ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo primo
L'istruzione penitenziaria: storia e legislazione

Monia Coralli, 2002

1.1 Le origini del sistema penitenziario

Il carcere è un microcosmo che riproduce al suo interno il sistema sociale più vasto, è il fulcro istituzionale dove le contraddizioni del contesto in cui viviamo sono massime e spesso esasperate (1).

Oggi il penitenziario è l'edificio destinato a contenere sia i condannati ad una pena detentiva che gli accusati sottoposti a custodia cautelare, ma non è sempre stata questa la sua funzione. Nel periodo precedente l'Unità d'Italia il penitenziario era l'edificio in cui venivano nascosti, indifferentemente, le persone in attesa di giudizio, i condannati e coloro che la società considerava, per i più svariati motivi, “diversi”, “scomodi” e “pericolosi” (2). Queste persone venivano estirpate dalla collettività allo scopo di eliminare il pericolo che il loro “marcio” potesse propagarsi e contagiare gli altri membri della comunità. Chi fossero queste persone ed quale fosse la causa della loro reclusione era qualcosa di cui non ci si preoccupava, l'importante era contenerle, evitare e prevenire i danni che avrebbero potuto causare.

L'avvento dello Stato di diritto apre la strada al concetto di internamento istituzionalizzato, perseguendo la certezza del diritto e della pena. Iniziava così il declino della dilagante confusione e dell'arbitrio con cui, sino ad allora, erano state disposte le reclusioni negli istituti penitenziari: nasce il concetto di “pena istituzionalizzata” come conseguenza della violazione di tassative fattispecie di reato previste, unica motivazione legittima del provvedimento di detenzione. La sanzione penale diventa una sofferenza legale che comporta la sottrazione della libertà, per un periodo proporzionato alla gravità del delitto commesso, alla persona ritenuta colpevole (3). Contestualmente alla nascita della “pena detentiva” sorge il problema di come gestire il tempo che il recluso dovrà trascorrere in istituto, di come il detenuto dovrà essere “trattato”.

Nel 1891 fu approvato il “Regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi”, primo fondamentale documento delle istituzioni penitenziarie dell'Italia post-unitaria. L'approvazione del regolamento del 1891 era il frutto del positivismo criminologico che aveva individuato nel trattamento differenziato, scientifico ed individualizzato, il nuovo cardine della politica penitenziaria e che poneva in primo piano la realtà umana e sociale del condannato. Questo documento, seguito al codice Zanardelli entrato in vigore l'anno prima ed incentrato sui principi dello Stato di diritto, operava una prima innovativa distinzione tra “stabilimenti carcerari” e “stabilimenti riformatori”, attuando un'embrionale differenziazione del trattamento dei reclusi, in virtù della loro età e della rispettiva condizione giuridica (4). Era dominante l'idea che il periodo di esecuzione della pena doveva diventare un momento teso alla rieducazione del condannato.

La scuola positiva sosteneva che la pena dovesse ispirarsi al principio correzionalistico secondo il quale è definito “reo”, quindi imputabile, solo colui che può essere rieducato. La condotta dei delinquenti imputabili era considerata il prodotto dell'ignoranza e dell'ozio costante nei quali, tali individui, erano stati costretti dalle diverse condizioni di vita personali e familiari. Nei riguardi di questo tipo di soggetti la sanzione penale poteva avere un senso: i fardelli che avevano bloccato la capacità di questi soggetti di interiorizzare i valori di convivenza sociale potevano essere rimossi educando il condannato durante il periodo di reclusione. Erano considerati non imputabili coloro che, a causa di tare personali proprie e non indotte da fattori ambientali, erano stati definiti “incorreggibili”. Nei confronti di tali persone, qualunque percorso di rieducazione, sarebbe stato inutile. Questi individui dovevano semplicemente essere neutralizzati e rinchiusi al fine di proteggere la collettività.

Nel regolamento del 1891 si è cominciato a parlare, in modo sistematico, del trattamento del reo e del concetto di istruzione negli istituti penitenziari. Ricordiamo che, a proposito dell'istruzione in generale, nello Statuto Albertino non esistevano disposizioni in merito alla scuola e non era previsto alcun diritto all'istruzione. Tale materia, in considerazione della natura amministrativa riconosciutale, era destinata ad essere disciplinata dalla legislazione ordinaria. L'art. 123 del regolamento 1891 prevedeva l'obbligatorietà della scuola nelle istituzioni penitenziarie giungendo a sanzionare l'assenza dei detenuti dai corsi di scuola interni al carcere con pane, acqua e pancaccio (5), una delle massime punizioni che erano allora previste. Anche la disattenzione durante le lezioni veniva punita: il detenuto disattento subiva un richiamo disciplinare o la censura. Il regolamento del 1891 indicava che i detenuti dovevano rimanere segregati in cella solo durante le ore notturne mentre quelle diurne dovevano essere trascorse in comune frequentando i vari corsi di istruzione. Era infine prevista la possibilità, per i detenuti, di acquistare libri, anche se tale possibilità era concepita come ricompensa speciale riservata a coloro che avevano osservato un comportamento carcerario irreprensibile.

Pochi e non degni di nota furono i mutamenti intervenuti in materia penitenziaria dal regolamento di esecuzione del 1891 al regime fascista. Merita invece ricordare, che in ambito scolastico, la legislazione dell'epoca giolittiana consacrò l'accentramento e la statizzazione della scuola in generale. In questi interventi legislativi furono affrontati: il trattamento economico normativo dei maestri, l'estensione dell'obbligo scolastico al dodicesimo anno di età nonché la disciplina dei corsi di istruzione elementare e media inferiore (legge n. 407/1904); l'accentramento dell'intervento finanziario, specialmente nel capo dell'edilizia scolastica (legge n. 383/1906); l'avocazione della scuola elementare, fino ad allora comunale, allo Stato (legge n. 487/1911). Queste leggi permisero di aprire scuole anche nei comuni più poveri sino ad allora sprovvisti di tali strutture. (6) Durante il periodo del fascismo, con la legge del 1 luglio 1940, fu istituita la scuola media unica di tre anni. In campo penitenziario fu innescato un processo involutivo del sistema carcerario soprattutto sotto il profilo trattamentale. Il fascismo si presentava come la prima esperienza italiana di regime di massa in cui uno Stato autocratico si sforzava, in contrasto con i suoi caratteri, di ottenere il più largo appoggio dai cittadini o almeno il loro totale coinvolgimento nella politica del regime. La pena esplicava la sua funzione non solo nei riguardi del singolo delinquente ma verso tutta la collettività. Questa, doveva percepire la sanzione penale come il mezzo per difendere e riaffermare i valori travolti, venendo così coinvolta nella politica del regime. Tale visione retributivo-repressiva della pena indusse ad adottare misure coercitive sempre più rigide anche nell'intento di punire coloro che si dimostravano contrari al regime.

Il fascismo intervenne altresì a livello organizzativo istituzionale sottraendo la competenza dell'amministrazione delle carceri al Ministero dell'Interno ed attribuendola al Ministero di Giustizia.

In linea con le ideologie del tempo le circolari del 1920/21/22 (che possiamo riconoscere come i documenti più importanti del periodo fascista in merito al sistema carcerario), trasfuse poi nel R.D. 393 del 1922, pur introducendo innovazioni, come la possibilità di avere colloqui epistolari anche con i non familiari, di avere contatti con gli altri detenuti all'interno del carcere (come per esempio mangiare insieme), non contemplavano l'istruzione come modalità del trattamento del reo, continuando a percepirla come un privilegio degli uomini liberi: il delinquente non meritava di essere istruito, era inutile sprecare tempo ed energia per farlo e comunque tale individuo non ne avrebbe tratto alcun giovamento (7). La problematica penitenziaria continuava ad essere intrappolata nella storica ambivalenza insita nel rapporto coercizione-educazione: da una parte l'esigenza di soddisfare la richiesta di ordine, sicurezza e disciplina con l'ausilio delle strutture penitenziarie e dall'altra quella di perseguire la risocializzazione ed il reinserimento sociale dei condannati.

Nel 1930 fu approvato, con R.D. n. 1398, il codice penale Rocco e nel 1931, con il R.D. n. 787, il “Nuovo Regolamento per gli Istituti di prevenzione e pena”. Il regolamento del 1931 era composto da 332 articoli che indicavano le “norme di vita carceraria” con le quali si recepiva l'attenzione positivista e si attribuiva carattere emendativo alla pena mantenendone, nel contempo, il carattere afflittivo ed intimidatorio. Le indicazioni del regolamento del 1931 in merito all'istruzione in carcere erano ispirate dalla stessa logica del testo del regolamento del 1891. L'articolo 1 del regolamento del 1931 stabiliva che “i detenuti sono obbligati a frequentare le scuole istituite negli stabilimenti” ed ancora che “negli stabilimenti sono permesse solamente conferenze e proiezioni cinematografiche istruttive ed educative, col divieto assoluto di persone estranee, oltre a quelle incaricate delle conferenze e delle proiezioni” ed infine imponeva ai detenuti l'obbligo del lavoro e della partecipazione alle funzioni religiose.

L'istruzione, insieme al lavoro ed alla religione erano considerati gli unici mezzi attraverso i quali rieducare e risanare i condannati. Tali mezzi (8), meglio definiti come “elementi del trattamento”, erano imposti coattivamente ed in virtù della pressione totalitaria esercitata dal regime politico di quel periodo, dovevano perseguire rispettivamente le seguenti finalità: attraverso l'istruzione e la religione, si voleva “indottrinare” l'individuo deviato al rispetto dei valori cosiddetti “buoni” (9), e con l'imposizione dell'obbligo al lavoro, si sfruttava la manodopera di detto individuo a favore degli onesti. Il regolamento di esecuzione del 1931 era orientato verso un'istruzione paternalistica, imposta coattivamente, che inibiva ulteriormente la crescita individuale della persona reclusa imbrigliandola nelle regole ideologiche che gli venivano imposte. Era proibito “ogni gioco, festa, o altra forma di divertimento”, lo scopo era quello di “assicurare al sistema la possibilità di subordinare la coscienza dei reclusi mediante un uso dell'istruzione perfettamente funzionale alla preservazione-salvazione dell'istituzione stessa” (10).

Alla materia dell'istruzione in carcere erano dedicati cinque articoli del capitolo IX del testo regolamentare (11), dal n. 136 al n. 141. Tali articoli prevedevano l'attivazione di corsi di istruzione elementare per detenuti ed analfabeti in ciascun istituto penitenziario. L'istruzione dei detenuti minorenni che non avevano conseguito la licenza elementare doveva avvenire nelle scuole di avviamento (art. 218 r.e. Rocco) mentre gli adulti, con il medesimo grado di istruzione ma in età inferiore ai quarant'anni, erano obbligati a frequentare giornalmente i corsi scolastici per almeno due ore. I detenuti più anziani, anch'essi privi di licenza elementare, erano ammessi a tali corsi scolastici previa loro richiesta, salvo che il direttore dell'istituto penitenziario, nello specifico, non avesse ritenuto idoneo il soggetto, nonostante l'età, imponendogli l'obbligo di frequentare i corsi d'istruzione elementare (art. 137 r.e. Rocco). Le lezioni erano tenute da insegnanti ma anche dal direttore dell'istituto, dal cappellano, dal sanitario, dal dirigente tecnico e da altri funzionari dello stabilimento carcerario nonché da privati cittadini debitamente autorizzati dal Ministero (art. 139 r.e. Rocco). Molte di queste figure spesso non erano “qualificate” allo svolgimento dell'attività didattica esponendo il detenuto ad un istruzione non scevra da indottrinamenti di parte. L'articolo 138 r.e. Rocco indicava inoltre come i detenuti già provvisti della licenza elementare, potevano migliorare il loro livello culturale. Questi soggetti, prioritariamente divisi in gruppi omogenei per moralità e cultura, dovevano riunirsi a turno, durante i giorni festivi e fuori dagli orari di lavoro, in sale studio predisposte.

Attorno all'attività didattica continuava ad aleggiare, come era accaduto nel periodo del regolamento del 1891, un clima di ricatto psicologico: dimostrare di essere “attaccati alla scuola” continuava ad essere un elemento per conquistare la qualifica di “buono” (art. 173 r.e. Rocco) e l'essere negligenti nell'attività scolastica era ancora valutato come una mancanza disciplinare (art. 161, comma 1 ed art. 163, comma 6 r.e. Rocco) che continuava a prevedere come punizione la reclusione in cella a pane ed acqua. Una disposizione che di per se testimonia, comunque, una certa modernità ideologica del testo regolamentare del 1931 è quella che prevedeva l'allestimento di una biblioteca in carcere. I libri erano a disposizione dei detenuti in base a criteri decisi dal direttore dell'istituto, il quale decideva quali testi potevano essere letti ed in quali locali, se in cella o in biblioteca.

1.2 La Costituzione: influenze sul sistema penitenziario

Dopo la caduta del regime fascista le forze politico istituzionali italiane erano impegnate a risolvere i numerosi problemi che affliggevano l'organizzazione dello Stato. La stabilità politico-organizzativa e la sicurezza sociale erano prioritarie a qualunque altra esigenza. Occorreva una giustizia veloce, strumentale al bisogno di eliminare tutto quello che poteva aggravare il problematico scenario dell'epoca. Il concetto e la funzione della sanzione penale furono l'oggetto di diversi dibattiti in cui si espressero illustri giuristi. Il Carnelutti, insieme ad altri esponenti cattolici, giunse quasi a considerare il penitenziario come luogo di redenzione delle anime; Cesarini Sforza pose l'accento sulla “rigenerazione” del condannato, Bettiol invece, rifiutando comunque ogni funzione della pena diversa da quella retributiva, ne sottolineava gli aspetti etico-politici. Questi dibattiti sulla concezione della sanzione penale furono strozzati dall'inizio dei lavori della Costituente.

Nel 1947 fu approvato il testo definitivo della Costituzione, elaborato dalla “Commissione dei settantacinque”, promulgato da Enrico De Nicola ed entrato in vigore il primo gennaio 1948. L'art. 27 della Costituzione, al terzo comma (12), sancisce espressamente “un divieto” ed un “fine” essenziali della sanzione penale: le pene non possono consistere in “trattamenti contrari al senso di umanità” e devono “tendere alla rieducazione del condannato”. È importante sottolineare che la formulazione del terzo comma dell'art. 27 è, per così dire, “diplomatica”, rispecchiando la posizione neutrale tenuta dallo Stato che non voleva schierarsi a favore di alcuna scuola penalistica, fosse essa positiva o retribuzionista. La conseguenza di tale atteggiamento diplomatico fu che il principio di “pena rieducativa” venne relegato ad una mera conseguenza del rispetto del primario ed autonomo principio, contestualmente sancito, del divieto di perpetrare trattamenti contrari al senso di umanità (13). Il carattere “politico” ma ideologicamente neutrale della presa di posizione costituzionale sugli scopi della pena, è storicamente avvalorato dalla circostanza che a proporre la formula “le sanzioni penali devono tendere alla rieducazione del condannato” furono per primi gli Onorevoli La Pira e Basso, i quali giunsero ad identiche vedute pur partendo da concezioni politico ideologiche diverse.

Nel periodo immediatamente successivo ai lavori della Costituente, alcuni esponenti retribuzionisti, quali Petroncelli e Bettiol, intenzionati a demolire il concetto di rieducazione della pena (14), cercarono di svuotare la portata del terzo comma dell'art. 27 della Costituzione. Le obbiezioni di questi studiosi si fondavano sul pericolo che l'ideologia di una pena rieducativa potesse rivelarsi una sorta di scappatoia in grado di neutralizzare i cosiddetti “incorreggibili”, limitando la loro autodeterminazione. Essi sostenevano che il concetto di rieducazione rischiava di legittimare il ricorso a tecniche trattamentali capaci di limitare l'autodeterminazione del soggetto recluso, ledendone, di conseguenza la dignità umana, in aperto contrasto con il divieto di attuare trattamenti contrari al senso di umanità, espresso nello stesso articolo 27 della Costituzione. A queste critiche, i sostenitori dell'istanza rieducativa replicarono facilmente evidenziando che proprio l'utilizzazione del verbo “tendere” (15) esprimeva il limite al rispetto del diritto all'autodeterminazione: la possibilità di rieducare si presenta soltanto come obiettivo “tendenziale” perseguibile se ed in quanto il reo sia disposto ad accettare l'offerta rieducativa. Lo schieramento costituzionale a favore dell'ideale rieducativo della pena è stato contrastato, nella sua affermazione, dai continui mutamenti politici, sociali e culturali che avvenivano in quel periodo e che si dimostrarono un difficile ostacolo per la realizzazione e valorizzazione completa di questa norma costituzionale. La prospettiva di una umanizzazione della pena ed il fine rieducativo che questa deve perseguire si limitarono in un primo momento ad indurre ad una più attenta considerazione delle condizioni materiali dei detenuti e delle loro sofferenze.

Nell'aprile del 1947 fu istituita una Commissione ministeriale (16) presso la Direzione Generale degli Istituti Penitenziari cui venne affidato l'incarico di “studiare e formulare i progetti di norme legislative e regolamentari per l'esecuzione penale e per gli istituti di prevenzione e di pena, in armonia con le disposizioni della Costituzione e dei progetti dei codici penale e di procedura penale”. Tale Commissione ministeriale fu successivamente divisa in tre sottocommissioni che avevano il compito di occuparsi rispettivamente del regolamento di esecuzione, del personale e del settore minorile. In seguito, per una più agevole gestione dei lavori ed una più attenta valutazione delle problematiche, il direttore generale della Commissione, Ferrari, decise di formare un Comitato, da lui stesso presieduto, cui fu affidato l'incarico di riformare solo la materia penitenziaria. Il Comitato elaborò il “Progetto del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena” nel quale furono riprese alcune conclusioni elaborate dalla precedente Sottocommissione competente. Nonostante che l'orientamento della Sottocommissione e del Comitato, in materia penitenziaria, fosse ideologicamente piuttosto avanzato, l'impianto del “Progetto” rimase, di fatto, ancorato alla struttura ed alla sostanza del Regolamento del 1931. Permase la centralità dei tre pilastri tradizionali del trattamento penitenziario, lavoro, istruzione e religione, fu confermata la stessa intenzione di specializzare gli istituti penitenziari, in considerazione della popolazione in essi detenuta, e si ribadì la necessità di prevedere un trattamento individualizzato per ciascun detenuto nonché una centralizzazione dell'assistenza agli ex-reclusi.

Nell'aprile del 1950 il “Progetto” elaborato dal Comitato fu trasmesso alla “Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri”, presieduta dal senatore Persico, e sottoposto al parere dell'Ufficio Legislativo del Ministero. Tale “Progetto” fu ritenuto assolutamente rispondente alle finalità da raggiungere, tanto che la “Commissione Persico” decise di inserire, nella propria relazione finale, i provvedimenti centrali previsti dal “Progetto” stesso (17).

L'orientamento programmatico della “Commissione Persico” fu di fatto influenzato da due fattori: da un lato la presa d'atto che era oramai sfumata prospettiva di coordinare le riforme dei codici penali con quella dell'ordinamento penitenziario, dall'altro l'assenza di una cultura, in materia penale e penitenziaria. L'impossibilità di legare organicamente la riforma penitenziaria a quella dei codici penale e di procedura penale condizionò fortemente l'intero riordinamento penitenziario saldandolo, nelle sue linee fondamentali, alla legislazione penale vigente la quale imponeva confini non valicabili che rendevano difficile creare una normativa penitenziaria conforme al principio di umanizzazione della pena sancito dalla Costituzione. Come accennato, la “Commissione Persico” si limitò a ricalcare le proposte e l'impronta tradizionali del “Progetto” del Comitato ministeriale, confermando quali pilastri del trattamento penitenziario il lavoro, l'istruzione e la religione.

In merito all'istruzione la “Commissione Persico” decise di inserirla in un contesto generale di “lotta all'analfabetismo”. Abbandonata l'idea di un'istruzione coatta, si giunse a concepire l'istruzione come un'opportunità che l'amministrazione doveva offrire ai detenuti ed agli internati. Detti soggetti erano liberi di scegliere se usufruire di tale opportunità o meno, senza il timore che la loro decisione potesse essere oggetto di ulteriori valutazioni sotto l'aspetto disciplinare o trattamentale. L'amministrazione penitenziaria doveva attivarsi al fine di predisporre le strutture necessarie a rendere effettiva l'attività di istruzione ricavando, all'interno degli stabilimenti carcerari, ambienti da dedicare allo svolgimento delle attività didattiche. Furono così introdotte disposizioni che prevedevano il potenziamento delle biblioteche, il miglioramento delle attrezzature scolastiche nonché l'installazioni di radio e cinematografi negli istituti penitenziari. La “Commissione Persico” ha considerato l'istruzione esclusivamente dal punto di vista del trattamento. È opportuno adesso illustrare come tale argomento è stato affrontato in sede costituente e come si è giunti alla formulazione degli articoli della Costituzione dedicati all'istruzione.

L'attenzione per la scuola nella fase precostituente fu occasionale ed il dibattito su questo tema povero. Non facile si rilevò la scelta di trattare il tema della scuola in sede costituente, in quanto l'opinione prevalente era che tale argomento non dovesse “entrare” nella Costituzione. I faticosi dibattiti svoltisi tra i membri della I sottocommissione della “Commissione dei settantacinque” approdarono comunque all'elaborazione di un testo che fu trasmesso, per la discussione finale, all'Assemblea costituente. Il tema dominante del dibattito in Assemblea fu quello dei rapporti tra scuola pubblica e privata, ma vennero anche affrontati numerosi altri temi, quali: la distinzione tra libertà della scuola e libertà nella scuola; la garanzia dell'esistenza di una scuola privata; la negazione dell'istruzione come funzione dello Stato; il controllo dello Stato sulla scuola e l'alternativa di una regolamentazione pubblica; la distinzione tra Stato educatore e Stato organizzatore dell'educazione; la natura di funzione o di servizio pubblico della scuola; l'autonomia dell'istruzione superiore; il finanziamento della scuola privata; l'aiuto finanziario agli scolari (18).

La discussione in Assemblea, sui problemi della scuola, fu generale ed ampia ma “culturalmente arretrata” (19), causa lo scarso interesse e l'ignoranza nell'esaminare il fenomeno amministrativo dimostrati dai costituenti. Non fu prestata l'adeguata attenzione all'aspetto della scuola come servizio né al modo in cui lo Stato avrebbe dovuto organizzare l'“offerta” di tale servizio.

Gli articoli 33 e 34 della Costituzione dedicati al tema dell'istruzione evidenziano i diversi limiti del modo in cui fu affrontato l'argomento. Tali mancanze furono il risultato del bisogno di raggiungere accordi sui principi cardine in tema di istruzione, accordi che stimolarono compromessi, in quella sede necessari, palesando l'incapacità dei costituenti di applicare il principio dell'uguaglianza sostanziale e di cogliere l'opportunità di affermare l'obbligo dei poteri politici di contribuire, attraverso l'istruzione, ad assicurare l'uguaglianza dei cittadini.

Negli articoli della Costituzione furono in sostanza codificati i due principi che si erano andati formando nelle epoche precedenti: quello della libertà di insegnamento, maturato nell'età liberal-democratica e quello della scuola media unica, parzialmente sviluppatosi nel periodo fascista. Al contenuto dell'articolo 33 l'Assemblea dedicò grande attenzione: gli argomenti affrontati in tale articolo sono la libertà di insegnamento, la rilevanza del settore scolastico privato rispetto a quello pubblico, il grado di accentramento scolastico, la selezione degli studenti come elemento di limitazione della domanda d'istruzione, l'istruzione universitaria. Nel primo comma dell'art 33 della Costituzione emergono due distinti principi: la libertà della scienza e dell'arte, e la libertà d'insegnamento. Sulla questione se far rientrare la libertà “dell'arte e della scienza” nella categoria della libertà di pensiero ci sono state opinioni contrastanti ma sul fatto che l'attività di insegnamento si concretizzi in una manifestazione di pensiero non ci sono mai stati dubbi. Gli altri commi dell'art. 33 affrontano il problema dell'istituzione delle scuole. Il secondo comma (20) evidenzia che a livello pubblico le strutture scolastiche devono essere istituite in quanto strumentali all'insegnamento. Il diritto di istituire scuole private, sancito al comma tre (21) dell'art. 33, cristallizza definitivamente il concetto della libertà della scuola, eliminando il pericolo che il servizio scolastico possa essere monopolizzato dallo Stato. Tale concetto è confermato al quarto (22) e quinto (23) comma dello stesso articolo 33, nei quali è affrontata la problematica delle scuole private che chiedono di essere equiparate a quelle pubbliche, e dove sono indicati gli obblighi che, detti istituti, devono osservare per legge al fine di vedere riconosciuta la loro la parità con le scuole pubbliche. Infine l'ultimo comma dell'art. 33 riconosce il diritto alle “istituzioni di alta cultura, università ed accademie” di darsi “ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato” (24). Quest'ultimo comma pone ulteriormente l'accento sulla necessità di garantire la libertà di insegnamento a quei docenti che prestano la loro attività in università confessionali o ideologicamente caratterizzate. Premesso che comunque la libertà dell'insegnamento dei docenti in generale è pienamente garantita dall'istituzione di università statali, è ribadito che detta libertà è garantita anche a coloro che decidono di limitare, indirettamente, il loro metodo di insegnamento nel momento stesso in cui liberamente scelgono di aderire alle particolari finalità di una determinata scuola o università. Il docente è comunque libero nella scelta di aderire ed in quella di recedere dal rapporto con l'istituzione scolastica, qualora condivida o meno le finalità dell'istituto (25).

Come abbiamo accennato in precedenza, i temi affrontati dall'articolo 33 della Costituzione furono oggetto di ampia discussione in sede di Assemblea costituente. Il contenuto dell'articolo 34, in cui è riconosciuto il diritto all'istruzione, fu invece il prodotto di un superficiale dibattito, in cui la principale preoccupazione fu quella di affermare genericamente la necessità di aprire la scuola al popolo e di non identificare in modo troppo minuzioso i destinatari dei servizi scolastici. A conferma di quanto appena detto, l'art 34 della Costituzione, al primo comma sancisce che “La scuola è aperta a tutti”. Tale espressione è suscettibile di due diverse interpretazioni. La prima, quella dominante, individua nell'espressione in esame, il diritto del singolo al godimento delle attività scolastiche; la seconda giunge a riconoscere a ciascun individuo un vero e proprio diritto soggettivo all'istruzione (26). Secondo quest'ultima interpretazione, il vero senso della norma costituzionale in esame è quello di dichiarare l'istruzione come un diritto riconosciuto a tutti, ponendo così fine alla concezione, nel passato dominante, che sia un privilegio di pochi. Questa interpretazione “sembra far parlare alla Costituzione il linguaggio dei desideri e attribuisce un credito troppo elevato alla lungimiranza dei nostri costituenti” (27). Inoltre, sul problema di classificare il diritto all'istruzione come un vero e proprio diritto soggettivo, ancora oggi esistono opinioni contrastanti. Lasciandoci alle spalle questo annoso problema, proseguiamo nell'esame dell'articolo 34 seguendo la prima interpretazione. Tale interpretazione poggia sul concetto dell'istruzione come “servizio pubblico”, presupponendo l'effettivo funzionamento del servizio stesso in considerazione dell'art. 33, secondo comma, della Costituzione (28). In detto comma lo Stato si impegna ad indicare le norme generali sull'istruzione e ad istituire scuole statali per tutti gli ordini ed i gradi. Questo consente di considerare acquisita ed effettiva l'offerta da parte dello Stato di un servizio scolastico completo, in grado di soddisfare qualunque esigenza relativa all'istruzione. L'art. 34 riconosce il diritto individuale di ciascun soggetto ad usufruire di tale servizio, a tutti i livelli e gradi, presumendo l'esistenza ed il funzionamento del servizio stesso, come previsto dal secondo comma dell'art. 33.

Il secondo comma dell'art. 34, indica l'obbligo, a carico di ciascun cittadino, di frequentare i corsi di scuola inferiore per almeno otto anni (29) (oggi dieci (30)). Questo induce a pensare che non è possibile parlare di diritto soggettivo neppure in merito all'istruzione inferiore, essendo questa prevista come un preciso obbligo individuale. L'affermazione di tale obbligo è stata considerato prevalente su l'opportunità di riconoscere a ciascun individuo il diritto individuale all'istruzione, in quanto l'obbiettivo di raggiungere un grado essenziale di cultura è considerato un dovere del cittadino stesso, teso alla soddisfazione di un interesse pubblico. È opportuno precisare che l'obbligo scolastico si adempie, come indicato all'art. 111 del Decreto Legislativo n. 297 del 1994, richiamato dal regolamento di attuazione (decreto n. 489 del 13 dicembre 2001) della legge n. 9 del 20 gennaio 1999 che ha riformato i cicli scolastici, “frequentando le scuole elementari e medie statali o le scuole non statali abilitate al rilascio di titoli riconosciuti dallo Stato o anche privatamente, secondo le norme del presente testo unico” ed ancora, l'art. 112 dello stesso Decreto Legislativo n. 297/1994 precisa che “ha adempiuto all'obbligo scolastico l'alunno che abbia conseguito il diploma di licenza della scuola media; chi non l'abbia conseguito è prosciolto dall'obbligo se, al compimento del quindicesimo anno di età, dimostri di aver osservato per almeno otto anni le norme sull'obbligo scolastico”. La legge n. 9 del 20 gennaio 1999 ha riformato i cicli scolastici obbligatori prevedendone una durata complessiva di dieci anni. È stato anticipato l'inizio dell'obbligo scolastico a cinque anni ed protratto il termine finale a quindici anni, dai quattordici previsti in precedenza. A conclusione del periodo di istruzione obbligatoria, nel caso di mancato conseguimento del diploma contemplato, “previo accertamento dei livelli di apprendimento, di formazione e maturazione, è rilasciata all'alunno una certificazione che attesta l'adempimento dell'obbligo di istruzione o il proscioglimento dal medesimo che ha valore di credito formativo, indicante il percorso didattico ed educativo svolto e le competenze acquisite” (31). Termina solo in questo modo la vigilanza coattiva sull'osservanza dell'obbligo di frequenza dei corsi scolastici obbligatori. È inoltre previsto, al comma secondo dell'art. 13 della legge quadro sul riordino dei cicli scolastici (32) che “le istituzioni scolastiche, anche sulla base di richieste o di intese con gli enti locali, organizzano, da sole o consorziate tra loro, apposite offerte formative, anche per il conseguimento della licenza dell'obbligo e del diploma, destinate agli adulti”. Ciascun individuo, cittadino italiano o straniero con permesso di soggiorno, raggiungendo il livello d'istruzione indicato dalla Costituzione contribuisce ad innalzare qualitativamente il livello culturale dell'intera collettività, facilitandone la gestione. Possiamo quindi affermare che costituzionalmente è stato riconosciuto il diritto individuale a ciascun soggetto di godere del servizio pubblico scolastico e contemporaneamente è stato indicato l'obbligo, a carico dei cittadini e degli stranieri in possesso di regolare permesso di soggiorno (33), di frequentare, limitatamente ai corsi di scuola inferiore, i corsi d'istruzione obbligatoria, al fine di raggiungere il livello di istruzione essenziale tale da soddisfare l'interesse pubblico che ne è alla base.

Il secondo comma dell'art. 34, prevede che i corsi d'istruzione obbligatori siano gratuiti. Per diverso tempo le opinioni circa l'ampiezza di tale gratuità sono state divergenti giungendo infine ad individuare che è obbligo dello Stato mettere a disposizione gli ambienti scolastici, il corpo insegnante e quant'altro si ritenga necessario per l'attivazione effettiva del servizio scolastico obbligatorio. Questa interpretazione, supportata dalla Corte Costituzionale alla fine degli anni '60 (34), è stata fortemente contrastata dalla dottrina di quel periodo. Ricordiamo in particolare la posizione di Pototsching (35) che concepiva la gratuità dei corsi scolastici obbligatori come un incentivo per il cittadino all'adempimento dell'obbligo scolastico invece di riconoscervi uno strumento operativo attraverso il quale garantire effettività al diritto costituzionale all'istruzione, riconosciuto a ciascun individuo nel rispetto dei principi di eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) e di inderogabilità dei doveri di solidarietà (art. 2 Cost.) (36).

L'articolo n. 34, al comma tre, estende il diritto di fruire del servizio scolastico sino ai “gradi più alti degli studi”, riconoscendo tale diritto a ciascun individuo, capace e meritevole, anche se privo di mezzi (37). Comparando il secondo e terzo comma dello stesso articolo, potrebbe sembrare che l'istruzione inferiore obbligatoria rischi di essere offerta a condizioni peggiori rispetto a quella superiore, non obbligatoria. Questo timore è alimentato dal contenuto del quarto ed ultimo comma dell'art. 34 (38) in cui lo Stato, al fine di rendere effettivo il diritto di ciascun individuo di godere del servizio scolastico di grado più elevato, si è impegnato ad eliminare tutto un insieme di situazioni economiche che possono impedire ad un soggetto la prosecuzione degli studi. Questa esigenza si pone, a maggior ragione, in merito ai corsi di scuola dell'obbligo, per i quali ricordiamo è prevista la gratuità del servizio, indipendentemente dalla valutazione della capacità e del profitto dello studente.

Il quarto comma dell'articolo in questione si propone di rendere effettivo il diritto, di cui al comma terzo dello stesso articolo, sancito nell'espressione “raggiungere i più alti gradi degli studi”, riconoscendo il diritto all'eliminazione delle disuguaglianze economiche che possono impedire, di fatto, la fruibilità di tale servizio. A tal fine lo Stato provvede attribuendo, ai soggetti capaci e meritevoli, borse di studio ed assegni familiari.

Conclusa l'analisi dell'articolo 34 della Costituzione riassumiamo i punti essenziali che sono emersi dall'analisi di questo articolo. Il diritto all'istruzione è certamente un diritto costituzionale, per la precisione è un “diritto civico” (39) che riconosce a ciascun individuo di usufruire del servizio pubblico scolastico, di cui se ne presume il funzionamento, in considerazione dell'impegno assunto dallo Stato al comma due dell'art. 33 del testo costituzionale. Inoltre il diritto all'istruzione, limitatamente agli studi di scuola inferiore è prioritariamente un obbligo di ciascun cittadino, indicato allo scopo di perseguire un interesse pubblico prevalente. In conseguenza dell'imposizione di tale obbligo, lo Stato si impegna ad offrire gratuitamente il servizio scolastico inferiore. Infine, per rendere effettivo il diritto di usufruire del servizio scolastico sino ai gradi più elevati, limitatamente ai soggetti “meritevoli e capaci” (40), lo Stato si impegna a rimuovere gli eventuali ostacoli economici che potrebbero inibire la fruizione di tale diritto.

Valutata la normativa costituzionale in materia di istruzione, osserviamo che il “Progetto” elaborato dalla “Commissione Persico” negli anni '50 non prestava alcuna attenzione a quanto sancito dagli art. 33 e 34 della Costituzione. Tale “Progetto” si limitava a dettare alcune semplici, scarne indicazioni in merito all'istruzione dei detenuti e degli internati considerando esclusivamente la portata trattamentale di tale attività ed ignorandone completamente il rango di diritto costituzionale riconosciutole.

1.3 L'Ordinamento penitenziario del 1975 ed il relativo Regolamento di esecuzione del 1976

1.3.1 Dalla “Commissione Persico” all'Ordinamento penitenziario

L'istruzione, come sottolineato, era considerata, dal regolamento di esecuzione del 1931 e dal testo redatto della “Commissione Persico”, uno dei pilastri del trattamento carcerario. Essa era finalizzata ad offrire al detenuto quelle conoscenze e quel metodo che spesso gli erano mancati, o non erano stati sufficientemente sviluppati durante la socializzazione esterna.

Nell'ottica di garantire tale 'rieducazione' la legge n. 503 del 3 aprile 1958 ha istituito formalmente le “Scuole carcerarie” (41). Gli obiettivi delle scuole carcerarie erano già stati enunciati nella circolare dell'8 marzo 1948 del Ministro della Pubblica Istruzione emanata in accordo con il Ministro di Grazia e Giustizia, nella quale si leggeva: “Le scuole carcerarie elementari si propongono anzitutto di eliminare tra i detenuti l'analfabetismo e il semi-analfabetismo, ma specialmente adempiono ad un altro compito di educazione e di redenzione sociale e civile, perché costruiscono al recupero sociale e all'emendamento degli infelici internati negli istituti di pena” (42). Nello stesso 1958, l'articolo 2 della legge n. 535 prevedeva la nomina degli insegnanti di scuola elementare in carcere, istituendo speciali ruoli transitori ai quali si poteva accedere mediante pubblico concorso, previo corso di specializzazione.

L'amministrazione penitenziaria, servendosi di personale docente di ruolo o precario, individuato dai Provveditorati agli Studi, ha organizzato, nel corso degli anni, una serie di strutture scolastiche che portarono, nel 1970, all'attivazione di 148 scuole elementari, 55 corsi popolari (43), 41 centri di lettura, 16 corsi di orientamento musicale, 6 scuole medie unificate, un istituto tecnico per geometri (ad Alessandria) e un istituto di scienze sociali a carattere universitario (presso le carceri giudiziarie di Trento). A detti corsi risultavano allora iscritti circa tredicimila tra detenuti e detenute, di cui novemila erano quelli iscritti ai corsi elementari e duemila ai corsi popolari. (44) Questi dati offrono un quadro eccessivamente ottimistico dell'andamento dell'istruzione carceraria in quegli anni. Tali dati risultavano da cifre approssimative che consideravano il numero di studenti detenuti che erano “passati” da quei corsi scolastici senza distinguere quanti di loro, in pratica, li avevano frequentati interamente. Il problema principale era dato dal continuo ricambio degli studenti detenuti che frequentavano i corsi, dall'alta percentuale di soggetti che si ritiravano dal corso e dall'altrettanto elevato numero di coloro che si inserivano a corso già iniziato. Le peculiarità dell'ambiente carcerario sono sempre state uno dei principali motivi di un così veloce e frequente ricambio di studenti. Sovente tale ricambio è la conseguenza di trasferimenti disposti per motivi di giustizia, disciplinari o su richiesta degli stessi detenuti, allo scopo di facilitare i loro rapporti di lavoro e familiari (45).

Considerando l'aspetto qualitativo dell'istruzione, è innegabile che i corsi non statali offrono un servizio scolastico precario in conseguenza del fatto che tali attività si reggono sulle forze del volontariato e non su di un impegno professionale da parte di insegnanti di ruolo e comunque vincolati da un regolare contratto di lavoro. Il numero delle ore di lezione era inferiore a quello previsto per le scuole pubbliche, gli accordi tra il direttore e gli operatori volontari erano estemporanei e potevano essere velocemente chiusi nel corso dell'anno o non essere rinnovati al principio dell'anno scolastico successivo (46). I corsi statali, anche se garantiscono una maggiore stabilità dell'attività didattica, presentano comunque diverse problematiche. Il ruolo di insegnante (47) era ricoperto, come prevedeva la legge n. 535 del '58, in modo “speciale e transitorio” da coloro che si trovavano in una condizione lavorativa precaria, nella snervate attesa di un impiego stabile nelle scuole pubbliche. Erano soggetti non motivati, spesso esasperati sia dal contesto in cui lavoravano che dalla scarsa abitudine allo studio, propria della maggior parte degli studenti detenuti, aggravata dalle difficili condizioni in cui tali soggetti erano costretti a studiare (celle sovraffollate e scarsi nonché poco accessibili strumenti di studio). Anche la durata dei corsi statali non era uniforme tra i vari istituti e generalmente era ridotta (ad esempio: per i corsi elementari erano previste tre ore giornaliere per una durata ufficiale compresa tra gli otto ed i nove mesi). (48)

Solo con la legge n. 72 del 3 marzo del 1972 è stato soppresso il ruolo “speciale transitorio” degli insegnanti in carcere, previsto dalla normativa del 1958 con particolare riferimento a quelli di scuola elementare, e contestualmente introdotto un “ruolo speciale per l'insegnamento” negli istituti penitenziari. Questa innovazione ha contribuito a rendere maggiormente efficace l'attività di istruzione negli istituti penitenziari contribuendo a gratificare gli insegnanti nel loro impegno didattico all'interno delle carceri.

Negli anni '70 ebbe inizio un processo di piena rivalutazione del fine rieducativo della pena pur conservando ancora l'intenzione di mantenere una valutazione polifunzionale della stessa. La Costituzione, in una sentenza del 1974 oltre a disporre che le pene siano sempre umane, “evidenzia la necessità che le pene abbiano quale funzione e fine il riadattamento alla vita sociale” (49) del condannato. Orbene, la funzione (e fine) della pena non e certo il solo riadattamento dei delinquenti, purtroppo non sempre conseguibile. A prescindere “sia dalle teorie retributive secondo cui la pena è dovuta per il male commesso, sia dalle dottrine positiviste, secondo cui esisterebbero criminali sempre pericolosi ed assolutamente incorreggibili, non vi è dubbio che dissuasione, prevenzione, difesa sociale stiano, non meno della sperata emenda, alla radice della pena” (50). La Corte Costituzionale in una sentenza del 1990 esprime che la pena “incide sui diritti di chi vi è sottoposto” (51) e non si può negare che essa abbia necessariamente caratteri afflittivi. I profili dell'afflittività e della retributività riflettono “le condizioni minime senza le quali la pena cesserebbe di essere tale” (52) mentre quelli della reintegrazione, intimidazione e della difesa sociale sono innanzitutto valori che hanno un fondamento costituzionale ma che comunque non autorizzano il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della pena. Se la finalizzazione della pena “venisse orientata verso quei diversi caratteri, anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarità della sanzione”. L'art. 27 della Costituzione, prevedendo che le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità non ha proscritto pene severissime, come quella dell'ergastolo (come avrebbe potuto fare), qualora queste siano considerate dal legislatore un “indispensabile strumento di intimidazione per individui insensibili a comminatorie meno gravi, o mezzo per isolare a tempo indeterminato criminali che abbiano dimostrato la pericolosità e l'efferatezza della loro indole” (53).

Il legislatore italiano degli anni settanta si è impegnato a riformare l'esecuzione penale valorizzando il principio rieducativo della pena sotto una duplice dimensione: da un lato potenziando la “non desocializzazione” del condannato, dall'altro promuovendone la socializzazione positiva. Lo scopo del trattamento doveva rimanere costante ciò che, di volta in volta, poteva e doveva mutare erano le modalità della sua attuazione. La risocializazzione del detenuto non poteva essere perseguita seguendo un iter generale: il percorso di rieducazione doveva essere deciso ad hoc per ciascun individuo, in considerazione delle caratteristiche personali dello stesso.

La direzione degli istituti penitenziari di Perugia, in una relazione del 1971, faceva emergere che l'obbiettivo di conseguire concretamente un'istruzione scolastica o parascolastica dei detenuti era stato ottenuto, nei loro istituti, solo nei riguardi di un numero esiguo di casi. In detta relazione veniva evidenziato che il ruolo dei corsi di istruzione in carcere non era limitato a quello consueto d'istruire (54). È necessario non perdere di vista che i corsi scolastici, nonché la maggior parte delle attività che si svolgono negli istituti penitenziari, servono a ciascun detenuto, innanzi tutto, per riempire il tempo. Ogni attività rappresenta per il detenuto e per l'internato un'occasione per rompere l'ozio ed entrare in contatto con altre persone, al di là delle ore d'aria loro concesse e spesso trascorse in umilianti box di cemento: tutte le attività rappresentano un mezzo per alimentare, in ciascun soggetto recluso, gli interessi personali nonché i contatti con l'esterno. Spesso alcune attività trattamentali assumono valore rieducativo solo perché si svolgono all'interno di istituti penitenziari, in quanto all'esterno sarebbero considerate scontate: queste attività potenziano il loro ruolo perché destinate ad individui spogliati della loro autonomia, per i quali qualunque diversivo diventava apprezzabile (55). Per gli uffici direttivi del carcere il settore delle attività scolastiche e ricreative aveva rappresentato, un mezzo per attuare il controllo e la “formazione” dei detenuti, mentre per questi era un momento di alleggerimento della loro condizione, un'occasione per riempire il tempo occupandolo in modo, anche se preconfezionato da altri, meno deleterio dell'inerzia.

Con l'Ordinamento penitenziario del 1975, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, è stata raggiunta una maggiore chiarezza in merito al principio di “rieducazione della pena”. L'impostazione culturale che ha ispirato il testo dell'Ordinamento penitenziario, in conformità a quanto disposto dal comma terzo dell'art. 27 della Costituzione, è quella di ritenere la detenzione non uno stato definitivo bensì una fase transitoria da cui possono emergere, per il detenuto, crescita personale e maggiore sensibilità sociale. Il fine rieducativo della pena implica un collegamento tra carcere e società. A tale scopo è necessario che la società avverta la necessità di farsi carico del problema “carcere”, attraverso una presa di coscienza della realtà e delle dimensioni di tale problema, ed il carcere prepari, informi e renda il più possibile edotto il futuro ex-detenuto sui mutamenti e sulle dinamiche che coinvolgono la società esterna.

1.3.2 Legge n. 354 del 1975 e D.P.R. n. 431 del 1976

La legge penitenziaria italiana n. 354, “Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, è stata approvata nel 1975 e l'anno dopo è stato emanato, con il D.P.R. n. 431/1976 il relativo regolamento di esecuzione con il quale è stata completata la disciplina del sistema penitenziario. L'Ordinamento del '75 detta i principi e le regole generali cui è sottoposta la popolazione detenuta in generale mentre il regolamento di esecuzione specifica ed indica come tali precetti normativi devono essere attuati in pratica. Con la legge n. 354/1975 il legislatore ha cercato di attuare una riforma penitenziaria conforme ai principi enunciati al terzo coma dell'art. 27 della Costituzione. L'art. 1 dell'Ordinamento penitenziario, al comma quattro, indica che “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”. A sua volta l'art. 1 del Regolamento penitenziario del 1976 concepiva il trattamento rieducativo come un programma “diretto a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale”. Il testo regolamentare accennava quindi all'esigenza di modificare quelle inclinazioni soggettive del condannato che ne potevano impedire la reintegrazione sociale. Da queste disposizioni emergeva una tendenziale identificazione del concetto di rieducazione con quello di recupero sociale del condannato.

In un'accezione generica, il termine “trattamento” era stato utilizzato anche nella legislazione precedente al 1975 ma l'Ordinamento penitenziario ha provveduto ad una formale esplicazione di tale termine. Con l'espressione trattamento penitenziario viene considerata una serie articolata di interventi tesi a contrastare gli effetti negativi della detenzione e dell'internamento (56). Questa serie di interventi deve essere attuata nel rigoroso rispetto dei principi costituzionali quali i diritti inviolabili dell'uomo, l'uguaglianza dei cittadini, l'umanità della pena e la presunzione di non colpevolezza di ciascun individuo. Con l'espressione trattamento rieducativo si vuole indicare un programma teso a modificare quegli atteggiamenti del condannato e dell'internato che sono stati la causa della sua mancata integrazione sociale. (57)

La legge n. 354/75 sancisce la regola della individualizzazione del trattamento. Ogni intervento trattamentale deve essere elaborato e programmato in considerazione delle particolari necessità di ciascun individuo detenuto o internato (concetto ripreso all'art. 1 D.P.R. n. 431/1976). Inoltre dall'Ordinamento penitenziario emerge la volontà di potenziare i classici mezzi del trattamento, creando nuovi istituti giuridici e superando l'idea che istruzione, lavoro e religione costituissero gli esclusivi strumenti attraverso i quali era esperibile l'attività trattamentale (58). L'espressione usata nel testo della legge in merito agli elementi del trattamento cosiddetti “tradizionali”, è tale da non considerarli più “esclusivi” ma semplicemente “irrinunciabili” (59). L'art. 15 dell'Ordinamento penitenziario individua gli elementi del trattamento, prevedendo accanto all'istruzione, al lavoro ed alla religione anche le attività culturali, ricreative e sportive nonché l'agevolazione di “opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”. I “nuovi” elementi attraverso i quali si snoda l'attività trattamentale in sostanza si concretizzano nella corrispondenza telefonica e nei colloqui (art 18 Ord. penit.), nel lavoro all'esterno (art 21 Ord. Pen e art. 46 Reg Esec. 1976), nei permessi (artt. 30 e 30 ter dell'Ord. Pen e degli artt. 61 e 61 bis del reg esec. 1976), nella partecipazione di privati o enti all'azione educativa intramuraria (artt. 17 e art. 78 Ord. Pen) e nelle misure alternative alla detenzione.

Questa visione più ampia del trattamento, ha reso necessaria la previsione di nuove figure di operatori, quali: educatori, assistenti sociali, insegnanti, assistenti volontari (artt. 17 e 78 Ord. pen.), psicologi, pedagoghi e psichiatri criminologi. Tali operatori, sotto il controllo interno del direttore dell'istituto e quello esterno del Magistrato di Sorveglianza, prestano la loro opera attraverso interventi singoli o di gruppo, allo scopo di realizzare un percorso trattamentale atto a facilitare il reinserimento sociale dei detenuti. In particolare gli educatori sono previsti come componenti del Consiglio di disciplina, partecipano alle commissioni per le attività culturali, ricreative e sportive, alla redazione del regolamento carcerario interno e normalmente gestiscono il servizio di biblioteca (art. 21 comma tre reg. d'esec.) (60).

Negli anni in cui l'Ordinamento penitenziario è stato emanato, spesso il budget riservato alle spese per le attività trattamentali si attestava ben al di sotto della soglia dell'1% delle risorse complessive a disposizione dell'istituto. Tale limitata disponibilità finanziaria rendeva necessario un coordinamento, da parte dell'istituto carcerario, di tutte le forze disponibili, istituzionali e volontarie, al fine di garantire l'avviamento delle attività necessarie all'attuazione dei percorsi trattamentali. Con la Circolare del Ministero di Grazia e Giustizia (Ufficio Direzione Generale Istituti di Prevenzione di Pena) del 13/1/1977 n. 2387/4841 prot. 410612/11.4.C è stato disposto un nuovo capitolo di bilancio. Detta circolare, in attuazione dell'art. 39 del Reg esec '76, ha indicato che i fondi del nuovo capitolo siano destinati all'arredamento delle aule, all'acquisto della cancelleria e quant'altro sia ritenuto necessario allo svolgimento delle attività scolastiche, culturali, ricreative e sportive (61). Inoltre, nella circolare in questione, è stata demandata alle Regioni, in coordinazione con gli uffici direttivi degli istituti penitenziari e le autorità scolastiche, la fornitura gratuita dei libri e della cancelleria per gli studenti detenuti che frequentano la scuola dell'obbligo.

1.3.3 L'istruzione come elemento del trattamento: disciplina prevista dall'Ordinamento penitenziario e dal regolamento di esecuzione del 1976

Come è stato accennato nel precedente paragrafo, l'Ordinamento penitenziario del '75 ha riconosciuto all'istruzione il ruolo di elemento irrinunciabile nel programma di trattamento rieducativo del condannato (62). L'istruzione è contemplata dalla normativa penitenziaria del '75 come strumento di approfondimento della formazione scolastica del detenuto e dell'internato nonché come mezzo per stimolare in questi soggetti nuovi interessi, ampliando le loro conoscenze ed eventualmente migliorandone la personalità. Inoltre l'articolo 48 dell'Ordinamento penitenziario e l'articolo 94 del regolamento del 1976, considerano rispettivamente l'istruzione come elemento di valutazione per la concessione della semilibertà e della liberazione anticipata.

L'art. 19 dell'Ordinamento penitenziario concepisce il trattamento come un insieme di opportunità tese alla formazione culturale del soggetto recluso. Tra le opportunità trattamentali rientra anche l'istruzione, che essendo stata prevista come “opportunità”, se pur irrinunciabile, perde definitivamente i caratteri di esclusività e di obbligatorietà che le erano propri in precedenza. Il terzo comma dell'art. 39 del regolamento del '76, ha chiarito che l'Amministrazione penitenziaria può solo stimolare la partecipazione dei detenuti e degli internati ai corsi scolastici. Nell'Ordinamento penitenziario e nel regolamento di esecuzione del 1976 il legislatore si è impegnato a promuovere la “formazione culturale e professionale” dei reclusi, prevedendo l'istituzione di corsi scolastici che accompagnano gli studenti detenuti nei diversi gradi di istruzione, dal livello elementare a quello universitario (63). Al fine di facilitare la partecipazione di tali soggetti alle attività didattiche è stata prevista la possibilità di esonerare gli studenti detenuti dalle attività lavorative, qualora si svolgano negli stessi orari previsti per le attività scolastiche (art. 41 ultimo comma e art. 42 ultimo comma del regolamento di esecuzione del '76). Inoltre l'art. 43 del regolamento di esecuzione del 1976, rubricato “Benefici economici per gli studenti” ha previsto incentivi economici a favore degli studenti detenuti, quali: il pagamento di una “mercede”, proporzionata al numero delle ore di lavoro effettivamente svolte, per i detenuti e gli internati che frequentano la scuola dell'obbligo qualora tali corsi di istruzione si svolgano durante l'orario di lavoro; il pagamento di un sussidio giornaliero per i giorni di frequenza dei corsi d'istruzione secondaria superiore ed uno ridotto per il periodo di vacanza tra la fine di un corso scolastico e l'inizio di quello successivo; il rimborso delle spese scolastiche per gli studenti che frequentano corsi individuali o collettivi di scuola secondaria superiore e per coloro che frequentano corsi universitari, qualora versino in disagiate condizioni economiche ed a condizione che si siano applicati con profitto negli studi; un premio di rendimento per gli studenti detenuti o internati che abbiano frequentato con profitto i vari corsi d'istruzione, anche individuali.

Il primo comma dell'art. 19 dell'ordinamento affronta, con l'espressione “secondo gli ordinamenti vigenti”, la necessità di attivare, in carcere, corsi della scuola dell'obbligo omogenei e fungibili a quelli che si svolgono all'esterno. In detto comma è stato precisato che i corsi scolastici istituiti nei penitenziari non devono differenziarsi o avere carattere speciale rispetto a quelli delle scuole pubbliche. I corsi scolastici in carcere devono in tutto adeguarsi ai programmi d'istruzione che si svolgono ordinariamente all'esterno (64). Lo scopo di questa disposizione è quello di consentire ai detenuti studenti di proseguire, senza difficoltà, la loro formazione scolastica una volta che torneranno liberi. Non possiamo però ignorare che, soprattutto in merito agli studi di grado elementare e media inferiore, i programmi seguiti nelle scuole pubbliche sono elaborati per ragazzi di età tra i cinque ed i quindici anni, e che tali programmi non sono in grado di stimolare studenti adulti. Tale problema è stato riscontrato anche in merito ai corsi di alfabetizzazione della lingua italiana previsti per i detenuti stranieri. La questione è stata inizialmente superata con la Circ. Min. n. 48462/11-6 del 14 luglio 1976 che, nel rispetto del disposto normativo dell'art. 19 dell'Ordinamento penitenziario, ha assimilato i corsi di alfabetizzazione nonché quelli a livello elementare e medio inferiori attivati in carcere, ai corsi pubblici per adulti. Inoltre il 6 agosto 1993 è stata emanata un'ulteriore Circolare Ministeriale, la n. 253 prot. n. 5379, avente ad oggetto incontri mensili tra l'amministrazione penitenziaria e quella scolastica, il numero minimo che legittima l'attivazione di un corso di scuola dell'obbligo ed infine prevede la possibilità di sostenere gli esami di licenza elementare e media anche durante l'anno, qualora lo studente abbia frequentato almeno 250 ore di lezione. Come si può rilevare quest'ultima circolare ha introdotto novità sotto l'aspetto della flessibilità dell'azione didattica, dell'individualizzazione dei corsi di istruzione rispondendo così alle specifiche esigenze dei soggetti ed attuando un'attività didattica capace di stimolare negli utenti interesse e partecipazione.

Il secondo comma dell'art. 19 dell'Ordinamento del '75 rivolge particolare cura alla formazione culturale dei detenuti, cosiddetti, “giovani-adulti”, ovvero a quei ragazzi di età compresa tra i diciotto ed i 25 anni. Tali soggetti sono in una fase evolutiva di tipo adolescenziale, anche se finale, che richiede un particolare sostegno nella fase dell'apprendimento culturale. Nei confronti dei giovani studenti detenuti “gli apprendimenti culturali e professionali hanno una funzione strumentale di speciale rilievo per la soluzione dei problemi pratici dell'adattamento sociale” (65) e quindi, l'attività didattica può costituire un veicolo determinate attraverso il quale facilitare il loro reinserimento sociale.

Il terzo comma dell'art. 19 dello stesso testo legislativo indica che “con le procedure previste dagli ordinamenti scolastici possono essere istituite scuole d'istruzione secondaria di secondo grado negli istituti di penitenziari”, argomento trattato anche dall'art. 41 del regolamento di esecuzione del '76. Quest'ultimo prevede il trasferimento dei soggetti detenuti, che abbiano manifestato l'intenzione di proseguire gli studi e siano in possesso del titolo scolastico a ciò necessario, in istituti presso i quali sono stati attivati corsi di scuola secondaria superiore (66). La soluzione del trasferimento non si può certo definire ottimale, in considerazione delle notevoli ripercussioni che tale provvedimento può avere sul detenuto. Se un trasferimento comporta per chiunque, almeno inizialmente, una situazione di disagio, per un soggetto detenuto tale disagio è aggravato da implicazioni che possono risultare estremamente gravose per il normale svolgimento della propria vita nell'istituto penitenziario. Il detenuto trasferito, oltre a subire le difficoltà inevitabili del mutamento degli interlocutori quotidiani, siano essi i compagni di cella che il personale penitenziario, spesso subisce, a seconda del luogo del trasferimento, anche la variazione del Tribunale di Sorveglianza competente, organo da cui dipende il regime dell'esecuzione della condanna che sta scontando. Dato l'esiguo numero dei corsi di scuola superiore attivati al momento della redazione dell'Ordinamento penitenziario e del regolamento di esecuzione del '76, queste ultime ripercussioni erano inevitabili. Gli studenti in possesso dei requisiti scolastici necessari per proseguire gli studi dovevano valutare se e quanto era per loro conveniente perseguire una meta scolastica addossandosi il peso di conseguenze tanto gravi. In quelle condizioni, la scelta di proseguire gli studi non poteva essere libera come avrebbe dovuto. Solo con la Circ. Min. del 24 aprile 1989 (67) (che in generale investe tutti i corsi scolastici e professionali) sono stati evitati alcune delle ripercussioni sopra esposte. La circolare prevedeva che ogni regione dovesse disporre di almeno un istituto penitenziario in cui fosse attivo un corso di scuola media superiore. In questo modo l'aspirante studente detenuto poteva continuare il proprio percorso scolastico trasferendosi in un istituto non troppo distante da quello in cui si trovava, mantenendo i propri contatti affettivi esterni e continuando a “dipendere” dallo stesso Tribunale di Sorveglianza.

Il penultimo comma dell'articolo 19 dell'Ordinamento penitenziario recita così: “È agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati ed è favorita la frequenza ai corsi scolastici per corrispondenza, per radio e per televisione”. In merito ai corsi universitari, nel presente capitolo ci limitiamo ad esaminare il significato attribuito al termine “agevolato”, in quanto detti corsi saranno oggetto di un capitolo a loro specificamente dedicato. L'utilizzazione del verbo “agevolare” è indice della minore importanza a livello trattamentale che è stata riconosciuta ai corsi universitari rispetto a quelli di istruzione inferiore e secondaria superiore. Considerando che l'istituto del permesso era l'unico mezzo attraverso il quale i detenuti potevano uscire dal carcere, gli studenti universitari detenuti, in considerazione della normativa allora in vigore, non potevano comunque usufruirne per sostenere gli esami nelle rispettive facoltà di appartenenza. L'art. 30 dell'Ordinamento penitenziario, inizialmente prevedeva infatti come unica motivazione valida per la concessione del permesso, un “imminente pericolo di vita” di un familiare, rispondendo al requisito di umanizzazione della pena fissato dall'art. 27 della Costituzione. A dimostrazione del fatto che il permesso non è una misura trattamentale si osserva come tale beneficio, ex art. 30 dell'Ordinamento penitenziario, è concedibile a qualsiasi detenuto, indipendentemente dalla sua posizione giuridica, dal tipo di reato commesso e dalla condotta tenuta. Nel 1977, con la legge n. 450 è stato modificato il secondo comma dell'art. 30 dell'Ordinamento penitenziario, con il quale è stato previsto che solo “eccezionalmente” possono essere concessi analoghi permessi per “eventi familiari di particolare gravità”. La flessibilità di questa nuova espressione ha indotto la Magistratura di Sorveglianza a concedere permessi in misura più ampia rispetto al passato, al fine di offrire una parziale risposta ad una serie di necessità espresse dai detenuti ritenute comunque meritevoli di considerazione. Fino all'introduzione dell'istituto dei permessi premio, avvenuto con la legge n. 663 del 10 ottobre 1986, la Magistratura di Sorveglianza ha continuato ad applicare l'art. 30 dell'Ordinamento penitenziario ad una serie considerevole di casi, dotati comunque di un carattere di eccezionale “gravità” e inerenti la vita familiare, considerando grave qualsiasi avvenimento particolarmente significativo nella vita di una persona (68), sia esso positivo o negativo, che abbia eccezionale importanza e rilevanza nella vita del richiedente ma non per motivi di studio. L'istituto del permesso premio, introdotto dalla legge Gozzini e previsto all'articolo 30 ter dell'Ordinamento penitenziario, esplica la sua funzione positiva in due direzioni: da un lato svolge una funzione incentivante attraverso il meccanismo della premialità, stimolando nel condannato un atteggiamento psicologico di maggior favore all'osservanza delle norme che regolano la vita in carcere, dall'altro svolge una funzione specialpreventiva, contribuendo a mantenere gli interessi affettivi, culturali e lavorativi del condannato. A differenza del permesso previsto dall'art. 30 dell'Ordinamento penitenziario, l'istituto del permesso premio è stato ritenuto dalla Corte Costituzionale come “parte integrante del programma di trattamento al punto da far considerare quell'istituto quale fondamentale strumento di rieducazione in quanto idoneo a consentire un iniziale reinserimento del condannato nella società, così da potersene trarre elementi utili per l'eventuale concessione di misure alternative alla detenzione” (69). Tale permesso può essere concesso solo ai detenuti che sono in regime di esecuzione pena, vista la funzione “pedagogico-propulsiva” riconosciutagli che consente di perseguire una progressività trattamentale attraverso una progressione della premialità. Inoltre, nella concessione del permesso premio si richiede che il detenuto abbia tenuto una regolare condotta (70), che abbia maturato i termini per farne istanza e che non risulti socialmente pericoloso. Infine tale permesso può essere richiesto dal condannato detenuto allo scopo di coltivare i propri interessi culturali, consentendogli di poterne fruire anche per motivi di studio. Infatti spesso viene concesso agli studenti detenuti iscritti all'università per potersi recare presso la rispettiva Facoltà al fine di sostenere l'esame preparato.

L'art. 19 conclude la trattazione dell'istruzione prevedendo, all'ultimo comma, l'impegno da parte dell'amministrazione penitenziaria di favorire “l'accesso alle pubblicazioni nella biblioteca, con piena libertà di scelta delle letture”, impegno già previsto dagli articoli 12 e 18 comma 6 dell'Ordinamento penitenziario (71). Questa disposizione è meglio precisata all'art. 21 del Regolamento di esecuzione del '76, articolo interamente dedicato al servizio di biblioteca. In questo articolo è stata attribuita alla direzione dell'istituto penitenziario il compito di disciplinare l'accesso alla biblioteca e di autorizzare l'acquisto dei libri, scelti per altro, da una commissione composta anche da detenuti, definitivi e non. L'elenco dei testi da acquistare doveva essere trasmesso al Provveditorato regionale il quale aveva il compito di verificare il rispetto, nella scelta del materiale bibliotecario, del criterio del pluralismo culturale esistente nella società. Il diritto alla lettura, ad una libera lettura, seppur sottoposto a controlli, poteva essere considerato maggiormente garantito rispetto al passato. Ricordiamo infatti che negli anni precedenti al testo dell'ordinamento penitenziario, nelle biblioteche degli istituti penitenziari erano disponibili, prevalentemente, libri di cultura generale (storia, geografia, romanzi ...) e in un passato ancor più remoto, la maggior parte dei testi avevano un'impronta religiosa, tecnica o specialistica.

Come già accennato un problema che ha sempre ostacolato la formazione scolastica dei detenuti è la loro frequente mobilità. La condizione di detenuto o internato sottopone spesso il soggetto a trasferimenti da lui non richiesti. Tali trasferimenti possono essere disposti per motivi diversi, che vanno da quelli disciplinari a quelli per necessità amministrative o di sicurezza, come nel caso degli sfollamenti. Spesso tali spostamenti si attuavano senza attribuire la giusta considerazione al fatto che un detenuto stesse frequentando un corso scolastico. Nella migliore delle ipotesi, lo studente doveva interrompere il proprio anno scolastico proseguendolo nel nuovo istituto mentre, nell'ipotesi peggiore, e purtroppo anche più frequente, lo studente doveva interrompere definitivamente l'anno scolastico iniziato. È vero che l'utilità concreta che ciascun individuo può ricevere dall'attività di istruzione è qualcosa dalla quale, nell'ambiente carcerario, si deve, in parte, prescindere, in considerazione del fatto che l'ampliamento del bagaglio culturale degli studenti detenuti non è l'unica finalità che i corsi di istruzione in carcere hanno, ma data la disposizione che prevedeva l'art. 42 del regolamento del '76, di certo qualcosa non quadrava. Tale articolo, al secondo comma, indicava un ulteriore requisito per l'ammissione di uno studente detenuto ai corsi di istruzione secondaria superiore: il residuo pena dell'aspirante studente doveva essere almeno pari alla durata di un anno scolastico. Se con questa disposizione è stato riconosciuto che i corsi scolastici possono essere realmente proficui, sotto l'aspetto prettamente istruttivo, solo nei confronti di coloro che possono completare almeno un anno scolastico, sembra impossibile che non sia stata prevista alcuna garanzia, per gli studenti detenuti, di terminare l'anno scolastico intrapreso nell'istituto in cui questi soggetti possono essere trasferiti. Tale problema risente del concetto di istruzione come contemplata nel testo dell'Ordinamento penitenziario del '75, ovvero come esclusivo elemento del trattamento e non come diritto costituzionale. Le cautele in merito ai trasferimenti degli studenti detenuti saranno oggetto di attenzione, sotto l'aspetto trattamentale e pratico, solo nel regolamento di esecuzione del 2000.

L'Ordinamento penitenziario del '75, a differenza del codice Rocco, si propone di coinvolgere la comunità esterna nelle attività culturali. Tale contributo può essere offerto sotto forma di attività di volontariato oppure di attività istituzionalizzate. Gli istituti penitenziari, al fine di promuovere le attività culturali devono dotarsi di idonee attrezzature (art. 27 comma 1 Ord. pen.) che sono gestite dai detenuti, attraverso i loro rappresentanti (art. 27 comma 2 Ord. pen.), con la cooperazione dei volontari.

È evidente, che la possibilità di seguire corsi di istruzione è stata espressamente prevista per i soggetti reclusi in regime di esecuzione pena. Occorre quindi comprendere se tale possibilità è stata implicitamente estesa anche a coloro che sono reclusi perché sottoposti alla custodia cautelare in carcere. A parte quanto indicato dal comma 4 dell'art. 41 del regolamento di esecuzione del 1976, che offre anche agli imputati la possibilità di un'assistenza scolastica sussidiaria, sul quesito iniziale il testi dell'ordinamento e del regolamento del '76 tacciono. Anzi, l'art. 15 dell'Ordinamento penitenziario, al primo comma, indica una distinzione tra l'istruzione e le attività culturali, prevedendo che “Il trattamento del condannato e dell'internato è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive”. Al terzo comma di detto articolo è poi previsto che “Gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a partecipare alle attività educative, culturali e ricreative”. La conseguenza di tale distinzione sembra escludere l'istruzione per coloro che non sono stati condannati “definitivamente”. Tale equivoco non è certo irrilevante. L'istruzione è un attività “impartita da professori del sapere, la cultura può anche essere autogestita; ma la cultura è eventuale, disarmonica, frammentaria, passibile di essere interrotta ad libitum, mentre l'istruzione è curata secondo ordinamenti vigenti, attraverso il canonico flusso di conoscenze dal docente al discente” ed ancora le attività culturali “sono subordinate e complementari all'istruzione” (72). L'esclusione dei reclusi “non definitivi” dall'istruzione è, a mio avviso, contraria al principio costituzionale di uguaglianza, a quello di non colpevolezza sino a condanna definitiva, ex articolo 27 secondo comma della Costituzione, nonché a quanto disposto dall'art. 34 della Costituzione, che al primo comma, riconosce all'istruzione il grado di diritto civico, quindi proprio di ciascun essere umano, prevedendo che “La scuola è aperta a tutti”.

1.4 L'istruzione nel regolamento di esecuzione del 2000 (D.P.R. n. 230 del 2000)

In seguito all'entrata in vigore della legge n. 663 del 1986, meglio conosciuta come “Legge Gozzini” ed alla legge n. 165 del 1998, cosiddetta “Legge Simeone” che, nel rispetto del principio di uguaglianza, in sede di esecuzione della condanna ha concepito la possibilità di concedere a tutti i detenuti la sospensione della pena facilitando in tale modo ai condannati stranieri l'accesso alle misure alternative, sorsero diverse polemiche sul concetto di flessibilità della pena. Con le suddette leggi infatti si era assistito ad un notevole incremento delle possibilità, previste per i condannati, di scontare la pena in un luogo alternativo al carcere. Questo ha stimolato una pressante richiesta, da parte dell'opinione pubblica, di ristabilire un più ampio controllo ed una maggiore sicurezza sociale. Cedendo alla pubblica richiesta di “almeno un po' di carcere”, nel 1999 si è verificato un aumento significativo della popolazione detenuta, indotto da un incremento delle misure cautelari in carcere, in contraddizione agli auspici sotto cui si era aperta la legislatura, di far diventare il carcere l'extrema ratio dell'intervento sanzionatorio penale (73). L'ossessionante richiesta di sicurezza da parte della società ha indotto ad un inasprimento dell'applicazione delle norme penitenziarie ed i contraccolpi di tale tensione non hanno tardato a manifestarsi in un aumento delle segnalazioni di maltrattamenti e violenze perpetrati negli istituti penitenziari (74). Il lavoro istruito dal direttore generale dell'Amministrazione penitenziaria in carica in quegli anni, Dott. Alessandro Margara (il cui pensiero si è evidentemente dimostrato fortemente scomodo e quasi speculare a detto clima tanto da portare, nel giro di un anno, alla sua rimozione) è sfociato nella elaborazione del nuovo Regolamento di esecuzione dell'Ordinamento penitenziario. Con questo regolamento, approvato con D.P.R.n. 230/2000, è stato comunque relegato ad un ruolo secondario il potenziamento degli strumenti con cui attuare il trattamento penitenziario. Sono state riconosciute gratificazioni di carriera agli operatori penitenziari ma ancora una volta non è stato affrontato il problema dell'insufficienza di organico che affligge l'area trattamentale. (75)

Il nuovo regolamento di esecuzione del 2000 è nato con l'obbiettivo di delineare un nuovo assetto del trattamento, maggiormente conforme alle finalità che si era proposto l'Ordinamento penitenziario del 1975. Come ricordato lo scopo del trattamento non è solo quello di favorire la convivenza del detenuto con il resto della comunità reclusa con cui vive coattivamente il suo presente bensì di prepararlo e mantenerlo in contatto con la comunità esterna, annientando il più possibile la caratteristica, comune a tutti gli istituti di reclusione, di “separare dal mondo” (76). A tal fine è prioritario l'obbiettivo di riuscire ad “aprire il carcere”, restituendo a questo luogo l'identità di “parte della società” e nel rispetto di tale identità, restituirlo alla società stessa. Occorre mantenere, spesso intensificare e migliorare, i rapporti tra il carcere e la società esterna rendendo meno traumatico il ritorno nella società per quei soggetti coattivamente allontanati da questa. Irrinunciabile è stato riconosciuto l'affiancamento del volontariato e del terzo settore laico, nelle attività carcerarie di tipo ricreativo, culturale e formativo. A tal proposito ricordiamo che l'otto giugno 1999 è stato siglato un protocollo d'intesa tra il Ministero della Giustizia e la Conferenza Nazionale del Volontariato Penitenziario, allo scopo di favorire lo sviluppo delle attività di volontariato a sostegno del reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute.

Come già accennato il concetto di “tempo” assume, in carcere, una dimensione totalmente diversa da quella che riveste normalmente per le persone che vivono in condizioni di libertà. La reclusione catapulta l'individuo in un mondo “privo di alternative e di progettazione, dominato dall'assoggettamento ad un ambiente artificiale ed opprimente” (77): scompare di colpo il concetto di “tempo libero” comunemente inteso, lasciando il posto a troppo tempo vuoto ed all'incubo di come riempirlo. Il nuovo testo regolamentare del 2000 rivela l'intenzione di aumentare tempi e spazi da dedicare all'ampliamento ed al miglioramento delle opportunità culturali. A tale scopo è avvenuto un coordinamento tra il Ministero delle Giustizia, il Ministero della Pubblica Istruzione e le Regioni teso a facilitare l'attivazione dei corsi di scuola dell'obbligo in tutti gli istituti penitenziari, prevedendo l'attivazione di almeno un corso di scuola secondaria superiore in ogni regione ed infine pensando concretamente al modo di facilitare il compimento degli studi universitari in carcere.

L'art. 41 del Regolamento del 2000 è dedicato alla disciplina dell'istruzione a livello di scuola dell'obbligo. In merito a tali corsi è stata confermata la necessità di opportune intese tra il Ministero della Pubblica Istruzione ed il Ministero della Giustizia ed è stato individuato, nel protocollo d'intesa, il provvedimento amministrativo con cui tali intese devono essere concordate (art. 41 comma 1-2 reg. esec. 2000).

L'art. 43 del Regolamento di esecuzione del 2000 si occupa dei corsi di istruzione superiore. È ribadita la dislocazione, all'interno degli istituti penitenziari, attraverso protocolli d'intesa, di succursali di scuole del suddetto grado presenti all'esterno, garantendo l'attivazione di almeno uno di questi corsi in ogni regione. Nel caso di una mancata attivazione a livello istituzionale di detti corsi, è prevista la possibilità di colmare tale inefficienza con l'intervento del personale volontario. Gli insegnanti volontari sostengono e seguono gli studenti detenuti durante la preparazione annuale degli esami, all'uopo previsti per tali corsi di studio e che i detenuti sosterranno poi da privatisti. L'opera dei volontari può essere autorizzata ex artt. 17 e 78 dell'Ordinamento penitenziario ed è sempre attraverso questi tipi di autorizzazione che il personale docente statale può accedere al carcere. Come è stato espresso in precedenza, il regolamento di esecuzione del 2000 riafferma, all'articolo 68, l'importanza dell'apporto rieducativo da parte del personale volontario, in conseguenza del contributo fondamentale riconosciuto alla partecipazione della comunità esterna all'azione di reinserimento dei detenuti. Il coinvolgimento della comunità esterna deve essere coordinata con le attività di reinserimento dalla direzione dell'istituto di concerto con i servizi sociali, che insieme ne curano la partecipazione e le forme.

L'art. 40 del Regolamento di esecuzione del 2000 prevede la possibilità di autorizzare il detenuto a tenere nella propria cella gli strumenti quali “computer, lettori di nastri e cd portatili”, a lui necessari per fini di lavoro o studio. Con tale disposizione è stata palesata la nuova concezione dell'istruzione che è stata seguita nel testo regolamentare del 2000: un'istruzione libera, degna di essere facilitata in tutte le possibili forme, compatibilmente alle esigenze di sicurezza imposte dall'ambiente carcerario.

In merito agli studi universitari la nuova regolamentazione ha introdotto rilevanti modifiche dedicando l'articolo 44 interamente a questa materia. Tale articolo prevede che gli studenti universitari, per quanto possibile, siano ubicati in luoghi adatti allo svolgimento dello studio e sia allestito un ambiente dove essi possono incontrarsi tra loro e con i docenti universitari. Inoltre è prevista anche per gli studenti universitari la possibilità di tenere nella propria cella e nei locali destinati allo studio, libri e strumenti didattici necessari a tale attività.

Nel testo del regolamento del 2000 è stato confermato il compito, affidato alle direzioni degli istituti penitenziari, di programmare i corsi d'istruzione in orari compatibili con lo svolgimento delle altre attività trattamentali, soprattutto con il lavoro, sancendo il principio di non sovrapponibilità delle attività offerte dall'istituto di reclusione.

All'art. 45 del Regolamento di esecuzione 2000 sono stati confermati i benefici economici per gli studenti detenuti che frequentano i corsi di scuola superiore ed universitari, previsti nel precedente regolamento del '76. È previsto che agli studenti detenuti che frequentano i corsi di scuola superiore sia elargito un “sussidio giornaliero nella misura determinata con decreto ministeriale per ciascuna giornata di frequenza o di assenza non volontaria”, inoltre “nell'intervallo tra la chiusura dell'anno scolastico e l'inizio del nuovo corso agli studenti è corrisposto un sussidio ridotto per i giorni feriali, nella misura determinata con decreto ministeriale, purché abbiano superato con esito positivo il corso effettuato nell'anno scolastico e non percepiscono mercede”. È stato inoltre confermato anche il premio di rendimento annuo per tutti gli studenti che abbiano concluso con profitto il corso d'istruzione, individuale o collettivo, che hanno frequentato. Tale premio di rendimento è previsto anche a favore degli studenti universitari che abbiano superato tutti gli esami previsti per il loro anno. Infine è stato confermato il rimborso delle spese scolastiche sostenute sia dagli studenti di scuola superiore che dagli studenti universitari, qualora detti studenti abbiano concluso con profitto il rispettivo percorso scolastico annuo e versino in disagiate condizioni economiche.

La previsione dei benefici economici ricalca fondamentalmente quella contenuta nell'art. 43 del regolamento di esecuzione del 1976. È stata così confermata l'intenzione di agevolare (78) la partecipazione degli studenti alle attività scolastiche senza limitare le attività di lavoro, cercando di essere particolarmente accorti nei riguardi di coloro che versano in disagiate condizioni economiche e che hanno manifestato impegno nell'attività scolastica Nell'art. 45 del regolamento del 2000 è stata ribadita anche l'eventualità che i corsi di formazione professionale e quelli della scuola dell'obbligo possano svolgersi durante le ore dedicate al lavoro. Tale eventualità è consentita solo nel caso non sia possibile gestire diversamente il tempo ed i locali (art. 45 comma 2 e comma 5). In tal caso, i detenuti studenti che frequentano la scuola dell'obbligo, ricevono una mercede proporzionata al numero delle ore di lavoro effettivamente svolto, sostanziando così il beneficio economico previsto a loro favore nella doverosità di percepire un “compenso” per il lavoro prestato e di conservare la possibilità di lavorare nonché quella di andare a scuola (79).

L'art. 41, al comma 4 del regolamento penitenziario del 2000, affronta il problema dei trasferimenti prevedendo che, qualora la direzione dell'istituto reputi opportuno proporre il trasferimento di un detenuto studente, deve acquisire ed unire alla proposta di trasferimento il “parere degli operatori dell'osservazione e trattamento e quello delle autorità scolastiche”. Il trasferimento dovrà effettuarsi, per quanto possibile, nel rispetto della “qualità di studente” del soggetto trasferito, così da permettergli di continuare il corso di studi intrapreso, terminando l'anno scolastico e perseguendo quella continuità didattica necessaria per completare il ciclo di studi intrapreso. Qualora il trasferimento venga disposto, dovrà essere sempre motivato. Ancora in tema di trasferimenti, l'art. 83 del Regolamento d'esecuzione 2000, al comma nove, disciplina l'ipotesi, del resto frequente nella prassi, in cui sia disposto un trasferimento collettivo. Nel caso di trasferimenti collettivi per esigenze di sovraffollamento è stata prevista l'esclusione dal provvedimento di trasferimento di quei detenuti o internati che stanno frequentando attività trattamentali come il lavoro, l'istruzione e la formazione professionale.

L'art. 46 del regolamento di esecuzione del 2000 disciplina l'eventuale esclusione dello studente detenuto dal corso d'istruzione (o di formazione professionale) cui è stato in precedenza ammesso. Il primo comma di detto articolo individua la causa che può indurre l'esclusione dello studente nel caso in cui lo studente detenuto “tenga un comportamento che configuri sostanziale inadempimento dei suoi compiti è escluso dal corso”. Il provvedimento di esclusione dal corso scolstico è adottato dal direttore ma non senza i pareri indispensabili del “gruppo di osservazione e trattamento e delle autorità scolastiche”. Tale provvedimento deve essere motivato e può essere revocato in qualunque momento, qualora il comportamento del detenuto o dell'internato sia tale da consentirne la riammissione al corso (art. 46 comma 2 reg. esec. 2000). I rapporti tra lo studente detenuto ed i docenti, volontari e non, sono mantenuti senza interruzioni anche nel caso in cui lo studente detenuto sia sottoposto alla sanzione disciplinare dell'isolamento (80).

1.5 Cenni sulla normativa internazionale e comunitaria

Dopo aver percorso, a grandi linee, l'evoluzione del ruolo dell'istruzione negli ambienti penitenziari italiani, è opportuno accennare come tale l'argomento è stato trattato a livello internazionale e comunitario. Sono stati compiuti notevoli sforzi al fine di individuare, in materia penitenziaria, principi comuni a tutti gli Stati, perseguendo lo scopo di valorizzare l'istruzione come elemento del trattamento, nella prospettiva di offrire ai detenuti strumenti realmente significativi per il loro riadattamento sociale.

L'ordinamento penitenziario italiano è stato redatto dopo che le “Regole minime per il trattamento dei detenuti” (“Standard Minimum Rules”) dell'ONU fossero adottate, in occasione del “Primo Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine ed il trattamento dei delinquenti”, con la Risoluzione del 30 agosto 1955. Dette “Regole” (le “Standard Minimum Rules”) non si proponevano di descrivere dettagliatamente un sistema penitenziario “tipo” ma tendevano a chiarire quali dovessero essere le condizioni minime ammesse, in materia penitenziaria, dalle Nazioni Unite. Forte era il desiderio, nonché la necessità di attuare, a livello internazionale, una cooperazione ed una linea politica comune in materia penitenziaria, al fine di sviluppare una lotta compatta in risposta al crimine.

Il progetto ispiratore dalle “Regole” dell'ONU fu quello della responsabilizzazione del detenuto. Tale soggetto doveva essere posto nelle condizioni di imparare a prendersi cura di sé, in attuazione del diritto all'educazione proprio di ciascun individuo (come sancito dall'art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (81)), in vista del suo rientro nella società come forza attiva per se stesso e per la collettività (artt. 65, 77, 78 delle “Standard Minimum Rules”). A tale scopo emergeva l'istruzione, intesa come educazione religiosa e scolastica. Particolare attenzione fu riservata alla posizione dei detenuti analfabeti e di quelli giovani. Nei riguardi di queste categorie di soggetti, l'istruzione assumeva la funzione di strumento imprescindibile di integrazione sociale. Le “Regole” dell'ONU hanno individuato alcuni traguardi che devono essere raggiunti dallo sviluppo delle politiche educative penitenziarie. Innanzi tutto l'educazione penitenziaria deve essere indirizzata verso lo sviluppo della persona nel suo complesso, considerando il suo passato economico, sociale e culturale. Un altro obiettivo è quello di consentire, a ciascun detenuto, di accedere a tutti i programmi di educazione, nel senso più ampio del termine: dall'educazione culturale a quella fisica, da quella religiosa a quella letteraria Infine, è stato riconosciuto come compito dell'amministrazione penitenziaria quello di favorire e potenziare l'educazione dei detenuti, incentivando il più possibile la loro partecipazione alle iniziative che si sviluppano all'esterno del penitenziario.

Recentemente, a livello internazionale, la materia dell'istruzione ha stimolato un forte interesse che è destinato a crescere. È stata avvertita al livello generale la necessità di offrire diversi sistemi di educazione al fine di prevenire le svariate forme del crimine e nel contempo facilitare un adeguato reinserimento sociale degli ex-detenuti.

Allo scopo di realizzare un più efficace e graduale reinserimento dell'ex-detenuto, è necessario agevolare i contatti tra la società e l'individuo in esecuzione pena. A tale scopo un ruolo fondamentale è svolto dalle misure alternative alla detenzione, di cui si avverte sempre di più la necessità di ampliare l'ambito di applicazione e l'effettivo utilizzo, in considerazione del loro cospicuo contributo al progressivo reinserimento sociale dei soggetti reclusi.

Tra le numerose competenze del Consiglio d'Europa figura anche quella di promuovere il progresso sociale. Il Consiglio d'Europa ha riconosciuto nelle “Regole minime dell'ONU” una bandiera da seguire nel corso dei dibattiti europei in materia penale e penitenziaria.

Nel 1957 è stato costituito il CECP (Comitato Europeo per i Problemi Criminali) e nel 1968, lo stesso CECP, è stato invitato ad adattare il testo delle “Regole” delle Nazioni Unite alle esigenze della politica penale contemporanea, promuovendone l'effettiva applicazione in Europa. Il testo delle “Regole”, nella versione europea, è stato adottato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa nel 1973. In seguito, dette regole sono state conformate, dallo stesso Consiglio d'Europa, alle diverse esigenze europee e definitivamente adottate nel 1987 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, in una versione completamente ristrutturata denominata “Regole Penitenziarie Europee”. La natura programmatica delle “Regole Penitenziarie Europee”, ha contribuito a far diventare tale documento il principale testo di riferimento, in materia penitenziaria, per l'intera Europa. Il suo contenuto è stato trasfuso nelle leggi interne di molti Paesi, con l'intento di attuare un regime carcerario conforme al rispetto della dignità dell'uomo e degli imperativi del diritto penale.

Il testo delle “Regole Penitenziarie Europee” del 1987 prevede cento regole, ottenute in seguito alla modifica delle novantaquattro previste nel precedente testo del 1973. Queste regole coprono tutti gli aspetti della vita quotidiana dei detenuti: il tema dei locali, dell'igiene, del vitto, della disciplina, dell'istruzione, del tempo libero e delle cure mediche. Sono affrontati anche i problemi del personale penitenziario e del reinserimento dei detenuti, riservando a tali argomenti una parte cospicua della trattazione (82).

Nel testo del 1987 le norme in materia di istruzione sono state completamente rinnovate. Innanzi tutto l'istruzione, qualora sia parte di un programma di trattamento individualizzato, è posta sullo stesso piano del lavoro, equiparazione ricalcata sostanzialmente dalle formulazioni delle “Regole” ONU. Le regole sull'istruzione, previste nel documento delle “Regole Penitenziarie Europee”, sono state collocate nella rubrica dedicata alle “attività trattamentali” ed occupano gli articoli dal n. 77 al n. 82, quest'ultimo dedicato alla biblioteca. Esaminiamo nello specifico il contenuto di detti articoli.

Art. 77 T.R.P.E. (83): è prevista l'attivazione, in ogni istituto penitenziario, di un programma di studi completo, al fine di soddisfare almeno alcune delle aspirazioni di ciascun detenuto. Scopo di tale disposto normativo è quello di aumentare la possibilità del reinserimento sociale del soggetto, promovendone la formazione culturale e professionale, in considerazione delle esigenze personali, trattamentali e sociali.

Art. 78 T.R.P.E. (84): l'esperienza ha dimostrato la difficoltà di individuare, per ciascun soggetto, un programma il più possibile adeguato alle proprie esigenze. Inoltre in questo articolo è richiamata l'attenzione sul fatto che gli studenti detenuti possano essere ingiustamente penalizzati dalla scelta di seguire i corsi di studio, dato che le attività didattiche non sono remunerate. È quindi previsto che l'istruzione, qualora si svolga durante gli orari destinati al lavoro, venga considerata come “attività del regime penitenziario” e quindi, al pari del lavoro, remunerata.

Art. 79 T.R.P.E. (85): è richiesta maggiore attenzione da parte dell'amministrazione penitenziaria in merito alle problematiche dei “giovani” detenuti, ed in particolare di quelli stranieri. In merito a questi ultimi è sentita come prioritaria la necessità di annientare le difficoltà linguistiche al fine di consentire loro una proficua partecipazione ai normali programmi di studio.

Art. 80 T.R.P.E. (86): essendo stata riconosciuto a ciascun individuo il diritto di apprendere i primi rudimenti di letteratura e di calcolo per poter affrontare la quotidianità, è prevista la costituzione di appositi spazi da dedicare ai corsi di recupero per gli analfabeti ed i cosiddetti “analfabeti di ritorno”. A tal fine è ribadita l'importanza di una collaborazione tra l'educazione penitenziaria ed i servizi scolastici, nel proposito di sbiadire, il più possibile, quegli squilibri culturali che spesso sono causa di frustrazione per soggetti svantaggiati.

Art. 81 T.R.P.E. (87): sono stati trattati due aspetti relativi alla formazione scolastica dei detenuti “fuori” dal carcere: l'esigenza di “integrare” l'istruzione in carcere con quella pubblica, rendendole compatibili, in vista della possibile volontà del detenuto, di proseguire gli studi una volta tornato in libertà, e la necessità di sottolineare i vantaggi che possono apportare i corsi scolastici che si svolgono all'esterno del carcere, qualora siano della stessa natura di quelli scelti dal detenuto. Scopo di questo disposto normativo è quello di attuare una maggiore integrazione della realtà penitenziaria con la società.

Art. 82 T.R.P.E. (88): Le disposizioni in merito alla biblioteca hanno previsto la necessità di coordinare le biblioteche carcerarie e quelle pubbliche. Tale coordinamento è ritenuto essenziale per attuare un insegnamento in carcere completo ed efficace: i detenuti devono avere accesso ad una più ampia gamma di libri e di altre pubblicazioni in campo letterario, ideologico, scientifico.

Le “Regole Penitenziarie Europee” del 1987 hanno rappresentato, per il sistema penitenziario italiano, un modello da seguire, uno stimolo per non cedere alla pressante richiesta di maggiore severità indotta dal costante aumento della criminalità, soprattutto nel periodo successivo alla legge n. 165/98, un aiuto per continuare a garantire e perseguire il rispetto della dignità e dell'umanità dei detenuti.

Anche altri documenti hanno contribuito a individuare, in ambito europeo, possibili mezzi attraverso i quali deve consolidarsi l'apparato educativo nelle carceri. Ricordiamo la Raccomandazione n. 12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa del 31 ottobre del 1989, sulla “Education in Prison”. Tale Raccomandazione era stata realizzata con lo speciale contributo di un Comitato selezionato di esperti (89) e s'innestava sui contenuti delle “Regole Penitenziarie Europee”. In detta Raccomandazione è ribadito il ruolo fondamentale che ricopre l'educazione, sia per la crescita individuale che per quella della comunità, ma la vera innovazione apportata dalla R(89)12 è di aver posto in correlazione, per la prima volta in ambito europeo, lo stretto legame esistente tra i detenuti e le loro fallimentari precedenti esperienze scolastiche, aspetto quest'ultimo di forti discussioni negli anni in oggetto.

Ricordiamo che le “Regole Penitenziarie Europee” sono state redatte nel 1987 quindi dopo l'emanazione dell'Ordinamento Penitenziario italiano (e del relativo Regolamento di esecuzione del 1976). Il legislatore italiano ha trovato nel testo delle “Regole Penitenziarie Europee” uno strumento di verifica da cui riscontrare l'effettiva conformità dell'Ordinamento Penitenziario del 1975 agli standard europei adottati nonché una modernità ideologica simile, nell'affrontare il tema del trattamento, tra il testo dell'Ordinamento penitenziario del '75 e quello europeo del 1987. Possiamo notare che, limitandoci all'argomento dell'istruzione, il testo italiano della legge n. 354/75 non è preciso come quello delle “Regole Penitenziarie Europee” e non presenta la stessa attenzione in merito all'istruzione. Non è stata prevista dal legislatore italiano l'attivazione di puntuali corsi di alfabetizzazione o di uno spazio da dedicare ai corsi di recupero per stranieri o per “analfabeti di ritorno” e neppure l'opportunità di collegare le biblioteche interne al carcere e quelle esterne. È auspicabile che queste mancanze siano considerate uno stimolo ed una meta da raggiungere.

Un notevole limite delle disposizioni internazionali è che non possono per loro natura, imporsi direttamente agli Stati. Tale ostacolo è stato a volte ovviato attraverso il lavoro degli organi giurisdizionali europei posti a tutela della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali”. (90)

1.6 L'istruzione penitenziaria alla luce della normativa costituzionale

Conclusa l'analisi dell'attuale regolamento di esecuzione ritengo opportuno procedere ad alcune osservazioni in merito al ruolo dell'istruzione previsto dal tale testo regolamentare rispetto a quanto disposto nel testo della Costituzione. L'analisi degli articoli 33 e 34 del testo costituzionale è stata affrontata precedentemente, quindi in questa sede mi limiterò a ricordarne i punti essenziali ed approfondirne altri non affrontati precedentemente.

La Costituzione riconosce a ciascun individuo il diritto all'istruzione (art. 34). Tale diritto consente a ciascun soggetto di usufruire del servizio pubblico scolastico, di cui se ne presume il funzionamento considerando quanto disposto dal secondo comma dell'art. 33 della Costituzione. Inoltre il diritto all'istruzione è prioritariamente, in merito ai corsi di istruzione inferiore, un obbligo imposto a ciascun cittadino. Infine sono previste facilitazioni economiche a favore degli studenti capaci e meritevoli, allo scopo di garantire a tali studenti il diritto di usufruire del servizio scolastico sino ai gradi più elevati. In merito a quest'ultimo aspetto, l'attenzione posta nei confronti dei capaci e meritevoli stride. Se di diritto si parla, ovvero del diritto di godere del servizio scolastico, questo deve essere garantito a tutti coloro che desiderano usufruirne, senza discriminazioni inerenti a merito e capacità. In considerazione di quanto espresso al primo comma dell'art. 34, usando l'espressione “La scuola è aperta a tutti”, si riconosce il diritto individuale a ciascun soggetto di accedere al servizio scolastico, prescindendo dalle condizioni personali dell'aspirante studente. Inoltre, appaiono ancora oggi molto confusi, discriminatori ed, a parer mio, contrari ai principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà, gli elementi di valutazione della capacità e della meritevolezza, in base ai quali è consentito ad un soggetto di accedere ai sussidi economici che lo Stato si è impegnato ad erogare. L'espressione “I capaci e meritevoli” potrebbe indurre a pensare che la portata di questo diritto costituzionale, individualmente riconosciuto, risente di valutazioni assolutamente arbitrarie, affievolendosi o rafforzandosi di fronte a pareri che definiscono un individuo meritevole o meno di esercitare il proprio diritto. Chi è meritevole? Colui che è definito “buon cittadino”? Colui che raggiunge risultati scolastici sufficienti, buoni, ottimi? Il soggetto definito “non meritevole” perde il diritto costituzionale di usufruire di un servizio pubblico che lo Stato si è impegnato ad offrire o, ancora più subdolamente, non riceve alcun sostegno nell'esercizio del suo diritto solo perché il risultato di un'equazione matematica o di un giudizio in merito alla sua personalità, lo ha classificato “non meritevole”?

Continuando, appare ancora più incredibile osservare come sino a che esiste un interesse pubblico da perseguire, come quello di elevare il grado di cultura nazionale, il supporto statale al fine di rendere effettivo il diritto all'istruzione esiste, ricordiamo infatti che la scuola inferiore è non solo obbligatoria ma anche gratuita, mentre per i gradi più alti di istruzione l'effettività di tale diritto è subordinata alla capacità nonché alla meritevolezza dell'individuo. L'articolo 34 della Costituzione è una contraddizione continua. Abbiamo infatti osservato che il primo comma di detto articolo non indica il livello scolastico considerato nel termine “scuola”, nonostante le precisazioni dei commi successivi e, vista la posizione del comma stesso, ovvero in apertura dell'articolo, nonché il suo contenuto, se ne deduce che è stato riconosciuto a “tutti” il diritto individuale di godere del servizio scolastico, senza specificarne il grado, né subordinandolo a condizioni personali dello studente. L'espressione “La scuola è aperta a tutti.” implica l'impegno da parte dello Stato di attuare, e la corrispondente legittimazione dell'individuo ad esigere, le strutture educative pubbliche, nonché a rimuovere quegli ostacoli di ordine economico, sociale e giuridico, che impediscono la trasformazione della domanda d'istruzione, da parte degli individui, da potenziale in effettiva. Dopo aver ulteriormente riflettuto sulla portata dell'art. 34 della Costituzione e sviscerato le problematiche ancora aperte che questo articolo presenta, riflettiamo su come il rispetto del diritto all'istruzione, così interpretato, è osservato nell'ambiente carcerario.

Innanzi tutto, dato il previsto obbligo all'istruzione inferiore a carico di ciascun individuo, non si comprende come oggi molti cittadini italiani, liberi, detenuti o in custodia cautelare, vertano ancora in uno stato di quasi analfabetismo. L'obbligo scolastico inferiore è stato cristallizzato nel testo della Costituzione ma era già presente nella legge n. 407 dell'8 luglio 1904, che prevedeva l'obbligo scolastico sino ai dodici anni di vita, nonché nella legge del 1 luglio 1940, con la quale, oltre agli studi di scuola elementare, è stata istituita la scuola media unica obbligatoria di tre anni. Oggi la durata della scuola inferiore obbligatoria è stata estesa a dieci anni di frequenza scolastica che terminano con il conseguimento del diploma del biennio superiore o con la certificazione che attesta l'adempimento della decennale frequenza obbligatoria prevista. Nonostante questo l'effettività dell'istruzione, negli istituti penitenziari, continua a non essere perseguita concretamente. Osserviamo come sia nel testo dell'Ordinamento penitenziario del 1975 che in quello del regolamento di esecuzione del 2000, non è stato riconosciuto adeguatamente né menzionato il diritto di cui all'articolo 34 della Costituzione. L'Ordinamento penitenziario, all'art. 19, si limita ad indicare che “Negli istituti penitenziari la formazione culturale e professionale è curata mediante l'organizzazione dei corsi della scuola dell'obbligo e di corsi di addestramento professionale, secondo ordinamenti vigenti e con l'ausilio di metodi adeguati alla condizione dei soggetti”. In detta formulazione non è stato evidenziato che tali procedure devono essere attuate al fine di rispettare il diritto costituzionale all'istruzione di ciascun individuo, anche se recluso, e contemporaneamente offrire la possibilità al cittadino italiano ristretto di assolvere al proprio dovere di raggiungere il livello culturale richiesto obbligatoriamente dalla Costituzione. Ci si è scordati che la persona reclusa, detenuta o sottoposta a custodia cautelare, vive una condizione transitoria della propria vita, condizione che, terminando, permetterà all'individuo di rientrare nella società.

Almeno due sono le problematiche che rimangono aperte. La prima è quella che il diritto all'istruzione costituzionale di ciascun individuo nonché il diritto-dovere all'istruzione obbligatoria di ciascun cittadino diventano “nudi diritti” qualora questi individui oltrepassino il portale di un carcere. Il diritto all'istruzione è relegato a mera cura della formazione culturale del recluso, svilendone la portata costituzionale ed attribuendogli un valore quasi esclusivamente trattamentale. L'altra problematica emerge in considerazione del fatto che l'obbligo di frequentare la scuola inferiore è stato istituito al fine di perseguire un interesse pubblico e non si comprende perché il cittadino recluso, anche se non più sottoposto alla vigilanza coattiva dell'adempimento dell'obbligo scolastico, sia invece coattivamente sollevato dall'adempimento di tale obbligo. Detto individuo non perde lo status di cittadino e tornando nella società senza aver adempiuto a tale impegno culturale, continuerà ad essere considerato un “peso”. Sembra che la reclusione svuoti il diritto costituzionale all'istruzione, nonché dilegui l'obbligo previsto a carico dei soli cittadini, quali componenti della società, di raggiungere il livello culturale “obbligatorio”, trasmettendo loro un'implicita esclusione dalla società. Tale obbligo, ricordiamo, è preteso incondizionatamente da tutti i cittadini e si assolve solo conseguendo il diploma del biennio di scuola superiore od ottenendo la certificazione che attesta l'adempimento della frequenza obbligatoria per almeno dieci anni (91) e che dichiara il grado di istruzione raggiunto. Chiunque non si trovi in possesso di uno dei predetti documenti scolastici è inadempiente nei confronti di tale dovere costituzionale e non si comprende perché questo non esplichi la sua forza anche nei riguardi di coloro che sono reclusi.

La linea indicata dall'Ordinamento penitenziario è confermata nel testo regolamentare del 1976 e purtroppo continua ad essere presente anche in quello in vigore. Anche nel regolamento del 2000 si persiste nel ribadire lo scopo di perseguire la formazione culturale dei detenuti e degli internati senza riconoscere che tale attività è innanzi tutto un diritto di questi soggetti costituzionalmente previsto e non una mera opportunità trattamentale. Merita inoltre sottolineare che i programmi trattamentali sono previsti per i condannati definitivi, penalizzando ulteriormente coloro che sono in custodia cautelare ai quali l'istruzione non viene offerta neanche come opportunità trattamentale. Ricordiamo un requisito indicato nel testo dell'art. 19 dell'Ordinamento penitenziario: i corsi della scuola dell'obbligo devono essere organizzati con “l'ausilio di metodi adeguati alla condizione dei soggetti”. L'istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita e lo Stato, come abbiamo precedentemente osservato, si impegna a fornire le strutture, il personale e quant'altro inerente a questi elementi. Dette condizioni sono quelle previste normalmente allo scopo di offrire il servizio scolastico obbligatorio, e non vi si può certo ritrovare nulla di incompatibile e non trasferibile all'interno di una struttura penitenziaria. La condizione di recluso non impedisce all'individuo di frequentare i corsi scolastici di livello inferiore, nel proprio reparto di appartenenza dell'istituto di pena in cui si trova, l'importante è che tali corsi siano istituiti e lo siano in modo tale da consentire a tutti di usufruire del servizio scolastico obbligatorio previsto costituzionalmente.

Il regolamento di esecuzione del 2000 indica l'iter che deve essere seguito per l'attivazione dei corsi di istruzione obbligatoria ma, nel fare questo, non indica mai che è essenziale ed inderogabile osservare e compiere tale iter, pena la violazione del dettato costituzionale. L'istruzione è stata riconosciuta come elemento irrinunciabile del trattamento ma non è stato detto che, oltre all'indubbia valenza trattamentale, è innanzi tutto un diritto costituzionale riconosciuto a tutti i gli individui e come tale irrinunciabile essenzialmente per questo motivo.

Un discorso analogo vale per gli studi superiori ed universitari. Anche nel caso che detti corsi e supporti didattici non siano concretamente attivati all'interno degli istituti penitenziari, il risultato è quello di perseverare ad impedire ai detenuti, italiani e stranieri, l'esercizio del diritto costituzionale all'istruzione. Non è sufficiente prevedere facilitazioni ed agevolazioni in merito alla possibilità di seguire corsi scolastici di grado superiore o universitario per confermare e garantire un diritto costituzionale. Nei testi normativi che regolano la vita dei reclusi scompaiono improvvisamente diritti e doveri ed appaiono solo interessi, agevolazioni o facilitazioni. La pena, come indicato costituzionalmente, deve tendere alla rieducazione del condannato, ma nonostante tutte le riforme intervenute, non è stato ancora espressamente evidenziato che i reclusi sono innanzi tutto individui, ed i reclusi italiani sono prima di tutto cittadini italiani, con i rispettivi diritti e doveri. Diritti e doveri riconosciuti all'esterno che, limitandoci al tema dell'istruzione, ma non diversamente da quanto accade in altri innumerevoli ambiti (lavoro, salute, personalità, privacy, etc.), vedono sbiadire i loro contorni e volatilizzare il loro contenuto. L'interesse pubblico di garantire la sicurezza sociale attraverso la detenzione, prevarica la forza di tali diritti, ne stravolge il senso e ne limita il valore. Riconoscere l'importanza fondamentale dell'istruzione come elemento del trattamento e nel contempo svilirne lo spessore costituzionale attribuitole, è una violazione costituzionale nonché una contraddizione nei confronti dello scopo rieducativo che la pena deve perseguire.

Un portale di ferro ed i diritti vengono relegati al rango di interessi!

Note

1. A. RICCI e G. SALIERNO, Il carcere in Italia, Einaudi, Torino, 1971, pag. 14.

2. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, si consiglia la lettura, Lo splendore dei supplizi, Einaudi.

3. F. BERTI, P. ERDINI, M. GANGEMI, G. LOVERA, nella relazione sul convegno, Devianza, carcere e società, organizzato con il patrocinio dell'assessorato provinciale alla pubblica istruzione, Bolzano, 1990: “Il carcere, in quanto penitenziario ovvero luogo di detenzione, si impone perché è la forma che permette di quantificare la pena in senso cronologico, in una sorta di equivalenza quantitativa fra tipo di reato e durata della privazione di libertà”.

4. Repubblica Italiana, Ministero di Grazia e Giustizia, Ufficio 6º studi, ricerche e documentazioni: “La prigione in Italia, storia, evoluzione, prospettive”, pag. 132. Erano previsti stabilimenti carcerari, in virtù della condizione giuridica dei reclusi:

  • Stabilimenti di prigionia preventiva
  • Stabilimenti di pena ordinaria per i condannati, cosiddetti comuni
  • Stabilimenti di pena speciale, destinati ai condannati cosiddetti speciali (fosse per ragioni giuridiche, disciplinari o altro)

I riformatori si distinguevano:

  • istituti di correzione de educazione per ragazzi trai 9 ed i 14 annidi età, che avevano commesso il fatto con discernimento
  • Istituti di educazione correzionale per minorenni che non hanno un sostegno educativo familiare e che sono consoni ad attività di meretricio e mendicità
  • Istituti di correzione paterna per minorenni i cui traviamenti il padre non riesce a domare.

5. Tavolato di legno usato quale giaciglio nelle carceri o nelle celle di rigore nelle caserme.

6. BRANCA, Commentario alla Costituzione - Rapporti etico - sociali, pag. 211, nota 1.

7. E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'Ottocento alla riforma penitenziaria, Mulino, Bologna, 1980.

8. Cfr. DI GENNARO, BREDA, LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1997, pag. 167.

9. Per le seguenti considerazioni, E. FASSONE, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, in V. Grevi, Bologna, 1981, pagg. 120-122.

10. Cfr. A. RICCI e G. SALIERNO, Il carcere in Italia, Einaudi, Torino, 1971, pag. 215.

11. Cfr. Rivista di diritto penitenziario, vol.II, Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena del 1931, Cap. IX e segg.

12. Art. 27 Costituzione, comma tre: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

13. G. FIANDACA, Commentario alla Costituzione, art. 27 (rapporti civili), in Branca, Bologna, Ed. Zanichelli, pag. 123.

14. G. BETTIOL, Il mito della rieducazione, in “Sul problema della rieducazione del condannato”, Cedam, Padova, Ed. Milani, 1964, pag. 126.

15. In merito all'interpretazione del verbo “tendere” si ricorda la sentenza della Corte Costituzionale n. 313 del 1990: “...in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione della pena. L'esperienza successiva ha, infatti, dimostrato che la necessità costituzionale che la pena debba ‘tendere’ a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue. Ciò che il verbo tendere vuole significare è soltanto la presa d'atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quelle finalità e l'adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione: come è dimostrato dall'istituto che fa corrispondere benefici e decurtazione della pena ogniqualvolta, e nei limiti temporali, in cui quell'adesione concretamente si manifesti (liberazione anticipata)”.

16. Cfr. ACS, MGG - DAP - Segreteria, B.26, f.139, sf.2, Riforma Regolamento istituti di Prevenzione e Pena, 8 marzo 1956- 31 ottobre 1958, dove è conservato il decreto del Ministro Gullo del 20 aprile 1947, istitutivo della Commissione ministeriale. La composizione completa della commissione ministeriale fu: On. avv. Umberto Merlin, Sottosegretario di Stato al Ministero di Grazia e Giustizia-presidente; dott. Gabriele Volpe, il Presidente della Corte di Cassazione e direttore Generale per gli istituti di prevenzione e di pena -Vice Presidente; On. dott. Celeste Bastianetto-Deputato all'assembleia Costituente; On. dott. Teresa Mattei, Deputato all'assemblea Costituente; On. Enrico Minio, Deputato all'assemblea Costituente; On. Sandro Pertini, Deputato all'assemblea Costituente; avv. Sincero Rugarli, avvocato in Milano; prof. Giuseppe Sotgiu, docente di Diritto processuale penale all'Università di Roma; prof. Giuliano Vassalli, ordinario di Diritto penale all'Università di Genova; dott. Tommaso D'Arienzo, Consigliere di Corte D'Appello addetto al M.G.G.; dott. Guglielmo De Luise, Procuratore della Repubblica di Napoli; dott. Giuseppe Lampis, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione; dott. Massimo Severino, Giudice addetto al Gabinetto del Ministro di Grazia e Giustizia; prof. Benigno Di Tullio, incaricato di antropologia criminale presso all'Università di Roma; Don Antonio Rivolta, sacerdote; dott. Francesco Desiati, Direttore superiore degli II.PP.; dott. Guido Marracino, Ispettore Generale degli II.PP.; prof. Ettore Pantini, Direttore Alienista degli II.PP.; dott. Filippo Saporito, Ispettore Generale Alienista degli II.PP.; ing. Carlo Vittorio Varetti, Ispettore Generale Tecnico Industriale degli II.PP.

Nel corso dei lavori, morì l'avv. Rugali, andò in pensione il prof. Saporito e cessò di far parte del parlamento l'On. Maria Mattei; fu inoltre aggiunto ai membri della Commissione Don Cazzaniga, nominato Ispettore Generale dei Cappellani degli II.PP. L'ufficio di Segreteria della Commissione fu composta da: dott. Salvatore Auriemma, sostituto Procuratore generale di Corte d'Appello, addetto al M.G.G.; dott. Ugo Caldarera, giudice addetto al M.G.G.; dott. Carlo Erra, Pretore addetto al M.G.G.; dott. Tommaso Iezzi, Pretore addetto al M.G.G; dott. Armando Leone, giudice addetto al M.G.G.

17. All'inizio di aprile 1950 il pres. della Camera, Giovanni Gronchi, chiese informazioni sullo stato dei lavori della Commissione. Il 26 Aprile una nota di Persico indicava i punti fermi posti dalla Commissione e tracciava le linee per quanto era ancora da svolgere. Tale nota si basava su di uno studio avente ad oggetto vari ordinamenti penitenziari esteri che influenzarono notevolmente alcuni orientamenti generali di quella Commissione (furono infatti richiesti documenti informativi relativi al funzionamento dei sistemi carcerari di alcuni Stati europei ed americani tra cui quello dell'Argentina).

18. BRANCA, Commentario alla Costituzione, vol. Rapporti etico-sociali, pagg. 219-220.

19. BRANCA, Commentario alla Costituzione, vol. Rapporti etico-sociali, pagg. 221-222.

20. Art. 33 Costituzione, comma 2: “La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”.

21. Art. 33 Costituzione, comma 3: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”.

22. Art. 33 Costituzione, comma 4: “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”.

23. Art. 33 Costituzione, comma 5: “È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale”.

24. Art. 33 Costituzione, comma 6: “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.

25. Corte Costituzionale, 29 dicembre 1972 n. 195 (Giur. Cost., 1972, 2198 e segg.).

26. Cfr. U. POTOTSCHNIG, in Enc. del diritto, voce Istruzione (diritto alla), pag. 99.

27. BRANCA, Commentario alla Costituzione - Rapporti etico-sociali, pag. 253.

28. Art. 33, comma due, della Costituzione italiana: “La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini ed i gradi”.

29. Art. 34, secondo comma, della Costituzione italiana: “L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”.

30. La legge n. 9 del 20 gennaio 1999 (G.U. n. 21 del 27/1/1999) ha esteso la durata del percorso scolastico obbligatorio sino a dieci anni di istruzione.

31. Legge n. 9 del 20 gennaio 1999, art. 1, comma 4 e dall'art. 9 del regolamento n. 323 del 9 agosto 1999.

32. Legge quadro sul riordino dei cicli scolastici.

33. Anche gli stranieri aventi regolare permesso di soggiorno sono tenuti ad andare a scuola per il periodo di tempo indicato dalla normativa scolastica in merito al ciclo di studi obbligatorio. Sino al 1999 otto anni oggi dieci. Decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998, T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, art. 38.

34. Sentenze della Corte Costituzionale n. 7 del 4 febbraio1967 e n. 106 del 19 luglio 1968, in merito a detto argomento in cui “il termine istruzione non assume un significato diverso e più ampio di quello di insegnamento, così da ricomprendervi, come prestazioni d'obbligo ad esso inerente in senso proprio, anche altre prestazioni che si ricollegano all'insegnamento e lo coadiuvano, ma non ne costituiscono i tratti essenziali, come la fornitura di libri di testo, di materiale di cancelleria, nonché di mezzi di trasporto”.

35. BRANCA, Commentario alla Costituzione - Rapporti etico-sociali, pag. 254, nota n. 9.

36. G. LOMBARDI, Obbligo scolastico e inderogabilità dei doveri costituzionali, Giur. It., 1967, pag. 1089 e segg.

37. Art. 34, comma tre, della Costituzione: “I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

38. Art. 34, quarto comma, della Costituzione italiana: “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

39. C. MORTATI, Istituzione di diritto pubblico, II, pag. 1031.

40. Espressione usata da Marchesi durante la relazione pronunciata nella seduta del 29 ottobre 1946 della I sottocommissione, Rinascita, del settembre 1946, pag. 217 e segg.

41. Intervento del Dott. Nello Cesari, Provveditore D.A.P. Regionale Emilia Romagna, in La prospettiva educativo-formativa della professionalità dell'insegnante nella scuola carceraria, stampato presso la C.C. di Bologna, anno 1998-1999, pag 43.

42. Parte della circolare è citata in P. Valeriani, “Scuola e lotta in carcere”, Bari, De Donato, 1972, p. 24.

43. I corsi popolari furono istituiti con il D.L. del dicembre 1947 e furono distinti in: tipo A (analfabeti), tipo B (semianalfabeti) e tipo C (post-elemetari o di richiamo).

44. I dati sono contenuti in Relazione sull'attività dell'amministrazione penitenziaria, anno 1970; per i dati relativi all'anno scolastico 1968-1969 si veda invece Relazione sullo stato della giustizia, in Rassegna di studi penitenziari, A.XX, n. 3, maggio-giugno 1970, pp. 535-564 (c'erano allora 7960 iscritti in 150 scuole elementari, 1498 iscritti in 59 corsi popolari (tipi A, B, C), 1695 iscritti a 41 centri di lettura, 195 in 10 corsi di orientamento musicale, 316 iscritti in 7 scuole medie, 112 nell'istituto tecnico per geometri nella Casa di Reclusione di Alessadria, 7 nell'istituto di scienze Sociali presso le carceri giudiziarie di Trento).

45. Ad es: la relazione finale di un insegnante degli Istituti Carcerari di Firenze, riportata in ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.6, f.5, prot. N.12134 della Direzione degli istituti Carcerari di Firenze, in data 27 giugno 1968, avente per oggetto i 'Prospetti numerici scuola carceraria - Chiusura anno scolastico 1967-1968'. È da rilevare che nel mese di febbraio molti detenuti sono stati trasferiti presso altri istituti penali. Questo movimento trova giustificazione nel fatto che doveva essere resa libera una sezione del carcere per iniziare i lavori di restauro dei locali alluvionati. Ovviamente in conseguenza del motivo di cui sopra anche la situazione scolastica ha subito dei mutamenti relativi al numero di frequenze considerevolmente diminuito.

46. Cfr. ad esempio ASF, Direzione degli stabilimenti di pena, B.5, f.4, prot. n. 12282 della direzione del carcere giudiziario di Bologna, in data 24 novembre 1966, avente per oggetto 'Attività istruttive e ricreative. Carceri giudiziarie di Bologna'. Si veda l'esempio del corso di lettura istituito presso gli Istituti di Ancona, che fu soppresso nel giugno del 1972, proprio nel momento in cui vi erano iscritti 20-25 detenuti, un numero superiore alla somma degli iscritti in tutti gli altri corsi scolastici. Cfr. ASF, Direzione degli stabilimenti di Pena, B.68, f.3, prot. n. 5202.3.6 della Direzione degli Istituti Carcerari di Ancona, in data 26 giugno 1972, avente per oggetto 'Chiusura dell'anno scolastico 1971/72'.

47. Il ruolo degli insegnanti nelle scuole carcerarie venne istituito con la legge n. 72 del 3 febbraio 1963: questo ha contribuito a diminuire l'influenza dell'amministrazione penitenziaria sugli insegnanti, pur permanendo un notevole controllo sui programmi.

48. Si vedano ad es. i problemi evidenziati nella nota conservata in ASF, Direzione degli stabilimenti di pena, B.10, f.4, prot. n. 4921 della Direzione della Casa di Lavoro all'aperto di Capraia Isola, in data 27 agosto 1968, avente per oggetto 'Scuola detenuti': “la recente visita del sig. Ispettore Distrettuale ha messo in evidenza alcune lacune nel settore scolastico di questo stabilimento: in effetti la scuola, in questi ultimi anni non è stata seguita, per cui, con l'andare del tempo, si sono avute delle deficienze notevoli sulla disponibilità delle attrezzature scolastiche e materiale didattico” anche nella scuola media istituita presso la Casa di Reclusione di Firenze come distaccamento della Scuola Media Statale 'E. Peruzzi' di quella città, gravavano notevoli problemi, in particolare per la scarsa frequenza, per la mancanza di materiale didattico adatto e per le condizioni edilizie dei locali adibiti alle aule. Per quella esperienza scolastica si veda in particolare il materiale conservato in ASF, Direzione Stabilimenti di Pena, B.18, f.4 'Classi di scuola media funzionanti presso la Casa di Reclusione di Firenze'.

49. Sentenza Corte Costituzionale n. 264 del 22 novembre 1974.

50. Sentenza Corte Costituzionale n. 264 del 22 novembre 1974.

51. Sentenza Corte Costituzionale n. 313 del 1990.

52. Sentenza Corte Costituzionale n. 313 del 1990.

53. Sentenza Corte Costituzionale n. 264 del 22 novembre 1974. Il connotato della polifunzionalità della pena è stato ribadito in precedenza ed anche di recente, vedi le seguenti sentenze della Corte Costituzionale: sentt. n. 12 del 1966; n. 179 del 1973; n. 107 del 1980; n. 282 del 1989; n. 313 del 1990; n. 306 del 1993; n. 168 del 1994.

54. Cfr. ASF, Direzione degli Stabilimenti di pena, B.51, f.1, prot. n. 11081. s. 12 della Direzione degli istituti penitenziari di Perugia, in data 30 settembre 1971, avente per oggetto 'linee programmatiche sull'attività scolastica ed addestrativi, anno scolastico 1971/72'. La relazione è riportata anche in O. Montagano, “Linee programmatiche sull'attività scolastica ed addestrativa nei corsi di qualificazione professionale negli stabilimenti penitenziari di Perugia. anno scolastico 1971-1972”, in 'Rassegna di Studi penitenziari' A.XXI, n. 6, novembre-dicembre 1971, pagg. 825-833: “L'abbreviare i corsi, rallegrarsi per l'assenza degli insegnanti, buttare giù compiti, cercare scuse per evitare il lavoro, sono queste le cose all'ordine del giorno nelle nostre scuole...”.

Il funzionario direttivo si rivolgeva dunque al corpo insegnante invitandolo ad essere 'unito, armonico, leale, dimenticando le proprie ambizioni, i pregiudizi personali, per mettersi appassionatamente al servizio di colui che si vuole 'rieducare', conscio del fatto che 'quanto più i detenuti ragionano e colloquiano con gli insegnanti tanto meno l'ordine viene turbato e l'armonia disattesa'. Una funzione di stabilizzazione interna svolta della scuola carceraria che, come si leggeva nella relazione di un insegnante con lunga esperienza, implicava di cercare il coinvolgimento dei soggetti 'più turbolenti e pericolosi' anche a costo di 'costringere coloro che non avevano mai conseguito la licenza elementare o a non iscriversi od a preferire di abbandonare sia pure molto a malincuore': un compito di pacificazione del carcere che peraltro la scuola difficilmente riusciva a svolgere in virtù dei limiti strutturali oramai noti.

55. Il meccanismo sembra affine a quello descritto da Goffman in relazione al sistema dei privilegi, in E. Goffman, “Asylum”, cit. pag. 79: “nelle istituzioni totali i privilegi non corrispondono a ciò che si considera come privilegio nel mondo esterno (profitti, favori e valori) ma semplicemente all'assenza di privazioni cui nessuno presume, abitualmente, di dover sottostare”.

56. F. LUPONE, Il trattamento penitenziario e la sua attuazione processuale, Napoli, Ed. Novene, 1984, pag. 47.

57. DI GENNARO, BONOMO, BREDA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, commentario L 354/75, Milano, Ed. Giuffré, 1980, pag. 112.

58. DAGA, Trattamento penitenziario, Enc. D., 1320 - Cfr. V. GREVI, G. GIOSTRA, F. DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, Padova, Ed. Cedam, 1997, pag. 187.

59. DI GENNARO, BONOMO, BREDA, pag. 126-146; Cfr. V. GREVI, G. GIOSTRA, F. DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, Padova, Ed. Cedam, 1997, pag. 187.

60. In precedenza tale servizio era affidato al cappellano con l'eventuale ausilio di un funzionario designato dal direttore dell'istituto.

61. Circ. Min. di grazia e Giustizia del 1371/1977 n.2387/4841 prot. 410612/11.4.C: “spese per l'organizzazione e lo svolgimento delle attività scolastiche, culturali e ricreative e sportive e di ogni altra attività inerente all'azione rieducativa”.

62. Cfr. art. 15 legge n. 354/75.

63. N. AMATO: Diritto, delitto, carcere, Milano, Ed. Giuffré, 1987, pag. 252.

64. DI GENNARO - BONOMO - BREDA, pag. 147; Cfr. V. GREVI, G. GIOSTRA, F. DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, Padova, Ed. Cedam, 1997, pag. 189.

65. DI GENNARO, BONOMO, BREDA, pag. 148.

66. Circ. Min. del 21 maggio 1987, in Rass. Pen. Crim. pag. 678.

67. In modifica della Circ. Min del 21 maggio 1987 che richiamava l'attenzione sull'opportunità che “ogni regione disponga di almeno di un corso di scuola superiore, onde agevolare la partecipazione dei detenuti senza costringerli a trasferimenti che li allontanino dal loro ambiente”.

68. Magistratura di Sorveglianza di Campobasso, 23 settembre 1978, in Rivista penale, 1979, pag. 89 e in Giurisprudenza di Merito, 1979, pag. 979, cfr. in CANEPA - MERLO, Manuale di diritto penitenziario, 1996, pag. 146.

69. Sentenze della Corte Costituzionale: sentt. n. 188 del 1990; n. 504 del 1995; n. 445 del 1997.

70. Sentenza Corte Costituzionale n. 445 del 1997: “quando la condotta penitenziaria del detenuto ha consentito di accertare il raggiungimento di uno stadio del percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire”; Cfr. sent. Corte Costituzionale n. 137 del 1999.

71. Legge n. 354/'75, art. 18, comma 6: “I detenuti e gli internati sono altresì autorizzati ad acquistare e tenere presso di sé i quotidiani, i periodici ed i libri in libera vendita all'esterno”.

72. FASSONE in GREVI, Ordinamento penitenziario, Cedam, Padova, 1997, pag. 146.

73. Ass. ANTIGONE, Il carcere trasparente, primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, Roma, ed. Castelvecchi, agosto 2000, pag. 7.

74. Ad es. si ricordino i pestaggi nel carcere di Sassari, nel 1999.

75. Ass. ANTIGONE, Il carcere trasparente, primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, Roma, ed. Castelvecchi, agosto 2000, pag. 7.

76. Realzione su Marassi del 30 dicembre 1999, cfr. Ass. ANTIGONE, Il carcere trasparente, primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, Roma, ed. Castelvecchi, agosto 2000, pag. 9.

77. Cfr. R. CICCOTTI, Le attività culturali, ricreative e sportive nel processo rieducativo dei detenuti, in, Rassegna Penitenziaria e Criminologia, A. I, nn. 1-2, gennaio-giugno 1979, da pag. 193 a pag. 208.

78. Principio seguito anche nel prevedere che lo svolgimento delle “attività culturali, ricreative e sportive” deve essere organizzato in modo tale da consentire, ancora una volta, la partecipazione dei detenuti che lavorano o che frequentano corsi formativi o scolastici, per cui gli orari di svolgimento dei due tipi di attività dovranno essere resi compatibili tra loro. Art. 59 comma 1 reg. esec. 2000 (ex art. 56).

79. Art. 45 comma 5: “I corsi a livello di scuola dell'obbligo possono svolgersi anche durante le ore lavorative sono nel caso in cui non risulti possibile lo svolgimento in tempi diversi da quelli delle attività di studio e di lavoro, come indicato nel comma 4 dell'art. 41. In tal caso, i detenuti e gli internati che li frequentano percepiscono, per il lavoro prestato, una mercede proporzionata al numero delle ore di lavoro effettivamente svolto”.

80. Cfr: “Relazione al Regolamento” in riferimento all'art. 73 rerg. esec. 2000.

81. Art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10/12/1948: estende il diritto all'educazione di ciascuno anche arrivando a comprendere il diritto di sviluppare il più possibile la propria personalità.

82. P. COMUCCI, A. PRESUTTI, Le regole penitenziarie europee, collana, Giustizia penale e problematiche internazionali, Ed. Giuffré, Milano, 1989, pag. 109.

83. GREVI, L'Ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, CEDAM, 1988.

Art. 77 Testo Regole Penitenziarie Europee: “Un programma di studi completo deve essere organizzato in ogni istituto per offrire a tutti i detenuti la possibilità di soddisfare almeno qualcuno dei bisogni e delle loro aspirazioni individuali. L'obbiettivo di tali programmi dovrebbe essere quello di aumentare la possibilità di un reinserimento sociale, sostenere il morale dei detenuti, migliorare il loro comportamento e promuovere il senso del rispetto di sé”.

84. Art. 78 Testo Regole Penitenziarie Europee: “L'istruzione dovrebbe essere considerata come un 'attività del regime penitenziario, informata allo stesso statuto e remunerazione di base del lavoro, a condizione che sia organizzata durante le ore di lavoro e faccia parte del programma individuale di trattamento”.

85. Art. 79 Testo regole Penitenziarie Europee: “L'istruzione dei giovani detenuti, soprattutto di quelli di origine straniera o aventi specifici bisogni culturali o connessi alla loro etnia, dovrebbe attirare particolarmente l'attenzione dell'amministrazione penitenziaria”.

86. Art. 80 testo regole Penitenziarie Europee: “Programmi speciali di istruzione dovrebbero essere organizzati per detenuti con speciali problemi, come gli analfabeti”.

87. Art. 81 Testo regole Penitenziarie Europee: “Nella misura del possibile, l'istruzione del detenuto deve: a) essere integrata nel sistema d'istruzione pubblica perché gli interessati possano continuare con facilità la propria formazione dopo la liberazione; b) essere impartita in istituti scolastici fuori dall'istituto penitenziario”.

88. Art. 82 Testo Regole Penitenziarie Europee: “Ogni istituto deve disporre di una biblioteca destinata a tutte le categorie di detenuti convenientemente fornita con una larga scelta di libri istruttivi e ricreativi e i detenuti devono essere incoraggiati ad usufruirne pienamente. Quando possibile, la biblioteca dell'istituto sarà organizzata in cooperazione con i servizi delle biblioteche pubbliche”.

89. Rivista, Politiche sociali, Ed. Fondazione Cancan, n. 4/5, Padova, 1996. Articolo di P. Gonnella: “Carcere e sistema educativo”, pag. 68.

90. Art 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti degradanti”, E. BALDUCCI, P. ONORATO, Cittadini del mondo, Ed. G. Principato, Milano, 1981, pag. 78.

91. Solo dopo la riforma del 1999 gli anni di scuola obbligatoria sono diventati dieci, quindi coloro che sono andati a scuola prima del 2000 devono osservare il periodo di durata della scuola obbligatoria previsto dall'obbligo allora vigente.