ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo VII
Minore età e pena

Laura Basilio, 2002

La legge soltanto un fantasma ammette: ed è quello della follia. Soltanto allora si ritrae dal fatto criminale, non giudica, abbandona il giudizio allo psichiatra e lascia che la pena astrattamente - poiché in concreto è tutt'altra faccenda - sia cura. Leonardo Sciascia

1. Il trattamento del minore non imputabile

1.1. Le misure di sicurezza

Il nostro sistema penale prevede che il minore non imputabile, perché al momento del fatto non aveva compiuto ancora quattordici anni o perché, pur avendoli compiuti, è stato riconosciuto incapace di intendere e di volere, venga prosciolto, cioè non assoggettato a pena. Questo non vuol dire che nei confronti del minore così prosciolto non venga disposta nessuna misura, laddove sia considerato pericoloso.

Il problema della pericolosità è un problema di difesa sociale, al quale, per molto tempo, si è provveduto con delle pene eliminative, sia fisicamente, con la pena di morte, che socialmente, con la deportazione o la galera. Come ricorda Mantovani, "l'affermarsi della pena retributiva detentiva, limitata nel tempo, in sostituzione della pena di morte e delle pene di lunga durata, [...] ripropose innanzi alla coscienza giuridica e sociale l'insufficienza di tale pena a difendere da sola i consociati dai delinquenti pericolosi, a cominciare innanzitutto dai non imputabili". (1) Per risolvere questo problema, il Codice Zanardelli prevedeva delle misure che avevano finalità specialpreventiva, diverse dalla pena, quali la vigilanza speciale (dopo l'espiazione della pena), l'internamento del minore non imputabile in istituti di correzione o il suo affidamento ai parenti e la casa di custodia per i semimputabili.

Con la Scuola positiva la pena retributiva viene addirittura sostituita da un sistema di misure di sicurezza, sulla base della convinzione che il reato è conseguenza necessaria di certe cause naturalistiche: non si deve dunque punire il delinquente, dal momento che questi non è libero di scegliere la propria condotta, ma è fatalmente spinto al crimine da un complesso di fattori antropologici e sociologici che agiscono fuori e dentro di lui. Non bisogna perciò reprimere, ma prevenire: i soggetti che rappresentano un pericolo per la comunità vanno sottoposti a misure di difesa sociale, le misure di sicurezza. Il progetto Ferri, fedele a questi postulati positivistici, prevedeva l'eliminazione di ogni differenza fra pena e misura di sicurezza.

Fu con la Terza scuola che nacque il sistema del "doppio binario", fondato sul dualismo responsabilità individuale-pena retributiva, da una parte, e pericolosità sociale-misura di sicurezza, dall'altra. È con questo sistema che nascono, accanto alla pena, le misure di sicurezza quali sanzioni diverse dalla pena, poiché conseguenza non di responsabilità, ma di pericolosità. Il regime del doppio binario ha sollevato critiche ricorrenti e dure di una parte della dottrina, giuridica e criminologica. Si ritiene infatti che il dualismo abbia una sua coerenza laddove pene e misure di sicurezza hanno destinatari diversi: le prime i soggetti imputabili non pericolosi, le seconde i non imputabili pericolosi; mentre si riveli del tutto erroneo e, addirittura dannoso, quando comporta l'applicazione sia della pena che della misura di sicurezza nei confronti dello stesso soggetto, come avviene per il semimputabile e l'imputabile socialmente pericolosi. In questo caso, infatti, se applicare prima la pena può compromettere la stessa possibilità di recupero o aggravare la pericolosità, viceversa, applicare prima la misura di sicurezza può voler dire poi vanificare con la successiva esecuzione della pena l'eventuale risocializzazione ottenuta. Quello che si contesta, insomma, non è la costituzionalità delle misure di sicurezza, dato il chiaro dettato dell'art. 25, comma 3, della Costituzione, ma la loro concreta disciplina, di cui si auspica una profonda revisione. Al quesito se e fino a quale punto, con l'accettazione delle misure di sicurezza nel nuovo sistema costituzionale, il costituente abbia inteso prescindere per questa da certe garanzie e da alcuni limiti assegnati alla pena, risponde Vassalli:

non può essere consentito al legislatore di presentare come misure di sicurezza determinate sanzioni aventi un carattere sostanzialmente penale, con il risultato di sottrarle a garanzie costituzionali che funzionino per avventura soltanto per la pena (con riferimento tanto al principio di personalità che a quello di irretroattività). Dunque, la Costituzione ha accettato le misure di sicurezza, ma non il modo col quale esse vengono disciplinate, il quale deve essere rispettoso di principi costituzionali. (2)

Inoltre, l'art. 25 della Costituzione avrebbe la funzione garantista di sancire la legalità anche in materia di misure di sicurezza, non quella di cristallizzare il sistema del doppio binario: se il sistema dualistico non è incostituzionale, questo non vuol dire che sarebbe tale un sistema che prevedesse misure unitarie. E proprio l'unificazione della pena e della misura di sicurezza in una misura unica è quanto auspicato da molti. La Nuova difesa sociale, (3) ad esempio, vorrebbe una misura unica, indeterminata nel massimo ed avente sia finalità retributiva che rieducativa; altri, (4) considerando che in questo modo si finisce per trattare nello stesso modo i soggetti imputabili non pericolosi e i non imputabili pericolosi, propendono per una sanzione unitaria afflittivo-rieducativa solo per i semimputabili e per gli imputabili pericolosi, da affiancare alla pena determinata, prevista per gli imputabili non pericolosi, e alla misura di sicurezza, per i non imputabili pericolosi. Ma, secondo Mantovani, in attesa di riforme così incisive, pur rimanendo nell'ambito del doppio binario, si potrebbe intanto eliminare quelle misure di sicurezza, come la casa di lavoro e la colonia agricola, che hanno lo stesso carattere afflittivo della pena, introdurne di nuove più idonee alle risocializzazione, quale l'istituto di terapia sociale, e adottare il sistema della vicarietà tra pena e misura di sicurezza, per cui nell'esecuzione la seconda può precedere la prima.

1.2. La pericolosità

La pericolosità sociale è il presupposto soggettivo per l'applicazione delle misure di sicurezza. La categoria della pericolosità sociale è stata creata dalla Scuola positiva, per contenere gli effetti di depenalizzazione che avrebbe potuto produrre la riduzione o l'annullamento del concetto di responsabilità individuale:

è in sostanza una nuova fonte giuridica e scientifica per la legittimazione del potere di sequestrare, detenere, isolare, mettere al bando, quindi punire, in particolare nei confronti di quelle categorie di persone che dovessero essere considerate non responsabili delle proprie azioni, quindi non imputabili. [...] la categoria della pericolosità sociale è infatti perfettamente complementare rispetto a quella della responsabilità. Tanto più evidente è l'assenza del requisito della responsabilità in un soggetto, tanto più fondata sarà la presunzione della sua pericolosità sociale. (5)

Il codice vigente, a differenza di quello precedente, ha accolto espressamente la nozione di pericolosità sociale: ai sensi dell'art. 203 è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, che ha commesso un reato o un quasi-reato (espressione comprendente le ipotesi del reato impossibile e dell'istigazione a commettere un delitto), quando è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati. La pericolosità è quindi una qualità del soggetto, da cui si deduce la probabilità che commetta nuovi reati. Come detto, la pericolosità è il presupposto per l'applicazione delle misure di prevenzione post delictum, ma non solo, essa ha un ruolo decisivo anche in relazione agli istituti della sospensione condizionale della pena, del perdono giudiziale, della liberazione condizionale, come ai fini dell'affidamento in prova al servizio sociale e dell'ammissione al regime della semilibertà, dal momento che tutti questi istituti presuppongono la previsione da parte del giudice che il soggetto non commetterà altri reati.

L'istituto della pericolosità è stato oggetto, da parte della dottrina penalistica, criminologica e medico-legale, di un ampio dibattito relativo ai tre distinti profili dell'ammissibilità, dell'accertamento e del trattamento.

Il problema dell'ammissibilità, risolto positivamente sia dal codice penale che dalla Costituzione, è ancora oggetto di discussione tra le opposte posizioni radicali dei fautori dell'ammissibilità incondizionata della pericolosità sociale, da una parte, e dei sostenitori dell'inammissibilità assoluta della stessa, dall'altra. L'eliminazione della pericolosità sociale viene, da questi ultimi, giustificata sulla base della difficoltà di previsione del futuro comportamento del reo. Più corretta sembra la posizione intermedia di chi, ammettendo la categoria della pericolosità sociale, ne chiede però un suo ridimensionamento. L'esistenza dei delinquenti pericolosi è ormai incontestabile e non solo perché è suffragata dai vari studi criminologici, ma soprattutto perché è comprovata dalla stessa realtà umana quotidiana, la quale offre innumerevoli esempi di soggetti pericolosi, che hanno tenuto comportamenti recidivanti: i cosiddetti "mostri", i terroristi, i mafiosi, i tossicodipendenti, i delinquenti stradali, gli schizofrenici, ecc. Rinunciare, pertanto, alla categoria della pericolosità sociale vorrebbe dire, innanzitutto, creare un vuoto legislativo di difesa sociale verso i delinquenti pericolosi non imputabili. Quindi, l'istituto della pericolosità sociale non va eliminato, bensì ridimensionato e circoscritto: a) la pericolosità deve essere considerata, come in parte ha già fatto il codice del 1930, una qualità non indefettibile, ma soltanto eventuale dell'autore del reato, perché "la possibilità di delinquere è di tutti, la probabilità soltanto di alcuni"; (6) b) il giudizio di pericolosità deve avere come necessario presupposto minimo la commissione di un illecito penale (reato o quasi reato), per cui "nessuno può [...] essere dichiarato socialmente pericoloso prima della commissione di un illecito penale e, inoltre, senza tener conto di esso", (7) come risulta dagli artt. 202 e 203 c.p.; c) bisogna passare dall'attuale definizione generica di pericolosità, intesa come probabilità di commettere nuovi reati, contenuta nell'art. 203, ad una definizione specifica di pericolosità, quale probabilità di commettere reati specifici e di particolare rilevanza; d) fra i possibili gradi di certezza prognostica, occorre prendere in considerazione solamente un elevato grado di probabilità di commissione di futuri reati; e) bisogna decidere se conservare le misure di sicurezza anche per i soggetti imputabili o limitarle ai soggetti totalmente non imputabili, passando così al doppio binario puro. (8)

Il problema dell'accertamento si pone perché se è vero, come visto, che vi sono soggetti la cui condotta criminosa conferma a posteriori pericolosi, è anche vero che non è facile individuare tali soggetti a priori, sulla base del loro precedente comportamento. Gli psichiatri da me interpellati al riguardo sono stati concordi nel riconoscere la difficoltà della prognosi di pericolosità sociale. Cabras, afferma che:

si tratta di fare una scommessa sul futuro di una persona, un futuro che noi, tutto sommato, non conosciamo, non sappiamo se poi questa persona seguirà un certo tipo di percorso oppure no. Quindi spesso si emettono dei giudizi di pericolosità non del tutto sostenibili, proprio per mettere le mani avanti, per non trovarsi poi, dopo un anno da una dichiarazione di non pericolosità, di fronte ad una reiterazione di un comportamento delittuoso. Questo è un po' il ponte degli asini delle perizie psicologiche e, soprattutto, psichiatriche.

Anche Carla Niccheri sottolinea la complessità di tale giudizio: "il giudizio sulla pericolosità sociale è un giudizio molto complesso ed è spesso collegato ad una patologia tale per cui puoi pensare che può portare a ripetere i reati che ha commesso. In teoria, quindi, se pensi ai ragazzini rom, questi dovrebbero essere considerati pericolosi socialmente; ma che fai? Li chiudi a chiave? E poi, invece, ci sono persone, come Erika e Omar, che hanno commesso un reato solo e che sono sane, ma che forse sono pericolosi socialmente". Inoltre precisa che non esiste un collegamento automatico tra pericolosità e malattia mentale: "esiste una pericolosità sociale che è esente da cause patologiche. Questo soprattutto negli adulti. Ad esempio, il mafioso è socialmente pericoloso, ma non è matto". Secondo il professor Pazzagli il concetto di pericolosità andrebbe, per prima cosa, rivisto: "credo che il concetto di pericolosità vada intanto limitato, perché, dal momento che la pericolosità è di tutti, deve essere inteso come il rischio di ripetere reati analoghi a causa della malattia, quindi si inserisce nel concetto di malattia. Il concetto di pericolosità sociale di per sé è orrendo, però se si intende come il rischio di ripetere reati a causa della patologia, diventa più ragionevole".

Il Codice Rocco prevedeva originariamente sia delle ipotesi di pericolosità accertata che delle ipotesi di pericolosità presunta. Ai sensi dell'art. 204, comma 1, «le misure di sicurezza sono ordinate, previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa». L'accertamento, che deve essere effettuato dal giudice di volta in volta, si articola in due fase: l'accertamento delle qualità indizianti dalle quali dedurre la probabile commissione di nuovi reati e la prognosi criminale eseguita sulla base di queste qualità. L'art. 204 non indica, però, le qualità da cui desumere la pericolosità, limitandosi a rinviare all'art. 133 c. p. nel suo complesso, per cui il giudizio di pericolosità andrà effettuato tenendo in considerazione la gravità, oggettiva e soggettiva, del reato commesso, e gli elementi dai quali si desume anche la capacità a delinquere. (9) La pericolosità va accertata non solo in riferimento al momento in cui è stato commesso il reato, ma anche a quello in cui il giudice ordina la misura di sicurezza, per evitare che venga applicata una misura di sicurezza a chi, pericoloso al momento del fatto, non lo sia più al momento della pronuncia, e non viceversa per il principio del nulla periculositas sine crimine. L'art. 204, comma 2, nella sua formulazione originaria, prevedeva che «nei casi espressamente determinati la qualità di persona socialmente pericolosa è presunta dalla legge».

Questo sistema della pericolosità presunta riguardava determinati soggetti: 1) i prosciolti per infermità psichica, per intossicazione cronica da alcool o stupefacenti, per sordomutismo o minore età, nelle ipotesi di delitto non colposo punibile con l'ergastolo o la reclusione superiore nel massimo edittale a due anni (art. 222 c.p.); 2) i condannati, per delitto non colposo, a pena diminuita per infermità psichica, per intossicazione cronica da alcool o stupefacenti, per sordomutismo, se la pena comminata dalla legge per tale delitto non è inferiore nel minimo a cinque anni (art. 119 c.p.); 3) i condannati alla reclusione per delitto commesso in stato di ubriachezza abituale o di intossicazione abituale da stupefacenti (art. 221 c.p.); 4) i condannati per reato di ubriachezza abituale o per reato commesso in stato di ubriachezza abituale, agli effetti del divieto di frequentare osterie (art. 234 c.p.); 5) i minori imputabili condannati per delitto commesso durante l'esecuzione di una misura di sicurezza cui erano stati sottoposti perché non imputabili (art. 225 c.p.); 6) i condannati alla pena della reclusione per almeno dieci anni (art. 230 n. 1 c.p.); 7) i condannati ammessi alla liberazione condizionale (art. 230 n. 2 c.p.); 8) i condannati per taluni reati specificatamente previsti dalla legge (es. art. 312 c.p.); 9) i delinquenti abituali presunti. Sulla base di queste circostanze di fatto la legge riconosce il soggetto come pericoloso, senza previo accertamento della sua effettiva pericolosità da parte del giudice. Vi erano però delle ipotesi in cui la presunzione veniva meno e la pericolosità andava accertata in concreto (art. 204, commi 2 e 3, c.p.): qualora si tratti di infermi di mente nei casi previsti dagli artt. 219, comma 2, e 222, comma 2, c.p., se tra la condanna o il proscioglimento e la commissione del fatto sono trascorsi cinque o dieci anni; oppure se tra l'inizio dell'esecuzione della misura di sicurezza aggiunta a pena non detentiva o applicata a imputati prosciolti e la data della sentenza di condanna o di proscioglimento sono decorsi cinque o dici anni nel caso previsto dall'art. 222, comma 2, c.p.

Il sistema della pericolosità presunta è stato aspramente criticato a causa della sfasatura tra pericolosità legale e pericolosità naturale che crea, laddove ammette una pericolosità sociale anche là dove in concreto può non esistere. Accanto alle critiche mosse dalla dottrina, vi fu anche una cospicua giurisprudenza costituzionalistica, passata da un primo orientamento conservatore, in base al quale si riteneva legittima l'applicazione di una misura di sicurezza anche senza il previo accertamento della pericolosità in concreto, (10) a un secondo orientamento che si sostanzia in alcune pronunce di incostituzionalità concernenti numerose ipotesi presuntive di pericolosità. (11) Questa evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale ha, poi, determinato il pronto adeguamento della legislazione, che si è avuto prima con la Legge n. 663/1986, successivamente con il nuovo codice di procedura penale. Il sistema della pericolosità è stato oggetto di un cambiamento radicale ad opera dell'art. 31 della Legge n. 663 del 10 ottobre 1986, il quale ha abrogato l'art. 204 e ha disposto che «tutte le misure di sicurezza personali» siano «ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa». Anche tale legge ha però sollevato parecchie obbiezioni, provenienti perfino da chi aveva auspicato l'eliminazione della pericolosità presunta. Una delle riserve riguarda la mancata previsione, accanto all'art. 31, di altre disposizioni relative all'accertamento in concreto della pericolosità, che non ha permesso di sostituire al vecchio sistema presuntivo un valido metodo alternativo di accertamento della pericolosità. Persistendo, infatti, il divieto di perizia criminologica, posto dall'abrogato art. 314 c.p.p. e ribadito dall'art. 220, comma 2, del nuovo c.p.p., l'unico sistema utilizzato resta il cosiddetto criterio intuitivo per cui il giudice della cognizione, sulla base dei soli atti processuali, deve valutare la probabilità di reiterazione criminosa dell'imputato. Di fronte all'indubbia inadeguatezza del criterio intuitivo, sono stati prospettati altri sistemi di accertamento della pericolosità, fondati sulle conoscenze criminologiche in materia di comportamento recidivante, quali quello dell'indagine individualizzata, effettuata mediante perizia criminologica affidata ad un esperto o un'équipe di esperti; quello della predeterminazione legislativa di indici di pericolosità, i quali, individuati in base alle conoscenze acquisite dai criminologi in materia di comportamento recidivante, sarebbero di aiuto nella formulazione, pur sempre discrezionale, della valutazione prognostica del giudice; e quello della tipizzazione di fattispecie soggettive di pericolosità, le quali sarebbero costruite attraverso la combinazione di indici di pericolosità specificamente descritti, in presenza dei quali il giudice deve ritenere il reo socialmente pericoloso. (12)

Quanto infine al trattamento dei soggetti riconosciuti socialmente pericolosi, il codice penale italiano, avendo accolto il sistema del doppio binario, prevede nei confronti di questi l'applicazione di una misura di sicurezza, sola o congiunta alla pena, a seconda che si tratti, rispettivamente, di un soggetto non imputabile o imputabile.

La disciplina relativa al nuovo processo penale minorile, contenuta nel D.P.R. n. 448 del 1988, ha prodotto effetti anche per quanto riguarda la nozione di pericolosità sociale del minorenne. Ai sensi dell'art. 37 comma 2 del decreto, infatti, la misura di sicurezza è applicabile «se ricorrono le condizioni previste dall'art. 224 del codice penale e quando, per le specifiche modalità e circostanze del fatto e la personalità dell'imputato, sussiste il concreto pericolo che questi commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata». La nuova formula normativa sembrerebbe accogliere il principio di proporzione, in base al quale solo il pericolo di reati di una certa gravità può giustificare l'applicazione di una misura di sicurezza che comporta inevitabilmente la lesione della libertà personale. Inoltre il preciso riferimento alla concretezza del pericolo sembra richiedere che il giudizio prognostico si fondi su specifiche circostanze inerenti al fatto di reato commesso o alla personalità dell'autore. Conseguentemente l'area di applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei minori dovrebbe divenire eccezionale.

2. La disciplina delle misure di sicurezza nei confronti dei minori non imputabili

Il nostro codice penale, "per non lasciare la società indifesa", come dice Mantovani, (13) prevede che al minore, infraquattordicenne o di età superiore a quattordici anni e inferiore a diciotto, non imputabile, che abbia commesso un fatto previsto dalla legge come «delitto» e che sia stato ritenuto «pericoloso», si applichi la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario o della libertà vigilata (art. 224, comma 1, c.p.). Il codice penale prevede, poi, che se il delitto, non colposo, commesso dal minore non imputabile, è punibile con la pena di morte - soppressa dall'art. 1 del d.lgs.lgt. n. 244 del 1944 - o l'ergastolo o la reclusione non inferiore a tre anni, è sempre ordinato il ricovero in riformatorio per almeno tre anni (art. 224, comma 2, c.p.). La Corte Costituzionale, però, con sentenza n. 1 del 20 gennaio 1971, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il secondo comma dell'art. 224 c. p. «nella parte in cui rende obbligatorio ed automatico, per il minore di quattordici anni, il ricovero, per almeno tre anni, in riformatorio giudiziario». Benché la questione costituzionale fosse stata sollevata in relazione agli artt. 27 (finalità rieducativa della pena), 30 (obbligo dello Stato di sostituirsi alla famiglia in caso di incapacità dei genitori) e 31 (protezione dell'infanzia e della gioventù), questa norma, frutto della concezione della devianza come malattia e del ricovero come cura prolungata fino alla guarigione, è stata ritenuta contrastante con l'art. 3 della Costituzione, il quale risultava vulnerato, tra l'altro, dal fatto che situazioni difformi venivano disciplinate in modo uguale, mentre l'atteggiamento psichico di un quasi quattordicenne è certamente diverso da quello di bambino in tenera età. Inoltre la presunzione ex lege di pericolosità, prevista dal comma 2 dell'art. 224, che negli altri casi previsti dal codice si basa sull'id quod plerumque accidit, appariva, nel caso del minore di quattordici anni, priva di base in quanto, data la giovanissima età del soggetto, la pericolosità sociale rappresenta l'eccezione, per cui l'obbligatorietà ed automaticità del riformatorio non aveva alcuna giustificazione. (14) Peraltro, la Corte successivamente dichiarò non fondata - sempre in riferimento all'art. 3 della Costituzione - la questione sollevata in ordine al comma 3 dell'art. 224, che prevede l'applicazione automatica della misura di sicurezza del ricovero in riformatorio giudiziario per i minori di diciotto anni e maggiori degli anni quattordici, non imputabili ai sensi dell'art. 98 c.p. in questo caso, infatti, a giudizio della Corte, la presunzione di pericolosità sociale trova la sua giustificazione nel momento in cui si è in presenza di condizioni le quali, sulla base di considerazioni obbiettive ed uniformi, desunte dall'esperienza comune, consentono di ritenere probabile un futuro comportamento criminoso da parte di colui che ha commesso il reato in circostanze particolari. (15) L'intervento della legge n. 663 del 1986, prevedendo che tutte le misure di sicurezza personali devono essere ordinate previo accertamento della pericolosità sociale, ha comunque comportato l'abrogazione dell'applicazione obbligatoria del riformatorio giudiziario.

Se non viene disposta la misura di sicurezza detentiva, il minore non imputabile può essere sottoposto alla misura rieducativa dell'affidamento al servizio sociale minorile oppure del collocamento in una casa di rieducazione o in un istituto medico-psico-pedagogico (art. 26 Legge sul Tribunale per minorenni). Se il minore è considerato incapace di intendere e di volere per motivi diversi dall'età, allora il codice prevede che si faccia luogo a un vero e proprio trattamento curativo: ai sensi dell'art. 222, comma 4, i minori di quattordici anni o maggiori di quattordici, ma minori di diciotto anni, che abbiano commesso il reato in condizioni di infermità psichica o di intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti o di sordomutismo, sono ricoverati in un ospedale psichiatrico giudiziario. La Corte Costituzionale ha però dichiarato, con sentenza n. 324 del 24 luglio 1998, l'illegittimità costituzionale di questo comma. La Corte ha osservato che una misura detentiva e segregante come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, prevista e disciplinata in modo uniforme per adulti e minori, non può ritenersi conforme agli artt. 2, 3, 27 e 31 della Costituzione, «in forza dei quali il trattamento penale dei minori deve essere improntato, sia per quanto riguarda le misure adottabili, sia per quanto riguarda la fase esecutiva, alle specifiche esigenze proprie dell'età minorile». (16) A differenza del ricovero in riformatorio, che, ai sensi dell'art. 223 c.p., è misura di sicurezza speciale per i minori, infatti, il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario è stato previsto dal legislatore in modo indifferenziato per adulti e minori e, per la sua esecuzione - a differenza di quanto avviene per la libertà vigilata, misura anch'essa applicabile ad adulti e minori, ma eseguita nei confronti dei minori in forme speciali (art. 36 D.P.R. n. 448/1998) - non è prevista alcuna modalità che tenga conto delle specifiche esigenze dei minori, sulla base della convinzione che, «in presenza di uno stato di infermità psichica tale da comportare il vizio totale di mente, la condizione di minore divenga priva di specifico rilievo e venga per così dire assorbita dalla condizione di infermo di mente». (17) In motivazione la Corte ha inoltre espressamente invitato il legislatore a «colmare con previsioni adeguate, anche in ordine all'apprestamento delle conseguenti misure organizzative e strutturali, il vuoto normativo che si viene a creare con l'eliminazione, relativamente ai minori, della misura di sicurezza oggi specificatamente diretta a far fronte alla situazione di persone, giudicate pericolose, che abbiano commesso fatti di reato ma siano affette da infermità psichica che le rende non imputabili». (18) A questo punto, nei confronti dei minorenni non imputabili per infermità psichica o per condizioni assimilate e socialmente pericolosi sembrano possibili due ipotesi alternative. La prima è quella prospettata dalla giurisprudenza, la quale ritiene che debbano essere applicate esclusivamente le misure di sicurezza del riformatorio e della libertà vigilata; (19) la seconda, invece, sostiene che "dalla sentenza della Corte costituzionale derivi la necessità per il legislatore di istituire una misura di sicurezza nuova, diversa da quelle attualmente vigenti e specificatamente calibrata sulle esigenze del destinatario". (20)

2.1. Il riformatorio giudiziario

Il ricovero in un riformatorio giudiziario è la misura di sicurezza speciale per i minori, che "consiste nel togliere costoro dal loro ambiente e nell'inserirli in una comunità di giovani [...] regolata da norme di vita e di condotta tali da sottoporre a controllo continuo i ricoverati, in modo da rendere improbabile il compimento di loro atti di aggressione della società e dell'ordinamento giuridico. A questa forma di difesa [...] si aggiunge un'opera pedagogica destinata ad agire in profondità e a modificare in senso sociale personalità male strutturate". (21)

La misura del riformatorio viene applicata ai minori socialmente pericolosi sia non imputabili (art. 224 c.p.) che imputabili (art. 225 c.p.), con la differenza che per i primi si sostituisce alla pena, mentre per i secondi si aggiunge alla pena e viene eseguita dopo l'espiazione di questa.

Nel 1988 è intervenuta la revisione delle modalità applicative delle misure di sicurezza contenuta nel D.P.R. n. 448, il quale, pur lasciando sussistere le misure, le ha disciplinate in modo più consono alle esigenze educative e peculiari del minore e più armonico rispetto agli altri istituti, quali le misure cautelari, i compiti dei servizi sociali e le funzioni del magistrato di sorveglianza, dello stesso sistema processuale minorile. Prima della riforma del 1988, la misura del riformatorio giudiziario era eseguita in istituti facenti parte dei Centri di rieducazione per minorenni. L'organizzazione interna di questi istituti, affidata a insegnanti, psicologi, educatori ed animatori, era simile a quella della prigione scuola, con laboratori, attività sportive, spettacolo, giochi e scuole. La differenza fra i due istituti non consisteva pertanto nel trattamento in sé, ma nel fatto che mentre la prigione scuola era lo stabilimento penitenziario dove veniva espiata la pena con durata determinata, il riformatorio, conformemente alla sua natura di misura di sicurezza, aveva una durata che non poteva che essere indeterminata. A seguito del D.P.R. n. 448 questa misura non viene più eseguita nello stabilimento penitenziario del riformatorio, ma nelle forme di cui all'art. 22 del D.P.R.n. 448, cioè attraverso il collocamento in una comunità aperta, pubblica o autorizzata, con eventuale affiancamento di «specifiche prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro ovvero ad altre attività utili per la sua educazione» (art. 36 D.P.R. n. 448/1988). La legge non fornisce una definizione di comunità, limitandosi ad evocare il concetto. Ma, opportunamente, viene in aiuto l'art. 10 Disp. attuaz. proc. min., per il quale la comunità deve avere una «organizzazione di tipo familiare», deve prevedere «anche la presenza di minorenni non sottoposti a procedimento penale» (22) e, inoltre, per garantire «una conduzione e un clima educativamente significativi», deve avere una capienza non superiore «alle dieci unità»; vi devono lavorare «operatori professionali delle diverse discipline» e, nella sua gestione, deve essere assicurata la «collaborazione di tutte le istituzioni interessate» e la «utilizzazione delle risorse del territorio». Le comunità di questo tipo possono essere pubbliche, cioè istituite e gestite direttamente dallo Stato o da enti locali, oppure autorizzate, cioè private, ma riconosciute dotate dei necessari requisiti di idoneità dalle regioni competenti per territorio e perciò dotate di specifica autorizzazione ad operare. (23) Un dubbio riguarda la necessità o meno che nel provvedimento applicativo della misura vi sia l'indicazione specifica della comunità dove la misura deve essere eseguita. C'è chi sostiene che il giudice dovrebbe limitarsi a disporre genericamente la misura, delegando ai servizi il reperimento della comunità, ma si ritiene più opportuno che la scelta della comunità nella quale deve essere collocato il minore sia fatta direttamente dal giudice, costituendo così l'indicazione specifica della comunità un elemento essenziale del provvedimento. (24)

L'art. 659, comma 2, c.p.p. prevede che le misure di sicurezza diverse dalla confisca siano eseguite dal pubblico ministero presso il giudice di sorveglianza che le ha adottate, mediante comunicazione in copia del provvedimento all'autorità di pubblica sicurezza e, quando è necessario, mediante ordine di esecuzione con il quale dispone la consegna dell'interessato. Si ritiene, però, che questa disposizione non sia applicabile ai minori, dal momento che l'art. 40 D.P.R. n. 448 dispone al riguardo che «il magistrato di sorveglianza per i minorenni impartisce le disposizioni concernenti le modalità di esecuzione della misura». Per cui il pubblico ministero per i minorenni inizia il procedimento di esecuzione, trasmettendo poi gli atti al magistrato di sorveglianza competente, il quale, a sua volta, impartisce le necessarie disposizioni e affida il minore al servizio sociale. La competenza dei servizio sociale è prevista dall'art. 36, comma 2, del decreto che richiama l'art. 20, al quale è collegato l'art. 19, comma 3, il quale prevede che «quando è disposta una misura cautelare, il giudice affida l'imputato ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia», ed è ribadita dall'art. 24 Disp. attuaz. proc. min., ai sensi del quale «l'esecuzione rimane affidata al personale dei servizi minorili». (25) Anche se c'è chi ritiene possibile una sorta di accompagnamento in comunità, ad opera della polizia giudiziaria, a seguito di specifico ordine, la dottrina è pressoché concorde nell'escludere che il magistrato di sorveglianza possa disporre l'accompagnamento coattivo del minore in comunità. Il rinvio dell'art. 36 D.P.R. n. 448 alle forme dell'art. 20 e 21 dello stesso decreto, i quali disciplinano delle misure cautelari, rende applicabile l'art. 293, comma 2, c.p.p., ai sensi del quale «le ordinanze che dispongono misure diverse dalla custodia cautelare sono notificate all'imputato. Ne deriva che il magistrato di sorveglianza o il pubblico ministero presso di lui devono notificare al minore e all'esercente la potestà di genitore il provvedimento di esecuzione - che conterrà l'indicazione specifica della comunità e l'intimazione a presentarvisi entro un certo termine dalla notifica - e allo stesso tempo richiedere l'intervento del servizio sociale. (26)

Il rinvio integrale che l'art. 36 fa all'art. 22 induce a ritenere che in caso di «gravi e ripetute» violazioni delle prescrizioni o di «allontanamento ingiustificato» il giudice possa disporre, in sostituzione, il trasferimento in carcere per un periodo di tempo non superiore a un mese (art. 22, comma 4, D.P.R. n. 448). Va detto che, essendo la mancata presentazione in comunità equipollente all'allontanamento, anche in questa ipotesi il magistrato di sorveglianza può disporre la detenzione in carcere fino a un mese. Alcuni autori sostengono che l'inflizione della custodia in carcere, anche se per un periodo massimo di trenta giorni, possa essere reiterata nei confronti del minore collocato in comunità, il quale nuovamente ponga in essere gravi e ripetute trasgressioni delle prescrizioni. (27) Nel regime delle misure cautelari la reiterazione del trasferimento in un istituto penitenziario "ha come solo limite i termini massimi di custodia cautelare (che sono quelli stabiliti nell'art. 303 c.p.p. ridotti della metà per gli infradiciottenni e dei due terzi per gli infrasedicenni)". (28) Nel regime delle misure di sicurezza, invece, non vi può essere un limite massimo alla reiterabilità della sostituzione del collocamento in comunità con la custodia in carcere, dato che l'esecuzione della misura di sicurezza dura fino alla sua revoca. Per disporre la custodia in carcere non sarà sufficiente una grave violazione o, alternativamente, la somma di violazioni non gravi essendo richiesta dalla norma la sussistenza contestuale dei requisiti della gravità e della reiterazione delle violazioni. Comunque, anche in presenza di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni o di allontanamento ingiustificato, l'applicazione della custodia in carcere non è obbligatoria, ma facoltativa, e il giudice deciderà alla luce dei principi di cui agli artt. 275 c.p.p. - proporzionalità e adeguatezza della misura da applicare - e 19, comma 2, D.P.R. n. 448 - esigenza di non interrompere i processi educativi in atto. (29)

Il D.P.R. n. 448/1988 ha anche ristretto le ipotesi delittuose in presenza delle quali può essere applicata la misure del riformatorio giudiziario. Il richiamo dell'art. 36 all'art. 23 configura, infatti, il riformatorio come una misura di carattere eccezionale, essendo possibile l'applicazione di tale misura solo per i reati della fascia più grave, cioè quelli per i quali è applicabile la custodia cautelare in carcere: si tratta dei delitti non colposi puniti con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a nove anni. Successivamente, l'art. 23 è stato modificato sensibilmente ad opera del D. lgs. N. 12 del 14 gennaio 1991, il quale ha abbassato la soglia dell'applicabilità della custodia cautelare e quindi, per il richiamo operato dall'art. 36, del riformatorio, a delitti anche meno gravi, ma di alta lesività dei beni patrimoniali e dell'incolumità personale. Il decreto legislativo del '91, mediante il richiamo all'art. 380, comma 2, lettere e, f, g, h del c.p.p., permette che la misura del riformatorio sia applicata anche per delitti, consumati e tentati, puniti con la reclusione inferiore nel massimo a nove anni, per i quali è previsto l'arresto in flagranza - il furto aggravato o in abitazione; la rapina non aggravata e l'estorsione; i delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto d'armi; lo spaccio di sostanze stupefacenti o psicotrope - e, in ogni caso, per il delitto di violenza carnale.

Oggi, a seguito della già menzionata sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 1971, che ha dichiarato l'illegittimità del comma 2 dell'art. 224, la misura del riformatorio è di applicazione sempre facoltativa. La sussistenza in concreto della pericolosità deve essere positivamente accertata, non solo al momento della sua applicazione, ma durante l'intera esecuzione della misura. Mentre secondo alcuni la durata minima è sempre di un anno (salvo revoca anticipata a seguito di riesame della pericolosità sociale del soggetto), (30) per altri, invece, anche dopo l'abrogazione delle presunzioni di pericolosità, "gli elementi di disciplina contenuti nelle varie ipotesi presuntive [...] continuano a trovare applicazione", per cui, nei confronti del minore non imputabile, ritenuto socialmente pericoloso, che abbia commesso un delitto non colposo punibile con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, qualora ricorrano le condizioni per applicare il riformatorio giudiziario, questa misura va applicata con una durata minima di tre anni. (31) Il codice non dispone circa l'età minima al di sotto della quale il minore non può essere ricoverato in riformatorio, ma sulla base della comune esperienza si ritiene che prima dei 12-13 anni il bambino non abbia né autonomia né capacità di nuocere in misura sufficiente per sfuggire al controllo dei genitori. (32) L'età massima per l'applicazione di questa misura di sicurezza, invece, è disciplinata dal comma 2 dell'art. 223 c.p., il quale stabilisce che, «qualora tale misura debba essere, in tutto o in parte, applicata o eseguita dopo che il minore abbia compiuto gli anni ventuno (ma ora la maggiore età è fissata dall'art. 2 c.c. al compimento dei diciotto anni), ad essa è sostituita la libertà vigilata, salvo che il giudice non ritenga di ordinare l'assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro» (art. 223, comma 2, c.p.).

2.2. La libertà vigilata

La misura del riformatorio è alternativa a quella della libertà vigilata, potendo, infatti, il giudice ordinare l'una o l'altra, «tenuto specialmente conto della gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto» (art. 224, comma 1, c.p.). Considerati, però, ai sensi dell'art. 36, comma 2, del D.P.R. n. 448, gli stretti limiti in cui può essere applicata la misura del riformatorio giudiziario, proprio la libertà vigilata costituisce la misura di sicurezza ordinaria applicabile nei confronti dei minori.

L'art 228 del codice del 1930, sulla libertà vigilata, stabiliva che per la vigilanza sui minori provvedevano le leggi speciali. Il rinvio riguardava l'art. 23 della Legge minorile (R.D.L. n. 1440/1934), il quale prevedeva che la sola forma di libertà vigilata per i minorenni era l'affidamento ai genitori o a coloro cui spettava di prestargli assistenza; la vigilanza, cioè, spettava non all'autorità di pubblica sicurezza, come avveniva per i maggiorenni, ma alle persone e agli istituti affidatari. La libertà vigilata poteva essere, infatti, applicata al minore non imputabile solo se era possibile affidarlo ai genitori o a coloro che avevano l'obbligo di provvedere alla sua educazione. Se tale affidamento non era possibile o non era considerato opportuno, il giudice ordinava il ricovero del minore in un riformatorio, così come tale ricovero era disposto se durante la libertà vigilata il minore non dava prova di ravvedimento.

Secondo Ricciotti, l'art. 23 della Legge minorile, che prevede la tenuta di un elenco delle persone e degli istituti ai quali possono essere affidate l'educazione a l'assistenza dei minori sottoposti a libertà vigilata, non sarebbe stato abrogato, ma dovrebbe essere coordinato nell'applicazione con l'art. 36 del D.P.R. n. 448, il quale stabilisce che la misura della libertà vigilata deve essere eseguita nelle forme degli artt. 20 e 21 dello stesso decreto. L'art. 20 prevede che il giudice impartisca al minorenne delle «specifiche prescrizioni inerenti all'attività di studio o di lavoro oppure ad altre attività utili per la sua educazione»; l'art. 21 disciplina, invece, l'imposizione dell'obbligo della permanenza in casa, che può assumere forme di diverso rigore, derivanti dalla possibilità per il giudice, da un lato, di imporre «limiti o divieti alla facoltà del minorenne di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono» e, dall'altro, di «consentire al minorenne di allontanarsi dall'abitazione in relazione alle esigenze inerenti le attività di studio o di lavoro ovvero ad altre attività utili per la sua educazione».

Sia le prescrizioni che la permanenza in casa sono in realtà delle misure cautelari per minori, nel disporre le quali, a norma dell'art. 19, comma 3, del D.P.R. n. 448, il giudice affida il minore ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia per svolgere attività di sostegno e di controllo in collaborazione con i servizi di assistenza degli enti locali. Secondo Palomba, però, il richiamo a queste due misure cautelari non comporterebbe anche l'applicabilità dell'art. 19, neppure sotto il menzionato profilo dell'affidamento obbligatorio ai servizi minorili durante l'esecuzione della misura: sarebbe il magistrato di sorveglianza a decidere caso per caso anche in relazione all'eventuale affidamento. (33) Per quanto riguarda i criteri in base al quale il giudice deve operare, in via provvisoria o all'esito del dibattimento, la scelta tra le due forme di esecuzione della libertà vigilata e la scelta di modalità più o meno rigorose nell'ambito della misura della permanenza in casa, si ritiene, da una parte, che il principio guida debba essere quello delle esigenze educative del minore, sul quale è informato tutto il D.P.R. n. 448, per cui il giudice sceglierà, nell'ambito di questo potere discrezionale, le prescrizioni più adeguate alla personalità del minore; dall'altra, si pensa che la scelta sia da correlarsi ai parametri indicati nell'art. 37, comma 2, del D.P.R. n. 448, in particolare quelli riguardanti le specifiche circostanze del fatto e la personalità del minore sottoposto alla misura di sicurezza. La dottrina, comunque, non ha risparmiato le critiche a nessuna delle due modalità di esecuzione della libertà vigilata. In particolare, con riferimento alle prescrizioni impartite dal giudice ex art. 20, si è sostenuto che il loro oggetto (le attività di studio o di lavoro) non soltanto è difficilmente realizzabile, ma soprattutto poco valido ai fini educativi, essendo le attività di studio ormai precluse per il minore inserito nel circuito penale e risolvendosi quelle di lavoro in offerte di carattere assistenziale di scarso valore risocializzante. (34) Per quanto riguarda, invece, l'obbligo di permanenza in casa, si è affermato che la forzata permanenza in casa non sempre è di giovamento al ragazzo, soprattutto se si pensa che ci possono essere delle situazioni di conflittualità con i genitori e che, spesso, la famiglia rappresenta proprio il modello comportamentale negativo a cui il minore si ispira; inoltre, il minore costretto a casa difficilmente avverte l'afflittività della misura, per cui è facilmente esposto al rischio di violare l'obbligo e alle conseguenze che questo comporta. (35)

Nel caso di «gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni», si ritiene che il giudice possa, ai sensi dell'art. 20 comma 3 D.P.R. n. 448, disporre la misura della permanenza in casa, in quanto questa misura costituisce la forma di esecuzione della libertà vigilata alternativa all'imposizione delle prescrizioni. Il problema si pone, invece, in presenza di «gravi e ripetute violazioni degli obblighi [...] imposti o nel caso di allontanamento ingiustificato dalla abitazione»: è applicabile al minore sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata eseguita nella forma della permanenza in casa l'art. 21 comma 5 dello stesso decreto, che prevede, in questo caso, la possibilità per il giudice di disporre il collocamento in comunità? L'applicazione di tale disposizione al caso in esame comporterebbe, innanzitutto, un'estensione dell'ambito di operatività della misura del collocamento in comunità al di fuori delle ipotesi previste dall'art. 23 del D.P.R. n. 448. Inoltre si pongono dei dubbi anche perché l'art. 231 c.p. prevede che, quando la persona sottoposta a libertà vigilata trasgredisce gli obblighi imposti, il giudice può trasformare la misura della libertà vigilata in quella del riformatorio; ma a causa della mutata fisionomia applicativa della misura del riformatorio ci chiediamo se possa ancora ricorrere la differenza tra misura non detentiva, com'è la libertà vigilata, e misura detentiva, quale il riformatorio giudiziario. Dal momento che il D.P.R. n. 44/88 ha inciso solo sulle modalità applicative e non anche sulla disciplina sostanziale, si deve ritenere che le disposizioni di diritto sostanziale in tema di misure di sicurezza non espressamente incompatibili debbano restare valide; così, l'art. 231 c.p. è stato ritenuto compatibile con le previsioni dell'art. 36 D.P.R. n. 448, che si limita a disciplinare le modalità esecutive della libertà vigilata senza toccare la sua disciplina sostanziale, per cui il collocamento in comunità, quale modalità applicativa del riformatorio, dovrebbe seguire la disciplina sostanziale prevista per questa misura, anche se essa, di per sé, non è una misura detentiva. Nel caso quindi di «gravi e ripetute violazioni» delle prescrizioni o di «allontanamento ingiustificato», il giudice può disporre la misura del collocamento in comunità, producendo, così, un "effetto «a cascata»", (36) soprattutto nel caso in cui inizialmente si sia disposta la misura delle prescrizioni ex art. 20 D.P.R. n. 448, sostituita poi dalla permanenza in casa e infine dal collocamento in comunità. Va comunque sottolineato che la congiunzione utilizzata nella formula «gravi e ripetute violazioni» comporta, da una parte, che per avere la conversione della misura non basterà la ripetuta violazione delle prescrizioni, ma sarà necessario che le violazioni siano connotate dal requisito della gravità e, dall'altra, che una sola grave violazione non può essere considerata presupposto sufficiente per sostituire la misura con altra più afflittiva.

2.3. Il procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei minorenni

L'applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei minorenni è appositamente disciplinata dagli artt. da 36 a 41 del D.P.R. n. 448/1988.

L'art. 37 disciplina l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza ai minori, come già prevedeva il previgente codice di procedura penale, il cui art. 246 stabiliva che, in caso di arresto di un minore tra i quattordici e i diciotto anni per un reato per il quale era previsto il mandato di cattura, il pubblico ministero o il pretore potessero ordinare con decreto il ricovero in riformatorio giudiziario. Ai sensi dell'art. 37 comma 1, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può applicare provvisoriamente una misura di sicurezza, qualora ricorrano le condizioni previste dall'art. 224 c.p. (gravità del fatto e particolari condizioni familiari) e se le specifiche modalità e circostanze del fatto e la personalità dell'imputato facciano ritenere sussistente il concreto pericolo che il minore commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata (art. 37 comma 2). Le misure di sicurezza provvisorie non sembrano applicabili durante la fase delle indagini preliminari, non essendovi nella nuova normativa nessun riferimento a questa fase processuale. Secondo alcuni, però, il giudice per le indagini preliminari può applicare una misura di sicurezza in via provvisoria, qualora pronunci sentenza di non luogo a procedere per non imputabilità perché il soggetto è minore di quattordici anni, "in forza del combinato disposto degli artt. 26 e 37, che prevedono una pronuncia del genere in ogni stato del procedimento sempre che ricorra anche l'estremo della pericolosità sociale del minore". (37)

Le misure di sicurezza provvisorie sono invece sicuramente applicabili nell'udienza preliminare: il giudice dell'udienza preliminare, su richiesta del pubblico ministero, può applicare provvisoriamente una misura, a seguito di una sentenza di non luogo a procedere a norma degli artt. 97 e 98 c.p., cioè quando il minore non è imputabile o perché infraquattordicenne o perché ritenuto incapace di intendere e di volere. Applicata la misura o rigettata la richiesta del pubblico ministero, il giudice dispone che gli atti siano trasmessi al tribunale per i minorenni, il quale, competente per l'applicazione definitiva delle misure, procede al giudizio sulla pericolosità del ragazzo. Nel caso in cui entro trenta giorni dalla pronuncia non abbia avuto inizio il procedimento innanzi al tribunale per i minorenni, la misura provvisoriamente applicata cessa di avere efficacia (art. 37 comma 3). La relativa brevità del termine di decadenza induce a ritenere che il giudice debba provvedere alla trasmissione degli atti contestualmente o quasi all'applicazione della misura. L'ultimo comma dell'art. 37 estende l'applicazione della misura di sicurezza in via provvisoria al giudizio abbreviato, sempre che sussistano le condizioni di cui al comma 2 dello stesso articolo, ma con una differenza: in questo caso, la misura può essere provvisoriamente applicata da parte de giudice anche d'ufficio. Anche qui dovrà disporsi la trasmissione degli atti al tribunale dei minori perché proceda al giudizio sulla pericolosità, con cessazione dell'efficacia della misura qualora il procedimento non venga iniziato entro trenta giorni dalla pronuncia. Infine, per il principio generale dell'art. 312 c.p.p. anche il giudice di secondo grado può disporre, su richiesta del pubblico ministero, l'applicazione provvisoria di una misura di sicurezza, sempre che ci siano «gravi indizi di commissione del fatto», ovvero quando in primo grado vi sia stata condanna o proscioglimento con formula indulgenziale che accerti la commissione del fatto.

Come si è detto, competente per l'applicazione definitiva delle misure di sicurezza è il Tribunale per i minorenni, in composizione ordinaria. Le misure di sicurezza definitive sono applicate in due casi: con la sentenza conclusiva del procedimento per l'applicazione della misura previsto dall'art. 38D.P.R. n. 448, oppure con sentenza dibattimentale di condanna o emessa a norma degli artt. 97 o 98 c.p., ai sensi dell'art. 39 D.P.R. n. 448. Sia che si proceda ex art. 38 che ex art. 39, per l'applicazione definitiva devono ricorrere le condizioni previste dall'art. 37, comma 2.

A norma dell'art. 38, si procede all'esame della pericolosità sociale del minore nelle forme previste dall'art. 678 c.p.p. Il procedimento, essendo il suo scopo quello di accertare l'effettiva pericolosità del minore, si svolgerà con tutte le garanzie processuali. Perciò verranno sentiti il minore, gli esercenti la potestà dei genitori, l'eventuale affidatario e i servizi minorili dell'amministrazione della giustizia. Nel corso del procedimento, il tribunale può modificare o revocare la misura provvisoriamente applicata. Oppure applicarla in via provvisoria.

Ai sensi dell'art. 39 D.P.R. n. 448, invece, con la sentenza emessa ex art. 97 o 98 c.p., oppure con la sentenza di condanna, il tribunale per i minorenni può disporre l'applicazione definitiva di una misura di sicurezza nei confronti del minore. Anche in questo caso, come detto sopra, per l'applicazione della misura, occorre l'accertamento dell'effettiva pericolosità del soggetto.

L'esecuzione delle misure di sicurezza è di competenza del magistrato di sorveglianza per i minorenni del luogo dove deve essere eseguita la misura (art. 40 D.P.R. n. 448).

I provvedimenti del magistrato di sorveglianza per i minorenni sono impugnabili, dinanzi al tribunale per i minorenni in funzione di tribunale di sorveglianza, dall'interessato, dall'esercente la potestà, dal difensore e dal pubblico ministero. L'appello, però, non ha effetto sospensivo del provvedimento, salva diversa disposizione del tribunale.

Infine si può notare, come mostra la tabella seguente, che le misure di sicurezza rappresentano una parte veramente marginale degli interventi attuati dagli Uffici di Servizio Sociale per Minorenni, ciò evidentemente per la scarsa, quasi nulla, applicazione della misura stessa da parte della magistratura.

Interventi attuati dagli USSM per applicazione di misure di sicurezza (anno 1998)
Tabella 1

E dalla tabella seguente, che illustra gli interventi per applicazione di misure sicurezza, si rileva che l'esiguo numero di questo tipo di interventi è presente in tutte le aree territoriali.

Interventi attuati dagli USSM per applicazione di misure di sicurezza, per area territoriale di appartenenza dell'USSM
Tabella 2

Interessante è anche il raffronto tra l'applicazione delle misure di sicurezza e le misure alternative e sostitutive. (38)

Interventi attuati dagli USSM per applicazione di misure alternative, sostitutive e di sicurezza, per area territoriale di appartenenza dell'USSM. Anno 1998
Grafico 3

Note

1. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 856.

2. G. Vassalli, in nota alla sentenza della Corte Costituzionale n. 68 del 1967, in Giur. Cost. 1967, p. 742.

3. La Nuova difesa sociale è un "movimento di pensiero [...] che ricevette la sua prima consacrazione internazionale con la istituzione nel 1948 della Sezione di difesa sociale delle Nazioni Unite e si sviluppò soprattutto per iniziativa della Societé international de défence social, fondata nello stesso anno. Sua essenza sono la difesa della società contro il crimine e la risocializzazione del delinquente" (F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 566).

4. Tra questi: Antolisei, Pene e misure di sicurezza, in Riv. it., 1933, p. 129; Bettiol, In tema di unificazione di pene e di misure di sicurezza, in Riv. it., 1942, p. 213; Nuvolose, Il problema dell'unificazione delle pene e delle misure di sicurezza, in Riv. it., 1954, I, p. 125.

5. G. De Leo, La giustizia dei minori, Einaudi, Torino 1981, p. 39.

6. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 693.

7. Ivi, p. 694.

8. Cfr. F. Mantovani, Diritto penale, cit., pp. 693-695; Arianna Calabria, voce Pericolosità sociale, in Digesto delle discipline penalistiche, IX, pp. 453-454.

9. Circa i rapporti tra capacità a delinquere e pericolosità, essi cambiano a seconda del significato attribuito alla prima: per chi la intende in senso etico-retributivo si tratta di due concetti autonomi; per chi la intende in senso prognostico-preventivo, i due istituti, pur presentano indubbie analogie, non si identificano, essendo la capacità a delinquere il genus e la pericolosità sociale la species, ovvero la prima la possibilità e la seconda la probabilità di commettere un reato (F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 692).

10. Sono espressione di questo orientamento le sentenze della Corte Costituzionale n. 19 del 10 marzo 1966, Riv. it., 1966, p. 109; n. 68 del 19 giugno 1967, Giust. pen., 1967, I, p. 417; n. 106 del 15 luglio 1972, Riv. it., 1972, p. 771.

11. Corte cost., n. 1/1971, Giur. cost., 1971, p. 10; n. 139/1982, Giur. cost., 1982, p. 1231; n. 249/1983, Giur. cost., 1983, p. 1499.

12. Cfr. Arianna Calabria, voce Pericolosità sociale, in Digesto delle discipline penalistiche, IX, p. 464.

13. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 673.

14. Corte cost., sent. n. 1 del 20 gennaio 1971, Giur. cost. 1971, I.

15. Corte cost., sent. n. 119 del 20 maggio 1976, Giur. cost. 1976, I, p. 887.

16. Corte cost., sent. n. 324 del 24 luglio 1998, Cass. pen. 1998, III, p. 3216.

17. Ibidem.

18. Ivi, p. 3217.

19. Cass., n. 6 del 19 maggio 1999, in Riv. Pen. 1999, p. 866.

20. "In tal senso parrebbe deporre anche la considerazione che la Corte ha optato per una pronuncia di illegittimità, quando avrebbe potuto adottare una sentenza interpretativa di rigetto (sollecitando il legislatore ad adeguare la disciplina del manicomio giudiziario alle peculiarità degli imputati minori), ovvero una sentenza di illegittimità parziale, consentendo, a talune condizioni, il ricorso alle altre misure di sicurezza già esistenti, anche per i minori non imputabili per vizio totale di mente" (Giorgio Lattanti, Ernesto Lupo, Codice penale, IV, Giuffrè, Milano 2000, p. 755).

21. I. Baviera, Diritto minorile, Giuffrè, Milano 1976, II, p. 153.

22. C'è chi ritiene che non sia provvido "imporre la convivenza di un rapinatore omicida con coetanei «non sottoposti a procedimento penale», cioè con adolescenti di buona indole e bisognosi solo di assistenza" (Romano Ricciotti, La giustizia penale minorile, Cedam, Padova, 2001, p. 212).

23. Livio Pepino, Il processo minorile, in Commento al codice di procedura penale, diretto da Chiavario, Utet, Torino 1994, p. 243.

24. Sulla questione, più ampiamente, L. Pepino, Misure cautelari e giudice per le indagini preliminari nel nuovo processo penale minorile, in AA.VV., Il processo penale minorile: prime esperienze, a cura di F. Occhiogrosso, Milano 1991, p. 90.

25. R. Ricciotti, La giustizia penale minorile, cit., pp. 207- 208.

26. Cfr. R. Ricciotti, La giustizia penale minorile, cit., p. 208; L. Pepino, in Commento al codice di procedura penale, cit., pp. 247-248.

27. In questo senso, Fabrizia Pironti, Il processo minorile, in Commento al codice di procedura penale, cit., p. 399; Romano Ricciotti, La giustizia penale minorile, Cedam, Padova, 2001, p. 209.

28. Livio Pepino, Il processo minorile, in Commento al codice di procedura penale, cit., p. 249.

29. Ibidem.

30. In questo senso vedi Romano Ricciotti, La giustizia penale minorile, cit., p. 203.

31. Mario Romano, Giovanni Grasso, Tullio Padovani, Art. 150-240, in Mario Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. III, Giuffrè, Milano 1994, p. 470.

32. I. Baviera, Diritto minorile, cit., II, p. 146.

33. Federico Palomba, Codice di procedura penale minorile commentato, in Esperienze di giustizia minorile, 1989, p. 260.

34. Enza Roli, Le ambiguità del processo minorile tra educazione e punizione, in Questione giustizia 1989, p. 895.

35. Cfr. Traverso, G.B., Manna, A., Note critiche a margine del nuovo codice di procedura penale nei procedimenti a carico di imputati minorenni, in Giudici psicologi e riforma penale minorile, Giuffrè, Milano 1990, p. 173; Mario Romano, Giovanni Grasso, Tullio Padovani, Art. 150-240, in Mario Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. III, cit., p. 470.

36. Fabrizia Pironti, Il processo minorile, in Commento al codice di procedura penale, cit., p. 396.

37. Giorgio Battistacci, Codice di procedura penale minorile commentato, in Esperienze di giustizia minorile 1989, p. 263. Nello stesso senso anche Fabrizia Pironti, Il processo minorile, in Commento al codice di procedura penale, cit., p. 400.

38. Fonte: Giustizia.it: l'analisi è stata effettuata sulla base dei dati rilevati trimestralmente dagli Uffici di servizio sociale per i minorenni, attraverso specifiche schede di rilevazione, che prevedono l'indicazione dei soggetti segnalati dall'Autorità Giudiziaria, dei soggetti segnalati che sono stati presi in carico dall'Ufficio di servizio sociale per i minorenni e degli interventi attuati in esecuzione dei provvedimenti dell'Autorità Giudiziaria.