ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusione

Laura Basilio, 2002

Ho spiegato all'inizio quanto per me fosse importante capire cosa la legge intende quando richiede la capacità di intendere e di volere perché una persona possa essere imputabile, e quindi assoggettabile a pena. Ho letto libri, riviste, sentenze, ho ascoltato esperti, giudici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, e il risultato è che le mie idee sono ancora più confuse di prima. Sebbene, infatti, abbia capito cosa si intende letteralmente per "capacità di intendere" - capacità di rendersi conto del valore sociale dell'atto che si compie - e per "capacità di volere" - attitudine del soggetto ad autodeterminarsi in conformità del proprio giudizio -, mi sono resa conto però che non c'è assolutamente concordanza sui parametri che dovrebbero essere utilizzati per poter valutare la sussistenza o meno di tali capacità.

Al concetto di «discernimento», che il Codice Zanardelli aveva adottato per farne la condizione necessaria dell'imputabilità del minore, il codice Rocco ha sostituito quello di «capacità di intendere e di volere», ritenuto - come si evince dalla Relazione del progetto sul codice penale - meno impreciso e maggiormente ancorato a parametri più oggettivi e scientifici. La giurisprudenza e la dottrina hanno, però, attribuito alla locuzione "capacità di intendere e di volere" un significato altrettanto vago e incerto quanto aveva il discernimento: quello di maturità.

La letteratura giuridica e quella medico-legale sono passate da un approccio meramente medico a uno di tipo psicologico, per arrivare ad utilizzare paradigmi sociologici, con l'unico risultato, secondo me, di aver ampliato i fattori che vanno presi in considerazione al momento dell'accertamento della maturità, e quindi di aver moltiplicato le incertezze.

Innegabilmente desta un certo stupore la constatazione della vistosa discrepanza intercorrente fra l'elaborazione dottrinale e la prassi giurisprudenziale. Infatti, mentre la dottrina è fin troppo fertile di proposte - non di rado tra loro incompatibili - circa gli elementi che il giudice dovrebbe prendere in considerazione nella valutazione della maturità del minore, la giurisprudenza pare non tenerne granché conto, rifacendosi piuttosto alla comune esperienza. Sembra in qualche modo di trovarsi di fronte ad uno strano fenomeno di incomunicabilità (sperando che non si tratti piuttosto di reciproca disistima) tra le due categorie degli esperti di diritto.

Peraltro non è difficile osservare che anche all'interno del mondo della dottrina giuridica, nonché di quello della dottrina medico-legale, si manifestano forme di esasperata certezza della validità delle proprie idee, atteggiamento questo che potrebbe forse nascondere il timore di dover riconoscere l'insuccesso della ricerca di una soluzione all'annosa questione dell'imputabilità minorile. Posto tutto questo, le teorie della corrente neoclassica non appaiono più sospettabili di quel reazionarismo che qualcuno v i ha intravisto. In realtà l'orientamento neoclassico sembra proprio trovare la sua ragione d'essere nella constatazione della non scientificità dei concetti di maturità ed immaturità, intorno ai quali si sono impegnati, finora infruttuosamente, tanti studiosi. Eliminare, quindi, alla radice la causa di tali difficoltà potrebbe costituire l'unica, sebbene drastica, soluzione. Inoltre, dal momento che causa del comportamento deviante non sembra essere necessariamente una carenza di maturità nel minore, il comportamento colpevole dovrebbe essere punito a prescindere da qualsiasi indagine sulla personalità del ragazzo. Logicamente questa scelta comporterebbe un ampliamento dell'area dell'imputabilità dei minori e, perciò, della loro punibilità. A tale ampliamento dovrebbe, allora, corrispondere un'adeguata riduzione dell'area della incarcerazione, non potendosi ignorare l'altrimenti eccessiva pesantezza che manifesterebbe l'attuale sistema penale nei confronti dei minori così responsabilizzati. Non sarebbe certo pensabile eliminare l'indagine della personalità e, allo stesso tempo, mantenere inalterato il nostro sistema penale, al quale, così com'è, non si può certamente riconoscere una funzione positiva, responsabilizzante, nei confronti del soggetto che vi è sottoposto.

Ma attualmente il ministro della Giustizia sembra orientato in tutt'altro senso, quando annuncia che "i minori che compiono delitti saranno trattati come veri e propri criminali, anche se in giovane età". E il disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 1º marzo 2002, prevedendo sanzioni più severe e mettendo un freno agli sconti di pena, pare proprio andare in questa direzione. Sebbene sia stata mantenuta invariata l'età imputabile, è stata fatta una distinzione tra chi ha più di quattordici anni e meno di sedici e chi ha più di sedici anni, ma non ancora diciotto, prevedendo una riduzione di pena per i primi fino a un terzo e per i secondi fino ad un quarto. Inoltre, anche sul versante delle misure cautelari l'orientamento è opposto a quello auspicato dal neoclassicismo, con la previsione di inasprimenti consistenti, ad esempio, nel trasferimento dei giovani in penitenziari per adulti al raggiungimento della maggiore età. Più rigore si vuole anche per quanto concerne la cosiddetta "messa alla prova", cioè la possibilità di sospensione del processo, la quale sarebbe esclusa per i reati più gravi come l'omicidio volontario o per fatti legati alla criminalità organizzata. La stessa composizione dei tribunali è oggetto di modifiche da parte del disegno di legge, il quale ha previsto l'eliminazione della componente onoraria, relegando sociologi, psicologi e pediatri criminologi al ruolo di consulenti esterni.

Nonostante si siano levate numerose obiezioni nei confronti di questo aumento di repressione, a favore invece di una maggiore prevenzione, la soluzione prescelta dalla maggior parte degli ordinamenti per combattere il dilagare del fenomeno della delinquenza minorile sembra essere, purtroppo, proprio l'inasprimento del trattamento penale. Negli Stati Uniti, ad esempio, in questi ultimi anni si è assistito ad un cambiamento significativo delle procedure giudiziali, in conseguenza del quale circa duecentomila minorenni sono stati giudicati da dei tribunali ordinari, mettendo fine in tal modo alla prassi di avvalersi, nei riguardi dei minori, di apposite magistrature speciali; prassi, questa, che rappresentava una autentica conquista civile degli ultimi cent'anni. In Francia, proprio in questi mesi, il governo ha proposto l'estensione del carcere ai minori di tredici anni. Si tratta di una risposta ad un bisogno reale della società di difendersi dalla piaga della delinquenza giovanile, o piuttosto di iniziative che cavalcano opportunisticamente le paure dell'opinione pubblica frastornata e allarmata? O forse sono emersi nuovi orientamenti scientifici nel campo della psicologia evolutiva che spingono in questa direzione? In effetti, la ricerca scientifica ha spostato la sua attenzione, per molto tempo focalizzata esclusivamente sulle capacità intellettive dell'adolescente, verso l'area delle capacità socio-cognitive, che comprende non solo l'intelligenza ma anche il profilo emozionale e interpersonale. Sono stati così ricompresi, tra gli aspetti rilevanti per poter considerare il minore pienamente responsabile delle sue azioni, il prendere decisioni indipendenti, il non farsi influenzare dai compagni e dai coetanei, e il saper controllare i propri impulsi, capacità cioè che se probabilmente non sono ancora abbastanza sviluppate in un ragazzino di dodici anni, dovrebbero essere già presenti in un ragazzo di sedici.

Secondo me, bisognerebbe abbandonare una buona volta le opposte strade del carcere facile, da una parte, e dell'immunità generalizzata dei minorenni, dall'altra, per intraprendere la via di una giusta responsabilizzazione dei giovani, accompagnata inscindibilmente, però, laddove ve ne sia bisogno, da una convinta ed efficace attività di recupero.