ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo III
Le problematiche vecchie e nuove relative alla pena pecuniaria

Leonardo Bresci, 2004

1. Premessa

Il ricorso alla pena pecuniaria è sempre più diffuso nei moderni ordinamenti penali attraverso la riduzione delle fattispecie incriminatrici punite con la pena detentiva (1) e l'introduzione di forme di patteggiamento pecuniario. Questa tendenza mira a far fronte ai quei gravi problemi che rendono inefficiente l'attuale giustizia penale: affollamento degli istituti penitenziari, arretratezza dei carichi giudiziari, ecc.

In questa direzione la legge 689 del 1989 ha esteso l'operatività della pena pecuniaria quale sanzione sostitutiva delle pene detentive brevi (sei mesi di reclusione o arresto). Nel nostro ordinamento la pena pecuniaria ha dovuto fare i conti con una serie di problemi (di rilevanza sia costituzionale che pratica) che non hanno contribuito al buon funzionamento di tale strumento sanzionatorio.

Pertanto, cercheremo di toccare i vari aspetti problematici della disciplina della pena pecuniaria, al fine di verificare la possibilità d'eventuali interventi correttivi della materia.

2. La conversione della pena pecuniaria nel codice Rocco

La disciplina della conversione delle pene pecuniarie, originariamente prevista dal nostro codice penale, era sostanzialmente analoga a quelle contenute nel Code Napoleon (2), nelle legislazioni penali degli Stati preunitari (3), e nel codice Zanardelli (4): elemento comune a tutte queste normative era, infatti, la previsione della detenzione quale misura sostitutiva della pena pecuniaria ineseguita. Tale disciplina era contenuta (prima dell'intervento "abrogativo" della Corte costituzionale che, come vedremo, ha dato stimolo alla successiva riforma della materia) negli artt. 135 e 136 (5) del codice penale e nell'art. 586 dell'ormai abrogato codice di procedura penale.

2.1. La disciplina sostanziale e processuale

Le norme sostanziali prevedevano un meccanismo di conversione, secondo cui la pena detentiva doveva sostituire la pena pecuniaria rimasta ineseguita per insolvibilità del condannato. Il quantum di pena detentiva convertita era calcolato in base al criterio di ragguaglio fissato nell'art. 135 del codice penale: un giorno di detenzione per ogni cinquanta lire di pena pecuniaria (6). In ogni caso, era fatta salva la possibilità per il condannato di far cessare la pena sostituita mediante il pagamento della multa o dell'ammenda, dedotta la somma corrispondente alla pena detentiva già sofferta.

La disciplina era completata dall'art. 586 che, al quarto comma, fissava nel mancato pagamento della pena pecuniaria e nell'insolvibilità del condannato, i presupposti del provvedimento di conversione. Il mancato pagamento si verificava una volta conclusa, con esito negativo, la procedura di esecuzione delle pene pecuniarie (7), promossa dal cancelliere competente che, pertanto, rimetteva al p.m. o al pretore gli atti necessari per la conversione. Ai sensi dell'art. 40 disp. att., c.p.p., l'insolvibilità doveva invece essere provata mediante certificati dell'autorità comunale, del procuratore delle imposte e dell'ufficio di polizia tributaria del luogo ove il condannato aveva il domicilio o la residenza, ovvero si ritenesse possedere beni o cespiti di beni. Qualora il condannato fosse "notoriamente insolvibile anche per una lieve somma", l'ufficiale giudiziario era dispensato dal procedere al pignoramento e doveva senz'altro rilasciare l'attestato di insolvibilità (art. 115 d.p.r.n.1229 del 1959). Accertati in tal modo i presupposti, il p.m. o il pretore adottavano automaticamente il provvedimento di conversione, cioè senza alcun controllo sul reale stato d'insolvibilità.

Infine, il primo comma dello stesso articolo, precisando che le pene pecuniarie sono eseguite "nei modi stabiliti dalla legge e dai regolamenti", rinviava al R.D. 2701/1865 (la c.d. Tariffa penale). Un particolare rilievo era assunto dall'art. 237 della Tariffa penale, il quale consentiva all'intendente di finanza, su parere dell'organo di esecuzione (o del superiore ministro) di dilazionare o rateizzare fino a sei anni, il pagamento della pena pecuniaria. Le modalità di concessione di questo beneficio erano, invero, peculiari: da un lato era affidato ad organi preposti alla tutela finanziaria dello Stato e, pertanto, estranei alla giurisdizione penale (8); dall'altro i destinatari erano soltanto i soggetti in possesso di garanzie della propria solvibilità (9) (certificati di catasto; ipoteche; fideiussioni).

Circa i mezzi d' impugnazione, il condannato poteva proporre opposizione, priva di effetto sospensivo, sollevando incidente di esecuzione (art. 586, 7º comma c.p.p.). Da rilevare, al riguardo, che i motivi di opposizione erano limitati all'ingiustizia del provvedimento di conversione e all'errore nel calcolo relativo alla determinazione della pena detentiva.

Possiamo concludere questo breve quadro descrittivo evidenziando due essenziali caratteristiche dell'istituto:

  1. l'automaticità della conversione. Era sufficiente il semplice mancato pagamento per innescare un meccanismo che procedeva indipendentemente da qualunque indagine circa la causa e la volontarietà dell'insolvibilità.
  2. l'indifferibilità della conversione. Al di fuori dell'ipotesi dell'art. 237, peraltro posta ad esclusivo vantaggio di una stretta cerchia di soggetti, l'ordinamento non prevedeva alcuna possibilità di procrastinare o dilazionare nel tempo il pagamento della pena pecuniaria.

Alle origini l'istituto appare, dunque, recepire il vecchio principio "pauper qui non potest solvere in poenam in aere, solvit in corpore", secondo cui la pena inflitta deve avere esecuzione in ogni caso anche, se necessario, in forma diversa da quella originariamente prevista.

Se ai caratteri di automaticità ed indifferibilità aggiungiamo la mancanza di adeguato meccanismo d'individualizzazione della pena pecuniaria (10), emerge con tutta evidenza il carattere rigoroso dell'originaria disciplina della conversione. Non solo lo stato di insolvibilità apriva automaticamente le porte del carcere, ma non si prevedeva neppure nessuna forma di adeguamento della pena pecuniaria alle condizioni economiche del reo, diretta a contenere le ipotesi di conversione.

Lo stesso legislatore, consapevole del rigore dell'istituto, aveva introdotto nel corso delle legislature alcuni temperamenti nella disciplina; in particolare:

  1. l'assegnazione dei condannati a pena detentiva convertita a sezioni speciali del carcere (artt. 38 e 39 del Reg. pen.) (11) e la loro destinazione a lavori diversi rispetto a quelli organizzati all'interno dello stesso stabilimento;
  2. la previsione di precisi limiti alla durata della pena detentiva convertita, fissati in quattro anni per la reclusione e tre anni per l'arresto (L. 603/1961).

2.2. Imperfezioni tecniche

In realtà, la disciplina della conversione delineata dal codice Rocco non fu oggetto di particolari valutazioni da parte dei primi commentatori i quali, oltre ad evidenziare la necessità strutturale dell'istituto (12), si limitarono a riconoscerle una importanza dogmatica: la distinzione tra la sanzione pecuniaria criminale e quella amministrativa si fondava sull'essere la prima, a differenza della seconda, convertibile (13).

Soltanto a partire dagli anni '60, dottrina e giurisprudenza iniziarono a manifestare un (rinnovato) (14) interesse nel momento in cui, per le mutate condizioni storiche, tale disciplina doveva fare i conti con il nuovo ordinamento costituzionale.

Oltre ai profili d'incostituzionalità di cui parleremo tra breve, la dottrina indicò nella conversione una serie di disarmonie e imperfezioni. Anzitutto, la conversione alimentava l'annoso problema, presente a livello internazionale, della lotta alla pena detentiva breve, di cui si denunciava soprattutto lo scarso valore rieducativo. (15)

In secondo luogo, l'applicazione dell'istituto dava origine a contraddizioni tra il giudizio espresso nella sentenza di condanna e la determinazione propria del provvedimento di conversione. (16) Si pensi, ad esempio, ad una fattispecie criminosa sanzionata alternativamente con pena detentiva e pena pecuniaria, in relazione alla quale il giudice ritenga di applicare la seconda, sulla base della minor gravità del fatto. Qualora la pena pecuniaria, irrogata dal giudice di cognizione, venga convertita in pena detentiva, si produce un contrasto stridente tra le due valutazioni, che non trova riscontro in una sopraggiunta maggiore gravità del fatto.

3. La "prima" giurisprudenza costituzionale: la conversione tra effettività della pena e principio di uguaglianza

Passando alle implicazioni costituzionali dell'istituto, bisogna premettere che l'introduzione della pena pecuniaria tra gli strumenti sanzionatori pone il problema di come dare attuazione al comando penale contenuto nella sentenza di condanna, in caso d'insolvibilità del condannato. A meno di rinunciare alla funzione di retribuzione-intimidazione propria anche della pena pecuniaria, l'ordinamento giuridico deve affiancare a tale sanzione degli strumenti idonei a garantirne l'effettiva esecuzione. D'altronde la rinuncia all'esecuzione della condanna configurerebbe una grave breccia nel sistema, poiché non solo alimenterebbe la sfiducia dei cittadini nella risposta dello Stato al crimine, ma prospetterebbe anche ipotesi di impunità, che finirebbero per incentivare la delinquenza.

La patologia delle pene pecuniarie può essere sanata con la previsione di misure che, poste a presidio dell'inderogabilità della pena, consentano alla sanzione penale di non rimanere soltanto minacciata ed irrogata a vuoto, ma di agire secondo propria natura e funzione.

Uno di questi strumenti è costituito dall'istituto della conversione che, attraverso la sostituzione della pena pecuniaria ineseguita con una pena incidente sulla libertà personale, realizza le funzioni di retribuzione e prevenzione generale proprie della repressione penale.

D'altra parte, però, la maggiore afflittività, dovuta alla traslazione della pena dal bene economico al bene della libertà personale, può condurre a discriminazioni tra condannati colpevoli di identici reati e, quindi, compromettere il principio di uguaglianza. Tale disparità di trattamento è tanto più evidente quando la restrizione della libertà personale è avulsa da qualsiasi indagine circa la colpevolezza del condannato nell'inadempimento dell'obbligazione pecuniaria penale.

La circostanza che un identico ammontare di pena pecuniaria potesse condurre ad esiti diversamente afflittivi e il carattere automatico della conversione ha indotto la dottrina a formulare tesi di incostituzionalità sugli artt. 136 c.p. e 586 c.p.p (17). L'art. 3 della Costituzione, vietando agli organi dello Stato (fra cui il legislatore) di operare discriminazioni tra cittadini, subirebbe una lesione da parte di un istituto (la conversione ex art. 136 c.p.) che fa dipendere dalle sole condizioni economiche (18) del condannato la restrizione della libertà personale, ossia di un diritto soggettivo, compreso fra quelli "inviolabili" indicati all'art. 2 C. e suscettibile di restrizioni solo alle condizioni previste dall'art. 13 C.

Pertanto, gran parte della dottrina ha visto nell'istituto della conversione una sanzione per la povertà, poiché determinava una discriminazione tra i responsabili di reati d'uguale entità, fondata su criteri unicamente economici.

Non devono, in ogni modo, essere trascurate altre considerazioni volte, invece, a salvare la costituzionalità degli articoli 136 del codice penale e 586 del codice di procedura penale (19). Alcuni autori, infatti, hanno difeso l'istituto talvolta ponendo l'accento sulla natura programmatica della norma sull'uguaglianza giuridica (20), altre volte facendo leva su di una particolare interpretazione di tale principio e altre volte ancora sottolineando la necessità della conversione per garantire lo svolgimento della funzione della pena.

Da quanto premesso, si capisce che i termini della problematica relativa alla conversione sono costituiti dalle esigenze di effettività della pena da una parte, e di rispetto del principio di uguaglianza dall'altra. Se da un lato non vi è dubbio che la conversione sia la migliore garanzia per assicurare alla pena le funzioni che le sono proprie, dall'altro quest'istituto pone dei problemi di compatibilità con il principio di uguaglianza, stante il carattere maggiormente afflittivo della pena succedanea.

3.1. La sentenza della Corte costituzionale nº 69 del 1962

La tensione tra le due diverse istanze ha caratterizzato non soltanto il dibattito dottrinale, ma anche la giurisprudenza costituzionale. La Corte dapprima si è preoccupata esclusivamente di riaffermare i principi giustificativi dell'istituto. In seguito ha cominciato a cercare un punto di equilibrio tra l'istanza di effettività della pena pecuniaria e l'istanza costituzionale espressa dal principio di uguaglianza. Infatti, se in un primo momento ha respinto con forza le tesi di incostituzionalità sostenute tenacemente dalla dottrina, successivamente ha capovolto radicalmente la propria posizione determinando uno dei maggiori fenomeni di overrulling (21) mai verificatesi in campo penale.

La prima tappa del cammino della giurisprudenza costituzionale è segnata dalla sentenza n. 69 del 1962 (22), con la quale la Corte ha fermamente negato l'incostituzionalità dell'istituto della conversione delineato dal Codice Rocco. Cerchiamo di ripercorrere i punti salienti di questo giudizio di costituzionalità. L'ordinanza di rimessione del giudice a quo (23) segnalava come il meccanismo della conversione, fondandosi su "una generale discriminazione tra cittadini, sulla base di criteri puramente economici", contrastasse con l'art. 3 della Costituzione, in quanto i non abbienti vedrebbero "ingiustificatamente aggravarsi la loro posizione di condannati, dovendo scontare la reclusione o l'arresto in sostituzione della pena pecuniaria ricevuta". Si prospettava, inoltre, con riferimento alle norme sulla libertà personale, l'incostituzionalità di un sistema che considera "la libertà personale dell'uomo [...] come un quid che possa essere valutato con criteri prettamente monetari, oggettivamente arbitrari".

La Corte, nella sentenza indicata, pur prendendo atto della disparità di trattamento che si veniva a creare tra i condannati in conseguenza delle diverse condizioni economiche, respingeva recisamente le prospettate tesi di incostituzionalità. Nella decisione, infatti, metteva in relazione gli interessi sacrificati dall'art. 136 del codice penale con l'interesse tutelato dalla stessa norma, col risultato di attribuire rilevanza al principio di inderogabilità della pena rispetto al principio costituzionale di uguaglianza.

Rispetto all'interesse perseguito dall'art. 136, la Corte aveva ritenuto appartenere all'ordinamento giuridico il principio secondo cui "alla esecuzione della pena effettivamente si addivenga, sia pure in forma diversa, affinché la pena non resti minacciata ed irrogata a vuoto ed agisca invece secondo la propria natura e funzione". La corte, dunque, riconosceva il carattere di inderogabilità della pena.

Dal lato degli interessi sacrificati, la Corte aderiva ad una concezione del principio di uguaglianza inteso in senso non assoluto, in modo tale da non ritenere illegittima una diversa disciplina in ordine a due diverse situazioni.

Per meglio comprendere le conclusioni della Corte pare opportuno soffermarsi brevemente sulla concezione del principio di uguaglianza. Già prima della sentenza nº 69, sulla validità dell'accezione relativistica di detto principio convergeva sia la dottrina maggioritaria (24) che la giurisprudenza costituzionale. (25) L'orientamento prevalente faceva quindi discendere dalla Costituzione il duplice imperativo del trattamento uguale per gli uguali e del trattamento differenziato dei diversi. Sempre secondo la giurisprudenza, la valutazione della uguaglianza o diversità delle situazioni disciplinate era rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario, salvo il limite della ragionevolezza. (26) La ragionevolezza, assunta quale limite esterno alla volontà del legislatore, costituirebbe così il parametro di riferimento per la Corte costituzionale nella valutazione delle discriminazioni normative.

Motivi di brevità non ci consentono di esaminare le serie difficoltà poste dall'interpretazione del criterio della ragionevolezza; basti qui evidenziare l'impossibilità di ricercare nelle sentenze della Corte costituzionale una definizione univoca di tale parametro.

Appare sicura, invece, l'interpretazione adottata dalla Consulta nella sentenza nº 69: le discriminazioni normative devono intendersi ragionevoli (e quindi conformi al principio di uguaglianza) quando tendono a tutelare un interesse non soltanto costituzionalmente protetto ma anche espressivo di un principio generale dell'ordinamento. Pertanto il giudizio di rilevanza espresso a favore del principio di inderogabilità della pena risente di quest'impostazione interpretativa: l'art. 3 della Costituzione può trovare una ragionevole limitazione nell'esigenza di effettività della pena che è espressione di un principio generale dell'ordinamento.

Sulla base di queste considerazioni, la Corte arriva non solo a giustificare, ma anche a valorizzare l'istituto della conversione, assegnandogli la funzione di riaffermare (anziché negare) il principio d'uguaglianza, in quanto permetteva che tutti i soggetti, di qualunque condizioni, fossero pari nella responsabilità di fronte al reato.

L'efficacia decisiva e preminente del principio di inderogabilità della pena veniva, poi, confermato nelle successive ordinanze di manifesta infondatezza: ordinanza n. 59 del 1962 (27) e ordinanza n. 127 del 1971. (28)

3.2. La sentenza della Corte costituzionale nº 149 del 1971

Sempre nell'ambito dello stesso orientamento giurisprudenziale deve essere inserita la sentenza nº 149 del 1971 (29), la quale dichiarava la parziale illegittimità dell'art. 136, nella parte in cui ammetteva, per i reati commessi dal fallito in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva, prima della chiusura della procedura concorsuale.

Tale intervento, infatti, non appare caratterizzarsi da particolari tratti di novità rispetto alla precedente pronuncia del 1962 (30). In realtà, l'obiettivo della Corte, lungi dal voler censurare l'intero meccanismo di conversione, era correggere quella giurisprudenza (31), costantemente avallata dalla Cassazione (32), che si rifiutava di considerare la pena pecuniaria come un debito verso l'erario. Infatti, nel caso di condanna a pena pecuniaria di un soggetto sottoposto a procedura fallimentare, questa veniva immediatamente convertita nella pena detentiva senza attendere l'esito del procedimento concorsuale (che ovviamente poteva chiudersi con esito positivo).

La sentenza nº 149 si proponeva dunque di sanare una specifica situazione patologica, nella quale l'automatismo della conversione non operava soltanto nella fase dell'effettivo mancato pagamento (situazione di insolvibilità) ma già in quella precedente dell'impossibilità giuridica di pagamento (situazione di insolvenza). Riconosciuta come iniqua la prassi applicativa dell'art. 136, i giudici costituzionali hanno ravvisato una violazione dell'art. 3 della costituzione nell'equiparazione tra insolvibilità (fatto oggettivo) e insolvenza (mera situazione contingente e, talvolta, provvisoria) ai fini della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva. Che si sia trattato di un intervento mirato su di una specifica situazione era confermato dalla stessa Corte nel momento in cui aveva cura di precisare che con tale decisione non doveva ritenersi smentita "la sua precedente giurisprudenza circa la legittimità costituzionale dell'istituto della conversione".

In ogni caso questa sentenza ha avuto un ruolo importante per il successivo sviluppo della giurisprudenza costituzionale. La dottrina più attenta ha sottolineato come tale pronuncia, sebbene nata per sanare una specifica situazione, introducesse un importante elemento di novità: la distinzione tra insolvibilità e insolvenza (33). Riconoscendo la possibilità di arrestare temporaneamente la conversione in presenza di situazioni di mera insolvenza, si andava a scalfire la rigida equazione tra inderogabilità e indifferibilità, già sostenuta dalla Corte nelle sue precedenti pronunce, in riferimento all'applicazione ordinaria dell'istituto (34).

Nonostante la ferma posizione assunta dalla Corte nelle sentenze del '62 e del '71 in ordine alla costituzionalità dell'istituto, non cessarono le critiche da parte della dottrina (35).

Del resto, oltre alle manifeste preoccupazioni della dottrina, due atti legislativi manifestavano l'esigenza diffusa di arginare il più possibile l'operatività della conversione che, pur avendo ricevuto il timbro di costituzionalità da parte della Corte, continuava a suscitare perplessità.

Il primo è rappresentato dalla L.354 del 1975 che previde il regime di semilibertà per l'espiazione delle pene detentive derivanti da conversione, facendo altresì salva la possibilità di una conversione in lavoro da prestarsi alle dipendenze di enti pubblici (36). Il secondo è un atto normativo decaduto per la fine anticipata della VII legislatura: il d.d.l. 1077/C (Progetto Bonifacio), nel quale si preveda sia il pagamento rateale della multa e dell'ammenda (art. 27) da disporsi eventualmente dal giudice di cognizione, sia la conversione nei casi di mancato pagamento nella libertà controllata o nella semilibertà, a seconda dell'entità della pena pecuniaria da convertire.

4. L'evoluzione della giurisprudenza costituzionale: la cesura della sentenza n.131 del 1979

Abbiamo già accennato alle due opposte posizioni assunte dalla Corte in merito alla legittimità dell'istituto della conversione: se in un primo momento ha concluso per la costituzionalità, successivamente ha optato, rinnegando i propri precedenti, per la soluzione contraria.

La sentenza n. 131 del 1979 ha operato questa cesura nella giurisprudenza costituzionale, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 136 del codice penale e, in applicazione dell'art. 27 L.87/1953, dell'art. 586 del c.p.p. (37)

La Corte arrivava perfino a mettere in dubbio la rispondenza della stessa pena pecuniaria al principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, della Costituzione), in base al rilievo che il contenuto stesso della sanzione "consente l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria verso lo Stato anche ad opera di un terzo". Il carattere personale della pena pecuniaria resterebbe compromesso dall'impossibilità, o quantomeno dalla difficoltà, di indagare sulla reale provenienza del denaro necessario al condannato per l'adempimento. La logica conseguenza di queste argomentazioni avrebbe dovuto essere la dichiarazione d'illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 27 comma 1º Cost., di tutte le norme che prevedono la pena pecuniaria. Tuttavia la Corte non è pervenuta a tale conclusione, confermando così il proprio orientamento favorevole alla pena pecuniaria; (38) trattasi pertanto del risultato di una precisa scelta di politica giuridico-costituzionale, e non della mancanza dei presupposti per una pronuncia di illegittimità costituzionale. (39)

A parte tale rilievo, l'argomentazione centrale su cui si fondava la decisione del 1979 si riferiva alla compatibilità dell'istituto rispetto all'art. 3 Cost. La lesione del principio di uguaglianza si verificava, a dire della Corte, allorché esclusivamente per la accertata insolvibilità del condannato, si doveva procedere indifferibilmente ed in modo automatico, alla conversione della pena pecuniaria in pena detentiva. La Corte individuava, dunque, nell'indifferibilità e nell'automatica operatività i tratti salienti del sistema della conversione e, conseguentemente, ne dichiarava l'incostituzionalità; la maggiore afflittività dovuta alla sostituzione della pena pecuniaria con quella detentiva non trovava, infatti, alcuna giustificazione in ordine ad una diversa responsabilità tra autori dei medesimi reati. Pertanto, "le diseguali conseguenze sanzionatorie che potevano verificarsi in relazione alla violazione della medesima norma incriminatrice", erano causate direttamente ed esclusivamente dalle condizioni economiche del condannato. Quel meccanismo di conversione, concludeva la Corte, introduceva un'inammissibile discriminazione basata sulle condizioni personali e sociali, "la cui illlegittimità è apertamente, letteralmente, proclamata dall'art. 3 della Costituzione".

La Corte, inoltre, richiamava anche il principio di inderogabilità della pena, ma assegnandogli un diverso valore rispetto alla precedente pronuncia del 1962. Tale principio non poteva confondersi con il concetto di differibilità della pena in situazioni meritevoli di considerazione; di conseguenza il richiamo all'inderogabilità non serviva a giustificare la conversione automatica ed indifferibile della pena pecuniaria in pena detentiva. In altri termini, una conversione differibile nel tempo non farebbe venir meno il carattere di inderogabilità della pena pecuniaria; come dire: la conversione automatica e indifferibile non è l'unica soluzione per garantire l'effettività della pena.

La Corte, tuttavia, non svuotava del tutto il principio di inderogabilità della pena, ritenendo comunque doveroso garantire il funzionamento del sistema penale nei confronti di tutti i cittadini. Di conseguenza sottolineava la necessità di strumenti a presidio dell'effettività anche della pena pecuniaria; strumenti però compatibili anche col principio di uguaglianza.

In conclusione, la Corte eliminava dall'ordinamento non l'istituto della conversione tout court, bensì quella particolare forma di conversione che operava automaticamente e indifferibilmente tramite la traslazione della pena dai beni alla persona del condannato. Rinviava pertanto al legislatore l'adozione di strumenti normativi necessari per garantire l'effettiva uguaglianza dei cittadini di fronte alla sanzione penale pecuniaria. Nella sentenza sono stati, infatti, individuati tre messaggi indirizzati al futuro legislatore: (40)

  1. anzitutto non ogni forma di conversione deve essere ritenuta illegittima;
  2. la riforma dell'istituto della conversione avrebbe dovuto convergere su di un sistema di sanzioni non detentive: la Corte indicava, tra le varie esperienze pilota del diritto comparato, il cosiddetto lavoro libero;
  3. da ultimo, la Corte invitava il legislatore a contenere le ipotesi di conversione attraverso la predisposizione di adeguati meccanismi di adattamento della pena alle condizioni economiche del condannato.

Conviene soffermarsi ancora un attimo sul radicale capovolgimento che si è verificato nella giurisprudenza costituzionale ad opera di questa sentenza, con la quale la Corte ha smentito completamente i propri precedenti insegnamenti per dichiarare l'incostituzionalità dell'art. 136 del codice penale (41). Nel 1962 la Corte aveva ritenuto che la conversione mirasse a tutelare l'effettività della pena, ossia un principio generale dell'ordinamento idoneo, come tale, a imporre disparità di trattamento. In altri termini, era sufficiente scorgere nella conversione una finalità meritevole di tutela (dettata da un principio fondamentale non costituzionalizzato) per dichiararne la costituzionalità. Accertato l'interesse perseguito dall'art. 136 c.p., rimanevano irrilevanti le istanze sacrificate sul piano dell'uguaglianza.

Al contrario nella sentenza del 1979, pur dichiarando l'incostituzionalità del sistema di conversione, si procede ad un bilanciamento fra i principi implicante due importanti acquisizioni che caratterizzeranno la successiva giurisprudenza: la ricerca di una proporzione tra la sanzione da conversione e la pena pecuniaria; la necessità dell'elemento soggettivo nell'applicazione della sanzione succedanea.

5. La disciplina della conversione introdotta con la Legge 24 novembre 1981, nº 689

Il vuoto legislativo creatosi con l'intervento abrogativo della Corte costituzionale determinava un ribaltamento dei termini del problema. Infatti, se l'originario art. 136 (e 586 c.p.p.) determinava una discriminazione del non abbiente nei confronti dell'abbiente, dalla sua eliminazione è il condannato abbiente a subire un pregiudizio dalla disparità di trattamento: mentre nei confronti del povero la sanzione pecuniaria rimarrebbe ineseguita a causa della mancanza di un meccanismo di conversione, la stessa sanzione andrebbe sempre a buon fine nei confronti del benestante.

Il riassetto legislativo dell'intera materia è stato attuato dal legislatore del 1981, il cui intervento era stato peraltro auspicato dallo stesso giudice costituzionale quando, dichiarando l'illegittimità dell'art. 136 c.p., precisava che non ogni tipo di conversione doveva ritenersi costituzionalmente illegittima.

Il legislatore ha reintrodotto, dunque, l'istituto della conversione al fine di salvaguardare il principio di inderogabilità della pena, ma allo stesso tempo ne ha dettato una disciplina diversa, nel tentativo di adeguare la materia alle indicazioni della Corte. La riforma del 1981, alla quale è dedicato l'intero Capo V della legge, ha interessato vari aspetti della materia della pena pecuniaria, in particolare gli artt. 102 e ss. concernono:

  1. i criteri di commisurazione della pena pecuniaria;
  2. la tipologia delle pene da conversione;
  3. i profili processuali della conversione.

5.1. Il nuovo ruolo delle condizioni economiche

Nel tentativo di dare attuazione alle direttive della sentenza 131/1979, il legislatore ha rivalutato il ruolo delle condizioni economiche del condannato a pena pecuniaria, al fine di inquadrare il ricorso alla conversione come una extrema ratio.

Già da tempo la dottrina reclamava un meccanismo di individualizzazione della pena pecuniaria che favorisse l'adempimento effettivo del condannato, col risultato di ridurre così i casi di conversione (42). Nonostante le pressanti indicazioni fornite da larga parte della dottrina, il legislatore si limita, nei primi lavori di riforma, a prevedere il pagamento rateale della pena pecuniaria, ignorando la possibilità di inserire le condizioni economiche tra i criteri di commisurazione. Risulta decisiva la sentenza 131/1979 della Corte costituzionale che, avallando le predette posizioni dottrinali, "obbliga" il legislatore ad allargare i criteri di commisurazione alle condizioni economiche (43).

La legge 689/1981 introduce, dunque, nel codice penale gli artt. 133-bis e 133- ter, ridefinendo il ruolo delle condizioni economiche al duplice scopo di attuare una perequazione della afflittività della pena pecuniaria e ridurre al minimo i casi di conversione (44).

L'art. 132- bis dispone:

Nella determinazione dell'ammontare della multa o dell'ammenda, il giudice deve tenere conto, oltre che dei criteri indicati dall'articolo precedente anche delle condizioni economiche del reo.

Il giudice può aumentare la multa o l'ammenda stabilite dalla legge sino al triplo o diminuirle sino ad un terzo quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa.

La norma introduce un modello di commisurazione della pena pecuniaria cosiddetto a somma complessiva, in cui si tiene conto in un'unica operazione di quantificazione non solo della gravità del reato e della capacità a delinquere, ma altresì delle condizioni economiche. Con tale norma hanno pertanto ingresso, ai fini della quantificazione della pena pecuniaria, le condizioni economiche del reo, ma in concorso e sullo stesso piano gerarchico degli altri criteri previsti all'art. 133. Del resto è proprio l'aver aderito ad un siffatto modello che denuncia la prudenza con cui il legislatore si è mosso nel ridefinire il ruolo delle condizioni economiche. Il risalto ad esse dato è, tutto sommato, marginale ove si consideri che tale parametro concorre insieme agli altri nel determinare l'entità della pena pecuniaria.

La stessa dottrina aveva già indicato i vizi del modello a somma complessiva: a) nella scarsa trasparenza della incidenza delle condizioni economiche sull'ammontare della pena; b) nella sua incapacità di adeguare la pena pecuniaria alle effettive condizioni economiche del reo; c) e, di conseguenza, nella sua scarsa garanzia nell'assicurare una eguale afflittività della pena pecuniaria, dato il modesto ruolo svolto dalle condizioni economiche. Per ovviare a tali inconvenienti la via suggerita dalla dottrina (45) era l'adozione del più trasparente modello di commisurazione della pena pecuniaria.per tassi periodici che, basato su una struttura bifasica, considera le condizioni economiche separatamente dagli altri indici valutativi. Più esattamente: tale modello consente al giudice da un lato di fissare il numero dei tassi (giornalieri, settimanali, mensili) sulla base della valutazione della gravità del reato e della capacità a delinquere, dall'altro di quantificare l'entità di un singolo tasso alle effettive condizioni economiche.

Un'altra critica avanzata dalla dottrina riguardava la mancata previsione normativa dei criteri da cui desumere le condizioni economiche del reo, le quali rimanevano abbandonate al prudente apprezzamento del giudice. (46)

L'art. 133-bis affianca, inoltre, al tradizionale potere per il giudice di aumentare la pena pecuniaria fino al triplo (47), il simmetrico potere di riduzione fino ad un terzo quando per le condizioni economiche del reo la misura minima appaia eccessivamente gravosa.

Sempre nell'ottica di una individualizzazione della pena pecuniaria l'art. 133-ter dispone che:

Il giudice, con sentenza di condanna o con il decreto penale, può disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che la multa o l'ammenda venga pagata con rate mensili da tre a trenta. Ciascuna rata tuttavia non può essere inferiore a lire trentamila.

In ogni momento il condannato può estinguere la pena mediante un unico pagamento.

Le condizioni economiche, dunque, non incidono solo sull'ammontare, ma anche sulle modalità di esecuzione della pena pecuniaria attraverso la previsione della possibilità di pagamento rateale. La concessione del beneficio, fra l'altro, non esclude la possibilità per il condannato di estinguere in ogni momento la pena con un unico pagamento.

Tale norma che a differenza dell'art. 133-bis era già contenuta nell'originaria versione del Progetto Bonifacio, non costituisce una novità assoluta per il nostro ordinamento, giacché una qualche possibilità di dilazione era contemplata già nella Tariffa penale (R.D. nº 2701 del 1865). Gli art. 237 e 238 del regio decreto limitavano, però, le facilitazioni di pagamento ai soggetti muniti di garanzie personali o immobiliari, finendo così per considerare le sole condizioni economiche dell'abbiente, il quale trovandosi in una temporanea crisi di liquidità, poteva vantare comunque di un credito o di beni immobili.

La nuova formula impiegata dal legislatore nell'art. 133 ter, per contro, mira a prendere in considerazione soprattutto le condizioni economiche del non abbiente, sganciando la concessione del rateizzo dalla prestazione di garanzie. Tale norma trova, pertanto, applicazione in ogni caso di difficoltà di pagamento e quindi anche a favore di chi, non potendo prestare alcuna garanzia né personale né reale conti soltanto sul proprio reddito o lavoro.

Infine tre sentenze della Corte di Cassazione hanno avuto il merito di interpretare e precisare la disciplina dell'art. 133- ter. La Suprema Corte ha infatti stabilito che:

  1. L'ambito di operatività dell'istituto è limitato alle sole pene pecuniarie, con esclusione delle altre sanzioni pecuniarie non penali presenti nell'ordinamento (Cass. Sez. III, 26 febbraio 1992, in Arch. Proc. Pen., 1992, p. 617);
  2. Il dovere, in capo al giudice di merito, di motivare analiticamente l'esercizio del potere relativo alla concessione o al rifiuto dell'agevolazione di pagamento (Cass. Sez. I, 19 ottobre 1985, in R.P., 1986, p.737);
  3. L'obbligo, in capo all'imputato che voglia fruire della rateizzazione della pena pecuniaria, di fornire attestati comprovanti lo stato di insolvibilità (Cas. Sez. VI, 24 agosto 1993, R.P., 1994, p.692);
  4. L'autorizzazione al pagamento rateale non può essere concessa dalla Corte di Cassazione con la procedura prevista dall'art. 538 (ora aborgato) c.p.p. (Cass. Sez. III, 1 luglio 1983, R.P., 1984, 86).

5.2. Le nuove pene sostitutive della pena pecuniaria inesigibile

Il legislatore, pur introducendo un meccanismo di adeguamento della pena pecuniaria alle condizioni economiche, non ha escluso, ovviamente, l'ipotesi che ugualmente si verifichi una situazione di insolvibilità del condannato e, di conseguenza, il problema di come dare attuazione al comando penale. L'art. 101 della legge ha, infatti, reintrodotto l'art. 136 del codice penale, la cui versione attuale stabilisce che "le pene della multa e dell'ammenda non eseguite per insolvibilità del condannato, si convertono a norma di legge". La disciplina della conversione è contenuta negli artt. 102 e ss. della stessa legge che sostituiscono alla pena detentiva, dichiarata incostituzionale, due nuove sanzioni sussidiarie.

Ai sensi dell'art. 102 (primo comma), infatti, la multa o l'ammenda non eseguite per insolvibilità del condannato si convertono nella libertà controllata per un periodo massimo, rispettivamente, di un anno e di sei mesi. Qualora la pena pecuniaria non superi il milione (48) può essere convertita, a richiesta del condannato, nel lavoro sostitutivo (art. 102 secondo comma). Il ragguaglio ha luogo calcolando venticinquemila lire (49) di pena pecuniaria per ogni giorno di libertà controllata e conquantamila lire (50) per ogni giorno di lavoro sostitutivo (art. 102 terzo comma). Nel caso di concorso di pene pecuniarie la durata complessiva della libertà controllata non può superare un anno e sei mesi, se si tratta di multa, e nove mesi, se si tratta di ammenda (art. 103); mentre il lavoro sostitutivo non può durare più di sei mesi. Si deve tener presente, infine, che il condannato può sempre far cessare la sanzione sostitutiva pagando la multa o l'ammenda, dedotta la somma corrispondete alla durata della libertà controllata scontata o del lavoro sostitutivo prestato (art. 102 quarto comma).

Già da questa sintetica esposizione della disciplina sostanziale della conversione risulta evidente il maggior favore che il legislatore ha accordato alla libertà controllata rispetto al lavoro sostitutivo. mentre la sentenza nº 131 del 1979 aveva indicato proprio nel lavoro sostitutivo la soluzione da privilegiare, il legislatore del 1981 gli ha attribuito una rilevanza del tutto marginale, circoscrivendo la sua applicazione al rigido limite monetario (un milione di lire) e alla richiesta di parte.

5.3. La riforma degli aspetti processuali della conversione

Con gli artt. 106 e 107 dedicati rispettivamente all'esecuzione delle pene pecuniarie e alle modalità di esecuzione delle pene conseguenti alla conversione, il legislatore del 1981 ha tentato di adeguare i profili processuali alle innovazioni apportate alla disciplina sostanziale della pena pecuniaria.

La novella del 1981 (art. 106 L.689/1981), eccettuate talune disposizioni inerenti l'esecuzione rateale della pena pecuniaria, lasciava in larga parte immutato il vecchio art. 586 del codice di procedura penale. In particolare, veniva riproposta una identica disciplina circa:

  1. il rinvio alle leggi ed ai regolamenti per la disciplina dell'esecuzione delle pene pecuniarie (I comma) (51),
  2. i presupposti giustificativi della conversione della pena pecuniaria (VI comma) (52).

Il legislatore del 1981 ha lasciato di conseguenza intatto il congegno operativo della conversione: la conversione continuava a fondarsi sul mancato pagamento (accertato alla conclusione del procedimento descritto dagli artt. 205 ss. della Tariffa penale (53)) e sul dato oggettivo dell'insolvibilità (provata con i certificati di cui all'art. 40 disp. Att. c.p.p.), il cui accertamento continuava a rimanere di competenza rispettivamente, della cancelleria e del p.m. presso il giudice di esecuzione.

Soltanto una volta perfezionatosi il provvedimento di conversione emesso dal p.m. intervengono i ritocchi del legislatore del 1981, aprendo spazi di giurisdizionalizzazione nell'automatismo esecutivo della conversione, fino a questa fase affidato totalmente ad organi ausiliari della giustizia.

In base all'art. 107 una copia del provvedimento di conversione viene infatti trasmessa dal p.m. o dal pretore al magistrato di sorveglianza il quale, utilizzando le forme del procedimento di sorveglianza, sceglie il tipo di sanzione sussidiaria da applicare, determinandone discrezionalmente le modalità esecutive (ossia le prescrizioni). L'accertamento dei presupposti e la decisione sull'an della conversione continuano invece a restare sottratti ad organi giurisdizionali.

La disciplina della esecuzione delle pene pecuniarie viene successivamente rinnovata grazie all'emanazione del codice di procedura penale del 1988, il quale apporta profonde modifiche in materia. In particolare, viene unificata la competenza a disporre la conversione della pena pecuniaria nell'unica figura del magistrato di sorveglianza, accentrando così la decisione sull'an e sulle modalità esecutive della conversione in un unico soggetto. Il nuovo quadro normativo di riferimento risulta costituito dall'art. 660 c.p.p, artt. 181 e 182 disp. att., artt. 29 e 30 reg. es., nonché dalla sopravvivenza di alcune norme della Tariffa penale. Sinteticamente: competente all'esazione delle pene pecuniarie è la cancelleria del giudice dell'esecuzione, la quale deve iscrivere l'ammontare delle multe e dell'ammenda inadempiute nel registro del campione penale; successivamente la cancelleria deve notificare al condannato l'estratto del provvedimento di condanna in forma esecutiva insieme con l'atto di precetto contenente l'intimazione di pagare entro dieci giorni dalla notificazione stessa; una volta decorso inutilmente tale termine, il cancelliere provvede al recupero delle pene pecuniarie in osservanza delle regole del processo civile. In caso di esito negativo delle procedura di esecuzione (ovvero se il pignoramento è infruttuoso), la competenza della cancelleria cessa con la trasmissione degli atti al pubblico ministero. Quest'ultimo, compiuto un controllo formale sull'attività della cancelleria, deve promuovere un ulteriore atto di impulso procedimentale mediante la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza il quale, previa indagine sulla effettiva insolvibilità del condannato, provvede alla conversione della pena pecuniaria, stabilendo il tipo e i contenuti della sanzione sussidiaria. Per gli ulteriori sviluppi in materia rimandiamo all'ultimo paragrafo.

6. Residui dubbi di costituzionalità dopo l'intervento della Legge sulle "Modifiche al sistema penale"

Nonostante le innovazioni introdotte con la riforma del 1981, la dottrina ha continuato a nutrire sospetti circa la costituzionalità dell'istituto della conversione.

La rivalutazione delle condizioni economiche, l'introduzione di sanzioni sussidiarie diverse dalla pena detentiva costituiscono certamente il tentativo del legislatore di adeguarsi alle indicazioni della Corte (54); ma al contempo si è trattato di un adeguamento "parziale", dato che il meccanismo di conversione ha mantenuto intatte alcune caratteristiche fondamentali che furono già oggetto di precise censure da parte della Corte costituzionale.

Le critiche si sono concentrate anzitutto sui caratteri dell'automaticità e dell'indifferibilità dell'istituto, essendo sufficiente a far scattare la conversione ancora l'insolvibilità totalmente incolpevole. (55) In effetti, il legislatore ha innovato la disciplina prevedendo misure sussidiarie non più privative ma solo limitative della libertà personale, ma allo stesso tempo ha riproposto sostanzialmente immutata l'esecuzione delle pene pecuniarie. Nonostante l'esclusione della pena detentiva dal novero delle sanzioni sussidiarie e il tentativo di circoscrivere i casi di conversione (attraverso le previsioni di cui agli artt. 133-bis e ter), la circostanza di aver lasciato inalterati i presupposti giustificativi della conversione stessa avrebbe compromesso la rispondenza dell'istituto ai canoni dell'art. 3 della Costituzione. Sulla base di queste considerazioni la dottrina ha concluso che, ai fini della compatibilità con il principio di uguaglianza, a nulla rileverebbero i nuovi tipi di pene sussidiarie finché si inseriscono in un procedimento di conversione attuato esclusivamente in base al mancato pagamento e all'insolvibilità del condannato, senza verificare le cause del mancato adempimento.

Pertanto la dottrina, certa della natura afflittiva delle nuove sanzioni sostitutive, riproponeva il problema di una discriminazione operata esclusivamente sulla base delle condizioni economiche del condannato.

Le perplessità, inoltre, sono state alimentate dalla previsione contenuta nell'art. 108, secondo cui la violazione anche di una sola prescrizione inerente alla libertà controllata o al lavoro sostitutivo conduce inevitabilmente alla conversione della pena sostituita in pena detentiva (56): lo stato di insolvibilità potendo ancora causare, sia pure in seconda battuta, la privazione della libertà personale, denuncerebbe quindi un modello normativo che assume ostacoli di ordine economico a causa esclusiva dell'aggravamento della sanzione penale (57). Anche nell'ordinamento vigente, quindi, la minaccia del carcere incombe, sia pure indirettamente, sul condannato a pena pecuniaria attraverso la rigorosa disciplina del regime di revoca delle sanzioni sostitutive. La severità di questo sistema di revoca è però in parte smorzata dalla previsione contenuta nell'art. 108 che esclude l'applicabilità dell'art. 67 alle pene detentive derivanti da conversione: queste potranno dunque essere espiate in affidamento in prova o in regime di semilibertà (58).

La dottrina ha anche evidenziato gli aspetti problematici relativi al sistema di commisurazione della pena pecuniaria attuato attraverso il modello cosiddetto a somma complessiva, perché determinerebbe ingiustificate disparità di trattamento, in caso d'ipotetica conversione. (59) Ai sensi dell'art. 133-bis, la pena pecuniaria deve essere, infatti, commisurata tenendo conto anche delle condizioni economiche, le quali inciderebbero inevitabilmente sulla durata della sanzione sussidiaria risultante da un'eventuale conversione.

Sotto il profilo processuale, sono state mosse alcune critiche anche sull'art. 586 del c.p.p. E' stato rilevato, anzitutto, che la dizione letterale del comma quinto ammetterebbe che il mancato pagamento di una sola rata faccia scattare immediatamente la conversione, senza che si provveda all'accertamento dell'insolvibilità del condannato (espressamente previsto, invece, in via generale dal sesto comma) (60). Si configurerebbe un'ingiustificata disciplina speciale per la pena pecuniaria rateizzata, attraverso una presunzione d'insolvibilità non necessaria invece per la pena pecuniaria non rateizzata.

Infine, la disposizione del settimo comma (negazione dell'effetto sospensivo in caso di opposizione al provvedimento di conversione) è stata oggetto di una duplice critica; da una parte è stata evidenziata l'impossibilità di capire a cosa riferire l'effetto sospensivo: non al provvedimento di conversione, in quanto gli effetti di quest'ultimo si producono solo con l'ordinanza del magistrato di sorveglianza ex art. 107 L. 689/1981; non a quest'ultima ordinanza, ove si consideri che, nel caso in cui il condannato proponga opposizione al provvedimento di conversione del pm o del pretore non si possono produrre effetti sospensivi sul provvedimento del giudice (61). Da un'altra parte è stato affermato che la negazione degli effetti sospensivi comporta una frustrazione del diritto di difesa, in considerazione della durata (solitamente minima) della sanzione sussidiaria.

La parzialità dell'adeguamento del legislatore alla giurisprudenza costituzionale pare, pertanto, sostanziarsi nell'aver aderito ad un sistema di pene sussidiarie che incidano sulla libertà personale non più in termini di privazione, bensì di semplice limitazione; dall'altro nell'aver rifiutato un meccanismo di conversione fondato sul comportamento colpevole del condannato.

6.1. La sentenza 7 aprile 1987, nº 108

I sospetti di legittimità costituzionale avanzati dalla dottrina trovarono un'eco tempestiva nell'ambito di alcuni uffici giudiziari dove, in sede di applicazione del nuovo meccanismo di conversione, furono sollevate ordinanze di rimessione (62) su questioni attinenti i profili processuali e sostanziali della disciplina. In particolare le questioni sottoposte all'esame della Corte concernevano:

  1. la legittimità costituzionale dell'intera normativa sostanziale (artt. 136 c.p.; 102, 103 e 105 L. 689/1981). La riforma dell'81, secondo i giudici a quo, realizzava una situazione normativa analoga a quella oggetto di censura da parte della sentenza nº 131, poiché da un lato la libertà controllata e il lavoro sostitutivo presentavano sempre un carattere afflittivo; dall'altro la maggiore afflittività derivante dalla conversione continuava a presentarsi come conseguenza indifferibile ed automatica dell'impossibilità di adempiere;
  2. la legittimità costituzionale dei commi 5, 6, e 7 dell'art. 586 c.p.p.

La Corte costituzionale, a distanza di qualche anno dall'emanazione della legge 689, ha pertanto avuto l'opportunità di esaminare la nuova disciplina della conversione nel suo complesso.

Con sentenza 7 aprile 1987 nº 108, la Corte si è però limitata a dichiarare l'illegittimità costituzionale di qualche profilo processuale, senza addentrarsi a fondo nella problematica sostanziale del nuovo modello di conversione, finendo così per difendere la disciplina introdotta nel 1981. Vediamo i punti salienti di tale sentenza.

Anzitutto, la Corte esprimeva un giudizio positivo sulla normativa sostanziale, dichiarando infondata la questione relativa alle due nuove sanzioni sussidiarie. A tal proposito vengono richiamati i principi statuiti nella sentenza nº 131. Con l'introduzione della libertà controllata e del lavoro sostitutivo avrebbe, infatti, avuto attuazione quel bilanciamento tra principi (di inderogabilità e di uguaglianza) che, secondo la precedente pronuncia, doveva concretarsi nell'adozione di misure dirette a ridurre al minimo il divario di afflittività tra la sanzione sussidiaria e la pena pecuniaria originariamente inflitta (63).

Ad un esame più attento della sentenza ci accorgiamo però della precarietà di questo giudizio positivo (64). Infatti, la Corte sottolinea che una corretta attuazione dei principi costituzionali imporrebbe al legislatore di privilegiare il lavoro sostitutivo, considerato meno afflittivo rispetto alla libertà controllata. Dopo tale affermazione la Corte arriva ad ammonire il legislatore, quasi in una prospettiva de jure condendo, che alla libertà controllata dovrà spettare un ruolo sussidiario e non, come previsto nella legge del 1981, preminente rispetto al lavoro sostitutivo. Malgrado tali asserzioni la Corte, "per l'intanto e allo stato", giustifica la diversa scelta operata dal legislatore, ritenendo l'introduzione della libertà controllata dovuta alla "mancanza dei necessari supporti organizzativi". Altro elemento che mette in risalto la precarietà del giudizio è rappresentato dall'auspicio della Corte affinché vengano adottati strumenti che "agevolando l'adempimento della pena pecuniaria [...] circoscrivano nella massima misura possibile l'area di concreta operatività della conversione".

Circa gli aspetti processuali, anzitutto viene dichiarata l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale del comma 6º dell'art. 586 c.p.p., in relazione all'automatismo (65) e alla indifferibilità del provvedimento di conversione. Nel ragionamento seguito dalla Corte, l'assenza del carattere di automaticità discenderebbe direttamente dalla natura giurisdizionale del provvedimento di conversione. La giurisdizionalizzazione del procedimento di conversione (66) impedirebbe, infatti, che la competenza dell'organo di esecuzione (p.m. o pretore) si risolva, ai fini dell'accertamento della insolvibilità in un'acritica presa d'atto dell'operato di altri organi. In altri termini, ad avviso della Corte, il provvedimento di conversione non seguirebbe automaticamente al rilascio delle certificazioni previste dall'art. 40 disp. att. c.p.p. o all'attestazione di cui all'art. 115 D.P.R. 1229/1959, dovendosi ritenere che tali atti siano rivalutabili e sindacabili dall'organo di esecuzione.

Altrettanto infondata è stata ritenuta la censura circa l'indifferibilità della conversione, ma stavolta tramite una sentenza interpretativa di rigetto. Premesso che il potere di disporre il pagamento rateale spetta al giudice di cognizione (art. 133-ter) e all'intendente di finanza nella fase esecutiva (art. 237 Tariffa penale), sarebbe irrazionale che una facoltà attribuita ad un organo amministrativo, non spettasse anche all'autorità giudiziaria competente a decidere in materia di conversione. Con questa decisione, pertanto, la Corte attribuisce agli organi giurisdizionali il potere di dilazionare la pena anche in fase esecutiva.

Le uniche dichiarazioni di incostituzionalità riguardano i commi 5 e 7 dell'art. 586 del c.p.p. La prima norma infatti introduceva una assurda discriminazione di colui che ammesso al beneficio del pagamento rateale, vedeva convertirsi la pena pecuniaria per il solo mancato pagamento di una singola data, prescindendo quindi anche dall'accertamento dell'insolvibilità generalmente previsto all'art. 586, sesto comma. La seconda norma invece è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui non prevedeva l'effetto sospensivo del provvedimento di conversione, in caso di opposizione del condannato.

In conclusione, la normativa introdotta dal legislatore del 1981 passa il controllo di legittimità costituzionale, essendosi limitata la Corte a dichiarare incostituzionali marginali questioni di rito.

6.2. La sentenza 21 giugno 1996, nº 206

L'ultimo intervento della corte risale alla sentenza nº 206 del 1996 (67), con la quale ha dichiarato incostituzionale l'art. 102 (per contrasto con l'art. 27 primo comma Costituzione), nella parte in cui non consente che il lavoro sostitutivo, a richiesta del condannato, sia concesso anche nel caso di pene pecuniarie inferiori ad un milione di lire.

La pronuncia si colloca nella tendenza, emersa nella precedente giurisprudenza costituzionale, diretta a rendere minimo i quid pluris di afflittività insito negli strumenti sanzionatori sostitutivi. L'obiettivo perseguito è stato certamente quello di valorizzare il ruolo del lavoro sostitutivo nell'ambito delle sanzioni da conversione previste nel nostro ordinamento.

Nelle sentenze del 1979 e del 1989, la Corte aveva infatti indicato nel lavoro sostitutivo la scelta che il legislatore avrebbe dovuto privilegiare, in virtù della sua minore afflittività rispetto alle altre possibili pene da conversione. Il sistema di conversione introdotto con la riforma del 1981, invece, configurava la libertà controllata come regola, relegando il lavoro sostitutivo ad un ruolo marginale. La sentenza del 1989, senza addivenire ad una declaratoria di incostituzionalità, gettava ombre sulla legittimità della libertà controllata, aprendo la strada a futuri interventi della Corte diretti ad espungere dal sistema tale misura ovvero potenziare il lavoro sostitutivo.

Dunque, la sentenza del 1996 compie un ulteriore passo, stavolta concreto, verso l'affinamento della proporzione tra l'afflittività della pena pecuniaria e quella della pena da conversione, rimuovendo l'angusto limite monetario cui era assoggettata la concessione del lavoro sostitutivo. Da rilevare che a differenza delle precedenti pronunce, le quali proponevano un bilanciamento tra i principi di inderogabilità e uguaglianza, la sentenza del 1996 si caratterizza per una nuova impostazione del problema.

Il novum di questa pronuncia è rappresentato, infatti, dalla ricerca di un equilibrio tra il principio di effettività e il principio di personalità della responsabilità penale, finalizzato a ridurre il divario di afflittività tra la pena da conversione e la pena pecuniaria originariamente inflitta (68). In altri termini, all'art. 27 della Costituzione è attribuita una funzione di limite alle scelte del legislatore circa le pene da conversione: il principio di personalità imporrebbe l'adozione di pene succedanee quanto più possibili omogenee rispetto alla natura della pena pecuniaria. L'omogeneità tra le due misure consentirebbe che la responsabilità del condannato giustifichi, non solo la pena pecuniaria, ma anche la sanzione applicata in sede di conversione.

Sulla base di queste premesse teoriche, la Corte conclude la sanzione succedanea preferibile è il lavoro sostitutivo perché, lasciando inalterata l'equivalenza economica tra il denaro e l'attività che lo produce, permette di mantenere il rapporto di congruità tra reato e pena pecuniaria

Da rilevare, infine, che la spinta innovativa è rimasta stretta dalla tradizionale impostazione del problema: la ricerca di un bilanciamento tra effettività e personalità della responsabilità penale ha consentito di esprimere la preferenza per il lavoro sostitutivo, ma ha lasciato inalterate le acute tensioni tra i due principi. Ancora una volta, la giurisprudenza costituzionale non ha ritenuto di approfondire i profili che attengono alla colpevolezza del condannato; infatti la sentenza cerca di eliminare i tratti di alternatività subordinazione del lavoro sostitutivo, ma mantiene la libertà controllata tra le sanzioni succedanee ed elude un problema più volte evidenziato dalla dottrina, quello del coefficiente psicologico che dovrebbe sorreggere l'inadempimento.

7. Questioni pratiche e interpretative poste dalla disciplina esecutiva della pena pecuniaria

Dopo l'esame delle implicazioni costituzionali passiamo adesso alle problematiche emerse in sede di esecuzione della pena pecuniaria.

La disciplina esecutiva si articola attraverso una fase di riscossione di tipo amministrativo e il successivo momento giurisdizionale che culmina nella conversione della pena pecuniaria non pagata in una sanzione sostitutiva.

Dopo la legge del 1981, la materia è stata oggetto di varie modifiche (69) che rendono difficile l'individuazione del quadro normativo di riferimento. In particolare, occorre verificare se i problemi pratici e interpretativi emersi dalla prassi applicativa siano stati superati dalla riforma iniziata nel 1997.

Il nuovo codice di procedura penale (artt. 660 c.p.p.; 181 e 182 disp.att.) innovava la disciplina precedente (artt. 586 e 40 disp. att. dell'abrogato c.p.p. e art. 107 l. 689/1981) solo completando la giursdizionalizzazione del procedimento di conversione, mentre lasciava invece immutato il procedimento di esazione della pena pecuniaria, il quale continuava ad essere regolamentato soprattutto dalla Tariffa penale. Pertanto, dal complesso normativo il procedimento d'esecuzione era il seguente: competente all'esazione delle pene pecuniarie è la cancelleria del giudice dell'esecuzione (70), la quale deve iscrivere l'ammontare delle multe e delle ammende inadempiute nel registro del Campione penale; successivamente, entro trenta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna o del decreto penale di condanna, la cancelleria deve notificare al condannato l'estratto del provvedimento di condanna in forma esecutiva insieme con l'atto di precetto contenente l'intimazione di pagare entro dieci giorni dalla notificazione stessa; una volta decorso inutilmente tale termine, il cancelliere provvede al recupero delle pene pecuniarie in osservanza delle regole del processo civile. In caso di esito negativo della procedura di esecuzione (ovvero se il pignoramento è infruttuoso), la competenza della cancelleria cessa con la trasmissione degli atti al pubblico ministero. Quest'ultimo, compiuto un controllo formale sull'attività della cancelleria, deve promuovere un ulteriore atto di impulso procedimentale mediante la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza il quale, previa indagine sull'effettiva insolvibilità del condannato, provvede alla conversione della pena pecuniaria, stabilendo il tipo e i contenuti della sanzione sussidiaria (71).

Quanto ai problemi pratici, l'intera esecuzione delle pene pecuniarie (dal procedimento di recupero a quello di conversione) si è caratterizzata per l'eccessiva macchinosità, tale da comprometterne la pratica l'efficienza. Il mancato pagamento innesca un complesso procedimento di trasmissione degli atti che, nella migliore delle ipotesi, si esaurisce nel passaggio di "carte" dalla cancelleria, al p.m. e, infine, da questo al magistrato di sorveglianza. La lentezza del recupero delle pene pecuniaria è alimentata anche dal permanere di alcuni gravosi adempimenti che la Tariffa penale prescrive alle cancellerie del giudice dell'esecuzione (72) ed ai quali non accenniamo per la loro notorietà. La pratica giudiziaria ha dimostrato che gli effetti distorti prodotti dal meccanismo descritto si ripercuotono soprattutto a danno degli uffici di sorveglianza: anzitutto, le pratiche di conversione arrivano nelle scrivanie del magistrato di sorveglianza in uno stato prossimo alla conversione, inoltre l'urgenza di provvedere vanifica, di fatto, le garanzie giurisdizionali del procedimento di sorveglianza (73). La pena pecuniaria rappresenta pertanto un momento di crisi nell'ambito dell'attività della magistratura di sorveglianza.

Il procedimento di recupero è per di più inutile: di fatto, le pene pecuniarie (salvo rari adempimenti spontanei) non sono corrisposte dal condannato, il quale è di regola sottoposto alla misura della libertà controllata. Infatti, gli elevati importi previsti dalle fattispecie incriminatrici e la mancanza di un adeguato meccanismo di individualizzazione della pena pecuniaria non consentono al condannato di pagare, rendendo di conseguenza ingiustificati i costi sopportati dallo Stato per la procedura di recupero.

Non possiamo negare quindi che il nuovo codice di procedura penale, mantenendo l'efficacia del procedimento tariffario, abbia rinunciato ad attuare il principio di massima semplificazione nello svolgimento del processo, posto al n. 1 dell'art. 2 della legge delega per il nuovo Codice di procedura penale.

Quanto ai problemi interpretativi, una prima questione emersa dalla prassi applicativa riguarda la conversione nei confronti del condannato irreperibile (74).

Sull'argomento è intervenuta una pronuncia delle Sezioni Unite per uniformare due diversi indirizzi giurisprudenziali emersi nell'ambito della prima sezione della Suprema Corte.

Un primo orientamento (75), muovendo da una visione bifasica della struttura del procedimento di conversione, riteneva possibile emanare un provvedimento di conversione nei confronti del condannato irreperibile, rinviando la determinazione delle relative modalità esecutive al momento dell'effettivo rintraccio della persona; con la conseguenza che le due decisioni (l'una relativa all'an della conversione, l'altra alle modalità esecutive) potessero essere prese da due magistrati di sorveglianza diversi.

Un secondo orientamento (76), convinto dell'unitarietà del procedimento di conversione, concludeva che nessun magistrato di sorveglianza fosse competente alla conversione nei confronti del condannato irreperibile. Secondo questa giurisprudenza l'intera esecuzione doveva rimanere subordinata all'effettivo rintraccio del condannato, poiché in caso contrario non sarebbe stato possibile l'accertamento dell'insolvenza, prescritto dall'art. 660 c.p.p. Con la conseguenza che il pubblico ministero, quale organo preposto all'esecuzione delle sentenze, dovesse trattenere gli atti relativi alla conversione (alla esecuzione), fino al definitivo rintraccio del condannato.

La sentenza delle Sezioni Unite (77) (sentenza Nikolic) ha ricondotto ad unità le diverse opzioni interpretative affermando, da un lato l'illegittimità della separazione del procedimento di conversione, dall'altro asserendo che il compito del p.m. si risolve soltanto nel controllo formale sull'attività svolta dalla cancelleria. Con la conseguenza che qualora il magistrato di sorveglianza riscontri l'irreperibilità del condannato (e quindi l'impossibilità di accertare l'effettiva insolvibilità ex art. 660 c.p.p.), non possa procedere alla conversione e debba, invece, restituire gli atti al p.m., il quale a sua volta li trasmetterà alla cancelleria del giudice dell'esecuzione, affinché tale ufficio, istituzionalmente preposto alla riscossione delle pene pecuniarie, rinnovi periodicamente la procedura esecutiva.

Una seconda questione interpretativa è relativa l'individuazione dell'ufficio di sorveglianza competente a disporre la conversione (78). Nella prassi applicativa si è posta, infatti, la questione se la competenza territoriale del magistrato di sorveglianza debba essere individuata in base all'art. 677 c.p.p. ovvero in base all'art. 107 L.689/1981; se, in altri termini, competente territorialmente sia l'ufficio di sorveglianza avente giurisdizione sull'istituto di pena in cui si trova il detenuto, ovvero quello del luogo di residenza del soggetto condannato. Anche in questo caso è stata necessaria una pronuncia delle Sezioni Unite per ricondurre ad unità due diverse interpretazioni giurisprudenziali.

In un primo gruppo di sentenze (79), la Corte di Cassazione aveva concluso per la competenza del magistrato di sorveglianza territorialmente individuato sulla base del criterio di residenza del condannato, motivando dal carattere di specialità dell'art. 107 rispetto alla disciplina generale contenuta nell'art. 677 c.p.p.

Altre pronunce (80), al contrario, avevano concluso per la competenza del magistrato di sorveglianza avente giurisdizione sull'istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l'interessato all'atto della richiesta, della proposta o dell'inizio di ufficio del procedimento.

Le Sezioni Unite (81) hanno aderito a questo secondo orientamento, ritenendo che le disposizioni di cui all'art. 107 erano pienamente rispondenti al contesto normativo esistente all'epoca dell'entrata in vigore della legge 689 del 1981 e strettamente coordinate con la disciplina in materia di esecuzione della pena pecuniaria contenuta nel codice di procedura penale del 1930. Pertanto, le profonde modificazioni apportate dal codice di procedura del 1988 impongono che il criterio determinativo della competenza per territorio del magistrato di sorveglianza debba essere ricavato dalle regole dettate dal codice stesso, ossia dall'art. 677.

8. La riforma della disciplina esecutiva

La descritta disciplina esecutiva è stata oggetto di un processo di riforma iniziato col D.lg. nº 237 del 1997 e conclusosi con l'emanazione del recente Testo unico in materia di spese di giustizia (82).

Il Decreto legislativo nº 237 del 1997 (83) ha soppresso il servizio di cassa degli uffici del registro (84) e ha trasferito la competenza alla riscossione delle pene pecuniarie ai concessionari della riscossione dei tributi, cioè soggetti privati estranei all'amministrazione dello Stato.

In attuazione di tale riforma, la circolare del 23 dicembre 1997 del Ministero della Giustizia (85) ha proclamato la cessazione della competenza delle cancellerie alla riscossione dei crediti erariali per le pene pecuniarie e le spese di giustizia ed il trasferimento della stessa al concessionario della riscossione dei tributi. Tuttavia disponeva che le cancellerie prendessero in carico i predetti crediti erariali, iscrivendoli nei propri registri del Campione penale e trasmettendo i relativi atti all'ufficio del registro (Direzione regionale delle Entrate). Il Ministero della Giustizia, con circolare del 27 luglio del 1998, ha inoltre disposto che le cancellerie devono anche provvedere a notificare ai soggetti debitori una nota della somma complessivamente dovuta per le pene pecuniarie e spese di giustizia, al fine di indurli ad un volontario pagamento.

Pertanto, adesso l'esecuzione avviene previa formazione del ruolo da parte dell'ufficio finanziario che viene in seguito fornito al concessionario competente alla riscossione. Ai sensi dell'art. 11 del D.lg. 26 febbraio del 1999, nº 46, il concessionario notifica la cartella di pagamento al debitore iscritto, entro l'ultimo giorno del quarto mese successivo a quello della consegna del ruolo. La cartella di pagamento contiene l'intimazione ad adempiere entro il termine di 60 giorni dalla notificazione, con l'avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata (86). Cessa, dunque, la funzione della cancelleria quale agente delle finanze prevista dall'art. 205 della Tariffa penale.

Anche il Testo unico in materia di spese di giustizia è intervenuto nella materia dell'esecuzione delle pene pecuniarie, al fine di introdurre norme di raccordo tra la nuova disciplina della riscossione (introdotta dal 1997) e le norme procedurali che prevedono la conversione delle pene pecuniarie.

Anzitutto, l'art. 235 (L) disciplina espressamente la fattispecie del debitore irreperibile, nei cui confronti l'esecuzione della pena pecuniaria rimaneva di fatto bloccata dopo la riforma del 1997 per la mancanza di coordinamento tra le norme di legge (87).

La nuova norma pare aver recepito i principi-guida indicati dalle Sezioni Unite nella sentenza Nikolic, secondo la quale la reperibilità del condannato è presupposto indeflettibile della conversione e le relative indagini sono di competenza della cancelleria del giudice dell'esecuzione. In applicazione a tale orientamento, la conversione è stata vincolata al preliminare accertamento della reperibilità del debitore, che si pone dunque quale antecedente logico e procedurale della conversione (I comma). Coerentemente, la nuova disciplina prevede che il credito riviva, nei limiti della prescrizione, nel caso in cui il condannato risulti reperibile, dopo l'annullamento del debito in ragione dell'irreperibilità (II comma). Infine, per favorire la reperibilità dei condannati, l'articolo introduce lo strumento di cui all'art. 143 c.p.c., in relazione ai soggetti nei cui confronti vi è stata una condanna a pena detentiva (III comma).

La novità senz'altro più rilevante consiste nello spostamento della competenza, in tema di conversione della pena pecuniaria, dal magistrato di sorveglianza al giudice dell'esecuzione per effetto dell'art. 237 del T.U.S.G. Stando alla Relazione illustrativa del T.U (88)., l'innovazione mira ad eliminare quelle frammentazioni di competenze tra il giudice dell'esecuzione e di sorveglianza, rese possibili in seguito all'emanazione del D.lg. 274/2000. L'art. 42 del decreto legislativo prevede, infatti, la competenza del giudice di pace a convertire le pene pecuniarie irrogate al termine dei procedimenti celebrati davanti a tale organo, per cui la conversione risultava attribuita al magistrato di sorveglianza nei procedimenti ordinari, al giudice dell'esecuzione nei procedimenti svolti davanti al giudice di pace.

Nonostante l'obiettivo di unificare la competenza in un unico organo, il legislatore ha comunque introdotto un elemento distonico nel sistema delle pene sostitutive, le cui prescrizioni finiscono per essere determinate da giudici diversi: dai giudici dell'esecuzione nel caso di conversione, dai magistrati di sorveglianza nel caso di applicazione della pena sostitutiva irrogata con la sentenza di condanna.

In ogni caso, una recentissima pronuncia della Corte Costituzionale (sent. 212 del 2003) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 237, 238 e 299 (quest'ultimo nella parte in cui abroga l'art. 660 del c.p.p.) per eccesso di delega da parte del legislatore delegato; perciò la conversione delle pene pecuniarie torna ad essere una delle attribuzioni del magistrato di sorveglianza.

In conclusione, l'attualità delle innovazioni legislative non ci consente di verificare il successo o meno di tali riforme. Aspettando che il futuro ci fornisca qualche risposta, nel frattempo possiamo azzardare qualche notazione.

Anzitutto, non sembra che la nuova procedura di recupero/conversione della pena pecuniaria si presenti meno macchinosa rispetto alla precedente. Infatti, è facile ipotizzare che i procedimenti esecutivi difettino ancora in semplicità e agilità, basti pensare che la riforma comporta:

  1. Una moltiplicazione dei soggetti partecipanti al procedimento di recupero/conversione della pena pecuniaria (cancellerie; uffici del registro; concessionari; p.m.; magistrati di sorveglianza);
  2. Un aumento dei passaggi che gli atti devono attraversare prima di arrivare nelle mani del magistrato di sorveglianza:
  3. Un allungamento del tempo necessario per provvedere alla conversione con conseguente potenziamento del rischio di prescrizione.

In secondo luogo, i costi della procedura di esazione continueranno presumibilmente ad essere spropositati per eccesso rispetto alla funzione che essa deve assolvere. Da un lato, il servizio di riscossione delle pene pecuniarie è sempre stato in passivo per il Ministero di Grazia e Giustizia e, molto probabilmente, rimarrà tale finché non saranno rivisti il modello commisurativo della pena pecuniaria (89) e l'entità delle sanzioni previste dalle fattispecie incriminatrici. Dall'altro, le spese relative al procedimento di recupero/conversione dovrebbero rimanere piuttosto ingenti, visto l'impiego del personale della pubblica amministrazione e il ricorso a società private per la riscossione dei crediti. Risultato: verosimilmente nella stragrande maggioranza dei casi le pene pecuniarie non verranno corrisposte dal condannato, per cui anche il ricorso alla nuova procedura di recupero sarà inutile e costoso. Di più: i difetti segnalati oltre a rappresentare gravi inconvenienti pratici, potrebbero configurare una violazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione sancito all'art. 97 della Costituzione.

9. Osservazioni conclusive: l'opportunità di una riforma della pena pecuniaria

Tentiamo adesso di tirare le fila di questo lungo discorso, al fine di individuare le linee di un'eventuale riforma dell'istituto della pena pecuniaria.

Anzitutto, occorre richiamare le conclusioni alle quali è pervenuta la giurisprudenza costituzionale nel corso degli ultimi quarant'anni:

  1. La conversione delle pene pecuniarie è indispensabile per assicurare il funzionamento del sistema penale nei confronti di tutti i consociati;
  2. Una certa maggiore afflittività è ineliminabile e costituzionalmente legittima;
  3. Tale maggiore afflittività deve essere ridotta al minimo possibile e sempre mantenuta entro limiti ragionevoli, accordando la preferenza a quelle sanzioni sussidiarie che incidano il meno possibile sulla libertà personale;
  4. Infine, corollario a queste conclusioni è la necessità di ridurre al minimo i casi di conversione, attraverso opportuni meccanismi di individualizzazione della pena pecuniaria.

La sintesi di queste conclusioni è il bilanciamento tra l'istanza di effettività della pena (punti a e b) e i principi di uguaglianza e di personalità della responsabilità penale (punti c e d); bilanciamento che si attua quando la conversione si presenta come una extrema ratio e prevede una pena sussidiaria il cui contenuto afflittivo è "vicino" a quello della pena pecuniaria.

La regola generale nel nostro ordinamento è che, in caso di insolvibilità del condannato, la pena pecuniaria si converte nella severa misura della libertà controllata, la quale anche se non privativa, rimane fortemente limitativa della libertà personale. È vero che la recente sentenza della Corte costituzionale ha indicato nel lavoro sostitutivo la scelta da privilegiare, prevedendo che la misura di cui all'art. 105 della L. 689/1981 possa essere applicata indipendentemente dal quantum di pena pecuniaria da convertire. Ma è altrettanto vero che detta sentenza rimane inapplicata, poiché mancano le disposizione esecutive alla sua applicazione.

In secondo luogo, abbiamo accennato agli inconvenienti pratici causati dall'attuale disciplina della pena pecuniaria. Il sistema di commisurazione della pena pecuniaria e gli elevati importi previsti dalle fattispecie incriminatici (90) rendono difficoltoso l'effettivo adempimento delle multe e delle ammende. È opinione comune, infatti, che la pena pecuniaria non venga, nella maggior parte dei casi, pagata dal condannato (sia volontariamente che coattivamente) con conseguente inflazione di richieste di conversione da parte del p.m. e svilimento del valore della stessa pena pecuniaria; ciò nonostante si prevede una macchinosa procedura di esazione (91) che oltre ad essere inutile è anche molto costosa (sia in termini monetari, sia in termini di efficienza) per la macchina della giustizia

De jure condendo si auspica, pertanto, un ripensamento dell'attuale sistema di pena pecuniaria che realizzi il richiamato bilanciamento e renda più snella la procedura di recupero/conversione della pena pecuniaria.

A nostro avviso, l'eventuale riforma dovrà tener conto anche di un ulteriore elemento: il principio rieducativo sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione. La Corte costituzionale, con sentenza 313/1990 (92), ha affermato che anche la pena pecuniaria ha una natura polifunzionale: retribuzione, intimidazione e rieducazione rappresenterebbero le tre finalità di ogni sanzione penale. Del resto, la scelta di un più ampio utilizzo della pena pecuniaria mostrata con la legge del 1981, rappresenta anche la risposta alle istanze espresse dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Difatti, la sostituzione delle pene detentive brevi con pene sostitutive (tra cui figura la pena pecuniaria), vuole evitare al condannato non recidivo quegli effetti negativi derivanti dal contagio con l'ambiente carcerario, in quanto il trattamento extra-murario meglio si adatta, in alcuni casi, a soddisfare le finalità della pena (93).

Riconosciuta ad ogni sanzione penale la (costituzionale) finalità rieducativa è necessario informare l'intera disciplina della pena pecuniaria del principio sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Soprattutto, la pena pecuniaria deve essere tale da non compromettere (nei casi di condanna con pene detentive e pecuniarie concorrenti) l'eventuale esito positivo del trattamento rieducativo svoltosi in sede di esecuzione della pena detentiva. Attualmente invece può verificarsi il caso in cui al condannato, dopo aver scontato la pena detentiva e magari dopo qualche anno dalla riacquisita libertà, venga convertita la pena pecuniaria nella misura della libertà controllata, le cui prescrizioni male si adattano al grado di risocializzazione già raggiunto dalla persona. Sotto questo profilo, l'attuale sistema si presenta ancora più assurdo quando, per la violazione delle prescrizioni inerenti la libertà controllata, il condannato torna a scontare una pena detentiva, in forza dell'art. 108 della legge sulla depenalizzazione.

Sulla scorta di queste premesse, sarebbe opportuna una riforma della pena pecuniaria da attuarsi attraverso una serie di modifiche inerenti alla normativa sostanziale e processuale.

9.1. Introduzione dei tassi giornalieri (94)

I problemi della conversione sono correlati principalmente al modello di commisurazione della pena pecuniaria. Infatti, il problema della conversione risulterebbe notevolmente circoscritto, qualora il legislatore si orientasse a favore di un modello commisurativo più idoneo a garantire l'effettivo adeguamento della pena pecuniaria alle condizioni economiche del reo. La legge del 1981 ha imposto al giudice di tener conto delle condizioni economiche nella determinazione dell'ammontare della pena pecuniaria, ma attraverso un procedimento valutativo cosiddetto a somma complessiva, le cui caratteristiche non consentono l'effettivo adeguamento della sanzione alla situazione economica del condannato (vedi par. 4.a).

Ebbene, l'art. 3 (95) della Costituzione impegnando il legislatore a ridurre al minimo i casi di conversione, suggerirebbe l'adozione del diverso modello dei tassi giornalieri (96) che l'esperienza comparatistica dimostra essere idoneo a realizzare tale scopo. Questo sistema prevede: da un lato, la determinazione del numero dei tassi (giorni di pena pecuniaria) in relazione al fatto di reato (gravità e capacità a delinquere), dall'altro la quantificazione dell'ammontare di ogni singolo tasso in ragione delle condizioni economiche del reo. In definitiva, il condannato pagherà, una volta decorsi i giorni di pena pecuniaria inflitti, una somma pari al prodotto della moltiplicazione tra il numero dei tassi e l'ammontare di ciascuno. La sua adozione garantirebbe l'uguaglianza di sacrificio economico tra responsabili di identici reati, con il duplice vantaggio di parificare nelle afflittività indigenti e facoltosi e ridurre al minimo i rischi di ineseguibilità della pena, attraverso l'adeguamento della sanzione pecuniaria alle reali condizioni economiche del condannato. Il sistema dei tassi giornalieri consente, infatti, di determinare la somma di cui il condannato potrà privarsi giornalmente, ove faccia prova di spirito d'economia, senza tuttavia trovarsi nell'impossibilità di soddisfare i bisogni primari propri e della famiglia.

In realtà, la dottrina ha elaborato un altro sistema commisurativo, sempre a struttura bifasica, che rappresenta una specificazione di quello dei tassi giornalieri: la cosiddetta pena pecuniaria a tempo. Tale soluzione contempla anche tassi settimanali e mensili al fine di far coincidere la scadenza dei singoli tassi con le date in cui il reddito è percepito, cosicché ai pregi propri del sistema bifasico si aggiunge l'ulteriore vantaggio di frazionare nel tempo il pagamento della pena pecuniaria. Sennonché, l'eccessiva macchinosità e la circostanza che la dilazione nel tempo della pena pecuniaria possa essere perseguita al di fuori dell'attività di commisurazione, rendono poco plausibile tale soluzione.

De lege ferenda, si potrebbe allora tenere in considerazione alcune delle soluzioni adottate negli altri ordinamenti europei simili al nostro, in particolare il legislatore potrebbe rivolgere la propria attenzione al sistema dei dìas multas vigente in Spagna (97).

La disciplina della multa prevede l'adozione del sistema dei tassi giornalieri, in linea con il modello tedesco del 1974.

L'art. 50 (98) del codigo penal prevede due diverse operazioni di quantificazione che il giudice deve effettuare in sede di condanna a pena pecuniaria:

  1. la prima riguarda l'estensione della multa, la cui durata minima e massima è fissata rispettivamente in 5 giorni e 2 anni;
  2. l'altra è relativa alla determinazione del singolo tasso giornaliero che può oscillare da 200 a 50.000 pesetas.

Il giudice nella determinazione della durata (estensione) della multa terrà conto delle circostanze e della gravità del fatto, mentre nella quantificazione della quota giornaliera rileveranno esclusivamente le condizioni economiche. Appare evidente, dunque, la caratteristica tipica del modello dei tassi, ossia la netta separazione tra i due momenti commisurativi.

Sebbene il sistema dei tassi sia previsto come regola generale, il codice spagnolo prevede anche la quantificazione a somma complessiva della multa (art. 52) (99): ove espressamente previsto, infatti, la multa deve essere commisurata in proporzione al danno cagionato, al valore dell'oggetto del reato o del vantaggio ricavato dal reo nella commissione del delitto. Quest'ultima previsione, se prevista limitatamente per alcune fattispecie di reato, potrebbe facilitare l'ingresso dei tassi nel nostro ordinamento tradizionalmente avverso a questo tipo di soluzione. Resta da dire che comunque la previsione di due tipologie di pena pecuniaria introduce un elemento d'incoerenza sistematica.

Infine, il codice spagnolo regola la fattispecie del mancato pagamento da parte del condannato configurando tale condotta come una responsabilità sussidiaria, dalla quale deriva, in prima battuta, la conversione della multa in una pena privativa della libertà, secondo il criterio per cui un giorno di detenzione equivale a due tassi giornalieri non pagati. Inoltre, con il consenso del condannato, è possibile che la responsabilità sussidiaria del condannato si estingua con il lavoro a favore della comunità. Questa norma sarebbe accettabile esclusivamente se alla richiesta di lavoro corrisponda sempre la possibilità concreta di ottenerlo.

Una perfetta sintonia con i canoni costituzionali richiederebbe in Italia il collegamento della responsabilità sussidiaria ad una misura soltanto limitativa della libertà personale e non anche privativa, di conseguenza sarebbe opportuno (per quanto detto in precedenza) l'adesione ad un sistema di conversione che, in analogia al sistema spagnolo, si colleghi alla responsabilità sussidiaria (quale elemento rilevante ai fini dell'elemento soggettivo), ma si differenzi per quanto concerne la misura da applicare in via sussidiaria.

Nonostante la consapevolezza che il sistema a somma complessiva ostacoli l'adeguamento della pena pecuniaria alle effettive condizioni economiche e che tale difetto comporta, in caso di conversione, ingiustificate disparità di trattamento (100), l'introduzione dei tassi giornalieri è contestata da parte della dottrina (101).

Anzitutto, una prima obiezione riguarda le difficoltà d'accertamento delle condizioni economiche del condannato. (102) In secondo luogo, si è affermato che l'alta diffusione della disoccupazione e del lavoro nero impedirebbero tale riforma, a causa dell'impossibilità di procedere al prelievo diretto da parte dell'Amministrazione su stipendi e salari (103).

Tali obiezioni sono capziose e facilmente superabili. La denunciata disoccupazione è un fenomeno d'emarginazione sociale e, pertanto, non imputabile al soggetto. La circostanza che il nostro paese non offra lavoro (si badi bene che questo oltre ad essere un dovere è anche un diritto) non può essere utilizzata come argomento per legittimare le disparità di trattamento derivanti dalla somma complessiva. Quanto alle difficoltà d'accertamento delle condizioni economiche, lo stesso problema si pone anche nel sistema a somma complessiva. La differenza è che nell'attuale sistema il giudice ha la possibilità di eludere quei problemi d'accertamento, non aggirabili invece con il sistema dei tassi giornalieri: le condizioni economiche rilevando contemporaneamente agli altri indici valutativi (art. 133), precludono la trasparenza dell'attività di commisurazione e la (conseguente) possibilità di controllare se il giudice di merito ha veramente tenuto conto delle condizioni economiche. Anche quest'ultima obiezione non sembra sufficiente ad impedire l'adozione del modello dei tassi giornalieri.

Infine, si è anche detto che nei confronti del nullatenente il sistema dei tassi non consentirebbe alla pena pecuniaria di svolgere la necessaria funzione retributiva. A questa critica però si può facilmente replicare con la previsione di un sistema commisurativo che preveda misure minime di pena pecuniaria da applicare indipendentemente dalla situazione economica.

In conclusione, sembra utile ancora qualche cenno sui vantaggi che tale sistema apporterebbe sul piano del principio di uguaglianza (104). Il sistema dei tassi giornalieri oltre a tendere ad una riduzione dei casi di conversione, garantirebbe uguali conseguenze afflittive nei confronti di autori responsabili di medesimi reati ma dalle diverse condizioni economiche. L'uguaglianza di sacrifici si manifesterebbe sia nel momento dell'irrogazione della pena pecuniaria che in quello della sua conversione per insolvibilità. Per meglio chiarire tale affermazione, prediamo l'esempio di due soggetti di diverse condizioni economiche. Entrambi violano un'identica norma incriminatrice e, supponiamo, che il giudice ritenga identica sia la gravità del reato che la capacità a delinquere; di conseguenza le due sentenze irrogheranno lo stesso numero di giorni di pena pecuniaria, ma di un'entità diversa, in considerazione della diversa capacità economica. Le due pene pecuniarie, pur di diversa entità, richiederanno un medesimo sacrificio da parte dei condannati e, in caso di mancato pagamento, la pena pecuniaria si convertirà per entrambi in una misura sostitutiva dall'identica durata. In definitiva, il principio di uguaglianza sarà rispettato perché: da un lato, la conversione consegue al mancato pagamento di una pena pecuniaria avente lo stesso grado affittivo per entrambi i condannati, dall'altro la durata della pena convertita, a differenza dell'attuale sistema a somma complessiva, sarà uguale sia per il condannato abbiente che per quello povero (105).

Infine, perderebbe di significato quella ricerca della colpevolezza nell'inadempimento, richiesta da parte della dottrina per legittimare la conversione. Infatti, grazie all'adeguamento della pena pecuniaria alle reali possibilità del condannato, nel mancato pagamento della pena pecuniaria potrebbe individuarsi una colpa del condannato (quella che nel codice spagnolo è chiamata responsabilidad sussidiaria).

Certo rimane il problema di chi, essendo nullatenente, non riesca a pagare nemmeno l'importo minimo della pena pecuniaria e che, pertanto, sarà necessariamente sottoposto alla misura sussidiaria (106). In ogni caso, la soluzione dei tassi giornalieri sembra la via più giusta per ridurre le disuguaglianze causate dalla conversione ad ipotesi di marginalità e, pertanto, degna di considerazione.

9.2. Eliminazione della libertà controllata e possibili soluzioni

Al fine di attuare quel bilanciamento tra l'istanza di effettività della pena e i principi costituzionali (tra i quali riteniamo rilevante anche il principio rieducativo) sarebbe opportuno sostituire la libertà controllata, con misure meno afflittive. Le soluzioni potrebbero essere di due tipi (107). La prima consisterebbe nell'attuare la recente sentenza della Corte costituzionale del 1996, secondo cui il lavoro sostitutivo può essere sempre applicato indipendentemente dall'entità della pena pecuniaria da convertire. Invero, le caratteristiche del lavoro sostitutivo risponderebbero pienamente alle istanze costituzionali, in particolare:

  1. la minore afflittività rispetto alla libertà controllata, realizzerebbe un ulteriore passo nella direzione di una concreta attuazione del principio di uguaglianza;
  2. l'omogeneità rispetto al contenuto della pena pecuniaria, rispetterebbe il principio di personalità della responsabilità personale;
  3. l'opportunità di lavorare rappresenterebbe un elemento importante per il reinserimento sociale del condannato, quindi conforme con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione.

La probabile riluttanza da parte del legislatore e i problemi organizzativi che il lavoro sostitutivo presenta, ci rende consapevoli dell'improbabilità di questa soluzione.

La seconda soluzione è nuova: nel caso di insolvibilità del condannato potrebbe applicarsi, in luogo della pena pecuniaria, l'affidamento di prova, ossia quell'istituto già previsto nel nostro ordinamento quale misura alternativa alla detenzione. Tale istituto, caratterizzandosi per una maggiore duttilità rispetto alla libertà controllata (108), consentirebbe di conseguire quelle finalità rieducative che abbiamo detto essere proprie anche della pena pecuniaria. In primo luogo, si pensi al condannato alla sola pena pecuniaria che in genere è responsabile di reati bagatellari. La sostituzione delle pesanti limitazioni imposte dalla libertà controllata con le prescrizioni dell'affidamento in prova (rispetto alle quali il giudice ha ampia discrezionalità), appare più coerente alla finalità rieducativa. Sotto il profilo riabilitativo, oltretutto, il giudice potrebbe inserire, quale modalità esecutiva della misura, lo svolgimento di un'attività lavorativa. Inoltre, nel caso di concorso di pena detentiva e pecuniaria, la soluzione prospettata non intralcerebbe l'eventuale processo riabilitativo intrapreso dal condannato durante l'esecuzione della pena detentiva. Il condannato potrebbe, infatti, presentare un'istanza d'affidamento sia per la parte di pena detentiva residua, sia per la pena pecuniaria qualora, rispettivamente, si trovi nei termini e dimostri la propria insolvibilità. Attualmente, invece, l'applicazione (in sede di conversione della pena pecuniaria) della libertà controllata segna un momento di regresso rispetto all'eventuale affidamento in prova usufruito come misura alternativa al carcere.

Esteso l'affidamento in prova anche ai casi d'insolvibilità della pena pecuniaria, perderebbe rilevanza l'attualissimo problema interpretativo sugli effetti estintivi previsti dall'art. 47, comma 12, dell'ordinamento penale, a mente del quale "l'esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale".

Infatti, l'incerta formulazione della norma in esame crea contrasti nella dottrina e nella giurisprudenza circa l'individuazione delle conseguenze estintive: mentre è pacifico che l'esito positivo estingua le pene accessorie (riconducibili nell'ambito degli effetti penali ex art. 20 c.p.) invece è discussa l'estinzione della pena pecuniaria. Nella prassi i magistrati di sorveglianza, prima dell'intervento della Corte di cassazione, si sono astenuti dal convertire le pene pecuniarie nei confronti degli affidati che avessero superato il periodo di prova con esito positivo.

Nell'ambito della giurisprudenza della Suprema Corte si sono formati diversi orientamenti interpretativi che hanno reso necessario l'intervento delle Sezioni Unite. La Corte di Cassazione se nel 1994 si è espressa a favore dell'estinzione della pena pecuniaria in seguito all'esito positivo dell'affidamento in prova, nelle successive sentenze ha optato per l'opposto orientamento restrittivo (109). La Suprema Corte arriva ad escludere le conseguenze estintive nei confronti della pena pecuniaria attraverso un confronto con gli effetti estintivi della riabilitazione, ricordando inoltre che l'art. 47 dispone che "l'esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale", senza specificare altro. Un ulteriore argomento viene tratto dall'art. 76, comma terzo, c.p., secondo il quale se una pena pecuniaria concorre con un'altra pena di specie diversa, le pene si considerano distinte per qualsiasi effetto giuridico.

Infine, le Sezioni Unite riconducendo ad unità le diverse posizioni interpretative emerse nell'ambito della Prima sezione hanno confermato l'orientamento restrittivo, interpretando gli effetti estintivi dell'art. 47 limitati alla sola pena detentiva.

Non curante dell'autorevole pronuncia, il Tribunale di Sorveglianza di Roma nel 2001 e nel 2002 (110) si è pronunciato a favore dell'estinzione della pena pecuniaria, mantenendo, di fatto, ancora aperta la questione.

Quello che appare certo è che lasciare sopravvivere la pena pecuniaria a fronte di una valutazione positiva dell'affidamento in prova si traduce in una violazione dell'art. 27, terzo comma della costituzione, ossia il principio rieducativo.

La stessa Corte Costituzionale, nella ricordata sentenza del 1990, affermava la triplice finalità della pena, specificando che la funzione rieducativa è prioritaria rispetto alle altre (afflittività e retributività), le quali seppur contenuti eliminabili di ogni pena non hanno rango costituzionale. Prevedendo invece l'applicazione della pena pecuniaria dopo l'esito positivo dell'affidamento in prova, si privilegia l'aspetto afflittivo della pena rispetto a quello rieducativo che ne rimane compromesso.

Pertanto la soluzione da noi prospettata non solo supera i problemi interpretativi relativi agli effetti estintivi dell'art. 47, ma conforma la disciplina della pena pecuniaria al dettato costituzionale, in riferimento alla funzione rieducativa delle sanzioni penali.

9.3. Modifiche dirette a semplificare la procedura esecutiva della pena pecuniaria

Una scelta razionale potrebbe essere quella di saltare la fase di recupero della pena pecuniaria che, come abbiamo ripetuto più volte, è nella gran parte dei casi inutile, costosa e, aggiungiamo ora, dannosa per i familiari del condannato.

Allora, non del tutto insensata sarebbe la proposta di saltare l'inutile fase di esazione della pena pecuniaria. Decorsi i giorni di pena pecuniaria inflitti (decorrenti dall'eventuale fine della pena detentiva) potrebbe essere previsto un termine entro il quale il condannato deve, alternativamente:

  • adempiere all'obbligo di pagamento;
  • chiedere la conversione della pena pecuniaria, dichiarandosi insolvibile;
  • chiedere la rateizzazione o differimento allegando le prove della propria insolvenza.

Decorso il termine (o eseguita la dichiarazione di insolvibilità) la pena pecuniaria dovrebbe essere immediatamente convertita nella misura sostitutiva, che abbiamo suggerito essere l'affidamento in prova.

Questa grande semplificazione eviterebbe quelli inconvenienti causati dalla macchinosa procedura di recupero attualmente vigente: costi superiori alle spese di recupero; impegno del personale ausiliario; intralci nel lavoro degli uffici di sorveglianza; rischi di prescrizione della pena pecuniaria.

Note

1. Già sul finire degli anni '70 la Commissione europea indicava nelle pene pecuniarie lo strumento di "importanza primordiale come misura sostitutiva della pena privativa della libertà personale", v. Rapport du Comitè europèen pour les problèmes criminels sur certaines mesures pènales de substituion aux peines privatives de libertè (èlaborèpar le souscomitè XXVII), in Mesures penales de substitution aux peines privatives de libertè, Strasbourg, 1976, p. 30.

2. L'art. 52 prevedeva che «l'exécution des condmnations à l'amende, aux restitutions, aus dinnages-intérets et aux fraix pourra etre porsuivie par la voie de la contrainte par corps».

3. L'art. 67 del "Regolamento su i delitti e le pene" di Papa Gregorio XVI del 1832 stabiliva che "se il condannato a pagare una multa determinata dalla legge manchi dei mezzi a soddisfarla, si commuta con la detenzione per tanti giorni quanti sono gli scudi della multa inflitta, da non eccedere però mai la durata di un anno"; secondo l'art. 72 del codice penale Sardo del 1839 "la multa nel caso di mancato pagamento è commutata nel carcere col ragguaglio di lire tre per ogni giorno purché non ecceda il termine di due anni. L'ammenda parimente nel caso di non effettuato pagamento è commutata negli arresti con il ragguaglio di lire due per ogni giorno, purché non ecceda il temine di giorni quindici"; infine ai sensi del paragrafo 71 del codice penale Toscano "la multa, ancorché sia incorsa da persone insolventi, si sconta con il carcere ragguagliata ad un giorno per 5 lire; la carcerazione surrogata alla multa non può mai eccedere la durata di un anno, e si espia nelle carceri pretoriali".

4. Gli artt. 19 e 24 prevedevano, nell'ipotesi di multa od ammenda, non pagate per insolvibilità del condannato, la conversione nella detenzione, calcolando un giorno per ogni dieci lire della somma non pagata e con il limite massimo, fissato nell'art. 75, di un anno ovvero di diciotto mesi nel caso di cumulo di pene.

5. Il testo dell'art. 136 del codice penale recitava: "Le pene della multa e dell'ammenda non eseguite per insolvibilità del condannato si convertono, rispettivamente, nella reclusione per non oltre tre anni e nell'arresto per non oltre due anni. In tali casi il limite minimo delle dette pene detentive può essere inferiore a quello stabilito negli articoli 23 e 25. Il condannato può sempre far cessare la pena sostituita, pagando la multa o l'ammenda, dedotta la somma corrispondente alla durata della pena detentiva già sofferta".

6. In seguito modificato dalla L.60/1961.

7. La procedura di esecuzione delle pene pecuniarie era prevista dagli artt. 205 ss. della Tariffa penale. In particolare: il cancelliere presso il giudice che aveva emesso il provvedimento doveva spedire al condannato un avviso di pagamento con termine non superiore a dieci giorni (art. 214), al quale faceva seguito, ove tale termine trascorresse invano, la notificazione di copia in forma esecutiva del provvedimento medesimo, con l'ingiunzione che, qualora entro quindici giorni non fosse stato effettuato il pagamento, si sarebbe proceduto agli atti esecutivi previsti dal codice civile (art. 215).

8. Previsione sottoposta al controllo della Corte costituzionale e dichiarate legittima con sent. n.131 del 1979, in Giur. Cost, 1979, p. 1064.

9. Gli 'artt. 237 e 238 furono sottoposti all'esame della Corte costituzionale (con ordinanza del Pretore di Guastalla) in relazione all'art. 3 della Costituzione. La Corte, con sentenza n.81 del 1970, dichiarò il ricorso inammissibile, "in quanto le norme impugnate esplicano la loro efficacia nell'ambito di un procedimento meramente amministrativo, al quale l'organo giudiziario preposto all'esecuzione rimane estraneo, eccetto che per l'emanazione di un parere".

10. L'unica possibilità di adeguamento era contenuta negli artt. 24 terzo comma e 26 secondo comma, i quali consentivano al giudice di aumentare fino al triplo la pena quando, anche se applicata nel massimo, doveva presumersi inefficacie.

11. Dal 1975, la legge sull'ordinamento penitenziario (art. 49, L.354/1975) ha stabilito che le pene detentive derivanti da conversione siano espiate in regime di semilibertà, almeno che il condannato non sia affidato al servizio sociale o ammesso al lavoro presso enti pubblici.

12. Così in Saltelli - Romano, Di Falco, op. cit.

13. Così Frosali, voce Pena (diritto penale), in Noviss. Dig., vol. XII, Torino, 1965, p. 818.

14. Riguardo allo scarso interesse della dottrina negli anni immediatamente successivi alla promulgazione della Carta cotituzionale, vedi Gorlani, Conversione delle pene pecuniarie e principio di uguaglianza, in Giur. It., 1963, I, 1, c.13, nota 68.

15. V. per tutti, Dolcini, Il carcere ha alternative?, op. cit., p. 23.

16. Così in Cataldo, La carcerazione preventiva ed i limiti di convertibilità della pena pecuniaria, in Giust. Pen., 1960, III, p.535.

17. Per la tesi dell'incostituzionalità della conversione, v. in dottrina, F. Bricola, L'istituto della conversione delle pene pecuniarie in pene detentive alla luce dei principi costituzionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1961 p. 1073 ss.; Franzoni, Sull'incostituzionalità della conversione delle pene pecuniarie in pene detentive, in Corti Brescia, Venezia e Trieste, 1961, p. 256 ss.; Lignola, Fondamento della convertibilità delle pene pecuniarie in carcere, in Foro nap., 1957, III, p. 36. Per la dottrina più risaltente vedi, invece, Conti, La pena e il sistema penale del codice italiano, in Enc. dir. pen. it., 1910, vol. IV, p. 453; Crivellari, Concetti fondamentali di diritto penale, 1888, 193.

18. La dottrina costituzionalistica pur avendo attentamente analizzato il principio di uguaglianza sotto il profilo delle condizioni di sesso, razza, lingua, religione ha lasciato in ombra il profilo delle condizioni personali e sociali, nel quale rientrano le condizioni economiche. Spetta alla Corte Costituzionale il merito di aver posto in evidenza questo particolare aspetto del principio di uguaglianza attraverso due note decisioni nelle quali dichiarò l'illegittimità costituzionale degli istituti della cautio pro expensis e del solve et repete. A tal riguardo v. Corte cost., 29 novembre 1960, n.67, in Giur. it, 1961, I p.273; Corte cost., 31 marzo 1961, n.21, in Giur. it, 1961, I, p.539.

19. A sostegno della costituzionalità della conversione si è espresso in dottrina, Bettiol, Diritto penale, 5 ed., 1962, p. 614; Leone, Trattato di diritto processuale penale, vol. I, 1961, p. 542; Sabatini, Istituzioni di diritto penale, 1945, p. 238; Santoro, L'esecuzione penale, 2 ed., 1953, p. 37; Vassalli, I diritti dell'uomo dinanzi alla giustizia penale, in Giust. Pen., 1950, I, c. 5. Nella giurisprudenza costituzionale v invece .... E Corte cost., 29 marzo 1960, n. 16, in Giur. cost., 1960, p. 164 ss.

20. Per la natura programmatica dell'art. 3 della Costituzione v., Orianno, Principi di diritto costituzionale, 1894, p. 229, il quale indica nel principio di uguaglianza un "valore di avvertimento solenne, incapace come tale a porre nel nulla le normae anteriori ad esso antitetiche". Contra (a favore della natura immediatemente precettiva dell'art. 3 C.) v. Finocchiaro, Uguaglianza giuridica e fattore religioso, 1958, p. 13.

21. Su tale fenomeno v. per tutti G. Treves, Il valore del precedente nella giustizia costituzionale italiana, in Le dottrine del precedente nella giurisprudenza della Corte costituzionale, a cura di G. Treves, Torino, 1971, p.3 ss.; e Pizzorusso, Stare decisis e corte costituzionale, Ibidem, p. 31 ss.

22. Per il testo v. in Giur. Cost., 1963, pp. 225 ss.

23. Ordinanza del Pretore di Cantù del 17 dicembre 1960.

24. Per tutti v. Ranieri, Due non fondate questioni di legittimità costituzionale: il diritto di difesa nell'incidente di esecuzionee la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva, in Scuola pos., 1962, p. 489.; Pisani, Ricchi e poveri di fronte al processo e di fronte alla pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1962, p. 569.

25. Per la prima volta, Corte cost. 14 luglio 1958 n. 53, in Giur cost., 1958, pp.603 ss.

26. Su tale criterio, nato intorno agli anni '60, si vedano ad es: Sent. Corte cost. 15 luglio 1959 nº 46, in Giur cost., p. 743; Sent. Corte cost. 29 marzo 1960 nº 16, ivi, 1960, pp. 164 ss.; Sent. Corte cost 11 luglio 1961 nº 42, ivi, 1961, pp.951 ss.

27. Ordinanza 14 giugno 1962, nº 69, in Raccolta uff. sent. e ord. Corte Costituzionale, Roma, 1962, p. 169.

28. Ordinanza 9 giugno 1971, nº 127, in Giur. Cost., 1971, p. 1213.

29. Per il testo v. in Giur. cost, 1971, p. 1654.

30. È da segnalare comunque la diversità tra le valutazioni della dottrina all'epoca della pronuncia, che giudicava positivamente tale sentenza, e quelle della dottrina più recente, che non vi ravvisa incisivi tratti di novità, ma soltanto l'apertura di maglie del sistema.

Per la prima dottrina v., F. Pacini, Sentenza dichiarativa di fallimento e conversione di pene pecuniarie, in Dir. fall., 1971, I, p. 435; P. Pajardi, Bloccata dalla Corte costituzionale la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva a carico del fallito, in Mon. trib., 1971, p. 893; M. Secci, Debti verso lo Stato e prigione per debiti, in Giur.cost., 1971, p. 165; Musio, Conversione di pene pecuniarie nei confronti del condannato dichiarato fallito, in Dir. fall., 1971, p. II, p. 781. Per la seconda dottrina v. P. Pittaro, La conversione della pena pecuniaria in pena detentiva: dalla problematica costituzionale alla "crisi" della sanzione criminale pecuniaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, p. 1283 ss.; Caraccioli, Conversione della pena pecuniaria e principio di eguaglianza, in Giur. cost., 1979, I, p.1208; M. Schiavi, La conversione delle pene pecuniarie: dal principio di inderogabilità della pena al bilanciamento diinteressi costituzionalmente rilevanti, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, p. 730.

31. A titolo di esempio si veda, Trinunale di Roma, 4 luglio 1964, in Banca, borsa, 1965, II, p. 156; Tribunale di Roma, 26 maggio 1965, in Dir. fall., 1965, II, p. 458; Pretore di Roma, 14 giugno 1963, in Riv. it. proc., 1953, II, p. 804.

32. Così v., Cass. Sez IV, 3 aprile 1963, in Cass. Pen. Mass. Ann., 1963 p. 805.

33. Vedi M. Secci, P. Pittaro e M. Schiavi nelle opere citate a nota 30.

34. In particolare, sulla possibilità di dilazionare nel tempo l'esecuzione della pena pecuniaria conseguente al superamento della rigida equazione indifferibilità- inderogabilità della pena, v. S. Vinciguerra, La riforma del sistema punitivo nella l. 24 novembre 1981, nº 689, Cedam, 1983, p. 365.

35. V. G. Annunziata, Considerazioni sulla illegittimità costituzionale della conversione delle pene pecuniarie in pene detentive, in Foro penale, 1964, p. 38 ss.; Gorlani, Conversione delle pene pecuniarie e principio di uguaglianza, in Giur. it. 1963, I, p. 1 ss; P. Pittaro, La conversione della pena pecuniaria, op. cit., p. 1270 ss.

36. V. art. 49 della l. 25luglio 1975, nº 354, successivamente abrogato dall'art. 110 l. 24 novembre 1981, nº 689.

37. Per il testo v. in Giur. cost., 1979, p. 1064.

38. Più volte la Corte ha respinto le censure di incostituzionalità della pena pecuniaria in relazione ai principi di uguaglianza, personalità e rieducazione del condannato. Si veda per tutte: sentenza 12 febbraio 1966, in Giur. cost., 1966 p.143.

39. Si è parlato di eccesso di motivazione della sentenza, causata anche dalla radicalità con cui la Corte doveva capovolgere la propria giurisprudenza; v. Caraccioli, Conversione della pena pecuniaria e principio di uguaglianza, in Giur. cost., p. 1205.

40. V.C. De Maglie, Ha un futuro l'attuale modello di pena pecuniaria?, in Giur. cost., 1988, p. 649.

41. Le implicazioni derivanti da questa radicale inversione di rotta della giurisprudenza costituzionale sono state efficacemente messe in risalto dalla dottrina, in particolare v. I. Caraccioli, Conversione della pena pecuniaria e principio di uguaglianza, in Giur. cost., 1979, I, p. 1205; G. Franco, Una singolare dichiarazione di illegittimità conseguenziale, in Giur. cost., 1979, I, p. 1058; T. Padovani, L'incostituzionalità dell'art. 136 c.p.: un capitolo chiuso o una vicenda aperta?, in Cass.pen., 1980, p. 26; G. Pioletti, voce Pena pecuniaria (diritto penale), in Nss. D. I., App. V, Utet, 1984, 809; C. De Maglie, op. cit.

42. In particolare, la proposta di adeguare la multa e l'ammenda alle condizioni economiche del reo era stata avanzata in dottrina sia attraverso l'interpretazione della normativa allora vigente alla luce dell'art. 3 della Costituzione, sia attraverso l'adozione di modelli di individualizzazione della pena pecuniaria già sperimentati in alcuni ordinamenti stranieri. Al riguardo vedi, rispettivamente, Dolcini, Pene pecuniarie e principio di eguaglianza, in Riv. It. Dir. Proc.pen., 1972, p. 430; e Bricola, Il sistema sanzionatorio penale nel codice Rocco e nel progetto di Riforma, in AA.VV. Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, Roma, p. 57.

43. Soltanto il testo approvato dal Comitato ristretto della Commissione Giustizia della Camera il 31 luglio 1980 introduce una norma corrispondente all'attuale art. 133-bis comma 1º c.p. (art. 68-ter). Questa disposizione subisce alcune modifiche formali nel passaggio alla Commissione in seduta plenaria.

44. Sul ruolo delle condizioni economiche del reo nella disciplina della pena pecuniaria v., Dolcini- Giarda-Mucciarelli-Paliero-Riva- Crugnola, Commentario delle "Modifiche al sistema penale", Milano, 1982, p. 451 ss.; Musco, Commento all'art. 100, in Legislazione penale, 1982, p. 407 ss.; P. Nuvolone, La legge di depenalizzazione, Torino, 1984, p. 55 s.

45. A favore dei tassi giornalieri v. per tutti Dolcini, Pene pecuniarie e principio costituzionale di uguaglianza, op. cit., 1972, 405 ss.

46. Per una analisi dettagliata del problema v. Dolcini- Giarda-Mucciarelli-Paliero-Riva- Crugnola, op. cit., p. 451.

47. V. artt. 24 terzo comma e 26 secondo comma prima della modifica dell'art. 101 L.689/1981.

48. Pari a € 516,46.

49. Pari a € 12,91.

50. Pari a € 25,82.

51. L'art. 586, primo comma recitava: "Le condanne a pene pecuniarie sono eseguite nei modi stabiliti dalle leggi e dai regolamenti".

52. L'art. 586, sesto comma recitava: "Quando sono accertate la mancanza di pagamento della pena pecuniaria e l'insolvibilità del condannato e, se ne è il caso, della persona civilmente obbligata per l'ammenda, il pubblico ministero o il pretore ordina la conversione della pena pecuniaria".

53. Per una descrizione del procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie v. par. 1.

54. Tentativo volto ad attuare il bilanciamento, suggerito dalla Corte, fra l'istanza di effettività e il principio di uguaglianza.

55. in dottrina v., Dolcini, in Commentario delle Modifiche al sistema penale, cit. p. 464; Nuvolone, La legge di depenalizzazione, cit. p. 59; Palazzo, La recente legislazione penale, cit. p. 83. Nella giurisprudenza vedi ordinanza pretore di Foligno, 14 dicembre 1982, in G.U. n. 191/1983.

56. Di più: la revoca della libertà controllata e del lavoro sostitutivo sussidiari della pena pecuniaria ineseguibile, si verifica anche nel caso in cui tali misure siano state sospese in base al disposto di cui all'art. 69, qualora il condannato violi una delle prescrizioni contenute nell'ordinanza di sospensione.

57. V. C. De Maglie, op. cit., p. 667.

58. Con questa previsione, l'art. 108 recupera, almeno in parte, la logica che stava alla base dell'art. 49 dell'ordinamento penitenziario (ora abrogato dall'art. 110 l. 24 novembre 1981, nº 689).

59. Musco, Commento all'art. 103, cit. p. 421; Pioletti, voce Pena pecuniaria, in Nss. D.I., Appendice, vol.V, Torino, 1984, p.810.

60. V. C. De Maglie, op. cit., p. 667; Giostra, Il nuvo procedimento della conversione delle pene pecuniarie insolute, in Riv. it. dir. proc. pen, 1982, p. 540 ss.

61. In tal senso Giostra, Il nuovo procedimento della conversione delle pene pecuniarie insolute, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, p. 540.

62. Ord. Mag. Sorv. di Firenze del 3/7/1982, in Gaz. Uff. n.18 del 1983; ord. Pretore di Foligno del 14/12/1982, in Gazz. Uff. n.191 del 1983; ord. Pretore di Prato del 22/11/1984, in Gazz. Uff. n. 125-bis del 1985.

63. Parte della dottrina ha ritenuto che l'argomento a sostegno della legittimità delle due nuove sanzioni sostitutive prova troppo, in quanto in contrasto con la Costituzione non è la privazione della libertà personale, bensì la causa di tale privazione. (In tal senso v. De Maglie op. cit., p. 648.

64. In tal senso v., M. Schiavi, op. cit., p. 740; A. Ferraro, Ancora venti di incostituzionalità sulla conversione delle pene pecuniarie, in Cass. pen., 1987, p.1308, il quale parla di un giudizio di costituzionalità "claudicante".

65. Occorre tenere distinte due diverse censure di incostituzionalità: quella relativa al carattere automatico della conversione e quella relativa all'automatismo del provvedimento di conversione. La prima denuncia la mancanza di ogni traccia di colpevolezza nel parametro dell'insolvibilità; la seconda rileva la mancanza di sindacato dell'organo giurisdizionale nell'accertamento dell'insolvibilità.

66. Si ricordi che il provvedimento di conversione aveva natura amministrativa nella sentenza del 1962.

67. Per il testo v. in Cass. Pen, 1997, p. 631.

68. In tal senso v., M. Vecchi, La conversione della pena pecuniaria al vaglio della Corte costituzionale: un nuovo episodio di una vicenda aperta, in Cass. pen., 1997, p. 631 ss.

69. Tra gli interventi più significativi, oltre all'emanazione del codice di procedura penale del 1988, segnaliamo: il D.lg. 9 luglio 1997, nº 237 (Modifica della disciplina nei servizi autonomi di cassa degli uffici finanziari); il D.lg. 29 luglio 2000, nº 274; il D.P.R. 30 maggio del 2002 (Testo Unico in materia di spese di giustizia); la sentenza della Corte costituzionale del 18 giugno 2003, nº 212.

70. Rispetto al vecchio codice che prevedeva la competenza del cancelliere, adesso ciascun atto della complessa procedura di recupero può essere compiuto indifferentemente da un qualsiasi funzionario dell'ufficio e l'eventuale violazione delle norme che regolano la distribuzione delle mansioni potrà avere soltanto riflessi interni, senza incidere sulla validità dell'atto.

71. Come risulta dalla relazione delle commissione ministeriale, l'attribuzione al magistrato di sorveglianza del potere di disporre la conversione esalta la giurisdizionalizzazione dell'intero procedimento.

72. Tali adempimenti furono efficacemente sintetizzati nel Manuale dell'esecuzione penale di G. Catelani. "Compito primario del cancelliere", scrive l'illustre specialista, "è quello della redazione della parcella (art. 57 R.D. 10 dicembre 1882, n. 853), nella quale sono annotate la pene pecuniarie e le spese dell'intero procedimento, anche se gli imputati sono più di uno. La parcella da complare entro 10 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza.

73. Secondo l'art. 678 del c.p.p. il provvedimento di conversione deve essere emanato al termine di un procedimento in camera di consiglio. Da alcune interviste effettuate presso gli uffici di sorveglianza di Firenze è emersa, al contrario, la pratica costante da parte dei magistrati di sorveglianza di firmare i provvedimenti di conversione senza il rispetto delle forme proprie di tale procedimento.

74. Prima dell'emanazione del Testo unico in materia di spese di giustizia, mancando una espressa previsione normativa della fattispecie del condannato irreperibile, si è provveduto in sede intepretativa.

75. Cass., sez. I, 10 marzo 1994, in proc. Bicim, in Giust. Pen., 1994, III, 366; Cass., sez. I, 19 dicembre 1994, in proc. Jovanovic, CED rv 200531; Cass., sez. I, 2 maggio 1995, in proc. Duri, CED rv 201480; per la dottrina Diddi, In tema di competenza territoriale per la conversione delle pene pecuniarie (nota a Cass., sez.I, 10 marzo 1994, Bicim, in Giust. Pen., 1994, III, 366).

76. Cass., sez. I, 13 gennaio 1992, in proc. Urbanovic, CED rv 189038; Cass., sez. I, 15 marzo 1994, in proc. Verde, CED rv 197673; Cass., sez. I, 21 marzo 1994, in proc. Djema, CED rv 197346; Cass., sez. I, 14 novembre 1994, in proc. Ghaffari, CED rv 200229; Cass., sez. I, 30 novembre 1994, in proc. Stancovic, CED rv 200218; per la dottrina Cenci, Insolvibilità del condannato irreperibile, sospensione dell'esecuzione e conversione della pena pecuniaria in pena detentiva (nota in GI, II, 1994).

77. Cass., Sez. Un., 25 ottobre 1995, in proc. Nikolic, CED rv 203294.

78. La circostanza che la competenza a disporre la conversione costituisca una "crisi" nell'ambito dell'ufficio a cui è attribuita, ha molto probabilmente contribuito al verificarsi nella pratica di conflitti di competenza tra le sedi degli uffici di sorveglianza (e successivamente alla legge del 2002, tra la magistratura di sorveglianza e i giudici dell'esecuzione).

79. Cass., sez. I, 29 aprile 1992, in proc. Monaco, CED rv 190437; Cass., sez. I, 12 ottobre 1993, in proc. Di Stasi, CED rv 195569; Cass., sez. I, 15 marzo 1994, in proc. Verde, CED rv 197673; Cass., sez. I, 14 novembre 1994, in proc. Ghaffari, CED rv 200229; Cass., sez. I, 7 dicembre 1994, in proc. Falco, CED rv 200257; Cass., sez. I, 3 febbraio 1997, in proc. Serra, CED rv206979; Cass., sez. I, 14 maggio 1997, in proc. Testa, CED rv207750.

80. Cass., sez. I, 20 settembre 1993, in proc. Rotili, CED rv 195393; Cass., sez. I, 16 giugno 1994, in proc. Salvadori, CED rv 198950; Cass. sez. I, 6 marzo 1997, in proc. Addati, CED rv 207092.

81. Cass., Sez. Un., 29 ottobre 1997, in proc. Russo, CED rv 208813; per la dottrina favorevole all'interpretazione offerta dalle Sezioni Unite, v. Catelani, Manuale dell'esecuzione penale, Milano, 1998, 534 ss.; Pini, op. cit., 2372 ss.

82. D.P.R. 30 maggio 2002, nº 115.

83. Allo scopo di razionalizzare il sistema dei tributi e delle entrate, il governo in attuazione della legge delega 23 dicembre 1996, n. 662, ha emanato il D.lg. 9 luglio, n. 237 recante "Modifica della disciplina nei servizi autonomi di cassa degli uffici finanziari", con efficacia dal 1 gennaio del 1998.

84. Gli uffici del registro rientrano nell'organizzazione territoriale del Ministero delle Finanze e sono dipendenti dal Dipartimento delle Entrate e dal Dipartimento del Territorio.

85. V. in De Ronza, Manuale di diritto dell'esecuzione penale, Padova, 2000, p. 875 ss.

86. Ai sensi dell'art. 67 del D.P.R. 28 gennaio 1998, n. 43, l'esecuzione forzata si svolge secondo forme semplificate rispetto a quelle previste dal codice di procedura civile.

87. Prima della riforma del 1997, se in un primo momento si era fatto ricorso all'art. 660 per chiedere la conversione della pena pecuniaria nei confronti del condannato irreperibile, successivamente tale prassi è stata superata con una circolare del Ministero della Giustizia, attribuendo al p.m. le ricerche dell'irreperibilità, al cui esito negativo era subordinata la richiesta di annullamento. Sennonché la Cassazione ha statuito che le indagini circa la reperibilità del condannato spettano alla cancelleria del giudice di esecuzione e non al p.m., il quale deve solo attivare la conversione presso il giudice competente.

88. Nella Relazione illustrativa si legge: "Il riordino è necessario: stante la competenza funzionale ad oggi diversa (al giudice di sorveglianza per i procedimenti ordinari, al giudice di pace dell'esecuzione per i reati di competenza di quest'ultimo), in caso di pene pecuniarie nei confronti dello stesso soggetto emesse da giudici diversi, la conversione deve svolgersi separatamente non essendo possibile l'attrazione dell'intera procedura al giudice superiore; si evitano frammentazioni di competenze tra il giudice dell'esecuzione e di sorveglianza, visto che il primo è quello la cui cancelleria conosce dell'insolvenza; la competenza del giudice di sorveglianza non ha più senso perché mai la pena convertita è una pena detentiva, trattandosi di libertà controllata o lavoro sostitutivo per i procedimenti ordinari, di permanenza domiciliare o lavoro di pubblica utilità per i procedimenti dinnanzi al giudice di pace".

89. In realtà la recente legislazione ha iniziato a introdurre il sistema dei tassi giornalieri con la novella apportata all'art. 53 dall'art. 4 della legge 12 giugno 2003, nº 134.

90. Si pensi a titolo di esempio le multe previste dal Testo unico sugli stupefacenti.

91. Prevista adesso dal Testo unico in materia di spese di giustizia.

92. Corte Costituzionale, n.313/1990, in Giur. cost., 1990, p. 1981 ss.

93. Vedremo però che l'esigenza di attuare con le sanzioni sostitutive non patrimoniali un rafforzamento del principio rieducativo è un principio che non ha però trovato pratica attuazione.

94. Ricordiamo che nel corso dell'elaborazione di questa tesi è stato introdotto il sistema commisurativo per tassi limitatamente alla pena pecuniaria sostitutiva, v. L. nº 134 del 2003.

95. Ma impone anche una uguaglianza di sacrificio economico, cosicché la conversione non si fonderebbe unicamente sul fatto che un condannato è povero.

96. I tassi giornalieri nascono nei Paesi Scandinavi e successivamente si diffondono in Europa, in particolare nell'ordinamento tedesco, austriaco, portoghese, spagnolo, francese. In generale, per un ampia rassegna dei sistemi di accertamento della condizioni economiche dei condannati nei paesi che hanno adottato il sistema dei tassi giornalieri v., Grebing, op. cit., 1978, p. 1299 ss.

97. V. artt. 50/53 (Secciòn IV; Titulo III; Libro I) del Còdigo penal.

98. All'art. 50 si legge: 1. "La pena de la multa consistirà en la imposiciòn al condenado de una sanciòn pecuniaria." 2. "La pena de la multa se impondrà, salvo que la Ley disponga otra cosa, por el sistema de dìas multa." 3. Su extensiòn mìnima serà de cinco dìas, y la màxima, de dos años. Este lìmite màximo no serà de aplicaciòn cuando la multa se imponga como sustitutiva de otra pena; en este caso su duraciòn serà la que resulte de la aplicaciòn de las reglas previstas en el artìculo 88." 4. La cuota diaria tendrà un mìnimo de doscientas pesetas y un màximo cinquenta mil. A efectos de còmputo cuando se fije la duraciòn por meses o por años, se entenderà que los meses son de treinta dìas y los años de trescientos sesenta.» 5. «Los Jueces o Tribunales determinaràn motivadamente la extensiòn de la pena detnro de los lìmites establecidos para cada delito y segùn las reglas de capitulo II de este Tìtulo. Igualmente, fijaran en la sentencia, el importe de estas cuota, teniendo en cuenta para ello exclusivamente la situaciòn econòmica del reo, deducida de su patrimonio, ingresoso, obligaciones y cargas familirares y demàs circunstancias personales del mismo." 6. "El Tribunal determinarà en la sentencia el timpo y forma del pago de las cuotas".

99. L'art. 52: 1. "No obstante lo dispuesto en los artìculos anteriores y cuando el Còdigo asì lol determine, la multa se estalecerà en proporcion al daño causado, el valor del objeto del delito o el beneficio reportado por el mismo." 2. en estos casos, en la aplicacion del las multas, los Jueces y Tribunales podràn recorrer toda la extensiòn en que la Ley permita imponerlas, considerando para determinar en cada caso su cuantìa, no sòlo las circunstancias atenuantes y agravantes del hecho, sino principalmente la stuaciòn econòmica del culpable".

100. In caso di conversione, il condannato abbiente dovrà scontare una pena sostitutiva più lunga, rispetto a quella del condannato povero, in quanto le diverse condizioni economiche incidono sull'ammontare della multa senza la possibilità di distinguerle dagli altri criteri valutativi.

101. Per una panoramica sulle obiezioni rivolte al sistema dei tassi griornalieri v., Molinari, La pena pecuniaria e la sua problematica in prospettiva di riformai, in Vassalli (a cura di), Problemigenerali di diritto penale, Milano, 1982, p. 208 ss.

102. La scelta a favore del sistema a somma complessiva è stata difesa nella relazione stessa della Commissione ministeriale (istituita per predisporre gli emendamenti alla legge 689) indicando nei tassi giornalieri un elemento di complicazione "per l'apparato giudiziario ed amministrativo italiano, stante la mancanza di efficaci e rapidi strumenti di accertamento del reddito effettivo dei singoli cittadini", in Commissione ministeriale per la riforma della normativa in materia di conversione di pene pecuniarie, relazione, p. 2. In dottrina la difficoltà di accertamento dei redditi è stata sottolineata da M. G. Tascone, Spunti sulla problematica attuale dell'istituto della conversione di pena pecuniaria in pena detentiva per insolvibilità del condannato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1985, p. 1221.

103. In tal senso v. per tutti, R. Vanni, Esecuzione di pene pecuniarie e recupero delle spese processuali e di mantenimento in carcere, in Giustizia penale, 1998, p. 606 ss.

104. Sui vantaggi del sistema dei tassi giornalieri rispetto a quello della somma complessiva v., Zipf, Probleme der Neuregelung der Geldstrafe in Deutschland, in ZStW, 1974, p. 515 ss.; Grebing, Die Geldstrafe in rechtsvergleichender Darstellung, in Die Geldstrafe im deutschen und auslandischen Recht, Baden Baden, 1978, p. 1262 ss.; E. Dolcini, Le pene pecuniarie come alternativa alle pene detentive brevi, in Jus, 1974, p. 538 ss.; Molinari, op. cit., p. 27 ss.

105. Questo secondo aspetto è ben messo in luce da Padovani, La pena pecuniaria nel Progetto di Modifiche al sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, p. 1186 ss.; G. Grasso, La riforma del sistema sanzionatorio: le nuove pene sostitutive della detenzione di breve durata, in Riv. it. dir.proc. pen., 1981, p. 1435 ss.

106. Problema comunque da non sottovalutare visto che le carceri italiane contano un numero elevatissimo di extracomunitari irregolari che, pertanto, risultano privi di reddito.

107. Autore della proposta è A. Margara, ex Magistrato di Sorveglianza di Firenze.

108. Mentre la libertà controllata impone le sei tassative condizioni fissate nell'art. 56 dell'or. pen., la determinazione delle modalità esecutive dell'affidamento in prova sono lasciate ad una certa discrezionalità del magistrato di sorveglianza, limitandosi l'art. 47 or.pen a prevedere prescrizioni in ordine ai rapporti col servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali ed al lavoro.

109. A favore dell'estinzione: Cass., sez I, 9 novembre 1994, in proc. Mariano, in Cass. Pen., 1995, p. 3528 ss; contra: Cass., Sez. I, 30 novembre 1994, in proc. Cardosi, in Dir. Pen. Proc., 1995, p.586; Cass., Sez. I, 11 gennaio 1995, in proc. Bellucci, in Cass. pen. 1996, p. 3528; Cass., Sez. I, 20 aprile 1995, in proc. Marchi, CED rv 201478.

110. Trib. Sorv. di Roma 5 luglio 2001, in proc. Gualà e Mozzi, e 14 marzo 2002.