i benefici effetti dell'isolamento continuo, che avrebbe generato riflessione, pentimento ergo rigenerazione morale dello spirito del detenuto. Inoltre si sarebbe evitato il contatto tra detenuti e si sarebbe mantenuto un egregio livello di disciplina. L'altro lato della medaglia era costituito dal problema degli alti costi che la segregazione cellulare avrebbe comportato. Ma l'isolamento prolungato, come ebbero a rilevare Beaumont e Tocqueville a seguito delle loro visite in vari penitenziari, "è superiore alle possibilità di sopportazione umana; distrugge, infatti, il criminale senza alcuna pietà" (65). Il declino della segregazione cellulare era cominciato contemporaneamente al suo affermarsi. Intanto, nella seconda metà dell'800, nuovi aspetti sociali si stavano delineando; la condizione economica delle classi subalterne in Europa migliorò considerevolmente, principalmente in seguito ad un aumento dei redditi più bassi e ad una crescita demografica più contenuta. I riflessi di questo mutamento si fecero ampiamente sentire a livello di trattamento della criminalità; il numero dei reati e delle condanne diminuì un po' ovunque. "Per questa ragione l'internamento nelle carceri di un numero così alto di persone apparve sempre più insensato e sembrò quindi corretto adoperarsi per limitare questo fenomeno" (66). Ciò venne coadiuvato dalla costituzione in vari paesi europei di corpi di polizia moderna, che assicuravano un controllo capillare delle masse considerate potenzialmente delinquenti, e permettevano quindi un controllo preventivo della criminalità, specialmente nel campo dei delitti politici. "Nella mentalità popolare la criminalità ottocentesca veniva ora associata completamente a una popolazione criminale specifica, con usanze, abiti, comportamenti e perfino sistemazione geografica distinta" (67). Era convinzione diffusa che esistesse una vera e propria classe criminale separata e professionale, diversa dalla criminalità della classe operaia, che adesso veniva inquadrata "come un sottoprodotto di tensioni contingenti, un atto disperato di persone che non si abbandonavano mai a tali gesti se non in momenti di crisi acuta" (68). In Italia la Scuola classica del diritto penale perse terreno a favore di quella Positiva. La Scuola classica si fondava sul "concetto della pena intesa quale retribuzione della colpa. Non il criminale, dunque, quanto il crimine andava analizzato, catalogato e codificato in modo rigoroso e permanente. La condanna doveva servire, infatti, oltre che a scoraggiare il delitto, anche a individualizzare drasticamente la colpa" (69). Si rifiutava ogni teoria socio-politica della pena; il diritto era infallibile grazie alla "imparzialità garantita dalla minuziosa casistica del codice penale" (70). A questa scuola si oppone quella positiva, "tutta tesa a individuare e discutere sia la figura del delinquente che i fattori antropologici, sociali e naturali della devianza criminale. Questa scuola, che si arroga la paternità della 'sociologia criminale', mira, di fatto, a differenziare la pena e graduare il trattamento in base all'osservazione specifica ed empirica dei singoli criminali" (71) Tale scuola si affermò in conseguenza delle nuove acquisizioni delle scienze sperimentali; il determinismo causale aveva dimostrato che l'uomo era "in grado di condizionare lo sviluppo umano, come quello naturale, e che quindi anche il delitto potesse essere combattuto attraverso una adeguata politica sociale" (72). Per questi riformatori la scienza del delitto divenne essenzialmente scienza della società. Il crimine deve considerarsi un fenomeno sociale; la pena diviene quindi un mezzo per incidere sul futuro del criminale. Il crimine, come ogni altra malattia e patologia, diviene pertanto curabile. La pena perde il suo carattere punitivo, assume una funzione pedagogico-normativa, nonché un ruolo terapeutico generale. La rieducazione del condannato è intesa come un buon investimento. Nasce in questo periodo il dibattito intorno alle sanzioni alternative alla pena detentiva, da applicare alla "popolazione detenuta che non si riteneva di dover sottoporre ad un processo di risocializzazione" (73). Il concetto di pericolosità sociale, portato alle estreme conseguenze, implica però che tutti i non curabili, per le ragioni più diverse, siano isolati e segregati rispetto alla comunità civile. Si afferma cioè la difesa della società sana ed evoluta nei confronti di individui identificati come residui atavici. Affronteremo tale controversa questione nel capitolo dedicato al Positivismo. Con l'800 comunque, lo studio della criminalità si è intrecciato con altre scienze, quali la sociologia, la psicologia e la psichiatria, aprendo la strada alla visione contemporanea del crimine e delle sue componenti; ed è qui che il nostro percorso si conclude. Abbiamo tracciato, a grandi linee, le principali fasi dello sviluppo che l'istituzione carceraria ha attraversato nel corso dei secoli; ma prima di addentrarci nella nostra analisi e approfondire le esperienze carcerarie all'interno di ogni singola epoca, al fine di comprendere il percorso attraverso il quale la pena privativa della libertà sia potuta divenire, a partire dalla fine del XVIIIº secolo, la pena per eccellenza, mentre in passato aveva rivestito solo un ruolo marginale nell'ambito dell'universo penale, sarà opportuno abbandonare per un attimo la sola ricostruzione storica ed addentrarci nel concetto di pena, nei suoi elementi costitutivi e nelle finalità ideologiche e pratiche che essa persegue.

2: La filosofia della pena

L'uomo è un animale sociale; la sua sopravvivenza dipende dalla capacità di costituirsi in gruppi organizzati, i quali siano in grado di contrastare nel miglior modo possibile le avversità che possono presentarsi durante la lotta per la continuazione della specie. Tali gruppi vengono definiti società. Ogni società, per continuare ad esistere ed a mantenere intatta la sua coesione interna, pone delle regole, che devono essere rispettate dai suoi componenti. Il fatto che tali regole, leggi e norme, siano o meno giuste, efficaci ed efficienti è un problema che esula dalla nostra analisi; al momento ci interessa solo occuparci delle modalità di funzionamento di tali precetti, relativamente al loro rapporto con le sanzioni, che da essi derivano. "Ogni norma giuridica...è un imperativo di condotta imposto agli individui da un potere ad essi superiore. Come tale, essa suole identificarsi col diritto in senso obbiettivo (norma agendi). ... L'imperativo si può porre positivamente, come comando, o negativamente, come divieto, avvertendosi che tale distinzione attiene al suo contenuto e non alla sua forma. ... In entrambi i casi, però, le norme sono 'imperative' ... Ma l'imperativo non è - e non può essere - soltanto un comando: altrimenti non avrebbe senso. Tale senso acquista solo se vuole essere obbedito, se, cioè, prevede l'ipotesi della disobbedienza, e vi riconnette determinate conseguenze. In ciò consiste appunto la seconda parte della norma, la sanzione" (74). Le sanzioni sono le conseguenze che "si riconnettono alla inosservanza delle relative norme; così la disistima e la censura pubblica, il rimorso della propria coscienza, la dannazione eterna: ogni ordine suppone una sanzione in mancanza della quale l'ordine si sconvolge e si scioglie; questa sanzione deve essere conforme alla natura dell'ordine stesso" (75). Le sanzioni sono quindi le conseguenze giuridiche di quel tipo di illecito, o violazione della legge, che è il reato o delitto. "La sanzione pone a contatto l'imperativo contenuto nella norma (generale ed astratto) con il comportamento dell'individuo (particolare e concreto), producendo un effetto che ne è la sintesi" (76). L'imperativo della norma agisce anche come minaccia; difatti i membri della comunità, potendo prevedere il male che deriverebbe loro dalla sanzione, evitano di porre in atto un comportamento contrario alla norma, conformandosi invece ad essa. Perché la norma abbia un valore pratico e non sia solo una affermazione teorica che chiunque può disattendere, è necessario che essa "si possa attuare ad ogni costo, il che equivale ad affermare che la sanzione possa applicarsi anche con la forza; esistenza della sanzione vuol dire quindi coercibilità della norma (o, più esattamente, del precetto). Un imperativo sfornito di coazione giuridica non è più norma giuridica" (77). La sanzione giuridica può assumere le forme più svariate; generalmente si individuano tre categorie fondamentali. La sanzione preventiva è quella che interviene come impedimento dell'atto antigiuridico, cioè prima che esso si compia. "L'impedimento come forma di coazione interviene allorché il soggetto ha già posto in atto una serie di atti idonei ed univoci, diretti a violare la legge, così che la violazione non è avvenuta unicamente grazie all'intervento della predetta coazione" (78). Tale forma di sanzione è perciò successiva ad alcuni atti che costituiscono un tentativo di violazione, ed è altresì antitetica alla violazione stessa. La sanzione diretta costringe materialmente il violatore della norma all'obbedienza; si presenta cioè come "costrizione a fare ciò che si doveva e non fu fatto, o a ricondurre nello stato quo ante una situazione che la legge proibiva di modificare" (79). La sanzione indiretta invece attua la norma attraverso un surrogato, come ad esempio il risarcimento del danno o altra sanzione analoga. In linea di massima essa ha funzione di compensazione o reintegrazione, fondantesi sull'idea di equivalente economico o sociale. Le forme di sanzione sinora esaminate mirano tutte all'attuazione del precetto, e possono quindi essere definite esecutive. Si differenziano da queste le sanzioni punitive che costituiscono "una diminuzione di beni giuridici della più diversa natura (dalla privazione della libertà personale al pagamento di una multa), ma non costituiscono mai l'attuazione effettiva del precetto, ma, se mai, una riaffermazione ideale o simbolica di esso" (80), costringendo il reo a sottomettersi davanti all'autorità della legge. Le sanzioni punitive si distinguono a loro volta in amministrative o penali: le prime "mirano ad ordinare le funzioni esercitate dagli enti pubblici per il conseguimento dei loro fini" (81); le seconde, quelle che ci interessano, sono di difficile individuazione all'interno delle sanzioni punitive, in quanto una definizione degna di tal nome deve essere ontologica, deve cioè arrestarsi ai caratteri costitutivi di ciò che viene definito, senza considerare alcuna indicazione riguardante le cause od i fini; e dal punto di vista ontologico una differenza tra i due termini non esiste. A livello di definizione, quindi, possiamo solo aggiungere che la pena è la più grave delle sanzioni punitive (82). Possiamo comunque individuare alcuni attributi essenziali della pena: "la qualità afflittiva definisce l'effetto di produzione di deficit nei confronti del punito; ... l'azione repressiva deve apparire intenzionale al fine di determinare una relazione di senso - come riprovazione e censura- tra questa e il soggetto passivo. La natura espressiva della pena coglie invece la dimensione simbolica della reazione punitiva volta ad esprimere la pretesa autorità di chi punisce; essa, infine, si sviluppa in un contesto situazionale come funzione volta alla conservazione di determinati rapporti di potere" (83). "Nel linguaggio giuridico i termini 'sanzione' e 'pena' sono strettamente correlati. La pena ... può essere intesa come una specie del genere delle sanzioni, ovvero di quegli strumenti mediante i quali l'apparato coercitivo dello Stato reagisce alle violazioni delle norme giuridiche" (84); è la sanzione che viene stabilita per quel tipo di illecito o di violazione della norma giuridica che è il reato. "Da un punto di vista morale e sociale la pena è la più rilevante tra le sanzioni giuridiche; essa è l'istituto che con la maggiore energia cerca di garantire la convivenza civile e la vita dello stato, e nello stesso tempo tocca più da vicino i problemi della libertà, sicurezza e dignità dei cittadini" (85). La pena è una istituzione in stretto collegamento con il cuore della società. Essa costituisce "una manifestazione tangibile della 'coscienza collettiva', un fenomeno che rivela e allo stesso tempo rigenera i valori sociali esistenti". (86) La sua funzione va altre al mero controllo della criminalità; la pena è "diretta espressione dell'ordine morale della società, un esempio del modo in cui tale ordine si autorappresenta e si consolida" (87). L'esistenza di forti legami di solidarietà morale è il necessario presupposto della pena e, reciprocamente, quest'ultima consente la riaffermazione e il rafforzamento dei legami sociali. Il reato è "quella condotta che viola gravemente la coscienza collettiva della società, vale a dire quel codice morale fondamentale che il consorzio sociale considera sacro. Ed è proprio perché detta condotta integra una violazione delle norme sacre" (88) che si rende necessaria una reazione punitiva, visto che i reati altro non sono che attacchi ai valori condivisi dalla coscienza collettiva. Quindi, "il diritto penale si fonda, almeno in parte, su una condivisa reazione emotiva, determinata dalla dissacrazione di valori considerati sacri a opera del reo" (89). La funzione della pena è quindi riconducibile, in ultima analisi, al mantenimento della coesione sociale; la sua natura "è da ricercare nella reazione emotiva che esplode quando si verifica una violazione dei sentimenti sociali universali" (90). Se da un lato è innegabile la storicità della pena, dall'altro la pena, come processo sociale, resta immutabile; "sono l'organizzazione sociale e la coscienza collettiva a cambiare nel corso del tempo alterando, di conseguenza, i sentimenti e le passioni che si accompagnano alla commissione di un reato. ... La punizione quindi continua a essere tanto un'espressione dei sentimenti collettivi quanto un mezzo per rinforzarli" (91). La pena è difatti il segno che le "convenzioni poste a fondamento della vita sociale conservano la loro forza e la loro vitalità" (92). Inoltre, è determinata in larga parte da fattori culturali, ma tale relazione causale è reversibile, nel senso che la penalità concorre a sua volta a produrre la cultura. La pena è "un'istituzione che contribuisce a edificare e a supportare il mondo sociale, producendo categorie e classificazioni autoritative, in genere condivise dai consociati, e grazie alle quali essi comprendono se stessi e gli altri. ... Le pratiche penali creano un contesto culturale che fornisce dichiarazioni e prassi che fungono da griglia interpretativa e valutativa per la condotta di ogni cittadino, e danno senso morale al vissuto individuale" (93). Quindi la penalità regola, direttamente, la condotta, e indirettamente "il senso, il pensiero e l'atteggiamento di tutti noi" (94). La punizione è una dimostrazione pratica e concreta delle verità ufficiali, nonché dei rapporti di potere che sottendono ed hanno generato le suddette verità. "La severità delle pene, i mezzi con i quali infliggere il dolore e la sofferenza ammessi nelle istituzioni penali, non esistono solo in virtù di considerazioni utilitaristiche, ma anche in virtù delle convenzioni sociali e delle sensibilità condivise dai cittadini" (95). Una pena che riteniamo civile è in gran parte determinata culturalmente, allo stesso modo di quella che riteniamo disumana. "L'impiego della violenza (o l'inflizione della sofferenza e del dolore che la pena comporta) è condizionato dai livelli di violenza e di sofferenza ritenuti tollerabili dalla sensibilità e dalla cultura dominante" (96). Vedremo volta per volta, nel corso della nostra analisi, quali siano stati i substrati che hanno accompagnato l'evolversi della concezione della penalità nel corso dei secoli, e quali conseguenze a livello sociale e culturale ne siano derivate. Ma prima di fare questo, è utile riassumere le diverse teorie che sono state elaborate nel tempo in relazione al fondamento, allo scopo e alla funzione della pena; queste sono innanzitutto divisibili in due grandi gruppi, "che si possono designare con riferimento a una formulazione risalente a Seneca" (97). Da un lato vi sono quelle dottrine che giustificano la pena in base al concetto di quia peccatum est, e guardano esclusivamente al passato, considerando solo il male commesso; dall'altro vi sono le dottrine che spiegano la pena in base al ne peccetur, guardando al futuro, e focalizzandosi sul bene, sullo scopo e sul miglioramento che può derivare dalla pena. "Tale distinzione è stata sviluppata in due classificazioni, assai simili ma non identiche tra loro, elaborate nel mondo culturale germanico ed in quello anglosassone" (98). La dottrina tedesca distingue tra teoria assoluta, che concepisce la pena come un fine in sé, e prescinde da qualunque scopo esterno essa possa perseguire, e teorie relative, che giustificano la pena in base agli scopi che ad essa è possibile attribuire. La dottrina anglosassone distingue invece tra teoria retributiva, che giustifica la pena in quanto contrappasso rispetto ad un male commesso, e teorie utilitaristiche, che attribuiscono alla pena uno scopo di utilità sociale. "In linea generale le due classificazioni corrispondono tra loro; non però in modo completo. Infatti, se teoria assoluta e teoria retributiva coincidono, non sempre fra le teorie relative della classificazione tedesca e le teorie utilitaristiche della classificazione inglese ... vi è piena identità; nel senso che, se è vero che le concezione della pena qualificabili come utilitaristiche (99) sono sempre anche relative, ... non è però vero l'inverso; non ogni teoria relativa è necessariamente utilitaristica" (100). Avendo puntualizzato tale discrepanza tra le due dottrine, possiamo proseguire affermando che il primo gruppo è formato essenzialmente da una solo dottrina, la teoria assoluta o retributiva della pena, anche se essa si può dividere in alcuni sottotipi; e il secondo gruppo è formato da varie dottrine, che si possono indicare nella teoria della prevenzione, dell'emenda e della difesa sociale. Analizziamo adesso le singole teorie. La teoria assoluta o retributiva si può compendiare nell'assunto che 'il bene va ricompensato con il bene, il male con il male'. Essa guarda unicamente al male passato, perché concepisce la pena come un fine in se stessa, come rispondente ad una esigenza di giustizia senza scopi positivi o sociali. La funzione della pena consiste nella retribuzione del male penale per il male costituito dal delitto; il principio fondamentale ispiratore è l'idea che è giusto rendere male per male. La sua giustificazione "non sta in uno scopo che essa dovrebbe raggiungere, ma semplicemente nella realizzazione dell'idea della giustizia" (101). Secondo i diversi indirizzi dottrinali si possono distinguere tre aspetti della teoria della retribuzione. La teoria della retribuzione divina sostiene che chi commette un reato infrange la legge divina, quindi incorre nel castigo del dio che ha offeso. La giustizia umana, quando retribuisce il colpevole, attua la giustizia divina. La teoria della retribuzione morale afferma che è una esigenza profonda della coscienza umana che il bene sia ricompensato con il bene ed il male con il male. Punire il reo è quindi un imperativo che scaturisce dalla coscienza umana. "Poiché il delitto costituisce una violazione dell'ordine etico, la coscienza morale ne esige la punizione" (102). La teoria della retribuzione giuridica, infine, concepisce la retribuzione come negazione di una negazione, e perciò come la riaffermazione del diritto dello Stato. Con la retribuzione, cioè, lo Stato riafferma il proprio ordinamento giuridico. Il delitto "è ribellione del singolo alla volontà della legge e, come tale, esige una riparazione che valga a riaffermare l'autorità dello Stato. Questa riparazione è la pena" (103). La teoria assoluta ha ricevuto molte persuasive critiche; a livello generale, "queste si basano soprattutto sull'individuazione, alla radice di essa, dell'idea della vendetta, nonché sul carattere chiuso, esclusivamente rivolto al passato, senza aperture verso un valore positivo futuro, di tale concezione" (104). Si obietta inoltre che un sistema penale basato su tale principio assumerebbe inevitabilmente un carattere passionale e irrazionale, disattendendo quindi ai propri compiti; e che la mera sofferenza fine a se stessa non produce alcun beneficio né per il reo, né per la vittima, né per la società. Scendendo nei particolari delle sfumature di questa dottrina, possiamo individuare altrettante critiche. Alla concezione divina si obietta che non sempre il reato offende la legge divina, e che la delega della giustizia divina alla giustizia umana è solo supposta e mai dimostrata; la giustizia umana, relativa e imperfetta, non può arrogarsi il compito di sostituire quella divina, assoluta e perfetta, e per sua natura congiunta alla misericordia ed all'amore. La formulazione morale si scontra con il "dato di fatto che un imperativo della coscienza morale a che il reo sia punito non sorge in ordine a tutte le astratte configurazioni di reato. E anche quando sorge in astratto, può darsi che la realizzazione concreta del reato si svolga in modo tale da non far apparire il fatto particolare come meritevole di pena" (105). Inoltre, qualora la stessa esigenza morale di punizione sorga, è talvolta paralizzata da altri sentimenti quali la pietà, l'amore, o da considerazioni relative all'effetto che l'applicazione concreta della pena avrebbe sul colpevole o sulla società. La formula giuridica, a ben guardare, rinnega il concetto stesso di retribuzione. "Infatti, essa non afferma se non il principio, piuttosto banale ... che ogni ordinamento normativo, per essere effettivo e non meramente pensato, deve applicare le sanzioni che stabilisce. Il resto è mero orpello filosofico" (106). L'idea di retribuzione contiene tuttavia anche degli aspetti che presentano un alto valore dal punto di vista morale e umanitario. "In primo luogo, la retribuzione mette in evidenza un carattere della pena il quale, se non ne può costituire l'unico valore, è però imprescindibile" (107). L'aspetto afflitivo della pena, almeno in una certa misura, non è eliminabile; un minimo di sofferenza, o meglio, il carattere di privazione di un bene, non è infatti cosa che si può eliminare del tutto dalla sanzione penale. "Discende da un principio di giustizia che colui il quale ha arrecato ad altri un male, che ha violato un diritto altrui, non possa semplicemente continuare a godere indisturbato i benefici del vivere in società" (108). Il secondo aspetto positivo riguarda la concezione retributiva della proporzione tra i delitti e le pene; se l'idea retributiva rigorosamente intesa comporta, riguardo alla misura della pena, l'applicazione del principio del taglione, ovvero della perfetta equivalenza tra il tipo di delitto e il tipo di pena, tuttavia si può intendere il concetto di proporzione non nel senso in cui il tipo e la misura della pena devono corrispondere esattamente alla natura del delitto, ma nel senso della "corrispondenza di una scala di severità di un sistema di pene alla scala di gravità di una serie di delitti" (109). L'ultimo aspetto rilevante dell'idea retributiva è che essa rappresenta un limite negativo all'inflizione concreta della pena; infatti si considera meritevole di punizione solamente chi ha realmente e volontariamente commesso una violazione della legge. Ciò costituisce un limite negativo al potere punitivo dello Stato, e assicura una precisa garanzia di libertà individuale. "L'ancoramento della pena alla colpa (intesa come commissione volontaria dell'atto delittuoso) è una garanzia essenziale di certezza giuridica offerta dallo Stato di diritto" (110). Occupiamoci adesso delle teorie utilitaristiche. La teoria della prevenzione attribuisce alla pena la funzione, come dice la parola stessa, di prevenire la commissione dei delitti. È necessario però effettuare una precisazione: bisogna intendere il termine 'prevenzione' come sinonimo di 'intimidazione'. Ciò "al fine di distinguere concettualmente la prevenzione dei delitti compiuta mediante il timore della pena (di qui l'equivalenza con l'intimidazione), della quale qui si tratta, da un altro tipo di prevenzione, che ha una posizione centrale nella criminologia" (111): la prevenzione indiretta, compiuta con mezzi diversi dalla pena e sostitutivi di essa, i sostitutivi penali della Scuola positiva (di cui ci occuperemo in seguito). Si possono distinguere tre tipi di teorie della prevenzione. La teoria della prevenzione o intimidazione generale attuata mediante l'inflizione della pena sostiene che "l'esecuzione della pena nei confronti del colpevole serve, attraverso l'impressione di timore che essa suscita, a distogliere gli altri membri della società dalla commissione dei delitti" (112). In pratica, la pena inflitta al delinquente serve come esempio per tutti i consociati. Tale teoria, detta anche della deterrenza, sostiene che "la sanzione penale, in quanto ha un contenuto afflittivo, agisce psicologicamente come controspinta rispetto al desiderio di procurarsi un piacere che dà origine alla spinta criminosa. In altri termini, la paura della sanzione penale induce i consociati ad astenersi dal commettere reati" (113). La teoria della deterrenza applica al comportamento criminale il calcolo economico delle utilità. Suppone, cioè, che il delinquente valuti il differenziale esistente tra il beneficio derivante dal reato, e il danno che è proporzionale ai livelli previsti di severità, certezza e prontezza di applicazione della sanzione stessa. I critici di tale teoria (114) obiettano che essa conduca a "concepire e trattare il colpevole (che è sempre un essere umano) come un mezzo per un fine che è a lui estraneo ed è proprio della società" (115). Si ha così la prevalenza degli interessi collettivi sui diritti individuali. "Tale conseguenza negativa... viene confermata ad abundantiam nel caso di quella applicazione estrema della dottrina ora in esame che va sotto il nome di 'pena esemplare'" (116) Con essa si intende una pena particolarmente severa, sproporzionata rispetto alla colpa del delinquente o al fatto da lui commesso, comminata per dare un esempio agli altri in occasione di delitti assai diffusi o in occasione di situazioni di grave allarme sociale. Un'altra critica sostiene che l'esclusiva considerazione della pena in termini di utilità "può giustificare al limite la punizione dell'innocente, se i vantaggi sociali (diminuzione della criminalità, sicurezza dei cittadini, ecc.) in tal modo ottenuti sono maggiori del male e delle sofferenze arrecate alla persona incolpevole condannata" (117). La teoria della deterrenza è ulteriormente sminuita dal fatto che molti delitti sono il frutto non di un calcolo razionale sull'utilità, ma di un impulso emotivo violento e irrazionale. Altre volte, la commissione del crimine è dettata da motivi ideali, che spingono ad affrontare qualsiasi sacrificio. Il secondo tipo di teoria della prevenzione e quella della prevenzione speciale. "Questa teoria attribuisce alla inflizione della pena uno scopo di intimidazione nei confronti del singolo reo, e quindi una funzione di prevenzione di futuri delitti commessi dallo stesso colpevole punito" (118). Infatti un delitto commesso contiene in se la minaccia della commissione di futuri delitti da parte del reo; è perciò lecito agire con la pena su quest'ultimo in modo da determinarlo a non eseguire la minaccia, facendo prevalere in lui il senso di disgusto proveniente dalla pena, rispetto alla soddisfazione derivante dal delitto. "La pena è dunque il male inflitto allo scopo di intimidire il reo o di rendere impossibili i delitti probabili" (119). Il difetto di questa teoria è che essa, se applicata coerentemente, rende inutile il codice penale. Infatti, per garantire la sicurezza di fronte al singolo delinquente, non sono necessarie leggi precise, poiché i mezzi adatti a questo scopo vengono valutati assai meglio in concreto, sulla base delle specifiche circostanze di fatto. Tale sistema renderebbe "addirittura impossibili le leggi penali: nessun legislatore, infatti, può prevedere tutti i possibili casi da regolare, e i fatti previsti dalla legge assumono, attraverso le circostanze che li accompagnano, un aspetto speciale, diverso dalla caratterizzazione generale e astratta data di loro dalla legge" (120). Ne deriva quindi un grave pericolo per la certezza del diritto; infatti la pena dovrebbe essere adattata, al singolo delinquente, dal giudice, con un eccessivo ampliamento dei suoi poteri discrezionali; la teoria della prevenzione speciale presenta perciò un oggettivo pericolo di arbitrio. D'altra parte tale teoria ha avuto "il merito storico di attirare l'attenzione sul momento dell'esecuzione della pena" (121); si tratta cioè di commisurare il male penale al danno provocato dal reato, e di non aumentare la pena rispetto a quanto è sufficiente per far rientrare il reo nell'ambito dal quale era uscito. Si pone l'accento sulla necessità di individualizzare la pena, concezione che verrà poi ripresa dalle correnti positivistiche e sociologiche della seconda metà dell'800. "La sanzione penale dovrà essere proporzionata alle esigenze della personalità del soggetto, e non alla gravità del reato" (122). Non potrà essere determinata a priori ma si estenderà quanto lo richiede la risocializzazione del soggetto. Potrà essere ridotta o addirittura esclusa, se le esigenze di risocializzazione lo richiedono. Si dovranno quindi ignorare il delitto commesso e il grado di colpevolezza del suo autore, concentrandosi invece sulle sue particolarità individuali. La pena assume ruolo di mezzo per aggiungere uno scopo, è individualizzata e rivolta verso tre mete: risocializzazione dei delinquenti che ne abbiano bisogno e ne siano suscettibili; intimidazione dei delinquenti che non hanno bisogno di essere risocializzati; neutralizzazione di quei delinquenti che non sono risocializzabili. Tale concezione però si allontana dalla prevenzione speciale in senso stretto, ponendosi in una posizione più affine alla teoria dell'emenda, che affronteremo tra breve. Comunque anche la visione positivistica è stata sottoposta ad una rilevante critica; infatti, secondo tale teoria, nei confronti di quei delinquenti verso i quali l'intimidazione non ha effetto, è lecito infliggere pene che li mettano in condizione di non nuocere. In questo modo si legittimano pene come l'ergastolo e la morte. Ciò è inoltre in contrasto con l'esigenza primaria della prevenzione speciale, cioè il recupero del reo. Il terzo tipo di dottrina preventiva è la teoria della intimidazione o prevenzione generale attuata mediante la minaccia contenuta nella legge penale. "Tale concezione non deve essere assolutamente confusa con quella esaminata per prima, che attribuisce la stessa funzione alla esecuzione della pena" (123). Si ha così una chiara distinzione concettuale tra due momenti essenziali dell'iter punitivo: la minaccia della pena formulata dalla legge e il momento della esecuzione della stessa nel caso concreto. "La rappresentazione del male penale minacciato dalla legge provoca nell'animo dei consociati una 'coazione psicologica'...la quale li distoglie dal commettere il delitto che a quel male è connesso; la funzione penale di prevenzione opera quindi prima dell'eventuale commissione di delitti, e, attraverso la previsione legislativa, garantisce la tutela dei diritti individuali e la giustizia del procedimento punitivo, poiché tutti, in grazia della previsione legislativa, conoscono in precedenza il tipo e la misura della pena che dovrà essere inflitta in caso di commissione di un delitto" (124). Seguendo questa concezione si evita il pericolo della pena esemplare, connesso invece all'altro tipo di prevenzione generale, perché l'inflizione della pena ha semplicemente lo scopo "di rendere seria ed effettiva la minaccia legislativa" (125). Anche questa impostazione non è esente da critiche; la prima sottolinea l'inefficacia preventiva della minaccia legislativa, dimostrata dal fatto che i delitti avvengono egualmente. "Al che si può rispondere che tale obiezione non tiene conto del fatto che noi ignoriamo quante persone, che non hanno commesso nessun delitto, sono state realmente determinate, nel loro comportamento, dalla efficacia preventiva della legge penale" (126). La seconda critica consiste nella constatazione che la teoria esaminata, in quanto è volta ad influire con la pena sulle inclinazioni al delitto, "è portata necessariamente a prevedere sanzioni penali di misura particolarmente grave anche per delitti di lieve entità, se nei confronti di questi gli uomini dimostrano una inclinazione assai forte" (127). Se questo può essere un aspetto negativo, tuttavia ciò è compensato dalla essenziale e necessaria connessione di questa teoria con i valori della legalità e della certezza del diritto. "La coazione psicologica può operare sull'animo dei cittadini soltanto se questi conoscono realmente in anticipo quali azioni la legge qualifica come reati, e quali pene stabilisce per la loro commissione" (128). Un'altra delle teorie utilitaristiche è individuabile nella teoria dell'emenda. Mentre le teorie prese in considerazione sinora guardano alla sanzione penale principalmente per il suo carattere afflittivo, "come un male, il quale serve o a riparare un altro male compiuto (retribuzione) oppure a intimidire, a distogliere dalla commissione dei delitti (prevenzione)" (129), viceversa la teoria dell'emenda "tende a mettere in ombra l'aspetto afflittivo della sanzione penale, e a metterne in rilievo il carattere correttivo, educativo" (130). Si vuole cioè rieducare il condannato, volgendo lo sguardo esclusivamente al suo futuro e non più al suo passato. La pena deve produrre, sul piano sociale e nei confronti del reo, un vero e proprio effetto morale; essa non deve essere necessariamente un male. "Lo scopo del diritto consiste nella correzione, mediante tutti i mezzi giuridici adatti, della volontà dimostratasi immorale con i fatti. Colui che ha una volontà che si è dimostrata diretta all'illecito è in questo senso un immaturo o un minore e perciò bisognoso di rieducazione, finché non vengono eliminati i motivi interiori del suo comportamento ingiusto" (131). Il reo deve subire dei limiti imposti dalla legge alla sua indipendenza e libertà esterna, poiché se ne è dimostrato immeritevole abusandone a danno dei suoi simili; lo Stato dovrà perciò agire verso il colpevole finché non si sia eclissato anche il minimo dubbio che ne sussista ancora il bisogno. "L'emenda ... deve ottenersi non già in via subordinata e insieme alla pena, ma per mezzo della pena, e nella stessa misura in cui viene ottenuto questo scopo, si raggiungerà anche la sicurezza, correzione, intimidazione, riparazione, riconciliazione del colpevole con sé e colla società" (132). In questo senso il fine della pena non potrà essere che un fine educativo: "punire significa instaurare nella coscienza del reo un livello superiore, renderlo consapevole del suo errore, fargli riconoscere la superiorità del diritto da lui violato. Punire significa redimere" (133). Dobbiamo vedere nella deficienza del delinquente una deficienza di tutta la società; il che implica che il problema del delitto non può risolversi con una eliminazione o repressione estrinseca del reo. Si vuole convertire la pena in un bene, per farne uno strumento di umana rigenerazione; di conseguenza si escludono quei tipi di pena che, come la morte o l'ergastolo, portano con sé o l'eliminazione fisica del reo, o la perdita di ogni speranza da parte sua. La durata della pena correttiva è determinata dall'effettivo raggiungimento dell'opera di rieducazione del colpevole da parte di essa. "La pena è quella che la società, l'uomo infligge a se stesso per diventare più uomo, è ammenda necessaria alla sua redenzione, è opera di essenziale autoeducazione. Quando il giudice giudica e punisce, non si volge propriamente all'altro, ma a se stesso, e giudica e punisce se stesso in quanto umanità. Perché possa parlarsi veramente di pena, il giudice non deve essere estraneo al delinquente, né questo a quello: è l'uomo che in essi pecca e si redime" (134). In quanto il miglioramento morale del soggetto ha per effetto una sua minore propensione a compiere reati, la dottrina in questione sbocca, dove la correzione morale sia vista come un mezzo e non come un fine, nella teoria della prevenzione speciale in senso etico, come abbiamo affermato poco sopra parlando delle varie specificazioni della teoria della prevenzione. Molti studiosi hanno infatti rilevato una profonda correlazione tra la teoria dell'emenda e la teoria della prevenzione speciale; tuttavia una assimilazione può essere compiuta solamente se consideriamo l'emenda nella sua accezione oggettiva, non in quella soggettiva. "La prima infatti agisce meramente sul comportamento esteriore del colpevole, facendolo ritornare un buon cittadino; la seconda opera una conversione morale nel colpevole, agendo nella sua interiorità. La prevenzione speciale dunque ... può ammettere soltanto una correzione in senso giuridico e politico, non in senso morale. Viceversa, il significato più pregnante della teoria dell'emenda è proprio quello di rieducazione morale del reo" (135). Si delinea così una distinzione concettuale tra prevenzione speciale ed emenda. "La distinzione potrà non essere rilevante sul piano pratico, poiché il risultato che si vuole o si può raggiungere è lo stesso (la futura astensione del reo dalla commissione di delitti); essa è però importante sul piano teorico, nonché per quanto concerne l'atteggiamento da assumere verso il colpevole" (136). In sintesi, la prevenzione speciale non vuole penetrare nell'interiorità del colpevole; le basta che esso si attenga alle leggi, volente o nolente. Tre le critiche rivolte alla teoria dell'emenda. La prima consiste nel fatto che essa conduce necessariamente, a causa della connessione tra diritto e morale su cui si fonda, ad attribuire allo Stato un compito di valutazione del comportamento morale dell'individuo, un compito che implica una interferenza nell'ambito della coscienza" (137), con evidente pericolo per la libertà del cittadino. Si riconoscerebbe cioè all'uomo la potestà di condurre gli altri ad uniformarsi alla legge morale, anche con mezzi violenti e coattivi. In tal senso la teoria dell'emenda costituisce un regresso rispetto alla secolarizzazione (138) del diritto penale compiuta dall'Illuminismo. La seconda critica osserva che la pena come emenda incontra tre ostacoli, che sono il suo carattere di educazione degli adulti, di educazione coattiva e di educazione mediante la pena. "Se nell'educazione dei bambini può essere presente un elemento di coercizione (il castigo), difficilmente questo può essere presente nel caso degli adulti; e, d'altra parte, l'idea di educazione implica in modo primario l'uso della persuasione, il che è in contraddizione con l'uso della coazione o addirittura della pena" (139). La terza critica che si può rivolgere alla teoria dell'emenda riguarda il pericolo per la certezza del diritto che da essa deriva. Infatti, "poiché non è possibile sapere in precedenza in che momento l'opera di rieducazione del condannato sarà realmente compiuta, se l'azione punitiva deve continuare finché non raggiunga lo scopo della rieducazione, allora la durata della pena-emenda può essere illimitata, o perlomeno non determinabile in anticipo da parte della legge" (140). L'ultima teoria utilitaristica è quella della difesa sociale. Essa concepisce la pena come "trattamento terapeutico di quella malattia sociale che è la criminalità" (141). Tale teoria va mantenuta distinta da quella dell'emenda. Quest'ultima, infatti, rimane pur sempre fedele al concetto di pena, anche se essa, pur non perdendo del tutto il suo carattere afflittivo, cessa di essere un male. "Viceversa, attraverso l'idea della pena curativa o terapeutica, il concetto di sanzione penale subisce un'ulteriore, e più radicale, trasformazione; ad essa fa capo la tendenza a far scomparire, in prospettiva, il diritto penale, e a sostituirlo con un sistema di trattamento medico" (142). Mentre l'emenda è guidata dall'idea di una redenzione morale del colpevole, la difesa sociale considera il delinquente come un malato da curare, non da punire, e la delinquenza come una malattia da cui la società deve difendersi. Si supera cioè il concetto di pena e lo si sostituisce con il concetto di difesa della società, inteso come "la necessità di proteggere la società contro il fatto criminoso" (143). Se da un certo punto di vista la difesa sociale può essere considerata come il motivo ispiratore di tutte le concezioni relative della pena, nel senso della difesa degli individui che compongono il gruppo sociale e quindi del gruppo sociale stesso, dall'altro essa può essere presentata come una specifica concezione della pena, per la quale "il fondamento del diritto di punire trovasi nella necessità della difesa sociale, di garantire cioè la stabilità dei rapporti sociali contro la perturbazione criminale" (144). Tale visione è sviluppata nell'ambito della Scuola positiva italiana, che analizzeremo in seguito. Al momento possiamo sintetizzarne le caratteristiche salienti. Il delitto è concepito prima come un fatto sociale che come un ente giuridico; di conseguenza, "per porre riparo alla delinquenza, bisogna indagare le cause soprattutto sociali" (145), che sono le maggiormente modificabili dal legislatore, ed eliminarle od almeno attenuarle con una rete di provvedimenti, definiti sostitutivi penali, che sono al di fuori del codice penale e consistono in riforme pratiche "di ordine educativo, familiare, economico, amministrativo, politico ed anche giuridico" (146). È necessario prevenire il manifestarsi della criminalità prima di ricorrere all'attività punitiva. La teoria dei sostitutivi penali nasce dalla considerazione che "le pene hanno una potenza repulsiva del delitto assai limitata, per cui è naturale che il sociologo criminalista chieda altri e diversi mezzi di difesa sociale" (147). Le pene mancano quasi totalmente al loro scopo di difesa sociale; bisogna ricorrere ad altri provvedimenti che le sostituiscano nella soddisfazione della sociale necessità dell'ordine. "Nel campo criminale i sostitutivi penali debbono diventare i primi e i principali mezzi di quella preservazione sociale della criminalità, a cui le pene serviranno ancora, ma in via secondaria" (148). Lo scopo di evitare i delitti si otterrà, anziché con le pene, con questi provvedimenti, che dunque non sono meri cooperatori, ma veri e propri sostitutivi delle pene. "Le pene saranno l'ultimo e imprescindibile riparo, contro le inevitabili e sporadiche manifestazioni della attività criminosa" (149). La suola positiva sposta l'attenzione dal delitto al delinquente, alla sua personalità; in tal modo la misura di difesa sociale (150) si fonda essenzialmente sulla pericolosità del delinquente, e non sulla colpa, intesa come espressione del concetto di responsabilità morale, che viene rifiutato. Lo stato non ha alcun compito etico, religioso né filosofico; deve solo "organizzare giuridicamente la difesa sociale repressiva contro la delinquenza" (151). Le sanzioni debbono essere estranee a qualsiasi pretesa di infliggere un castigo proporzionato ad una colpa morale; nessun giudice è in grado di misurare la colpa morale di alcuno. La pena non deve proporzionarsi "soltanto alla gravità obbiettiva e giuridica del delitto, ma deve adattarsi anche e soprattutto alla personalità, più o meno pericolosa del delinquente" (152). Ciò impone la necessità di sostituire il sistema tradizionale di pene carcerarie a termine fisso con la segregazione a tempo relativamente od assolutamente indeterminato, cioè sino a quando il condannato non sia riadattato alla vita libera ed onesta; poiché il rilascio del criminale potrà avvenire solo quando la cura avrà ottenuto i risultati richiesti, il momento esatto di esso non può essere previsto in anticipo. Questa scarsa importanza attribuita al valore della certezza del diritto si connette a una tendenza propria della Scuola positiva, volta a restaurare, in polemica con la Scuola classica, i diritti dello stato rispetto ai diritti del cittadino. La colpa è sostituita dal concetto di pericolosità, la pena da quello di difesa o sicurezza sociale. Le critiche a tale impostazione sono numerose. Per prima cosa, desta legittimi dubbi il fatto che, quando l'individuo sia incorreggibile, la segregazione debba assumere carattere indeterminato e conseguentemente perpetuo. Si giunge a sacrificare l'individuo alla società, i diritti individuali alla collettività, coltivando un collettivismo penale nel quale gli individui sono facilmente trattati come puri mezzi per fini sociali, "dimenticando il valore irriducibile della persona umana" (153). Viene meno il rispetto "dei valori individuali e della vita umana" (154), considerato anche che la responsabilità scompare di fronte alla nozione di pericolosità del delinquente e, senza riserve, non il più responsabile, ma il più pericoloso è punito. "Una graduale sostituzione del sistema punitivo con un sistema curativo dei delinquenti, considerati come dei malati sociali, dei pazzi, degli anormali, ecc. porta insensibilmente a un aumento dei poteri di intervento dello Stato, e a una diminuzione dei limiti posti alla sua autorità a tutela dei diritti individuali" (155). Inoltre, il carattere afflittivo non scompare, anche se non si parla più di pena; "il trattamento medico è pur sempre frutto di una imposizione coercitiva unilaterale, nella quale viene violata la dignità dell'uomo colpevole" (156). Per finire, il principio della segregazione o della cura a tempo indeterminato porta fatalmente a minare il fondamentale principio della certezza del diritto. Per concludere questa disamina delle varie concezioni filosofiche della pena, rimane da analizzare il punto terminale "del processo ideale che conduce a un superamento del diritto penale, o alla sua abolizione, o alla sua sostituzione con altri mezzi di controllo e di difesa sociale" (157). È questa la cosiddetta teoria della devianza, sviluppatasi di recente in ambito sociologico. Il concetto di devianza "si riferisce a tutti i comportamenti che appunto deviano dai criteri o dai modelli di condotta stabiliti dalla società; in tale prospettiva, rientrano nella devianza, non soltanto la criminalità, ma anche le malattie mentali, l'uso della droga, la diversità sessuale" (158), ecc. Il termine devianza tende ad avvicinarsi, alla fine del suo cammino storico, alla nozione di diversità. Sorge così un primo problema, relativo al rapporto del concetto di devianza con le norme. "I comportamenti criminali sono quelli che violano i codici di ogni sistema sociale. Gli altri comportamenti devianti violano altre norme, tra cui quelle del costume" (159). Esistono vari tipi di definizione del concetto di devianza. Il primo definisce la "devianza come comportamento che diverge dalla media dei comportamenti standardizzati" (160). È cioè deviante ogni atto che si discosta da una normalità intesa come media dei comportamenti di una data società. Ma, si obietta, la frequenza non può essere presa come indice di conformità. Il secondo intende la devianza come "comportamento che viola le regole normative, le intenzioni o le attese dei sistemi sociali ed è quindi connotata negativamente dalla maggioranza dei membri di quei sistemi sociali" (161). Il terzo afferma, come correzione del secondo, che "ogni atto deviante importa la violazione di regole sociali che disciplinano il comportamento dei partecipanti in un sistema sociale. ... La caratteristica principale di un atto deviante è data dal fatto che esso non corrisponde al comportamento che la vittima è portata ad aspettarsi dagli altri in base alla propria posizione sociale" (162). La devianza si presenta cioè come contestazione o negazione del ruolo sociale. Infine, l'ultima impostazione "rifiuta di indicare l'essenza della devianza in un carattere intrinseco dell'atto deviante, ma mette l'accento sulla reazione da parte della società. ... La devianza non è una proprietà inerente a qualche particolare forma di comportamento; è una proprietà conferita a quel comportamento dalla gente che viene a contatto diretto o indiretto con esso. Il solo modo, dunque, in cui un osservatore può dire se o no un dato comportamento è deviante, è di imparare qualcosa sugli standard di comportamento della gente che reagisce ad esso" (163). A livello generale, possiamo notare un punto di contatto tra questa teoria e quella della difesa sociale; infatti il comportamento criminale o deviante è considerato sul piano puramente fattuale, mettendo in ombra il punto di vista normativo. Si giunge così a negare autonomia al punto di vista del diritto penale. "D'altra parte è propria di tale teoria la tendenza a vedere il carattere deviante dei comportamenti non nella loro natura intrinseca, ma nel fatto che essi sono sottoposti ad un processo di criminalizzazione, (164) cioè sono vietati dal potere, o nel fatto che non corrispondono alla normalità dei comportamenti prevalenti nella società" (165). Il gruppo dominante in una società, dunque, trasforma i comportamenti ad esso sgraditi in comportamenti devianti. Tale affermazione, però, non sembra costituire una nuova scoperta nell'ambito della storia delle idee; "è un dato storico, in un certo senso abbastanza scontato" (166). Inoltre, la teoria della devianza ha il difetto di mettere sullo stesso piano, mescolandoli in modo indifferenziato, fenomeni assai diversi tra loro. Essa sostituisce alla tipica triade penalistica liberale 'legge-reato-pena', quella 'conformismo-devianza-repressione'; "benché nelle intenzioni dei suoi proponenti sottintenda una critica verso il potere e sembri rivendicare la legittimità del dissenso e della diversità" (167), contiene un pericolo di segno opposto: viene meno la limpida distinzione liberale tra criminalità in senso stretto, espressa in atti di violenza che violano i diritti altrui, che deve essere punita, e l'ambito del dibattito delle idee, in cui qualunque dissenso di opinione deve essere lecito e libero. Queste, per sommi capi, le principali teorie sul ruolo della penalità; vedremo volta per volta come esse si collocano all'interno della ricostruzione storica degli eventi che hanno portato, direttamente o indirettamente, alla nascita del carcere moderno ed alla sua affermazione come pena universale.

3: La penalità nelle società primitive

La prima forma di pena comparsa nella società umana è la vendetta, da parte dell'individuo o del gruppo. Tale concetto va distinto da quello di difesa istintiva. Alcuni autori affermano che "il bisogno istintivo di vendicarsi dalle offese non è altro che una forma di difesa" (168); che "nella vendetta si ritorce il male del reato con un altro male, senz'altra legge che la reazione cieca di difesa e di offesa" (169); altri specificano meglio, sostenendo che "deve dirsi 'vendetta difensiva' e non solo 'vendetta' ... perché nella reazione dell'offeso contro l'offensore c'è, si, il risentimento vendicativo per il passato ma c'è anche l'intenzione, più o meno cosciente, di difendersi per l'avvenire o riducendo l'offensore nella impossibilità di ripetere l'aggressione uccidendolo o dandogli l'impressione che tale ripetizione non gli convenga" (170). Tuttavia con questi concetti "siamo ancora nel campo del subumano, poiché la reazione cieca è istintiva, e come tale esiste anche tra gli animali" (171). Oltretutto, la reazione istintiva nei confronti di una offesa, vale solo per la difesa diretta, cioè "per la reazione difensiva contemporanea all'attacco" (172), e non per la difesa indiretta, cioè "per la repressione postuma dell'offensore, allo scopo di prevenire altre offese" (173). Il concetto di vendetta è invece una forma più evoluta; essa difatti consiste in "una reazione indugiata, comporta perciò uno stadio intermedio, durante il quale la riflessione può svilupparsi a dar adito a un primo criterio di giustizia" (174). La funzione punitiva nasce con il sorgere della società umana; una delle prime manifestazioni di tale ordinamento è proprio il diritto penale, "perché la funzione punitiva è la più essenziale per assicurare l'unità, la coesione e l'organizzazione del gruppo sociale, ... e perché è il mezzo più efficace con cui i capi fanno valere la loro supremazia" (175). Siamo quindi in uno stadio intermedio tra il periodo della reazione individuale incontrollata e quello della pena come espiazione religiosa; tale periodo è "il punto di partenza del diritto penale dell'umanità" (176). "Il sentimento congenito della vendetta privata dalla sua natura di desiderio si sarebbe elevato nelle società primitive all'altezza di un diritto...esigibile, ereditario, ... esclusivo dell'offeso e dei suoi famigliari" (177). La vendetta privata, non più cieca, è "autorizzata dall'autorità del gruppo, che ne riconosce la necessità o l'utilità, dichiarandola anche doverosa nell'interesse del gruppo stesso, come 'vendetta del sangue', che mira ad evitare l'indebolimento del gruppo prodotto dall'omicidio o dalle lesioni commesse a danno di uno dei suoi membri, che rappresentano una diminuzione della sua sicurezza, della sua forza, della sua capacità di lotta per l'esistenza" (178). La pena cioè, oltre al suo scopo di soddisfazione dell'offeso, è riconosciuta ufficialmente anche nel suo ruolo di difesa del gruppo. "Nel diritto antico, in relazione a principi di solidarietà che univano i membri della famiglia, vi erano responsabilità collettive penali, per le quali il fatto dell'innocenza non era ragione sufficiente per non punire l'uno per l'altro dei membri della famiglia, mentre il fatto della ereditaria solidarietà era sufficiente ragione per creare quell'interesse onde l'uno dovesse sacrificarsi per l'altro" (179). Tale solidarietà spesso si estendeva anche ai rapporti con gli inquilini e persino i vicini. Solo il diritto romano più evoluto fu contrario a tale estensione della responsabilità penale. Al periodo esaminato risalgono le pene capitali, il bando e la vendetta del sangue. La pena di morte aveva l'evidente fine di eliminare immediatamente il motivo di contrasto tra i membri di una comunità, e attuare quindi lo scopo di difesa sociale. "In contesti sociali primitivi, entro cui unico problema degli uomini era quello di garantirsi la sopravvivenza, e che non conoscevano né il denaro né strutture istituzionali o materiali idonee a restringere la libertà personale, la morte era il male più facilmente minacciabile e irrogabile" (180). Ma anche allora ci si accorse che essa è un fatto neutro, eguale per tutti, che non si presta, quale sanzione, a sottolineare i differenti gradi della colpa e della trasgressione. "Tranne che - come puntualmente avvenne - non si attribuisse importanza decisiva al modo in cui la morte fosse artificialmente inflitta: in nome di una malintesa esigenza di graduare e proporzionare la pena, si inventarono, quindi, supplizi ingegnosi e insieme raffinatissimi" (181). Il bando, nelle società primitive, era anch'esso una forma di pena capitale; "ciò non soltanto perché il bandito fuori dalla comunanza e protezione giuridica può essere offeso e ucciso impunemente da chicchessia, ma anche perché in condizioni di vita sociale primitiva ... il più grande tesoro del singolo è la sua partecipazione alla comunità giuridica, che sola può offrirgli pace e sicurezza. All'infuori del gruppo sociale non v'è che il pericolo di essere sopraffatto dalle forze della natura, o da esseri umani ostili o da fiere" (182). Se nelle società moderne, perché la pena mantenga carattere intimidatorio, è necessario che minacci un male, nelle società primitive era sufficiente che il gruppo negasse la sua protezione all'individuo; tanto bastava per esporlo a gravissimi pericoli. "Infatti, non appena fosse venuto a mancare a colui che era posto al bando l'aiuto della società, le cui forze unite potevano controbilanciare nei limiti del possibile la forza bruta della natura e degli attacchi degli animali da preda o dei nemici umani, il singolo individuo, per quanto ancora in vita, era ben vicino alla morte" (183). Il bando non era quindi altro che un modo per uccidere il fuori legge (184) senza macchiarsi del suo sangue. Come abbiamo detto, "per mantenere intero il proprio carattere intimidatorio e punitivo, il bando necessitava di una realtà nella quale fosse indispensabile la protezione del gruppo da cui si era espulsi. ... L'istituto, quindi, andò perdendo efficacia, man mano che le comunità umane divenivano più numerose e vicine, e l'ambiente che le circondava meno impervio: il bandito poteva, così, tentare di rifugiarsi presso un altro contesto sociale, che talvolta lo accoglieva, consentendogli di evitare la morte" (185). "Civilizzandosi poscia gli uomini per l'opera della religione ed assumendo questa la direzione universale dei loro sentimenti sarebbe venuto il pensiero che i sacerdoti dovessero essere i misuratori della vendetta privata, di guisa che ... il concetto della vendetta privata avrebbe a mano a mano ceduto il campo a quello della vendetta divina" (186). Questa è la fase successiva attraversata, nel corso della storia, dalla pena, che assume il ruolo di espiazione religiosa, cioè di "mezzo per propiziarsi la divinità adirata" (187). "I delitti vengono considerati non nella loro entità, ma come trasgressioni agli ordini degli Dei e perciò severamente repressi" (188). Ogni trasgressione alle regole rischia infatti di scatenare la vendetta divina e causare il tracollo delle istituzioni, suscitando quindi tra i consociati reazioni di repulsione e terrore. In questo senso si ha un allargamento del concetto di difesa della comunità da un pericolo, esistente anche in precedenza sotto forma di vendetta, esteso adesso anche nei confronti della divinità, che si supponeva chiedesse soddisfazione in maniera analoga agli uomini. "Aderendo a una visione antropomorfica della divinità, l'uomo ne interpretò i gusti come fossero i propri. Del tutto naturale fu per lui l'idea che un Dio antropomorfico dovesse avere gusti carnivori e, per la sua superiorità, anche antropofagi" (189). "Dapprima all'ingiuria risponde l'ingiuria: reazione aberrante ed incomposta, ma reazione pur sempre immanchevole. E la vendetta privata passa così per le fasi di vendetta individuale, vendetta familiare e vendetta della tribù" (190). La vendetta poi è regolata dal potere centrale. E in seguito all'elemento politico, la vendetta stessa si fa pubblica, e allo stesso tempo religiosa, in rapporto al principio del castigo dovuto ai peccati. "Lo spettacolo del dolore faceva credere che la divinità offesa se ne pascesse per saziare l'indignazione in essa provocata dal peccato, e che quindi si riconciliasse col popolo. Il condannato, più che un reo da espellersi dalla società, era una vittima da offrirsi agli Dei: i riti lo accompagnavano alla morte; e la pena si sollevava così ad un fine più alto" (191). Con la punizione del reo si vuole allontanare dal gruppo cui esso appartiene la vendetta degli Dei. La pena adesso assume "uno scopo assolutamente nuovo, comprendente in sé l'intuizione del divino, o per lo meno dell'oltrenaturale. ... Se da un lato il sentimento della vendetta spinge la famiglia contro la quale è stato commesso il delitto a punirlo, dall'altro quello dell'espiazione induce anche la famiglia del reo ad esigere da lui una pena, affine di placare la divinità e di non attirare la collera sull'intero casato" (192). Introdotta l'idea religiosa nella penalità, la vendetta divina, dunque, si sostituisce a quella privata. La natura sacrale della pena, come introduzione nel diritto penale dell'elemento soprannaturale, richiede che il delitto, in quanto elemento di contaminazione, venga lavato da una punizione cui si attribuisce la qualità di sacrificio. "In particolare alla pena di morte quella di sacrificio umano per placare la divinità offesa" (193). "Il sacrificio nasce dalla necessità di prevenire l'imprevedibilità della vendetta divina, o dello scatenarsi delle forze del male; sopprime un'esistenza per prevenire una distruzione ben più grave; ... agisce sacrificando alcuni, per tutelare tutti gli altri" (194). Ancora più evidente è il carattere religioso di certi tipi di supplizio (195). "La vendetta del sangue rappresenta in un primo tempo la difesa del gruppo, che è stato indebolito dall'omicidio o dalle lesioni compiute a danno dei suoi membri, le quali sono considerate non solo come aggressioni all'individuo ma all'intera comunità di cui questo fa parte... Fu solo in un secondo tempo...che tale istituto fu trasformato in una manifestazione del culto dell'anima, ritenendosi che questa continuasse ad aggirarsi tra i viventi, a volte benevola, a volte ostile, e ostile in particolar modo nel caso di morti violente" (196). La pena, anche se ha assunto un nuovo fine, quello di placare la divinità per propiziarsela, o di placare la sete di vendetta degli uccisi, non abbandona tuttavia l'antico, consistente, come abbiamo visto, nel difendersi dai pericoli provenienti dall'uomo e dalla natura; tali fini vengono anzi fusi in un contenuto sintetico, come si nota analizzando il nuovo significato che assume la pena del bando, già esistita in precedenza con finalità, se non diverse, quantomeno ridotte. "Così il bando, che allontana dalla comunità l'individuo dannoso, che rappresenta un pericolo, è contemporaneamente un mezzo per allontanare dal gruppo stesso il pericolo della vendetta divina che, per una concezione di solidarietà nella colpa istintiva nell'uomo, colpirebbe tutti se non si provvedesse a punire il colpevole: questo il significato di certi atti, non necessari allo scopo materiale di questa pena, e che altrimenti sarebbero inspiegabili, come il bruciare la casa del bandito e distruggere le piantagioni che lo nutrivano" (197). In questo senso, la vendetta del sangue, cui è tenuto il gruppo cui apparteneva l'ucciso, ha due scopi: rendere innocuo il delinquente e propiziarsi l'anima del defunto, che altrimenti sarebbe rimasta ostile ed avrebbe portato disgrazia. Il fine della pena è dunque "la difesa del gruppo da un pericolo complesso, proveniente da due mondi diversi ed opposti, la natura e la soprannatura, e concretizzantisi sinteticamente nella minaccia di un danno per la comunità sociale" (198). Infatti la pena colpisce la causa materiale del danno, sia essa uomo, animale o cosa; e la responsabilità del danno si estende a tutto il gruppo cui appartiene l'agente: "così, se il membro di un gruppo è stato ucciso, si toglie la vita a un membro del gruppo dell'uccisore, sia questo o no l'autore della prima uccisione" (199). In questo periodo le pene sono assai gravi, e si riducono quasi esclusivamente alla morte o a pene ad essa equivalenti, come, appunto, il bando, perché "il modo migliore per difendersi da un pericolo è quello di sopprimerne la causa" (200). La pena è un fenomeno di gruppo vissuta con grande intensità, e alimentata da "forze irrazionali ed emotive che s'impossessano dei membri della società come risposta a un oltraggio morale. Le procedure di applicazione della pena sono ... rituali connotati da caratteri religiosi, ai quali si ricorre per riaffermare i valori di solidarietà e per ripristinare quell'ordine morale sacro illegittimamente violato dal reo" (201). La punizione non si arresta sino a che ogni passione non sia consumata, e il reo è perseguito anche oltre la sua stessa morte, persino tramite la punizione dei suoi congiunti, sebbene innocenti, almeno secondo i canoni contemporanei. Le leggi racchiudono sanzioni strettamente religiose; i sistemi di prova per la discoperta del reo si basano sull'intervento, vero o supposto, della divinità; ad essa si chiede "la manifestazione del vero che per altra via non si crede raggiungibile. Consegue che gli Dei, autori delle leggi, debbono intervenire nella applicazione di queste" (202), rendendo immuni le carni dai più atroci esperimenti. Presso i germani il supplizio dei delinquenti non era una pena ordinata dal capo, ma un vero e proprio comando degli Dei. Le forme primitive di prova consistono quindi nelle ordalie, nei giudizi di Dio, i quali devono produrre un evento materiale, dal quale si evince la colpevolezza o meno del sospettato (203). Sussidiariamente ai giudizi di Dio è in uso anche il giuramento; i sospettati "per conseguire l'assoluzione, dovevano proclamarsi innocenti avanti al rappresentante del loro Dio, e ciò bastava, perché, ove avessero mentito, il Dio avrebbe avuto cura di punirli, meglio assai che non fosse dato di fare ai giudici" (204). Adesso, dunque, la vendetta privata è sostituita da quella divina, che assume anche carattere di vendetta pubblica. Mentre in passato la punizione dei criminali era in genere legata all'iniziativa delle singole vittime o delle persone a loro legate da vincoli di vario tipo, o dei parenti stessi del reo, adesso "spunta l'idea che tutti i cittadini sono interessati alla repressione di tutti i delitti, idea che menerà a poco a poco alla distinzione tra delitti di azione pubblica e delitti di azione privata (205). Il delinquente di conseguenza incomincia ad essere considerato sia un nemico degli Dei, sia come un nemico pubblico da detestarsi, e di cui è d'uopo desiderare ardentemente la rovina" (206). Fino a questo punto non si ha nessuna considerazione della personalità psichica del delinquente. "L'inizio della considerazione dell'elemento soggettivo rappresenta una posizione nettamente antitetica alla precedente" (207). Ciò si verifica prevalentemente nel diritto romano, dove sono assegnati alla pena scopi eminentemente soggettivi, quali l'emenda e la retribuzione. Per in primi, si afferma "quod poena constituitur in emendationem hominum" (208); castigando, cioè, si doveva cercare il ravvedimento del reo. Per i secondi, si noti che "sotto l'impero lo sforzo di far corrispondere un aggravamento della pena ad ogni incremento di malvagità prova come si tendesse a retribuire colla pena le infrazioni delle norme morali, sull'osservanza delle quali riposa l'ordine della società e dello stato" (209); la giustificazione della pena stava nella morale necessità di riparare il disordine prodotto dal delitto e rendere a ciascuno le opere sue, quindi si presentò l'idea di una retribuzione giuridica. In seguito a questo spostamento della funzione della pena verso l'elemento psicologico, essa comincia, col diritto romano, ad assumere anche ruolo di "intimidazione dei sudditi, i quali, dalla minaccia del male insito nella pena, sono trattenuti dal commettere i reati (prevenzione generale)" (210); inoltre esercita un'azione sulla psiche del colpevole, attraverso la rieducazione alla vita sociale. Il primo scopo si riferisce al momento anteriore alla commissione del reato, quando l'ordine giuridico non è ancora turbato, il secondo a quello successivo, allorché la violazione è avvenuta; il che non esclude anche un fine di prevenzione e difesa sociale, perché l'emenda del reo consiste nel restituire alla società un elemento utile, togliendone uno dannoso. In tal senso, lo scopo della prevenzione, oltre ad agire sulla generalità dei consociati tramite la minaccia e l'esempio, protegge la società da azioni di vendetta privata da parte della vittima, o dei suoi congiunti o amici, i quali vedono che lo Stato applica effettivamente il male minacciato sostituendosi all'offeso come restauratore dell'ordine giuridico violato. "Se la vendetta e l'espiazione religiosa rimasero per molto tempo lo scopo principale della pena, come appare dalla frequenza della pena capitale (e dagli) orribili supplizi coi quali si solevano disperdere le tracce materiali del delitto e placare le divinità offese (tuttavia) più tardi alle pene capitali vennero in parte sostituendosi la condanna ai lavori delle miniere e le varie forme di deportazione e di relegazione. ... Alla successiva introduzione di altre pene, severe ma non atroci, corrispose poi un mutamento degli scopi della penalità, che finirono con l'essere...l'esempio e il miglioramento del colpevole" (211). La pena poteva variare in relazione alle circostanze soggettive e oggettive del reato, alla parte in esso avuto dal reo, al suo comportamento anteriore e posteriore al fatto criminoso, alla sua condizione personale o sociale. Il giudicante non era vincolato alla rigorosa osservanza delle pene di legge, anche se la sua benevolenza non poteva spingersi al punto di esimere completamente il colpevole dalla pena; tuttavia il giudice godeva della massima libertà nella determinazione della specie e della misura della pena. Il diritto barbarico costituirà, come vedremo, un passo indietro rispetto a quello romano, in quanto prevarrà una concezione oggettiva della pena, anche se poi essa sarà temperata dall'influsso delle dottrine cristiane, basate su passi evangelici. Per quanto riguarda le pene nello stato romano, "la comunità in origine interviene di rado nella repressione dei crimini, che resta in ampia misura devoluta alla reazione degli offesi" (212) talora temperata dalla consuetudine del riscatto (cioè da un risarcimento in denaro, che, in origine, era diretto alla vittima o ai suoi congiunti, e in seguito al pubblico erario come ricompensa per l'intervento della comunità). Solo in casi particolari, nei quali il crimine appare come una infrazione alla 'pax deorum', alla relazione cioè di pace ed amicizia che deve permanere tra la civitas ed i suoi dei, lo stato ritiene necessari intervenire per ristabilire l'ordine turbato. E poiché il naturale custode della pace con gli dei è il re, sommo sacerdote della comunità, a lui spetta applicare idonee sanzioni di carattere religioso al reo che, col suo comportamento oltraggioso, ha esposto l'intero gruppo alla collera divina (213). Non sempre, tuttavia, l'intervento punitivo dello Stato riguarda esclusivamente oltraggi alle divinità; vi sono difatti certi crimini che, essendo diretti contro l'esistenza stessa della compagine statale, sono pubblicamente perseguiti non a scopo purificatore, ma in base al principio che all'offesa si risponde con l'offesa. Il re non opera qui in veste di sacerdote, ma in quella di comandante militare; come tale è libero di adottare tutti i rimedi che gli sembrano necessari per la repressione del crimine. La pena consiste di regola nella fustigazione, seguita da decapitazione. In età repubblicana la pena, da strumento di espiazione religiosa, diviene "mezzo di realizzazione di una esigenza sociale di giustizia" (214). Numerose sanzioni perdono carattere sacrale e religioso e "si fondano essenzialmente sull'idea della vendetta attuata nella forma del contrappasso o della rappresaglia autorizzata. ... Numerose sono anche le sanzioni pecuniarie, benché sia talora difficile distinguere se esse siano precostituite a vantaggio dello stato o del privato leso" (215). In età ancora più avanzata non troviamo che scarse vestigia dell'antico carattere religioso della pena; le sanzioni, generalmente, sono ridotte alla morte (216) o al pagamento di una somma di denaro. La pena di morte, in realtà, veniva eseguita assai raramente, essendo consentito all'imputato "fintantoché non fosse stato pronunciato l'ultimo voto decisivo per la condanna, di abbandonare il territorio cittadino e di recarsi in volontario esilio presso un'altra città" (217). All'espatrio del reo seguiva 'l'aqua et igni interdictio', che causava la perdita della cittadinanza, la confisca dei beni e il divieto di rientrare nel territorio urbano, pena la morte. Da mezzo per sfuggire semplicemente alla vendetta privata, si trasformò anche in mezzo per eliminare tale vendetta nell'ambito del territorio statale. L'esule che fosse tornato in patria sarebbe stato considerato nemico della comunità e non più soltanto offensore di un singolo. L'esilio, quindi, inizialmente, non è considerabile come pena, semmai come esercizio di un diritto da parte dell'imputato; infatti chi sceglie l'esilio non può essere fatto oggetto di vendetta privata (218). In seguito si trasformò da mezzo per sfuggire all'esecuzione della condanna in vera e propria pena, comminata dal legislatore stesso in relazione ad alcuni particolari crimini, "sì che sotto la denominazione di poena capitalis si intese, da allora in poi, non soltanto la morte ma anche l'esilio con conseguente aqua et igni interdictio" (219). Con l'età imperiale, alle pene fisse, sostanzialmente assai miti, si sostituisce un sistema graduato di pene, prevalentemente afflittive e di gravità molto maggiore; la pena di morte, caduta in disuso negli ultimi anni della repubblica in seguito al diffondersi della prassi dell'esilio, viene ripristinata; l'esecuzione tipica resta la decapitazione, ma esistono altre forme più crudeli (220), inflitte per i crimini più gravi o a persone appartenenti alle classi sociali più umili. Non si tratta di modi diversi di esecuzione della pena di morte, ma di pene a se stanti, aventi propria individualità e proprio ambito di applicazione. "Accanto a queste sanzioni, qualificate per la loro atrocità 'summa supplicia'" (221), ve ne sono altre, che pur non essendo immediatamente privative della vita, la pongono direttamente a repentaglio, e sono quindi assimilabili alla pena di morte. Tra di esse rientrano, ad esempio, la condanna ai lavori forzati nelle miniere, la condanna all'esecuzione coattiva di opere pubbliche, la condanna ad esibirsi nel circo come gladiatori o a combattere con le fiere, la deportazione (222). Vi sono anche sanzioni corporali, che spesso accompagnano la pena capitale, come il percuotimento con bastoni, o con le sferze. (223) La confisca del patrimonio ha carattere accessorio, e può essere totale o parziale. Infine vi sono pene minori, di carattere pecuniario. "Tutte le prove si esplicavano pubblicamente, in presenza delle parti, del giudice e del popolo, perché il processo fin dal suo inizio conservava il carattere della oralità" (224). Quanto all'accusatore, sia in Grecia che in Roma, egli si sottopone al rischio di una ammenda se l'imputazione risulta falsa o non provata. La facoltà di accusare era una delle prerogative fondamentali dell'epoca, in seguito all'interesse che avevano tutti i membri della comunità alla conservazione dell'ordine pubblico, alla osservanza delle leggi e alla repressione dei delitti. Oggi vi sono organi sociali creati in rappresentanza della collettività, con l'esclusione, in linea di massima, dell'azione diretta del privato. (225) Anticamente, però, difettando di specifici organismi giudiziari, il cittadino conservava "il diritto sovrano di muovere accusa al proprio simile. Onde il sistema accusatorio in contrapposizione dello inquisitorio" (226). Presso i greci, così, come abbiamo già visto, presso i romani, che con ogni probabilità dai primi erano stati ispirati, i giudizi si distinguevano in pubblici e privati. I primi erano riservati ai delitti che offendevano la repubblica nella sua esistenza politica, nelle leggi o nei diritti del cittadino; i secondi erano istituiti per punire le offese individuali (227), e non potevano esercitarsi che da coloro i quali vi avevano personale interesse. "Nella pratica però tutti i delitti di una certa importanza si perseguivano con la pubblica accusa" (228). Per l'accertamento del vero si ammettevano, in Grecia, vari tipi di prova; in particolare "la confessione spontaneamente resa autorizzava la condanna senza bisogno di processo" (229); gli schiavi erano considerati alla stregua di cose, quindi le loro affermazioni avevano valore solo se estorte sotto tortura. Lo stesso a Roma, dove la tortura, poi, sotto l'impero, cominciò ad essere eseguita anche nei confronti dei cittadini di minima dignità, "sia contro il testimone allo scopo di ottenere la dichiarazione del reato altrui, sia contro lo stesso imputato per strappargli ... la confessione del proprio delitto" (230), finendo per estendersi a tutti i cittadini, anche se limitatamente ad alcuni reati. In epoca romano-barbarica assume ampio spazio ed incidenza la pena privata, mentre la pena pubblica, almeno all'inizio, è "diretta esclusivamente alla tutela di interessi generali, a mantenere la pax publica e a sanzionare gli attentati contro l'autorità militare costituita. La prevalenza della pena privata è data dal fatto che il diritto è concepito quale ordine di pace e ad esso si contrappone il torto, che ricomprende generalmente ogni sorta di lesione, personale, fisica, patrimoniale, ecc.; qualunque violazione è considerata rottura della pace, che comporta l'insorgere di uno stato di inimicizia" (231). Tale perturbazione della convivenza veniva rimossa o tramite la faida, o tramite sanzioni di contenuto personale o patrimoniale nell'immediato e diretto interesse del soggetto leso, che ne era non solo l'agente ma anche l'esclusivo fruitore, e del gruppo parentale cui apparteneva la vittima. I reati pubblici riguardavano tutti quei delitti contro la sicurezza interna ed esterna della società, ed i 'crimina atrocissima' che turbavano direttamente la pace pubblica. Ma esamineremo meglio in seguito tali istituti, che, sebbene nati alla fine dell'età antica, si svilupparono, si consolidarono e si diffusero in maniera sistematica soprattutto nel periodo Alto-medievale. Abbiamo fin qui ricostruito, seppure a grandi linee, il modo di intendere la penalità nel mondo antico; vediamo adesso quale posizione ha assunto in questo contesto il carcere. Per tutto il corso del periodo analizzato, il carcere non venne "concepito come una pena in senso tecnico, ma come un mezzo per tenere l'incolpato in custodia perché non si sottraesse alla giustizia" (232). L'accusato, cioè, durante lo svolgimento di tutto il processo, veniva privato della libertà personale (233), al solo scopo di impedirne la fuga, permettendo così di raccogliere tutti gli elementi utili alla causa e di pervenire alla decisione. Il fatto che l'accusato, dopo la condanna, fosse custodito in luogo inespugnabile, garantiva l'esecuzione della sentenza. Tale caratteristica del carcere "ha a lungo impedito che l'istituto fosse compiutamente disciplinato, bastando che le concrete modalità esecutive di esso fossero, di volta in volta, idonee a sortire gli effetti sperati" (234). Infatti, solo motivazioni di ordine pratico imponevano, per esempio, una vigilanza più attenta per gli uomini che per le donne, o che i luoghi destinati alla reclusione fossero più o meno angusti ed aspri, o che le materiali condizioni di vita dei carcerati fossero più o meno severe. La carcerazione non ha quindi carattere di pena di durata, ma funzione preventiva di custodia del reo. L'imprigionamento non costituisce una vera e propria pena: "carcer enim" scrive Ulpiano "ad continendos homines, non ad puniendos haberi debet" (235); si tratta, infatti, come già detto, di una misura preventiva, che non può essere utilizzata a fini di repressione. Comunque, presso certi popoli, seppure in maniera assai marginale e sporadica, assunse alcune caratteristiche peculiari; senza scendere nei dettagli, possiamo citare, ad esempio il caso della Cina antica, dove l'incarcerazione era intesa come sistema indiretto e raffinato di estremo supplizio, lasciando cioè che il rinchiuso morisse, preda degli insetti, degli stenti e delle intemperie. In questo caso, però, si tratta più di una forma particolare di tortura che di un sistema di carcerazione vera e propria. Lo stesso dicasi per il carcere indiano: esso è costituito da gabbie poste lungo le strade maestre, ma anche in questo caso pare che si trattasse di una condanna a morte, per le malattie date dalle intemperie e dalla inanizione. Presso gli ebrei le carceri ebbero ruolo di mera custodia per gli accusati o per i condannati in attesa di esecuzione della pena; a tale scopo veniva impiegato quale prigione qualunque luogo dal quale fosse impossibile fuggire. Presso i Greci il carcere, quando non era una specie di berlina, comportava l'essere rinchiusi e posti in ceppi, sempre col fine preventivo di evitare la fuga del sospetto. I carcerati potevano comunque comunicare tra loro, ricevere visite, uscire in occasione di particolari festività. Inoltre la sorveglianza era assai blanda. Presso i romani, il carcere assunse anche forma di afflizione e tormento da riservarsi a chi aveva commesso i crimini più gravi e atroci; i criminali, in questo modo, avrebbero cominciato a soffrire ancor prima della esecuzione della condanna capitale. Per questo era situato in luoghi per lo più tetri e fetidi, dove si gettavano insieme uomini e donne, condannati ed arrestati, senza tenere conto di alcuna distinzione tra essi, né di alcuna finalità che non fosse la mera costrizione fisica. Per adesso, quindi, il ruolo del carcere all'interno dell'universo penale è piuttosto limitato e monotematico. Vediamo quale posizione viene ad assumere nel mondo medievale.

Note

1. WIESNET EUGEN, "Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena.", Giuffrè Editore, Milano, 1987, pag. 13.

2. "Il termine deriva dal latino 'carcer', il cui primo significato fu quello di 'recinto' e, più propriamente al plurale, delle sbarre del circo, dalle quali erompevano i carri partecipanti alle corse; solo in un secondo tempo, assunse quello di 'prigione', intesa come costrizione o comunque luogo in cui rinchiudere soggetti privati della libertà personale." (TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", Franco Angeli Editore, Milano, 2002, pag. 22, nota 3).

3. Si pensi, in primo luogo, alla particolare, per l'epoca, forma di carcere adottata dalla chiesa cattolica.

4. In particolare, ci riferiamo alle esperienze inglesi, olandesi e tedesche che si svilupparono nel corso del XVI e XVII secolo, come la Rasphuis di Amsterdam, o la Bridwell House di Londra, che "sorse allo scopo di incarcerare vagabondi e mendicanti e fu ripresa da tutti i paesi europei e diventò nota come casa di correzione" (WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", Il Mulino, Bologna, 1989, pag. 145). Tali esperienze si riveleranno un fondamentale elemento ispiratore per il successivo mutamento del carcere.

5. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit. pag.22.

6. Ibidem, pag. 22.

7. Ibidem, pag. 22.

8. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", Parte prima, Stabilimento tipografico G. Abramo, Catanzaro, 1909, pag. 256.

9. Ibidem, pag. 256.

10. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 256.

11. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit. pag. 22.

12. Ibidem, pag.22.

13. Ibidem, pag. 22.

14. Ibidem, pag. 23.

15. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit. pag. 145.

16. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit. pag. 23.

17. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit. pag. 50.

18. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", Società editrice il Mulino, Bologna, 1997, pag.21.

19. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag.21.

20. RUSCHE GEORG, "Il mercato del lavoro e l'esecuzione della pena. Riflessioni per una sociologia della giustizia penale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1976, Vol. II-III, pag. 529-530.

21. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", Il Saggiatore, Milano, 1999, pag. 137.

22. NEPPI MODONA GUIDO, "Istituzioni penitenziarie e società civile", in "LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA DEVIANZA", a cura di Margherita Ciacci e Vittoria Gualandi, Società editrice il Mulino, Bologna, 1977, pag. 278.

23. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", Società editrice il Mulino, Bologna, 1978, pag. 124.

24. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.135.

25. RUSCHE GEORG, "Il mercato del lavoro e l'esecuzione della pena.", op. cit. pag.530.

26. Ibidem, pag. 531.

27. Un grande economista dell'epoca, difatti, si domanda: "Come può un ladro, impiccato per un furto di 50 fiorini, servire a se stesso o a colui che ha derubato, quando invece nella casa di lavoro egli potrebbe guadagnare quattro volte tanto in un anno?" (Ibidem, pag. 531).

28. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica", op. cit., pag. 55.

29. Con la Riforma luterana la povertà non possiede più la positività mistica del cristianesimo medievale, ma diviene segno della maledizione divina; in seguito alla riforma povertà significa punizione.

30. GARLAND DAVID, "Pena e società moderna", op. cit. pag.309.

31. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit. pag. 81.

32. Ibidem, pag. 116.

33. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica", op. cit., pag. 60.

34. Ibidem, pag. 61.

35. Ibidem, pag. 61.

36. Ibidem, pag. 61.

37. Ibidem, pag. 61.

38. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica", op. cit., pag. 77.

39. "Il principio della less elegibility, formulato soprattutto dagli scrittori sociali inglesi del diciottesimo secolo, richiede che il livello di esistenza garantito dalle istituzioni carcerarie (o dalla assistenza) sia inferiore a quello della fascia sociale operaia più bassa, in modo che il lavoro peggio pagato sia comunque preferibile (eligible) alla condizione carceraria o all'assistenza, ciò al duplice scopo di costringere al lavoro e salvaguardare la deterrenza della pena" (RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 12).

40. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 117.

41. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit., pag. 42.

42. Ibidem, pag. 42-43.

43. Ibidem, pag.45.

44. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit., pag. 46.

45. Ibidem, pag. 46.

46. Ibidem, pag. 10.

47. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit., pag. 48.

48. "L'ammassamento dei rei in quei luoghi chiusi- autentici carnai senza ordine, senza disciplina, né un sistema di vita capace di migliorarli che andavano ovunque divenendo le carceri- creava condizioni propizie al peggioramento degli individui che, scontata la pena, tornavano in società non migliori di prima" (Ibidem, pag. 49).

49. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", Einaudi Editore S.p.a., Torino, 1976, pag. 121-123.

50. Ibidem, pag. 131.

51. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 155.

52. Ibidem, pag. 160.

53. Ibidem, pag. 162.

54. Ibidem, pag. 166.

55. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit., pag. 170.

56. Ibidem, pag.170-171.

57. Ibidem, pag. 172.

58. Ibidem, pag. 177.

59. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica", op. cit., pag. 91.

60. Ibidem, pag. 91.

61. Tale situazione riflette in parte le condizioni che generarono il successo delle Work houses europee.

62. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica", op. cit., pag. 92.

63. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 224.

64. Ibidem, pag. 224.

65. DE BEAUMONT GUSTAVE A. e DE TOCQUEVILLE ALEXIS, "Due esempi di sistemi penitenziari classici.", in "LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA DEVIANZA", op. cit., pag. 274.

66. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 234-235.

67. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 131.

68. Ibidem, pag. 131.

69. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", Bertani editore, Verona, 1983, pag. 85.

70. Ibidem, pag. 85.

71. Ibidem, pag. 86.

72. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 237.

73. Ibidem, pag. 241.

74. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", Giuffrè Editore, Milano, 1952, pag.4.

75. Ibidem, pag. 5.

76. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag.5.

77. Ibidem, pag. 14.

78. Ibidem, pag. 29.

79. Ibidem, pag. 31.

80. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 34.

81. Ibidem, pag. 34.

82. "Per giudicare tale gravità occorre tuttavia considerare non soltanto l'entità del male inflitto, ma anche l'insieme delle conseguenze, individuali e sociali, che ne derivano; il tutto riferito all'uomo medio, di normale sensibilità psichica e morale" Ibidem, pag. 39.

83. PAVARINI MASSIMO, "Funzioni e limiti del punire" in "Funzione della pena e terzieta' del giudice nel confronto fra teoria e prassi" a cura di M. Manzin, Atti della giornata di studio di Trento, Università degli studi di Trento, 2002, pag. 63-64.

84. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", Editrice Universitaria, Ferrara, 1978, pag. 7.

85. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 7.

86. GARLAND DAVID "Pena e società moderna.", op. cit., pag. 61.

87. Ibidem, pag. 64.

88. Ibidem, pag. 67.

89. Ibidem, pag. 69.

90. GARLAND DAVID "Pena e società moderna.", op. cit., pag. 70.

91. Ibidem, pag. 74.

92. Ibidem, pag. 99.

93. Ibidem, pag. 294.

94. Ibidem, pag. 294.

95. GARLAND DAVID "Pena e società moderna.", op. cit., pag. 238.

96. Ibidem, pag. 256.

97. "Nemo prudens punit, quia peccatum est, sed ne peccetur", De Ira, I, 19.

98. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 8.

99. La filosofia morale utilitaristica è quella dottrina che pone, quale criterio di valutazione etica delle azioni umane, e di conseguenza anche delle leggi e delle istituzioni politiche, la misura di piacere e di dolore che esse sono in grado di arrecare al maggior numero di individui. La grande importanza storica di tale teoria si deve all'opera del filosofo e giurista Jeremy Bentham.

100. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 9.

101. Ibidem, pag. 13.

102. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", Giuffre' editore, tipografia Multa Paucis, Varese, pag. 702.

103. ANTILOSEI LEONARDO. "Manuale di diritto penale. Parte generale", Giuffrè editore, Milano, 1955, pag. 484-485.

104. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 35.

105. "ENCICLOPEDIA GIURIDICA TRECCANI", Istituto della enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, voce 'sanzione penale', pag. 2.

106. Ibidem, pag. 2.

107. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 41.

108. Ibidem, pag. 41.

109. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 44.

110. Ibidem, pag. 48.

111. Ibidem, pag. 49-50.

112. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 51.

113. "ENCICLOPEDIA GIURIDICA TRECCANI", op. cit., voce 'sanzione penale', pag. 3.

114. Il più eminente dei quali è Immanuel Kant.

115. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 53.

116. Ibidem, pag. 55.

117. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 57.I sostenitori della teoria della deterrenza si difendono affermando che la cosiddetta punizione dell'innocente non è in realtà una pena; una pena, per essere tale, richiede infatti di essere applicata solo ed esclusivamente al colpevole, a chi l'ha meritata, a chi ha violato la legge. L'individuo non può essere cioè sacrificato alla società a meno che egli non abbia infranto la legge.

118. Ibidem, pag. 65.

119. Ibidem, pag. 66.

120. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 67.

121. Ibidem, pag. 68.

122. Ibidem, pag. 69.

123. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 71.

124. Ibidem, pag. 72.

125. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 705.

126. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 74.

127. Ibidem, pag. 75.

128. Ibidem, pag. 76.

129. Ibidem, pag. 77.

130. Ibidem, pag.77.

131. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 78.

132. Ibidem, pag. 80.

133. Ibidem, pag. 81.

134. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 83.

135. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 707.

136. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 89.

137. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 91.

138. Cioè il suo distacco dalla teologia morale.

139. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 92.

140. Ibidem, pag. 93.

141. Ibidem, pag. 95.

142. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 95.

143. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 707.

144. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 96.

145. Ibidem, pag. 97.

146. Ibidem, pag. 97.

147. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 97.

148. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 707.

149. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 98.

150. O misura di sicurezza.

151. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 100.

152. Ibidem, pag. 100.

153. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 102.

154. Ibidem, pag.102.

155. Ibidem, pag. 104.

156. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 708.

157. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 116.

158. Ibidem, pag. 116.

159. Ibidem, pag. 117.

160. Ibidem, pag. 117.

161. Ibidem, pag.118.

162. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 118.

163. Ibidem, pag. 118-119.

164. Si intenda con tale concetto il processo attraverso cui un atto o comportamento deviante viene dotato di caratteristiche peculiari, definito criminale e punito, in rispondenza a precisi bisogni del sistema penale.

165. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 709.

166. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag.122.

167. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag.123.

168. GRISPIGNI F., "Diritto penale italiano", Giuffrè editore, Milano, 1947, pag.123-125.

169. MAGGIORE GIOVANNI, "Diritto penale", Zanichelli, Bologna, 1949, pag. 672.

170. FERRI ENRICO, "Principii di diritto criminale", UTET, Torino, 1928, pag. 9.

171. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 43.

172. Ibidem, pag. 43.

173. Ibidem, pag. 43.

174. Ibidem, pag. 43.

175. Ibidem, pag. 64. In realtà non si può parlare di pena né di diritto penale se non quando vi è una autorità statale, cioè quando si è formato un potere sociale capace di imporre e di far rispettare certe norme di condotta, aventi perciò la qualità di norme giuridiche. Generalmente, per poter parlare di stato sono necessari tre elementi: un popolo, un territorio, una sovranità. Senza approfondire il problema, che esula dalla nostra analisi, possiamo affermare che lo stato sorga ad un certo momento della vita sociale, come risultato evolutivo di altre forme di organizzazione prestatuali. Dei tre attributi necessari e sufficienti affinché si possa parlare di Stato, il più importante è senza dubbio la sovranità, intesa come vincolo giuridico che unisce i membri di una collettività i quali sono astretti da una volontà unitaria ed unificatrice che rappresenta la sintesi delle volontà individuali. Lo Stato è cioè sinonimo di società umana organizzata, composta da più persone sottoposte ad una volontà superiore a quella dei singoli, che rappresenta il volere comune. Si può quindi identificare lo Stato con la Società. Assieme al sorgere della società organizzata, quindi dello stato, sorge il diritto penale; lo stato, in ultima analisi è una società che esiste in quanto il diritto ne impedisce la disgregazione.

176. Ibidem, pag. 67.

177. GENEROSI PAOLO, "Del diritto di punire", in "RIVISTA DI DIRITTO PENALE E SOCIOLOGIA CRIMINALE", diretta da A. Pozzolini, Pisa, 1911, Vol.10, Anno 10, 1909, Nuova serie, Vol.5, pag. 4.

178. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 67.

179. Ibidem, pag. 178.

180. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit., pag. 30.

181. Ibidem, pag. 30.

182. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 259.

183. Ibidem, pag. 259-260.

184. La parola ' fuorilegge' assume senso propriamente letterale; il criminale è difatti escluso dalla società, all'interno della quale vige la legge, ed è relegato all'esterno, è allontanato. Esso non fa più parte della comunità, è, appunto, al di fuori della legge, al di fuori della sua competenza territoriale, in quanto l'ha infranta, e non gode più della sua tutela. Difatti, come abbiamo detto, può essere ucciso da chiunque.

185. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit., pag. 30. Vedremo in seguito come l'esilio e la deportazione, che sono, sotto tanti profili, il naturale sviluppo del bando, verranno considerati, millenni dopo, sanzioni per soggetti fortunati o privilegiati.

186. GENEROSI PAOLO, "Del diritto di punire", in "RIVISTA DI DIRITTO PENALE E SOCIOLOGIA CRIMINALE", op. cit., pag. 4.

187. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 67.

188. GENEROSI PAOLO, "Del diritto di punire", in "RIVISTA DI DIRITTO PENALE E SOCIOLOGIA CRIMINALE", op. cit., pag. 13.

189. RILEY SCOTT GEORGE "Storia della tortura", Mondadori editore, Milano, 1999, pag. 43.

190. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 69.

191. Ibidem, pag. 67-68.

192. Ibidem, pag. 68.

193. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 72.

194. RUSCHE GEORG, "Il mercato del lavoro e l'esecuzione della pena. Riflessioni per una sociologia della giustizia penale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE", op. cit., pag. 61.

195. La pena di morte, in origine, non era pena ma sacrificio: ebbe quindi carattere non legale ma religioso; si uccideva non il colpevole, ma l'innocente. Si sacrificava, o in rendimento di grazie e per mantenersi il favore degli Dei (sacrificio propiziatorio), o per placare la divinità irata (sacrificio espiatorio). In seguito, sia per il civilizzarsi delle usanze, il che poneva vincoli morali all'uccisione di innocenti, sia per la carenza di vittime sacrificali, si cominciò a sacrificare gli schiavi e i criminali. Il supplizio della ruota rappresentava un sacrificio al Dio sole; l'impiccagione rappresentava la consacrazione del condannato al vento; la crocifissione offriva il reo agli dei superi; la lapidazione, nella legge mosaica, era prescritta per tutti i reati che avessero sollevato l'ira di Dio e che quindi fossero tali da far perdere al popolo la protezione divina; l'annegamento rimandava all'idea dell'acqua purificatrice, il cui movimento rappresentava esseri viventi e quindi spiriti; la sepoltura dei vivi derivava dai sacrifici di fondazione coi quali, in occasione della costruzione di nuovi edifici, ci si propiziavano potenze misteriose; la precipitazione richiama la mitologia greca, per la quale l'ingresso agli inferi era posto in fondo ad un precipizio: probabilmente in origine era una forma di ordalia e non di esecuzione vera e propria. Innestatasi poi su questi presupposti la morte come pena, rimangono le cerimonie nelle loro forme, le quali, anziché dirette a propiziarsi la divinità, assumono lo scopo o di placare l'anima dell'ucciso, o almeno di impedire a questa di nuocere ai viventi, e di compiere la sua opera di vendetta ritornando nel mondo dei vivi. Ad esempio, la frattura delle ossa, tipica del supplizio della ruota, ma anche della crocifissione, serviva per impedire la resurrezione; la fustigazione serviva non per causare dolore, ma per respingere un maleficio; il fuoco avevo lo scopo di distruggere, oltre al corpo, anche l'anima del delinquente, per impedirle di compiere le sue vendette; l'usanza di bendare il condannato deriva dalla volontà di impedire che esso gettasse il malocchio sui presenti.

196. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 69-70.

197. Ibidem, pag. 74.

198. Ibidem, pag. 75.

199. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 75.

200. Ibidem, pag. 76.

201. GARLAND DAVID "Pena e società moderna", op. cit., pag. 64.

202. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 56.

203. Abbiamo al riguardo molti esempi: si spazia da "un liquore che ubbriaca e trattiene le urine. Ciascheduno deve berne e quindi darsi a correre: chi si arresta o cade a terra è dichiarato reo" (Ibidem, pag. 59.); alla prova dell'olio bollente; oppure "lo inquisito viene immerso in acque frequentate da pescicani ... Gli dei, preservandolo da tanto pericolo, hanno voluto dimostrare che esso è innocente...L'innocente si salva, il colpevole perisce." (Ibidem, pag. 59.). Assai diffusa è la prova del fuoco; chi vuole dimostrarsi innocente deve maneggiare, senza bruciarsi, oggetti arroventiti.

204. Ibidem, pag. 60.

205. Nel diritto romano i crimina furono atti che sembravano ledere la comunità, o almeno il gruppo cui il colpevole apparteneva; onde egli, che talora doveva con la morte purificare il gruppo, veniva perseguito dalla comunità, tramite speciali magistrati. I delicta invece ledevano la sfera del singolo, onde era demandato a lui, o ai suoi congiunti, il vendicarsi, a volte uccidendo il colpevole, a volte producendogli un male. Tale vendetta, prima libera, fu regolata dal taglione, e infine si ammise una corresponsione pecuniaria, comminata da parte di organi delegati dall'intera comunità, onde evitare che ogni delitto desse adito a delle interminabili faide.

206. GENEROSI PAOLO, "Del diritto di punire", in "RIVISTA DI DIRITTO PENALE E SOCIOLOGIA CRIMINALE", op. cit., pag. 14.

207. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 76.

208. Digesto 40,20 (Paolo).

209. BORGHESE SOFO, "La filosofia della pena", op. cit., pag. 77.

210. Ibidem, pag. 78.

211. COSTA FAUSTO, "Delitto e pena nella storia della filosofia", Facchi editore, Milano, 1924, pag. 44-45.

212. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 734.

213. Le infrazioni minori richiedevano semplicemente o un sacrificio animale, o una elargizione patrimoniale a favore del culto della divinità offesa. Le infrazioni più gravi richiedevano invece l'abbandono del colpevole e di quanto gli apparteneva al Dio oltraggiato (consecratio capitis et bonorum) o la sua diretta messa a morte quale sacrificio espiatorio (deo necari). La prima forma di punizione, che presenta evidenti analogie con il bando, comporta l'allontanamento del reo dalla comunità e il suo abbandono alla vendetta della divinità offesa. Egli non gode più di alcuna tutela, né divina né umana, e chiunque può ucciderlo senza conseguenze. La seconda forma è riservata a crimini di particolare gravità, come ad esempio il parricidio, che esigeva la poena cullei, che consisteva nel gettare nelle acque del Tevere, per annegarlo, il reo, già torturato, chiuso in un sacco con una vipera, un gallo, una scimmia e un cane.

214. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 736.

215. Ibidem, pag. 736.

216. I modi di applicazione della pena capitale sono comunque i più vari; si va dalla decapitazione, alla fustigazione sino alla morte, dalla vivicombustione, alla 'praecipitatio e saxo', al 'culleus', ultima testimonianza di pena come esigenza religiosa.

217. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 737.

218. In Atene l'accusato veniva lasciato in libertà fino al momento del processo, e poteva sfuggire alla condanna esiliandosi. L'esercizio di tale facoltà era consentito sin dopo la prima orazione dell'accusatore e l'esposizione da parte dell'accusato delle proprie ragioni difensive. Ciò fa escludere che l'esilio fosse una sorta di autocondanna. Per i romani, dopo che è stata pronunziata una sentenza capitale, anche se manca solo il voto dell'ultima tribù per rendere esecutiva la condanna, il reo ha ancora la facoltà di allontanarsi in volontario esilio.

219. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 737.

220. Quali la crocifissione, l'esposizione alle belve nell'arena, la vivicombustione.

221. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 737.

222. Cioè il domicilio coatto perpetuo, in genere in un'isola o in un'oasi.

223. Tale pena era ritenuta, a differenza della prima, infamante, e riservata quindi alle classi sociali più umili.

224. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 65.

225. Fatta eccezione per il mondo anglosassone.

226. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica", op. cit. pag. 65-66. Ci occuperemo dettagliatamente della differenza tra queste due procedure nel capitolo dedicato al periodo medievale. Per adesso basti riassumerne le caratteristiche principali. Il sistema accusatorio puro si basa sul diritto di accusa consentito a tutti i cittadini, sulla necessità di un'accusa proposta e sostenuta da persona distinta dal giudice, sulla procedura orale, sulla pubblicità dei dibattimenti, sul giudizio per giurati e sull'impossibilità per il giudicante di raccogliere prove. Il sistema inquisitorio puro si basa invece sull'intervento ex officio del giudice, sulla segretezza del procedimento in rapporto non solo ai cittadini ma anche all'imputato stesso, sul procedimento e sulla difesa totalmente scritti, sulla disparità di poteri tra giudice accusatore e imputato, sulla piena libertà del giudice nella raccolta delle prove.

227. Ad esempio il furto, l'ingiuria, la violazione di contratto, il danno.

228. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 66.

229. Ibidem, pag. 68. Tale concezione verrà ripresa e portata alle estreme conseguenze nel medioevo. Si noti che tale usanza non era in voga presso i romani, per i quali la confessione, per avere valore, doveva essere corroborata da altre prove, esigendosi una diretta e precisa ricerca del vero.

230. Ibidem, pag. 83.

231. "ENCICLOPEDIA DEL DIRITTO", op. cit., pag. 753.

232. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit. pag. 22.

233. Tranne, come abbiamo visto, nel caso dell'esilio volontario, eseguibile solo dalle classi patrizie e limitatamente al rischio di pena capitale.

234. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit. pag. 22.

235. Digesto, 48,19,8,9 (9 de off. Proc.).