ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Laura Basilio, 2002

So che l'introduzione dovrebbe avere la funzione di chiarire quello che è l'oggetto di queste pagine e, possibilmente, indicare il percorso svolto. Mi sembra allora quantomeno opportuno, se non doveroso, spiegare innanzitutto perché, fra tutti i possibili argomenti di tesi, io abbia scelto proprio l'imputabilità minorile. Per dare questa spiegazione devo fare un passo indietro e raccontare cosa è accaduto due anni fa, precisamente il 17 ottobre del 2000. Non era un giorno come un altro, perché si trattava del compleanno di mia sorella e questo, nella mia famiglia, voleva dire un gran daffare per nostra madre, impegnata nei preparativi del pranzo dedicato alla sua "bambina", appena andata a vivere da sola. E senza dubbio è stato un giorno difficile da dimenticare, perché un ragazzo ha pensato bene di fare la festa a mia sorella, ma nel senso peggiore dell'espressione, andando a casa sua con un coltello, intenzionato ad ucciderla. A parte la necessaria precisazione che, fortunatamente, il giovane non è riuscito fino in fondo nel suo intento, non voglio dilungarmi oltre, anche perché non ci sono parole per raccontare il susseguirsi di fatti e di emozioni di quel periodo; si può bene immaginare, però, quanto un'esperienza del genere abbia influenzato la mia vita e condizionato le mie più svariate scelte, compresa quella dell'argomento per la tesi. Perché? Per la semplice ragione che io quel ragazzo lo conoscevo, ed era il classico ragazzo normale, fidanzato con una brava ragazza, laureato in matematica, figlio di una famiglia media. In un caso come questo viene spontaneo chiedersi se è possibile che una persona "normale" sia in grado di tirare delle coltellate, senza un apparente motivo, o se per compiere un gesto del genere è necessario essere pazzi. È così che ho iniziato a interrogarmi sul mio concetto di normalità, domandandomi se fosse giusto o se forse andasse rivisto.

Da quel giorno ho iniziato a osservare ogni fatto di cronaca con occhi diversi, cercando di trovare una risposta a questa mia domanda, sforzandomi di capire cos'è questa capacità di intendere e di volere di cui si sente sempre parlare in questi casi, e com'è possibile che manchi anche in quegli individui dall'apparente vita normale, i cosiddetti "insospettabili". Così, dopo il l'omicidio della suora di Chiavenna da parte di tre ragazzine che non sapevano in che altro modo passare il tempo, dopo l'uccisione di una giovane ragazza ad opera del suo fidanzatino geloso, avvenuta nel cortile di una scuola di Sesto San Giovanni, dopo la storia di un figlio che a Padova ammazza il padre e poi dà fuoco al suo cadavere, perché non sapeva come parlargli degli insuccessi scolastici, c'è stato un ulteriore fatto di cronaca che ha sconvolto l'Italia. Era il 21 febbraio del 2001 quando in un tranquillo paese piemontese arriva una telefonata alla polizia per avvertire che una ragazzina chiede aiuto perché qualcuno è entrato in casa sua ed ha ucciso la madre e il fratellino. Si tratta, ovviamente, del caso di Novi Ligure, il caso dei due fidanzatini che hanno ucciso la famiglia di lei, mettendo in scena un tentativo di furto ad opera di due albanesi, prontamente riconosciuti nelle foto segnaletiche, a rischio di esporli al linciaggio da parte dei compaesani inferociti. È vero che ci sono stati altri episodi del genere, ma questo ha avuto su di me un impatto diverso, e non tanto perché questi diabolici assassini non sono altro che due ragazzini di sedici anni, quanto perché il perito che ha effettuato la perizia psicologica su di loro, da me sentito anche personalmente, li ha ritenuti "normali". Com'è possibile che una ragazzina così giovane, capace di colpire con più di sessanta coltellate sia il fratellino che la madre, sia considerata normale, matura, insomma, capace di intendere e di volere? Allora per me è diventato più che mai impellente capire cosa vuol dire questa capacità di intendere e di volere; concetto, peraltro, ancora più difficile proprio se riferito a un minore, perché in questo caso non rilevano solo la malattia mentale, il sordomutismo e la cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti, ma anche la stessa maturità del soggetto, in considerazione della sua età. Questo il motivo della mia scelta.

Sebbene in tutti gli ordinamenti giuridici liberali e moderni, come anche nel nostro, l'assoggettabilità a una pena sia fatta dipendere non solo dal fatto che il soggetto abbia posto in essere un atto contrario alla legge, ma anche che questi avrebbe potuto evitare di compiere tale atto, in realtà non tutti sono concordi nel ritenere che un soggetto sia punibile solo in quanto capace di intendere e di volere, soprattutto per la difficoltà di indagare sull'effettivo stato mentale di una persona. Secondo la più famosa sostenitrice dell'eliminazione della responsabilità come presupposto dell'imputabilità, Lady Barbara Wooton, le conseguenze materiali di un atto e i motivi per cui la legge lo proibisce, infatti, sono gli stessi sia che l'atto sia stato il frutto di una precisa volontà in tal senso sia che sia dovuto solo al caso: "un uomo è ugualmente morto e i suoi parenti sono ugualmente colpiti sia che sia stato accoltellato sia che sia stato investito da un'automobilista ubriaco". La motivazione rileverebbe, perciò, solo in un secondo momento, quello della scelta della pena migliore per prevenire il ripetersi del crimine. L'idea dell'abolizione dell'imputabilità nasce, in realtà, a causa delle rilevanti difficoltà incontrate nel definire i concetti di malattia mentale e di maturità. Ma anche se, all'interno del diritto penale, si scegliesse la strada dell'abolizionismo, rimarrebbero, nella realtà, le distinzioni fra soggetto malato e soggetto sano, fra individuo maturo e individuo immaturo.

Secondo una ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale il legislatore, formulando l'art. 98 c.p., che richiede ai fini dell'imputabilità la capacità di intendere e di volere, ha fatto riferimento "alla capacità del giovane di percepire il disvalore, morale e giuridico, del fatto commesso e di autodeterminarsi in conseguenza operando una scelta «operativa» funzionale all'obbiettivo, illecito, concepito". Ma come si fa a capire quanto, di un comportamento, dipende da una libera scelta e quanto, invece, è dovuto a cause esterne alla volontà del soggetto agente? È inutile dire che il discorso si complica allorquando il minore è affetto da un vizio totale di mente, perché in questo caso, secondo la giurisprudenza prevalente, la presenza dell'infermità non necessariamente si riflette sulla maturità del ragazzo, il quale può pertanto essere riconosciuto imputabile. Il problema sarà verificare allora se la malattia di mente abbia inciso sullo sviluppo del minore in modo tale da non permettergli il raggiungimento "di quel minimo di evoluzione della coscienza e della volontà che costituisce il presupposto dell'imputabilità", o se si sia innestata su un processo evolutivo già concluso. Indubbiamente interessante è anche vedere la rilevanza, ai fini dell'imputabilità, dell'assunzione di sostanze stupefacenti da parte di un minore - fenomeno purtroppo non più tanto eccezionale in questi anni - perché, sebbene l'aver agito volontariamente sotto l'effetto di droga in sé per sé non esclude né diminuisce l'imputabilità, non si può tuttavia negare che il consumo di sostanze stupefacenti possa essere valutato, in sede di accertamento della capacità di intendere e di volere, come un indicatore di immaturità.

Di tutti questi aspetti si dovrà tener conto, naturalmente, al momento in cui si accerta la maturità del minore. Il canale privilegiato per la valutazione del ragazzo è costituito dai servizi sociali, ma l'art. 9 del D.P.R. n. 448 del 1988, in deroga al divieto di compiere indagini sulla personalità, sancito in via generale dall'art. 220 c.p.p., nei confronti dei minori consente anche l'utilizzo di perizie psicologiche.

E cosa succede una volta che dalle relazioni dei servizi sociali o dalla perizia emerge che il minore è incapace di intendere e di volere? In questo caso, come pure nell'ipotesi in cui il ragazzo non abbia ancora compiuto i quattordici anni, si deve emettere un provvedimento di proscioglimento. Ma il ragazzo, benché non possa essere assoggettato a pena per il reato ascrittogli, potrà comunque essere sottoposto a misura di sicurezza, laddove sia considerato pericoloso. La categoria della pericolosità sociale (intesa come probabilità di commissione di ulteriori reati da parte del reo), creata dalla Scuola positiva e accolta dal nostro codice penale, è tuttavia oggetto, ancor'oggi, di forti critiche da parte di chi sostiene l'inammissibilità della stessa, proprio per l'innegabile difficoltà di previsione del comportamento futuro del reo. Nel caso in cui il minore non imputabile venga riconosciuto pericoloso si applica la misura del riformatorio giudiziario - che in seguito alla riforma operata da D.P.R. del 1988 non viene più eseguita in uno stabilimento penitenziario, ma attraverso il collocamento in comunità - o della libertà vigilata.

Ma vediamo in modo più approfondito i punti che, in questa introduzione, sono stati solamente accennati.