ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo III
Minorenne e reato. Cenni storici e realtà attuale

Laura Basilio, 2002

In quei piccoli mondi in cui i bambini vivono la loro esistenza, nulla viene percepito e avvertito così acutamente come l'ingiustizia. Charles Dickens

Il dibattito intorno al limite da porre come spartiacque tra la responsabilità penale e la mancanza o attenuazione di responsabilità è antico e per lo più il discrimen è stato fissato nei paesi di cultura giuridica romanistica sulla base di un criterio cronologico.

La situazione del soggetto in crescita e in formazione ha storicamente determinato un trattamento particolare e più favorevole del minorenne autore di reato, che si è concretizzato nella esclusione della stessa assoggettabilità a processo e pena, o nella predisposizione di particolari cautele intorno al processo e ai suoi esiti, prevedendo, ad esempio, misure educative al posto delle pene o attenuando l'entità delle sanzioni. E questo avviene sin dai tempi antichi. Le legislazioni penali dei vari popoli hanno, infatti, attribuito sempre all'età minore l'efficacia di escludere o diminuire l'imputabilità, perché l'esperienza insegna come la formazione fisica e psichica dell'uomo, che al momento della nascita è quasi nulla, sia un fenomeno progressivo che si sviluppa gradualmente fino a raggiungere la piena maturità intellettuale: "il concetto che non tutti gli uomini sono responsabili penalmente tardò a farsi strada rispetto a certe forme di incapacità, come per esempio rispetto alla infermità di mente, invece presto si affermò per quel che riguarda l'età del soggetto di diritto: ciò dipende da quel sentimento di affetto che ogni persona, presso ogni popolo, sente per un bambino". (1)

La regola della non imputabilità e di un trattamento meno severo nei confronti dei minori è fatta risalire addirittura alla Legge delle XII tavole, che distingueva tra puberi e impuberi, prevedendo che questi ultimi potessero essere passibili soltanto di provvedimenti di polizia (castigatio). Fino al tardo diritto romano il criterio di discriminazione era quello fisico della pubertà, senza dubbio più facilmente accertabile rispetto alla nostra capacità di intendere e di volere. Si riteneva, infatti, che il raggiungimento della maturità sessuale portasse il discernimento, vista la normale corrispondenza tra lo sviluppo fisico e quello psichico. (2)

Nel diritto classico si individuavano tre categorie di impuberes, distinguendo tra l'infans - colui che, pur potendo emettere dei suoni articolati, non si rende conto della portata delle sue e delle altrui parole - il quale era sempre esente da pena, l'admodum impubes e il pubertati proximus. Solo questi ultimi, nel diritto post classico e giustinianeo, erano considerati responsabili, qualora fossero stati riconosciuti capaci doli o culpae. Questa ipotesi si avvicina al sistema moderno, in quanto si prende in esame non più lo stato fisico del soggetto, bensì le sue capacità intellettive, accertandosi la sua capacità di discernimento, di scelta e di volontà.

Ma quali erano i criteri per stabilire quando era raggiunta la pubertà? Alle origini la pubertà veniva accertata caso per caso, eventualmente, nei casi dubbi, con una inspectio corporis. Durante il principato, mentre i Sabiniani continuavano a richiedere ancora la prova dell'inspectio corporis, i Proculiani, invece, fissavano l'inizio della pubertà al compimento dei quattordici anni, per i maschi, e dei dodici per le femmine. Se per le ragazze già in età classica non era più in vigore il sistema dell'accertamento effettivo, per i ragazzi questa soluzione fu prevista in modo definitivo da Giustiniano, e fino ad allora, probabilmente, prevalse, già in età classica, la tesi intermedia, la quale richiedeva entrambi i requisiti, inspectio corporis e compimento del quattordicesimo anno. (3)

Per il diritto canonico l'impubere, (4) qui doli capax non est, doveva essere dichiarato non responsabile al pari del pazzo, ma la decisione sulla capacità o meno di dolo dell'impubere spettava al giudice che, in caso di dubbio, doveva risolvere la questione pro reo.

Nel diritto barbarico, inizialmente, quando la pena aveva solo finalità risarcitorie, l'età del delinquente non aveva alcuna rilevanza, perché l'obbligo di risarcire il danno incombeva sul gruppo di appartenenza del reo; successivamente, quando i barbari iniziarono a dare rilevanza all'elemento soggettivo del reato, di solito fissavano il limite dell'impubertà a dodici anni e il fatto commesso dal fanciullo privo di discernimento veniva considerato come involontario.

Il diritto penale comune tenne in particolare considerazione l'età, perché considerava la conditio delinquentis un'attenuante della responsabilità e l'età era proprio uno degli elementi utili per configurarla. Così, fra gli impuberi, si distinguevano gli infantes, fino ai sette anni, i proximi infantiae, dai sette ai dieci anni e mezzo, e i proximi pubertati, dai dieci anni e mezzo ai quattordici. Ma gli scrittori avevano opinioni diverse circa la differenziazione del trattamento: da una parte c'era chi riteneva che solo l'infans era completamente irresponsabile, mentre l'impubere appartenente alle altre due categorie poteva essere doli capax, cioè moralmente capace di intendere la gravità dei propri atti; dall'altra vi era chi sosteneva che solo il pubertati proximus poteva essere in grado di delinquere, a meno che la stessa natura del reato non fosse tale da escludere la capacità psichica dell'autore; infine alcuno considerava i minores non imputabili di reati colposi, mentre per i reati dolosi l'età doveva servire ad attenuare la pena, purché non si trattasse di delitti efferati, nel qual caso nessuna attenzione doveva essere prestata all'età del reo, che doveva essere condannato come se fosse adulto. (5)

L'idea che, per poter rispondere penalmente delle proprie azioni e sopportarne le conseguenze sanzionatorie, sia necessario possedere una capacità di discernimento ed autodeterminazione propria di un certa maturazione fisiopsichica ha conosciuto, e tuttora conosce, le sue eccezioni. Sebbene, infatti, tutti gli ordinamenti avessero recepito la regola, propria del diritto romano, per la quale solo il soggetto pubertati proximus era passibile di pena, più volte il principio malitia supplet aetatem aveva permesso di eluderla, rendendo possibile condannare e punire severamente i ragazzi ritenuti capaces doli. Basti pensare all'Inghilterra dell'Ottocento, dove si possono trovare sentenze di condanna a morte o ai lavori forzati nei confronti di ragazzi di nove anni, colpevoli di aver sfondato vetrine o porte; (6) per non parlare dell'internamento in prigioni o case di correzione di bambini di sei anni, colpevoli di aver suonato per gioco i campanelli di alcune porte. Ma non importa andare tanto indietro nel tempo, se si pensa che tutt'oggi non pochi paesi - e certo non tutti del terzo mondo visto che vi rientrano gli stessi Stati Uniti d'America - mantengono la pena di morte anche per i minorenni.

1. L'evoluzione storica del diritto minorile

L'affermazione dei diritti dei minori è una conquista piuttosto recente Gian Paolo Meucci, giudice minorile presso il Tribunale di Firenze, a questo proposito, dice:

non posso dimenticare che i colleghi dell'Ottocento, i quali vivevano in uno stato borghese, in uno stato di diritto, consideravano il ragazzino alla stessa stregua dell'adulto. Questa società ignorava totalmente il bambino, salvo nel momento repressivo, in cui interveniva facendolo però adulto a tutti gli effetti, nel momento in cui - senza considerare l'età - giungeva fino a mandarlo a morte [...]. C'è voluto un secolo [...] perché la società giungesse alla presa di coscienza del ragazzo, come portatore di una situazione giuridica diversa da quella dell'adulto e, in quanto tale, da guardarsi in una certa maniera. Il ragazzo, dunque, è emerso, a livello della tutela dei suoi diritti, solo attraverso la nequizia della repressione: il suo diritto e la sua autonoma tutela non sono stati enucleati attraverso la presa di coscienza del suo esistere, del suo vissuto; bensì per il fatto che a un certo momento la società si è accorta, con stupore, del controllo repressivo che (da sempre) veniva svolto contro i ragazzi. (7)

È, infatti, solo nel '900 che si assiste ad un lento e graduale passaggio della condizione del bambino da quella di 'suddito' a quella di 'cittadino'; (8) ed è proprio nell'evoluzione dell'intervento penale sul minore che si percepisce questo passaggio. Il sistema penale minorile si pone al termine di un cammino della coscienza civile verso il riconoscimento della specificità della condizione minorile. Una volta raggiunta questa presa di coscienza, la politica penale ha cercato di costruire un sistema di diritto penale differenziato, finalizzato alla tutela dei diritti dei minori. L'esigenza di differenziare la risposta istituzionale nei confronti di un reato commesso da un minore ha dovuto non solo individuare lo stadio evolutivo in corrispondenza del quale il ragazzo non è capace di percepire la illiceità del suo comportamento, ma anche graduare l'intervento nei suoi confronti, a causa delle caratteristiche fisiche e psichiche proprie di un soggetto in evoluzione.

Secondo Lorena Milani, l'affermazione dei diritti dei minori è il risultato di un percorso iniziato con la più generale 'scoperta dell'infanzia', che mostra i suoi primi segni già dal XII secolo, ma che si fa più evidente solo nei secoli XVI e XVII. (9) L'immagine del minore non è stata costante nel tempo, ma è gradualmente mutata a causa, oltre che delle elaborazioni socioculturali e scientifiche, anche del cambiamento dei costumi, dei mutamenti economici e demografici e delle condizioni igienico-sanitarie ed alimentari. "A rivelarci quanto diverso sia l'attuale sentimento dell'infanzia da quello delle epoche passate è sicuramente - afferma Milani - l'atteggiamento di condanna della cultura contemporanea di fronte agli ancora presenti comportamenti di violazione, di abuso, di maltrattamenti, di abbandono, di compravendita, di violenza, di negazione e di indifferenza nei confronti dei minori". La nostra condanna nei confronti della pedofilia, ad esempio, è certamente sconosciuta nel Medioevo, durante il quale bambini piccolissimi erano normalmente oggetto di attenzioni sessuali da parte dell'adulto. Così come il caso di Anna Maria Franzoni, accusata di aver ucciso suo figlio, non avrebbe destato particolare clamore nell'antichità, poiché fino alle soglie del Medioevo l'infanticidio è stato un evento relativamente frequente, ai danni di figli sia illegittimi che legittimi, di bambini malati o deformi ma anche sani. (10) Anche quando iniziarono a levarsi delle voci di difesa nei confronti del bambino e di condanna verso le pratiche dell'infanticidio e dell'abbandono, a ciò non corrispose una presa di coscienza della diversità delle caratteristiche del soggetto nelle differenti età evolutive, e non si elaborò una concezione dell'infanzia come periodo a sé da rispettare:

nel Medioevo [...] i bambini andavano confondendosi con gli adulti appena erano ritenuti capaci di fare a meno delle madri o delle nutrici. Da questo momento essi entravano di colpo nella grande comunità degli uomini [...]. La civiltà medievale aveva dimenticato la paideia degli antichi e non conosceva ancora l'educazione dei moderni. È questo il fatto essenziale: non aveva l'idea di educazione. (11)

La concezione dell'infanzia propria della società del Medioevo si caratterizza, infatti, per la totale promiscuità tra adulti e bambini e per l'assenza di un preciso intervento educativo.

1.1. Le prime istituzioni per i minori

Tra il XVI e il XVII secolo si iniziarono ad attuare delle differenziazioni tra il mondo degli adulti e quello dei bambini, e fu allora che emerse un nuovo sentimento dell'infanzia. Ma proprio in questo periodo, quando per la prima volta sembrava nascere questo nuovo atteggiamento riguardo al mondo dei più piccoli, contemporaneamente si hanno anche i primi tentativi di controllo nei confronti di quella parte della popolazione considerata pericolosa per l'ordine pubblico: si tratta degli emarginati, dei vagabondi, dei folli e degli abbandonati. Tutti questi soggetti, che all'epoca rientravano nella categoria dei 'poveri', vengono così segregati in istituti, quali ospedali, opifici o case di correzione, caratterizzati dalla disciplina e dal lavoro come imperativi pedagogici attraverso i quali ci si proponeva di regolare la vita dei reclusi. (12) All'inizio, questa pratica dell'internamento in case di correzione fu messa in atto anche nei confronti dei minori 'traviati' o 'discoli', con il preciso intento di moralizzare l'infanzia e di recuperare socialmente il ragazzo. La storia delle istituzioni per minorenni "è parte integrante della storia dei poveri e degli indesiderati nella prima fase dell'industrializzazione capitalistica; in particolare, di quegli strati di poveri sradicati, spostati e straniati che si sono inseriti in condizioni di svantaggio nel violento processo di proletarizzazione e di urbanizzazione di masse contadine". (13)

Nel 1650 nasce, proprio a Firenze, la prima istituzione di tipo assistenziale-correzionale, fondata da Ippolito Francini, per il recupero dei ragazzi abbandonati o vagabondi, attraverso l'azione educativa di scuola e lavoro. (14) Alla morte di Francini, un gruppo di religiosi guidati dall'abate Filippo Franci, continuò quanto da lui iniziato e diede vita allo "Spedale di San Filippo Neri" (successivamente chiamato "Casa pia del rifugio di poveri fanciulli", comunemente detta "Casa dei Monellini"), che, secondo quanto prevedeva il regolamento, accoglieva i minori di sedici anni "che la notte dormivano per le strade, nei cimiteri, nelle osterie" allo scopo di "rivestirli, nutrirli, medicarli, trovar loro un lavoro in botteghe esterne o in officine interne e istruirli nel santo timore di Dio". (15) All'interno dello Spedale, in una zona separata, erano state allestite delle piccole celle dove venivano rinchiusi i ragazzini ospiti più disobbedienti e indisciplinati, ormai "corrotti dalla strada e dall'ozio", (16) perché non fossero di cattivo esempio per gli altri. Nelle stesse cellette venivano anche fatti imprigionare, dai padri, i propri figli, ribelli all'autorità paterna, quando non riuscivano in altro modo ad ottenere la loro obbedienza. Pare che col passare del tempo questa seconda funzione sia diventata quella prevalente, anche per la segretezza e la riservatezza garantite dai religiosi alle famiglie più benestanti che chiedevano il loro aiuto. Così, nel 1677, "questa istituzione diviene vera e propria casa di correzione per i ribelli all'autorità paterna con l'intento di separare tali soggetti dai veri e propri delinquenti che ne avrebbero corrotto l'animo con il proprio esempio". (17)

A Roma, presso l'ospizio San Michele in Ripa, su iniziativa di papa Clemente XI, fu fondato, col Motu proprio del 14 novembre del 1703, (18) un istituto simile a quello fiorentino. L'Istituto S. Michele rappresenta il primo tentativo di trattamento differenziato per minorenni, sul piano legislativo e istituzionale: il Motu proprio disponeva che tutti i minorenni condannati da un qualsiasi tribunale per motivi penali, invece di essere condotti nelle «pubbliche carceri», venissero internati in tale Istituto. Presso lo stesso potevano essere ricoverati «i ragazzi e giovani discoli inobbedienti [...] che per i loro cattivi principi dimostrano pessima inclinazione ai vizi», su richiesta dei loro genitori o degli amministratori. Mentre i ragazzi internati per motivi penali venivano detti «carcerati», quelli ricoverati su richiesta delle famiglie erano definiti «custoditi». Lo scopo dell'Istituto era quello di correggere ed emendare i giovani reclusi, non solo attraverso la pratica della religione, ma anche attraverso l'insegnamento di «qualche arte meccanica, acciò che con l'esercizio lascino l'ozio, e intraprendino affatto con nuovo modo di ben vivere». (19) È la prima volta che, con un documento ufficiale, si delinea un trattamento differenziato per i minori, se ne indica la finalità educativa e preventiva, e si parla di 'Casa di correzione'. (20) Dalla seconda metà del XVIII secolo altri istituti simili a quelli di Firenze e Roma furono aperti nei diversi Stati italiani: nel 1759, a Milano, fu fondata una Casa di correzione; nello stesso periodo, a Napoli, vennero alla luce le prigioni speciali per giovani; nel 1786, a Palermo, nacque la 'Real casa di correzione per donne e minori traviati'. Più tardi, nel 1827, l'Istituto San Michele di Roma fu destinato alle donne detenute, mentre i minori corrigendi furono trasferiti in un edificio presso le carceri di Villa Giulia, fatto costruire appositamente da papa Leone XII, dove vennero mutuati dal sistema penitenziario americano di Auburn l'assoluto silenzio durante il lavoro obbligatorio e la segregazione cellulare notturna. Sempre nella prima metà dell'Ottocento, a Torino venne istituito 'La Generale', un riformatorio noto per la sua ferrea disciplina.

1.2. Il positivismo

Come abbiamo già più volte ricordato, nella prima metà dell'Ottocento, grazie a un mutato clima culturale, nasce e si afferma il positivismo, che assegna alle scienze, caratterizzate dall'utilizzo di metodi empirici e sperimentali, il compito di studiare la realtà, compresa la natura umana. La fiducia nelle scienze, nella razionalità dell'indagine scientifica basata su dati oggettivi e misurabili, portò Cesare Lombroso, padre dell'antropologia criminale, a ritenere che si potesse "studiare l'uomo, l'individuo che delinque con strumentazioni derivate da altre scienze dell'uomo", (21) dando vita a "l'indirizzo individualistico, secondo il quale al centro del problema della criminalità viene posta la persona del delinquente, intesa [...] nei suoi tratti bio-antropologici e costituzionali". (22) Non solo Lombroso, ma anche Ferri e Garofalo, tutti esponenti di spicco della Scuola positiva, tra le altre cose elaborarono anche una serie di proposte concrete in tema di trattamento dei delinquenti, e, in base al principio cardine dell'individualizzazione delle pene, concentrarono la loro attenzione sul problema della delinquenza minorile. Come si è già avuto modo di dire, queste nuove istanze di differenziazione del trattamento nei confronti dei minori non trovarono però applicazione nella pratica, perché si scontrarono con la politica adottata dagli enti minorili, ancora fortemente contenitiva. (23) Tutta l'attività rivolta ai minori nel corso dell'Ottocento sembra contrassegnata da una "inconciliabile ambiguità": da una parte, infatti, con il positivismo, l'attenzione nei confronti del bambino si era manifestata come necessità di una sua conoscenza scientifica e come interesse educativo e pedagogico finalizzato alla tutela dell'infanzia traviata, abbandonata, derelitta e vagabonda. Questo risveglio di interesse per l'infanzia contagiò non solo religiosi o "uomini di scienza che si occupavano specificatamente di educazione", come pedagoghi o psicologi, ma, più in generale, "personaggi illuminati, appartenenti per lo più alla borghesia, ispirati da intenti umanitari e animati da idee di progresso sociale", che si impegnarono attivamente per la promozione e la salvaguardia dell'infanzia moralmente abbandonata. Dall'altra parte, però, l'esigenza di controllo sul minore, controllo considerato necessario per la sua protezione, comportava interventi punitivi, in ambito penale, sconosciuti fino ad allora e l'utilizzo di misure coercitive e correzionali "contraddistinte da una concezione dell'infanzia come età subalterna, sottoposta all'autorità, un'età da plasmare e da piegare affinché non si corrompa". (24) Di questo secondo aspetto dell'ambiguità dell'attività rivolta ai minori nell'Ottocento così parla Nuti:

si continuò ad applicare nei confronti dei minori quell'ideologia del controllo sociale attraverso la reclusione, l'educazione forzata al lavoro e ai principi morali e religiosi, che si era diffusa in Europa a partire dal Seicento nei confronti dei poveri cattivi [...] anche se l'Ottocento, dominato dall'etica del lavoro imposta dall'ideologia dell'industrialismo, ne esalta il valore di riscatto piuttosto che di penitenza. (25)

Per quanto riguarda invece il primo aspetto, bisogna ricordarci che fu proprio l'interesse per l'educazione dei bambini poveri, orfani, maltrattati o delinquenti a spingere uomini e donne a formare movimenti di opinione e progetti di riforma tendenti ad una differenziazione del trattamento del minore, che non doveva essere trattato come un criminale, ma come un pupillo di cui lo Stato si sarebbe dovuto occupare, fornendogli quelle cure e quella educazione che i genitori non erano stati in grado di dargli. Fu così che, sotto l'influsso degli studi antropologici e sociologici allora diffusi, fu creato negli Stati Uniti il già menzionato Child-saving movement, il quale diede vita ad un vero e proprio movimento di opinione che spinse verso la creazione di una Commissione, da cui derivò l'idea della istituzione di un Tribunale speciale per l'infanzia, idea che si concretizzò a Chicago nel 1899 con il Juvenile Act. (26) Questa prima Juvenile Court aveva una marcata impronta paternalistica: il giudice aveva il ruolo del 'buon padre di famiglia', (27) cioè aveva il compito di osservare il minore e di disporre circa la sua educazione o correzione. In seguito altri Tribunali per minorenni nacquero a Boston e a New York, e agli inizi del Novecento se ne registra la nascita anche in Europa, sempre sulla spinta dei movimenti per la tutela e la protezione dell'infanzia. (28) In Inghilterra l'istituzione dei Tribunali per i Minorenni divenne obbligatoria con il Children Act, un vero e proprio statuto per i minori il quale, tra l'altro, oltre a prevedere che nessun ragazzo minore di sedici anni potesse essere incarcerato, abolì anche la pena di morte. (29)

Rispetto a quanto si è verificato in altre nazioni europee ed extraeuropee, in Italia l'istituzione di una giurisdizione specializzata si è avuta relativamente tardi: (30) il Tribunale per i Minorenni fu istituito solo nel 1934, perché le istanze di differenziazione del trattamento promosse dal positivismo giuridico, nonostante vari tentativi di riforma, non trovarono applicazione pratica a causa del diverso orientamento della politica contenitiva adottata dagli enti minorili. Se, infatti, il positivismo avvertiva come assolutamente necessaria la conoscenza scientifica del bambino e vedeva nella educazione la finalità primaria della rilettura della problematica della criminalità minorile, il forte controllo sull'infanzia, ritenuto prioritario, faceva sì che gli interventi sui minori fossero fortemente punitivi. Ma vediamo come si arrivò, in Italia, alla costituzione del Tribunale per i Minorenni.

Dal codice penale sardo del 1859 fino al Codice Zanardelli del 1889 si assiste ad un continuo tentativo di unificazione e di sistematizzazione della materia minorile. Già il codice penale del 1859 conteneva interessanti disposizioni: la responsabilità penale era prevista solo per i ragazzi maggiori di ventuno anni; al di sotto di tale età, sia per i minori di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni che per quelli fra i diciotto e i ventuno anni, erano previste solo delle riduzioni di pena, da scontare nelle carceri comuni; i minori di quattordici anni, invece, se erano colpevoli di reati comuni commessi «con discernimento» venivano sistemati in apposite Case di custodia, se, invece, avevano agito «senza discernimento» o avevano commesso reati di lieve entità «con discernimento» venivano ricoverati in stabilimenti pubblici di lavoro. A questi stabilimenti venivano destinati anche i minori di sedici anni dediti all'ozio o al vagabondaggio. Il quadro era completato dal codice civile del Regno d'Italia del 1865, il quale stabiliva la possibilità di internamento, su richiesta anche solo verbale del genitore, di giovani discoli in speciali Case di correzione o di educazione, qualora "il padre [...] non riesca a frenare i traviamenti del figlio". (31)

Nel 1862 e nel 1877 vennero emanati rispettivamente il primo e il secondo regolamento per le Case di custodia penali per minorenni, a testimonianza dell'importanza data, a quell'epoca, a questa istituzione minorile. Il secondo regolamento, oltre a prevedere le nuove figure degli «istitutori o censori» al posto delle guardie carcerarie, stabilì «la separazione assoluta tra adulti e minorenni, non che tra minorenni sottoposti alla custodia per condanna penale ed i ricoverati per altre cause». (32) Ma queste norme non ebbero attuazione nella pratica, e "la divaricazione a forbice tra le tendenze di riforma che si esprimevano nelle leggi e nei regolamenti e la realtà delle istituzioni minorili, è andata aumentando nei decenni successivi, a partire dal Codice Zanardelli". (33)

Nel 1889 entrò in vigore il Codice Zanardelli, il primo codice penale unitario, il quale, come già visto, fissa due criteri fondamentali per differenziare i minorenni di fronte alla pena: l'età e l'elemento del «discernimento» per stabilire l'imputabilità. In particolare, per quanto concerne la minore età agli effetti penali, distingueva quattro periodi e per ognuno di questi prevedeva un diverso trattamento: al di sotto dei nove anni non c'era imputabilità, quindi non si procedeva sul piano penale nei confronti di questi soggetti; ma qualora questi bambini avessero commesso atti punibili con la detenzione superiore a un anno, scattava "quella che era un embrione della «misura di sicurezza», anche se ancora non si parlava di «pericolosità sociale»". (34) La competenza, infatti, in questo caso, passava al presidente del Tribunale civile che, su richiesta del P. M., poteva ordinare, in alternativa, il ricovero in un istituto di osservazione e di correzione, per un periodo di tempo che non superasse la maggiore età, oppure l'affidamento ai genitori o ad altri soggetti che avessero l'obbligo dell'educazione, sotto la loro responsabilità (art. 53). Stesso trattamento era previsto per il minore che avesse più di nove anni, ma meno di quattordici, qualora fosse accertata l'assenza di discernimento; se, invece, si riteneva che avesse agito con discernimento, venivano applicate pene diminuite (fino ad un massimo di quindici anni per reati che prevedevano l'ergastolo), da scontare, a seconda della gravità del fatto, nelle Case di correzione o nelle Case di custodia. Anche per le due restanti fasce di età, quella fra i quattordici e i diciotto anni e quella fra i diciotto e i ventuno anni, erano previste riduzioni di pena, via via meno significative.

Sempre nel 1889 la Legge di Pubblica Sicurezza dettava disposizioni relative ai minori orfani e dediti al vagabondaggio o alla mendicità, completando in tal modo il quadro delle misure di controllo sociale dei giovani. (35) Questa legge stabiliva che "il minore degli anni diciotto privo di genitori, ascendenti o tutori" fosse ricoverato presso "qualche famiglia onesta che consenta ad accettarlo" o "in un istituto di educazione correzionale" finché non avesse appreso "una professione, un'arte o un mestiere; ma non oltre il limite della maggiore età" (art. 114). L'art. 116 estendeva questa disciplina nei confronti dei minori dediti alla mendicità o alla prostituzione. Il ricovero presso qualche famiglia onesta non ebbe però, nella pratica, attuazione, cosicché l'effetto reale di queste norme fu l'aumento delle possibilità di istituzionalizzazione di nuove categorie di minori, quali i mendicanti, gli indisciplinati, i senza famiglia, ecc.

Nel 1891 un nuovo regolamento penitenziario stabilì la specializzazione delle istituzioni minorili secondo l'età e le categorie giuridiche. Il Codice Zanardelli, la Legge di Pubblica Sicurezza e il codice civile avevano, infatti, delineato quattro categorie di minori corrigendi: quelli che avevano commesso un reato o, comunque, delinquenti (artt. 53, 54 e 55 del codice penale); quelli privi di genitori o tutori (art. 114 Della legge di P. S.); quelli che abitualmente praticavano la mendicità o il meretricio (art. 116 della legge di P. S.); quelli ribelli all'autorità paterna (artt. 221 e 222 del codice civile). Conseguentemente, il regolamento del 1891 distinse fra le Case di correzione, previste per i minori di ventuno anni condannati in applicazione degli art. 54 e 55 del codice penale; gli Istituti di educazione e correzione, dove venivano rinchiusi i bambini con meno di nove anni, che avevano commesso un delitto punibile con la reclusione superiore ad un anno, e i minori di età compresa fra i nove e i quattordici anni, che aveva agito senza discernimento; gli Istituti di educazione correzionale dove, invece, venivano sistemati i minori di diciotto anni dediti all'oziosità, al vagabondaggio, all'accattonaggio e alla prostituzione; e, infine, gli Istituti di correzione paterna per giovani ribelli allontanati dalla casa paterna. In questo modo si realizzò formalmente la separazione fra condannati e corrigendi. Mentre i primi venivano rinchiusi in istituti governativi, i secondi, fin dall'unità d'Italia, venivano normalmente accolti in istituti privati, (36) con i quali lo Stato stipulava apposite convenzioni per la parte amministrativa. A questo regolamento ne seguì un altro nel 1907, denominato 'Regolamento per i riformatori governativi', in base al quale, appunto, le case di custodia e tutte le altre istituzioni minorili vennero denominati, ufficialmente, «riformatori governativi» per distinguersi dalle istituzioni private, dove potevano essere ricoverati i minori in base all'art. 222 del codice civile o su provvedimento dell'autorità di pubblica sicurezza. Questo regolamento proponeva di affrontare il problema della delinquenza giovanile non più in termini di mera repressione, quanto piuttosto di correzione, riabilitazione ed educazione, per cui a questi principi andava adattato anche il trattamento dei minori, tenendo anche presente l'età e il tipo di reato commesso. (37) Dei cambiamenti riguardarono anche le figure degli agenti di custodia, che vennero sostituiti con gli "istitutori", reclutati fra gli insegnanti elementari, che dovevano essere previsti in numero proporzionato alla popolazione ricoverata (art. 7), sotto la direzione di un censore e uno o più vicecensori. Ma se sulla carta era previsto il passaggio ad un trattamento penitenziario individualizzato, basato sull'osservazione e lo studio del minore «onde accertarne l'indole, le tendenze, i vizi e le virtù» (art. 14) e sull'esame delle caratteristiche psico-fisiche del minore da parte del medico (art. 24), in realtà il sistema risultò poco individualizzato e poco attento ai bisogni del singolo, e piuttosto teso, invece, ad ottenerne il consenso e la sottomissione. (38) La preoccupazione principale era, infatti, quella di ottenere la spersonalizzazione dell'individuo, la sua docilità e la sua obbedienza alle regole istituzionali; il raggiungimento di questi obiettivi veniva perseguito attraverso l'educazione religiosa e la disciplina: «come regola precipua di disciplina e di educazione si inculca ai ricoverati il dovere del rispetto e dell'obbedienza» (art. 75).

Tra i testi normativi considerati propedeutici alla specializzazione del giudice minorile va inserita anche la Legge n. 267 del 26 giugno 1904, con la quale fece ingresso per la prima volta in Italia la sospensione della pena. Questa legge, inserendo i minori di diciotto anni, insieme alle donne e agli ultrasettantenni, tra i possibili beneficiari della sospensione della pena non superiore a un anno, (39) costituì la spinta per la nascita di alcuni patronati che sorsero, spontaneamente, con l'intento di aiutare i minori ad evitare di mettersi in quelle situazioni che avrebbero estinto il beneficio ottenuto. "In tal modo veniva decisamente riaffermata, invero, l'esigenza di un trattamento individualizzato del minore, da compiersi non solo, e non tanto, col presidio delle impassibili e geometriche regole del diritto penale classico, ma con effettiva preoccupazione pedagogica e assistenziale". (40)

Nel 1908 venne fatto un passo importante verso la concreta individualizzazione del trattamento penale e l'istituzione del Tribunale per i Minorenni. Il 3 gennaio di quell'anno il senatore Quarta, all'apertura dell'anno giudiziario, citò dei dati statistici a testimonianza del forte aumentare della delinquenza giovanile. (41) In realtà le statistiche del tempo non giustificavano valutazioni così "apocalittiche": il tasso di delinquenza minorile, che tra il 1896 e il 1902 aveva fatto registrare un indice del 13%, nel periodo che va dal 1906 al 1910 si era attestato su valori impercettibilmente superiori, pari al 14% circa, per subire addirittura un inflessione nel periodo 1921-1925, in cui si registrò un tasso di delinquenza del 12%. (42)

Grafico 1

Prendendo spunto dal questo "aumento spaventevole della delinquenza dei minori" e consapevole dell'inevitabile lentezza di un'azione legislativa al riguardo, il ministro guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando l'11 maggio 1908, con una importantissima circolare, (43) rivolse alla magistratura una serie di raccomandazionicon le quali venivano poste le basi per l'affermazione, nell'ambito del diritto minorile, dei principi della specializzazione del giudice dei Minorenni, (44) della non pubblicità del processo in cui è coinvolto un minore e della necessità dell'indagine diretta ad acclarare la personalità del minore. Il principio della specializzazione del giudice è affermato laddove la circolare stabiliva che «nei tribunali, ove due o più giudici sono addetti all'istruzione dei processi penali, [...] uno di essi si occupi in modo speciale dei procedimenti contro imputati minorenni», e consigliava «che le cause penali contro i minorenni, in specie se siano di età inferiore ai 18 anni, vengano trattate tutte e sempre dai medesimi giudici, onde nei tribunali composti da più persone non sarà difficile assegnarle normalmente ad una di esse». La necessità dell'indagine sulla personalità emerge dai compiti affidati ai giudici, fra i quali vi era quello di studiare, «con animo quasi paterno, la psicologia dell'imputato, di trattarlo alla buona e senza intimidazioni, cercando di guadagnarne la confidenza e di fargli comprendere la necessità dell'osservanza delle leggi e del rispetto alla disciplina e alla pubblica autorità»; al duplice fine di accertare la responsabilità del minore e di determinare la pena, i giudici erano invitati anche a non limitarsi «soltanto all'accertamento del fatto delittuoso nella sua pura materialità», ma a «procedere a tutte quelle indagini, che valgono a far conoscere lo stato di famiglia del piccolo imputato, il tenore e le condizioni di sua vita, i luoghi e le compagnie che frequenta, l'indole e il carattere di coloro che su di lui esercitano la podestà patria e tutoria, i mezzi eventualmente adoperati per ritrarlo dalla via del pervertimento», a raccogliere, insomma, «tutte [...] quelle notizie che possono dare un criterio esatto delle cause dirette e indirette, prossime o remote, per le quali egli giunse alla violazione delittuosa della legge». La non pubblicità del processo è affermata laddove si prescriveva ai magistrati di fissare le cause contro i minorenni in ore e possibilmente in giorni in cui non vi fossero dibattimenti contro adulti, e di allontanare «dalle aule, dove si amministra la giustizia penale [...] quei giovanetti, che, senza alcun interesse diretto e solo per morbosa curiosità, assistono ai dibattimenti», per evitare ogni possibile «contagio morale». (45) La circolare Orlando rappresentò certamente un punto fondamentale nel cammino verso la creazione del Tribunale per i Minorenni, ma non ebbe in concreto l'attuazione auspicata, benché, nelle more dell'intervento legislativo, risultò senza dubbio preziosa.

Successivamente vi furono altri progetti di riforma nell'ambito della giustizia minorile. In particolare, col Regio Decreto del 7 novembre 1909 venne nominata una Commissione reale, presieduta dal senatore Quarta, con l'incarico di studiare le cause della delinquenza minorile e di elaborare su tale base un codice per i minorenni che utilizzasse «la combinazione armonica delle diverse competenze, da quelle d'ordine giuridico penale a quelle sociologiche, dalla pedagogia alle discipline carcerarie». I lavori della Commissione reale durarono fino al 1912 e il risultato fu la creazione di un progetto denominato «Magistratura dei minorenni», i cui obiettivi principali erano creare una magistratura per i minorenni e riunire in un unico codice tutte le disposizioni sparpagliate nei codici penale e civile, nelle leggi e nei vari regolamenti sulla pubblica sicurezza, sul lavoro dei fanciulli, sull'emigrazione, sui riformatori, ecc. Il progetto Quarta prevedeva, infatti, l'istituzione di un magistrato dei minorenni circondariale (in ogni sede di tribunale) con il compito esclusivo di «vigilare circa l'assistenza, tutela, protezione, istruzione, disciplina e correzione dei minorenni». (46) Questa magistratura specializzata avrebbe avuto la possibilità di giudicare solo i fatti di reato lievi (per i quali erano applicabili misure simili alle nostre sanzioni sostitutive), mentre per quelli più gravi era previsto il passaggio del giudizio alla magistratura ordinaria. Il codice minorile unificato escludeva l'arresto o la carcerazione preventiva in fase di istruzione, sostituiti, per i maggiori di nove anni, con speciali forme di custodia. Il giudizio finale poteva concludersi (con provvedimento non motivato) nel proscioglimento, nell'ammonimento o, in caso di condanna, nella detenzione in casa propria per periodi da stabilire, ma che non potevano superare i venti giorni, nella libertà vigilata, nel ricovero in un istituto di beneficenza o in un riformatorio, per un tempo variabile, che non poteva però superare il compimento del ventunesimo anno del minore. Nonostante che il progetto Quarta fosse stato oggetto di apprezzamento non solo in Italia, dove era appoggiato fortemente dalla Scuola positiva, ma anche all'estero, non arrivò neppure in Parlamento per la discussione. (47)

Nel 1913 fu promulgato il Codice di procedura penale, il quale, oltre a confermare la disciplina della sospensione della pena prevista nella legge del 1904, riprendeva e precisava la questione della pubblicità delle udienze, già oggetto di attenzione da parte della circolare Orlando del 1908, stabilendo una deroga rispetto alla garanzia costituzionale della pubblicità dei dibattimenti, prevista dall'art. 72 dello Statuto Albertino. Il nuovo codice di procedura penale non solo vietava l'accesso alle aule di udienza ai minori di diciotto anni (art. 375, comma 2), ma stabiliva che il dibattimento dovesse comunque svolgersi a porte chiuse, qualora l'imputato avesse meno di diciotto anni, se non vi era un coimputato di età maggiore. In questo modo non solo si eliminava dal pubblico il minorenne, per evitare che potesse ricevere stimoli negativi, ma si escludeva il pubblico tout court dalla partecipazione ai processi a carico di minori, per evitare che l'imputato minorenne subisse, sul piano pedagogico, gli effetti deleteri di un giudizio di massa.

Sia negli anni che precedettero la prima guerra mondiale che negli anni successivi al conflitto, vi furono numerosi dibattiti e congressi sui temi dell'infanzia e della delinquenza minorile, e non solo ad opera di parlamentari e di giuristi, ma anche di filantropi e volontari, impegnati nell'assistenza e nella difesa dell'infanzia. (48) In realtà "la loro opera è stata sicuramente segnata anche da una concezione adultistica del minore legata all'idea della moralizzazione e del controllo dell'infanzia". (49) Ma, nonostante questa "ambiguità insita nella doppia visione della protezione, della tutela e dell'educazione, da una parte, e della correzione, del controllo e della punizione, dall'altra", (50) questi movimenti filantropici e riformisti non solo alimentarono la diffusione di nuove idee intorno ai bisogni e alle necessità degli adolescenti, ma contribuirono anche alla realizzazione di alcune sperimentazioni nell'ambito degli interventi penali nei confronti dei minori. Così, ad esempio, fu tentato una specie di affidamento in prova - istituto che, mentre in Inghilterra era ormai una prassi consolidata, in Italia non era stato introdotto - ad opera proprio delle associazioni di volontariato: Miss. Lucy Bartlett fondò a Roma, nel 1906, il primo 'Patronato italiano per minorenni condannati condizionalmente', che raccoglieva una serie di soci volontari, ai quali veniva affidata la tutela dei giovani condannati. Un altro esperimento fu tentato dall'Associazione Nazionale Cesare Beccaria la quale, in accordo con la magistratura milanese, istituì a Milano, nel 1928, il primo Tribunale minorile in forma sperimentale: le cause contro imputati minorenni non venivano celebrate nelle consuete aule di udienza ma in apposite sale messe a disposizione dall'associazione; inoltre, alle udienze partecipavano come consulenti due psichiatri, esperti in problemi dell'età evolutiva.

Nel 1919 Enrico Ferri, l'esponente più significativo della Scuola positiva, per volontà del Guardasigilli Mortara presiedette una commissione che aveva l'incarico di elaborare un progetto di riforma della legislazione penale. Nel 1921 vide la luce il progetto Ferri, fedele all'interpretazione plurifattoriale della devianza propria della Scuola positiva: la spiegazione della devianza giovanile andava rinvenuta non solo nelle cause ereditarie, evolutive o biologiche, ma anche in quelle sociali, familiari e psicologiche. La spiegazione della criminalità dei minori andava ricercata soprattutto nelle condizioni di abbandono e di non curanza in cui era lasciata l'infanzia «moralmente maltrattata o torturata», e «i rimedi più efficaci» per combattere la delinquenza giovanile erano di due tipi: quelli sociali e quelli legali. I rimedi sociali «dovevano agire in termini di prevenzione, di profilassi, di educazione e di cura, in un'atmosfera economica e familiare libera dal veleno della miseria materiale e morale»; quelli legali dovevano essere guidati non «dalle consuete norme astratte di responsabilità morale aritmeticamente graduata secondo le diverse età», ma «dovevano ispirarsi sempre al criterio fondamentale della pericolosità del delinquente». (51) Come dice De Leo, "è l'atto di nascita della pericolosità sociale come concetto giuridico in campo penale". (52) La tipologia delle sanzioni è simile a quella del progetto Quarta, ma vengono aggiunte delle nuove ipotesi, quali la scuola professionale di correzione, la casa di lavoro o colonia agricola per minorenni, la condanna condizionale e, soprattutto, le case speciali di custodia per infermi di mente. Ma, a causa delle numerose critiche, come già ricordato, questo progetto non fu trasformato in legge.

Successivamente, nel 1922, vide la luce un altro progetto, il progetto Ollandini, che però non merita un particolare esame, dal momento che si limitò a riproporre, in termini riduttivi, i contenuti del progetto Quarta. Anche il progetto Ollandini fu abbandonato.

1.3. Il Codice Rocco e il decreto del 1934

La consapevolezza, ormai raggiunta, della necessità di soluzioni normative più articolate ed adeguate ai tempi indusse il ministro della giustizia Alfredo Rocco ad emanare una circolare che, ad oltre un decennio di distanza, riprendeva, con toni più perentori, alcune direttive contenute nella circolare Orlando, mai tradotte in legge. Con la Circolare n. 2236 del 22 settembre 1929 il Guardasigilli, in attesa che fosse completata l'opera legislativa ancora allo stato di progetto, intendeva provvedere «alla istituzione di magistrati per minorenni» e «ad assicurare una migliore applicazione delle norme di carattere preventivo che riguardano la criminalità minorile [...]». (53) Per realizzare il primo obiettivo, il ministro Rocco dispose che nelle più importanti Corti d'Appello (quelle di Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli e Palermo) (54) nonché nei tribunali e nelle preture delle stesse città i processi che vedevano come imputati minori di diciotto anni, che non avessero coimputati maggiorenni, fossero affidati sempre ai medesimi magistrati, non solo per la funzione istruttoria - come aveva già stabilito la circolare Orlando - ma anche per le funzioni requirenti, di spettanza del pubblico ministero. Inoltre i giudizi relativi a questi processi dovevano essere devoluti «ad una speciale sezione permanente, composta, salvo i casi di temporaneo impedimento, sempre dagli stessi magistrati e da un unico pretore o vice-pretore». Si disponeva, infine, che i dibattimenti a carico di imputati minori di diciotto anni dovessero «tenersi in sede separate e lontane dagli edifici in cui si giudicano gli imputati maggiorenni, allo scopo di evitare contatti non giovevoli per i piccoli giudicabili e la loro stessa permanenza negli affollati ambulacri dei palazzi di giustizia». Questa previsione di speciali udienze nelle quali far svolgere, sempre da parte dei giudici ordinari, i dibattimenti riguardanti i minori fu consacrata con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (1 luglio 1931). L'art. 425 prevedeva, infatti, la destinazioni di «speciali udienze per i dibattimenti in cui sono imputati minori di diciotto anni». Questi dibattimenti, quando non erano presenti coimputati maggiorenni, si dovevano svolgere a porte chiuse, salva la possibilità che il presidente del tribunale o il pretore consentissero la partecipazione all'udienza «ai genitori, ai tutori o ai rappresentanti di istituti di assistenza dei minorenni».

Insieme al codice di procedura penale entrò in vigore anche il codice penale, di cui si è già parlato. Qui occorre ricordare che il Codice Rocco delineò una netta distinzione fra i soggetti che si riteneva fossero in condizioni di "normalità biologica e psichica", e quindi imputabili, per i quali la pena aveva una funzione retributiva, e quelli che si trovavano in condizioni di "non normalità biologica e psichica", per i quali, se non era provata in concreto la loro imputabilità, la pena, sotto forma di misura di sicurezza, aveva funzione terapeutica e, soprattutto, di difesa sociale. Nell'area della non normalità biologica e psichica venivano fatti rientrare anche i minori. (55) I minori che, a prescindere dall'età, fossero stati ritenuti non imputabili, qualora fossero stati considerati socialmente pericolosi venivano sottoposti alle misure di sicurezza del riformatorio giudiziario o della libertà vigilata (art. 224 c.p.). Ai minori autori di reati e prosciolti per infermità psichica o per sordomutismo, nei confronti dei quali la pericolosità sociale è presunta, veniva applicata la misura di sicurezza del manicomio giudiziario (art. 222 c.p.). I minori invece ritenuti imputabili e condannati dovevano scontare la pena, fino al compimento dei diciotto anni, «in stabilimenti separati da quelli destinati agli adulti, ovvero in sezioni separate di tali stabilimenti» e a loro veniva «impartita, durante le ore non destinate al lavoro, un'istruzione diretta soprattutto alla rieducazione morale» (art. 142 c.p., abrogato dalla Legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario). La finalità rieducativa è, però, posta come esigenza primaria solo in senso ideologico, dato che poi gli strumenti previsti per raggiungerla hanno caratteristiche opposte a tale finalità.

Una innovazione concreta consiste nell'introduzione, accanto alla previsione della liberazione condizionale (art. 176 c.p.), già prevista dal codice Zanardelli, dell'istituto del perdono giudiziale. Si tratta di una misura applicabile esclusivamente ai minori, che "consiste nella rinuncia da parte dello Stato alla condanna o addirittura al rinvio a giudizio, pur avendo il giudice accertato la responsabilità dell'imputato". (56) Il giudice può utilizzare questa causa di estinzione del reato quando ritiene che il minore, colpevole di un reato per il quale è prevista una pena non superiore a due anni e alla sua prima esperienza penale, si asterrà dal commettere ulteriori reati (art. 169 c.p.). Il ministro Rocco, nella sua relazione al progetto, sottolinea come questo istituto, che rappresenta, in realtà, una deviazione dalla logica del sistema retributivo, sia giustificato dall'intento di «assicurare il trionfo di una più alta esigenza: quella di salvare dalla perdizione giovani esistenze e di favorire in tal modo il progresso civile, rendendo sempre migliori, materialmente e moralmente, le condizioni della convivenza sociale». (57)

Con la Circolare n. 2314 del 26 marzo 1933, il ministro di grazia e giustizia De Francisci dispose che gli stessi criteri organizzativi della circolare Rocco del 1929 venissero attuati «in tutte indistintamente le Corti e le sezioni distaccate di Corte d'Appello del Regno, nonché nei tribunali e nelle preture aventi sedi nei rispettivi capoluoghi». (58) Come rileva Pisani, pur se in questo modo "non si usciva [...] dal criterio secondo cui i «magistrati per minorenni» erano, in sostanza, dei magistrati ordinari di alcune [...] sedi giudiziarie ritenute più importanti", tuttavia "si raccomandava ai Primi Presidenti e ai Procuratori generali delle Corti d'Appello [...] che, nella proposta di nomina, tenessero conto «della assoluta necessità che i magistrati chiamati a giudicare o comunque ad esercitare le loro funzioni nei processi a carico di minorenni» venissero scelti «con la cura più scrupolosa», in base ai requisiti della «speciale preparazione» e delle «particolari attitudini», così da dare «il miglior affidamento di poter espletare il loro mandato con opera assidua e alacre e con piena coscienza della elevatezza della missione ad essi commessa». (59)

Ormai i tempi erano maturi e, finalmente, con il Regio Decreto Legge. n. 1404 del 20 luglio 1934 venne istituito il Tribunale per i Minorenni, sintesi delle diverse prospettive presentate nei precedenti progetti di riforma sopra esaminati. Questo decreto legge rappresentò il primo tentativo di disciplinare in modo sistematico la materia minorile, ma - promulgato in piena era fascista, malgrado che prevedesse un'istituzione di ispirazione eminentemente liberale (60)- in realtà favorì la nascita di un tribunale minorile "più per ragioni di prestigio che di reale presa di coscienza della necessità di promuovere il minore". (61) Il Tribunale per i Minorenni venne istituito quale organo di decisione autonomo, rispetto agli altri tribunali penali e civili, e specializzato, in relazione alle peculiarità della condizione minorile. Originariamente era composto da due magistrati togati e «da un cittadino benemerito dell'assistenza sociale, scelto tra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia» (art. 2). (62) Al tribunale vennero attribuite tre competenze (penale, civile e amministrativa), per cui fin dall'inizio si occupò non solo della delinquenza minorile ma anche del disadattamento. Per quanto riguarda la competenza penale, oltre ad aver garantito ai minori il diritto ad avere un giudice specializzato, furono previste anche particolari norme del procedimento. Mentre poi la competenza civile riguardava l'ambito relativo ai provvedimenti limitativi della patria potestà, la competenza amministrativa era rivolta al minore di diciotto anni che «per abitudini contratte dia prova di traviamento e appaia bisognoso di correzione morale» (art. 25). L'attività amministrativa era un'attività di controllo sociale che, sebbene nelle intenzioni volesse essere meno rigida di quella penalistica, di fatto comportava l'internamento in un riformatorio per corrigendi (art. 27), senza per altro stabilirne la durata. Era stabilito, infatti, che il trattamento del minore finisse quando il ragazzo fosse risultato «non più bisognevole di correzione» o, comunque, aveva raggiunto i ventuno anni (art. 29). Molti ragazzi furono, così, sottoposti a interventi rieducativi coatti anche molto duri, un trattamento che spesso aveva l'effetto di trasformarli da disadattati a veri e propri delinquenti da sottoporre a misure di contenimento più gravi, anche di tipo penale.

Il Tribunale per minorenni nasce caratterizzato "da un'ideologia paternalistica non ancora capace di porsi nell'ottica della tutela e della promozione dei diritti dei minori, primo fra tutti quello all'educazione". (63) L'organo giudicante era visto come strumento necessario di controllo sociale dell'adolescenza, ormai priva delle consuete forme di controllo, quale la famiglia patriarcale-rurale messa in crisi dalla società industriale. La preoccupazione principale era quella di tutelare la comunità, mentre l'effettivo recupero sociale del minore deviante veniva in secondo piano. Il R.D. del 1934 si preoccupò anche di risistemare l'aspetto logistico. Accanto al Tribunale era prevista l'istituzione di un «centro di rieducazione dei minorenni». Il primo decide e il secondo applica le misure sul piano istituzionale. Al centro di rieducazione facevano capo tutta una serie di servizi e istituzioni, quali case di correzione, focolari di semilibertà e pensionati giovanili, gabinetti medico-psico-pedagogici, uffici di servizio sociale per minorenni, istituti di osservazione, scuole laboratori e ricercatori speciali, riformatori giudiziari e prigioni scuola.

1.4. La legge n. 888 del 1956

Benché la periodizzazione della storia dell'evoluzione del diritto minorile vari, emerge sempre una costante: il ruolo significativo svolto dalla Legge n. 888/1956. Come ampiamente riporta Lorena Milani, Sacchetti, ad esempio, distingue l'evoluzione del diritto minorile in tre periodi: il primo, dall'istituzione del Tribunale per i Minorenni nel 1934 all'emanazione della Legge n. 888/56, "caratterizzato dal prevalere del momento penale e repressivo"; il secondo, dalla Legge del 1956 fino alla seconda metà degli anni '60, "contrassegnato dal predominio dell'intervento amministrativo su quello penale"; il terzo, successivo alle importanti riforme degli anni '60-'70, "contraddistinto dall'espansione del momento civilistico in un'ottica prevalentemente 'preventiva'". (64)

In effetti, la devianza minorile è stata caratterizzata fino all'entrata in vigore della legge del 1956 da un'ideologia paternalistica-previdenziale, nel senso che la risposta alla marginalità degli adolescenti prevedeva degli interventi segreganti e fortemente punitivi. Già un piccolo cambiamento si ebbe con la Circolare del Ministero di Grazia e Giustizia n. 1027/2367 del 17 febbraio 1938, la quale, prevedendo soluzioni alternative alla casa di correzione per minori traviati, favorì la nascita di numerose istituzioni private per minori disadattati. Ma sono stati soprattutto l'entrata in vigore della Costituzione e il passaggio da un regime autoritario come quello fascista ad uno Stato democratico ad aprire una crisi in questa ideologia repressiva e a favorire l'affermarsi di un'ideologia di tipo rieducativo: la pena e il controllo sociale dei giovani vennero posti in secondo piano e al centro dell'attenzione fu messa la funzione rieducativa e risocializzante del minore deviante.

Dopo l'istituzione del Tribunale per i Minorenni, il successivo gradino dell'evoluzione del diritto minorile è rappresentato certamente dalla Carta Costituzionale, la quale pone le basi per una più completa considerazione e protezione del minore, ma la vera e propria svolta fu attuata con la Legge n. 888 del 1956 che modificò il Regio Decreto Legge n. 1404 del 1934. Negli anni '50 si stava affermando l'idea che l'assistenza sociale fosse un diritto di ogni cittadino e, quindi, con la Circolare ministeriale n. 3935/2405 del 1 febbraio del 1951, si introdusse la figure dell'assistente sociale anche nel settore del disadattamento minorile, per facilitare il processo di rieducazione. Alla fine del 1954 gli uffici del servizio sociale erano già tredici e gli assistenti sociali una cinquantina, ma per il loro riconoscimento furono necessari ancora due provvedimenti: il D.P.R. n. 153 del 28 giugno 1955, che elencava gli uffici del servizio sociale fra gli istituti del centro rieducazione per minorenni, e la Legge n. 888 del '56, la quale, tra le altre cose, introdusse l'affidamento al servizio sociale tra le misure rieducative. Tra le misure non penali di controllo, accanto all'affidamento del minore al servizio sociale minorile, era previsto il collocamento in una Casa di rieducazione o in un Istituto medico-psico-pedagogico. Le modifiche al R.D.L. del 1934, operate dalla Legge del 1956, introdussero una pluralità di istituzioni rieducative e di servizi per i minori disadattati che consentirono di operare un trattamento più adeguato alla singola personalità e più attento alle cause della condotta trasgressiva del ragazzo. Per poter personalizzare le misure e il trattamento era necessario, ovviamente, capire i bisogni del minore e a questo erano finalizzate le indagini sulla personalità del minore, previste dall'art. 11 del decreto del 1934 all'interno della competenza penale del tribunale ed attribuite al pubblico ministero, ed ora affidate, invece, a un componente del tribunale, a testimonianza di una contaminazione tra le tre aree di competenza del tribunale. Con la nuova legge furono introdotte anche delle sezioni di custodia preventiva presso l'istituto di osservazione, compiendo così un altro passo in avanti rispetto al R.D.L. del '34: quest'ultimo aveva, infatti, già vietato che i minori venissero trattenuti in carcerazione preventiva presso le prigioni ordinarie; la Legge n. 888/1956 andò oltre disponendo che il minore in attesa di giustizia stesse presso l'istituto di osservazione, invece che nel carcere per i minorenni. La Circolare n. 721/3196 del 7 febbraio 1957 affermò che questa modificazione andava ricondotta al principio per cui «non si può presumere l'imputabilità del minore prima che sia stata accertata in sede diagnostica e giudiziaria» e che si riteneva «esigenza di rispetto della sua personalità e, ad un tempo, condizione tecnica per una buona diagnosi, il non aggravare, al di là delle necessità concrete di sicurezza, le tensioni emotive in corso, ma al contrario scaricarle attraverso quelle condizioni ambientali e quel trattamento che un'intelligente pedagogia suggerisce». (65) Ma perché la Legge del 1956 è così importante nella storia dell'evoluzione del diritto minorile? Prima di tutto, perché con essa cambiò l'ottica stessa con cui si guardava al minore deviante. La stessa terminologia usata dimostra questo cambiamento, quando alla definizione di minore «traviato» si sostituisce quella di minore «irregolare nella condotta e nel carattere». L'aggettivo traviato, infatti, oltre a denotare una certa concezione sminuente della personalità del minore e un giudizio di condanna morale, presuppone anche una concezione dell'intervento in termini di correzione. Al contrario, il concetto di minore irregolare nella condotta e nel carattere presume una visione del soggetto in termini di disadattamento e propone un'ideologia rieducativa dell'intervento, cioè un trattamento che guarda al comportamento deviante come sintomo di una patologia individuale. (66) Benché l'intervento penale venga giustificato non più in termini di punizione e di difesa sociale, bensì di rieducazione, "la società italiana credeva ancora saldamente nell'istituzione totale, anche per i minori, e appoggiò l'incremento di questa forma di risposta, anche se non la intese più come espediente di risanamento morale, ma come una misura transitoria finalizzata alla rieducazione". (67)

1.5. Il fallimento della rieducazione

Negli anni '60-'70 questa fiducia nelle istituzioni totali e nella loro capacità di risocializzare e rieducare il minore entrò in crisi: "nella stragrande maggioranza degli istituti un vero trattamento rieducativo non esiste [...]. Invece di un trattamento individualizzato, di cui necessitano i disadattati, viene applicato un trattamento di massa, che umilia l'individuo, lo inimica all'ambiente e, di conseguenza, lo costringe all'antisocialità". (68) La pluralità di istituzioni e organismi rieducativi, creati dalla Legge del 1956 per consentire un trattamento più adeguato alle singole personalità, ebbe scarso successo, perché, nella pratica, la stessa misura fu usata indifferentemente in situazioni soggettive diverse che avrebbero richiesto, invece, differenti trattamenti. Così, ad esempio, negli anni '50-'60 si ebbe un boom delle Case di rieducazione dovuto al fatto che queste non si limitavano più ad accogliere le richieste di internamento dei figli irregolari nella condotta e nel carattere da parte dei padri, come prevedeva l'art. 25 della Legge n. 888 del 1956, ma spesso, soprattutto nel Sud, ospitavano i ragazzi solo perché non avevano una casa in cui abitare e dei genitori che si prendessero cura di loro:

il sistema rieducativo copriva e mistificava ancora, in buona parte, esigenze di carattere assistenziale. Cioè, la presa in carico dei minori da parte delle istituzioni rieducative non era neppure chiaramente motivata da devianze conclamate o da sintomi evidenti di irregolarità della condotta e di disadattamento, ma da gravi carenze o dalla totale mancanza di risposte assistenziali e sociali di tipo primario (famiglia, scuola, enti locali). (69)

In sintesi:

il sistema rieducativi-penale italiano, dopo vari decenni di esistenza e di funzionamento, non ha inciso sulle condizioni di abbandono dei minori, non li ha salvati dai pericoli del traviamento, del disadattamento, della delinquenza, non ha tutelato la loro socializzazione, le loro possibilità di integrazione e di inserimento sociale; tale sistema non ha neppure difeso la società dalla minaccia e dai danni della delinquenza minorile, sia perché non ha prodotto alcuna azione preventiva in tal senso, sia perché non ha rieducato i «minori delinquenti», non li ha corretti, recuperati, riabilitati. (70)

Questo è quanto accaduto, ma quali sono le cause del fallimento della rieducazione? Normalmente i fattori considerati la causa di tale fallimento sono l'insufficienza numerica e l'impreparazione del personale, il sovraffollamento degli istituti e l'inadeguatezza degli ambienti ("soltanto il 23% degli istituti di rieducazione è stato appositamente costruito per i minori, il 77% è costituito da vecchi edifici adattati" (71)). Ma secondo De Leo ragionare in termini di fallimento comporta implicitamente non solo l'adesione agli obiettivi perseguiti con questa politica sociale e istituzionale, ma anche il riconoscimento della validità in sé e per sé dei mezzi previsti per raggiungerli, per cui ciò che si contesta riguarderebbe solo le modalità di funzionamento delle istituzioni. Bisognerebbe, pertanto, andare al di là della logica del fallimento e considerare la politica intrapresa non tanto per gli obiettivi mancati, quanto per gli effetti, soprattutto negativi, realizzati. (72)

È stata proprio la diffusione di nuove teorie che posero l'accento sugli effetti negativi della politica istituzionale, piuttosto che i pessimi risultati riscontrati nella pratica, a fare entrare in crisi il trattamento individualizzato. Sono gli anni in cui Goffman, dopo aver condotto una ricerca in un ospedale psichiatrico, afferma che l'ingresso in un'istituzione totale comporta necessariamente un processo degenerativo e destrutturante dei ruoli e delle immagini che precedentemente si hanno di sé; negli stessi anni Erikson sostiene che l'ingresso in un istituto può essere causa per un minore di una vera e propria crisi di identità, dalla quale si esce con l'attribuzione al ragazzo, da parte dell'istituto, di un'altra identità, propria di un emarginato, di un individuo incapace di avere successo nella vita, di un fallito. Durante il Convegno giovanile della Pro Civitate Christiana, svoltosi ad Assisi nel 1973, Seppilli fece notare che "una serie di ricerche in questi anni sono state condotte per analizzare le condizioni che si determinano nelle istituzioni totali", e che "queste ricerche hanno messo in luce un meccanismo costante in tutte le istituzioni totali: il meccanismo di depersonalizzazione - ossia di privazione delle caratteristiche personali e di forzato adattamento alle condizioni di subalternità, di soggezione e di massificazione, cioè di standardizzazione - degli individui sottoposti alle regole". (73)

La forte critica che, sul finire degli anni '60, investì l'ideologia rieducativa, per la prima volta, provenì non solo dagli ambienti tecnici, ma anche dalla stampa e dall'opinione pubblica. Quello che veniva contestato era il carattere estremamente punitivo del sistema giudiziario minorile, il quale ricorreva, sia attraverso le misure penali che attraverso le misure amministrative, all'internamento in istituzioni chiuse che avevano assunto una funzione di etichettamento, necessaria come rinforzo e consolidamento dell'azione della polizia e della magistratura. (74) In questo modo si ottenne una demistificazione delle istituzioni rieducative, arrivando a sostenere, come si è già detto, che l'affermata finalità rieducativa mascherava un'azione di emarginazione nei confronti dei giovani facenti parte delle classi sociali più basse: "ciò che è stato demistificato è non solo il carattere ovvio di questa istituzione [...], ma soprattutto il suo effetto: è stato smascherato il carattere mistificante della sua strategia ufficialmente dichiarata". (75) La strategia ufficiale a cui si riferisce Seppilli può essere la pena, per cui chi ha violato deve pagare, o l'esempio, cioè il cosiddetto effetto deterrente, o l'isolamento, per cui chi è pericoloso deve essere messo in condizioni da non poter nuocere agli altri, o la rieducazione, secondo la quale chi è deviante ed ha deviato deve essere ricondotto a non deviare più. Ma nonostante questi siano gli obiettivi delle istituzioni totali, la pratica parla chiaro: le istituzioni non rieducano, anzi producono quel processo inverso, di cui si è parlato prima, di depersonalizzazione.

Di fronte a questa presa di coscienza, si affermò un certo orientamento verso la non istituzionalizzazione dei minori: "come sempre, gli oppressi costruiscono, attraverso la presa di coscienza della loro posizione e attraverso la loro organizzazione collettiva, le basi per la loro generale liberazione". (76) Questo movimento anti-istituzionale si manifestò, in Italia, soprattutto nel settore dell'antipsichiatria, cioè nella contestazione dei modi di operare degli ospedali psichiatrici, ma non fu da meno la lotta anticarceraria. A questo fermento culturale ed al movimento anti-istituzionale si contrappose una risposta penale fortemente contenitiva della devianza minorile. Ma, per contrastare questa maggiore severità nella risposta penale nei confronti dei minori autori di reati, iniziò quell'applicazione in senso depenalizzante, cui si è accennato precedentemente, sia dell'art. 98 c.p. sia dell'istituto del perdono giudiziale.

Accanto a questi mutamenti culturali, si ebbero anche importanti innovazioni legislative, come la legge sull'adozione speciale del 1967, la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la riforma penitenziaria sempre del 1975. La legge sull'ordinamento penitenziario, in realtà, non fornì nessuna soluzione al problema della compatibilità tra azione rieducativa e istituti di reclusione, su cui si era incentrato il dibattito di quegli anni. Un'altra novità è rappresentata dal D.P.R. n. 616 del 1977, il quale attuò il processo di decentramento che era stato sancito già con la Legge n. 382 del 1975. Questo decreto trasformò in modo radicale l'organizzazione delle misure amministrative, la cui competenza passò dalla gestione autonoma del Ministero di Grazia e Giustizia a quella dei Comuni (art. 23 lettera c D.P.R. 616). Il decreto rivoluzionò anche il sistema rieducativo, perché, sancendo l'abolizione definitiva delle Case di rieducazione, che si trovavano già in stato di avanzato decadimento, costrinse gli Enti locali a dover affrontare il compito della gestione della devianza giovanile. "Dal D.P.R. in poi - secondo Fernanda Rizzo - si sviluppa un percorso per la giustizia minorile che [...] passa da un iniziale approccio centrato sulla punizione e la pena detentiva, ad una seconda fase orientata all'assistenza ('Welfare'), ad un terzo e più recente orientamento centrato sul trattamento". (77)

1.6. Il Neoclassicismo

Caduta in crisi la prospettiva rieducativa, a causa dei deludenti risultati offerti dall'ideologia terapeutica della criminalità, tornò in luce il problema della responsabilità e del contenuto retributivo della pena. Negli anni settanta e ottanta è emersa una nuova corrente di pensiero, detta "neoclassica", la quale auspica la separazione delle finalità di controllo da quelle di aiuto - entrambe presenti, invece, nel sistema rieducativo -, dal momento che la devianza non sempre richiede interventi terapeutici, di sostegno o di rieducazione, né coincide con la condizione di immaturità del soggetto. Gli adolescenti, secondo gli apporti della psicologia, non sono soggetti privi di capacità di giudizio morale, anzi, hanno coscienza di ciò che fanno, anche se la consapevolezza delle loro azioni è collegata, soprattutto sul piano qualitativo, alla loro età. Secondo De Leo, uno dei più autorevoli esponenti di questo nuovo indirizzo, il problema è proprio questo: "una diversità nelle forme di consapevolezza non significa assenza o diminuzione o distorsione di consapevolezza; non ha quindi rapporto diretto, meccanico, deterministico, con il concetto di imputabilità, con la categoria della capacità di intendere e di volere e neppure con quella della maturità". (78) Alla base di queste idee c'è la convinzione che le norme relative all'imputabilità dei minori si fondino su assunti, quali l'immaturità, ormai ampiamente confutati. Il comportamento deviante non sarebbe appannaggio esclusivo dei giovani che si trovano in situazioni di deprivazione, essendo, in realtà, diffuso tra tutti i ragazzi, a prescindere dal contesto sociale in cui vivono. In particolare, De Leo ha osservato che "un meno completo e coerente stadio di maturazione non rappresenta di per sé una maggiore predisposizione alla devianza" e che, comunque, "anche quando si riscontrano carenze di maturazione e comportamenti devianti nello stesso soggetto, è scientificamente infondato considerare le prime cause dei secondi". (79)

Nell'analisi di De Leo l'imputabilità e l'immaturità non sono questioni scientifiche, ma hanno la stessa natura convenzionale delle leggi, delle regole e dei costumi. Aver associato l'immaturità al reato ha costituito un'operazione non solo scientificamente infondata, ma anche confusionaria, in quanto ha comportato la messa in atto di un intervento basato su false premesse e, di conseguenza, la creazione di istituti rieducativi volti a trattare carenze e bisogni che in realtà non esistono. Aver considerato il minore che delinque semplicemente un immaturo ha voluto dire deresponsabilizzare "tutte le parti in gioco nella giustizia minorile: le istituzioni primarie e secondarie e quindi, in particolare, la famiglia, i giudici, gli operatori e gli stessi minori". (80) La questione sta, invece, nel considerare il minore un soggetto responsabile, perché solo così è possibile dare al minore un'immagine positiva di sé e responsabilizzarlo. Presupporre la responsabilità "in ogni caso e per ogni età significa costruirla socialmente e individualmente, come norma implicita, come regola di base, come aspettativa diffusa, come atteggiamento e capacità sul piano psicologico"; e questo perché la responsabilità non è "un dato istintuale" o "una tappa evolutiva autonoma", ma "un'invenzione culturale, un elemento base del processo di inculturazione delle nuove generazioni". (81) Da questo deriva l'idea che occorre presupporre sempre e comunque la responsabilità del minore: la punizione deve prescindere dalle caratteristiche della personalità del minore per concentrarsi unicamente sul reato, ovvero deve essere irrogata nei confronti di un comportamento non più visto come manifestazione di una personalità deviante, ma solo come fatto da contrastare. Ciò comporta, necessariamente, un ampliamento dell'imputabilità del minore almeno per alcuni reati.

I sostenitori di questa posizione, se da una parte auspicano il ritorno ad una maggiore corrispondenza fra reato e tipo di pena per promuovere la responsabilizzazione del minore, dall'altra sono favorevoli a un'ampia depenalizzazione - per ridurre il contatto dei minori con il mondo della giustizia - e ad una più marcata distinzione tra interventi di aiuto e di sostegno e interventi sanzionatori. Questo si traduce nella richiesta di trasformazione dell'attuale sistema sanzionatorio, da attuarsi soprattutto attraverso la creazione di misure penali alternative alla detenzione.

Come hanno rilevato Bandini e Gatti, questo dibattito ha avuto il merito "di chiarificare alcuni termini del problema che in passato erano stati spesso offuscati dalle prospettive unilaterali e acritiche della rieducazione". (82) Ma lo stesso Gatti ritiene che se, da un lato, "l'attribuzione di un nuovo significato positivo alla pena dovrebbe indurre in alcuni operatori e in una parte dell'opinione pubblica una maggiore consapevolezza sulle responsabilità sociali che si hanno nei confronti dei giovani", (83) dall'altro, l'ampliamento dell'imputabilità del minore potrebbe, di fatto, condurre a risvolti reazionari e maggiormente repressivi e punitivi, soprattutto nei confronti dei giovani "maggiormente deprivati da un punto di vista sociale ed economico", (84) facendo crescere in modo considerevole il numero di carcerazioni: "è vero, infatti, che i fautori del nuovo orientamento richiedono punizioni diverse dal carcere, ma ciò appare, a breve termine, di difficile realizzazione e vi è il rischio che un programma basato sulla valorizzazione della pena venga utilizzato all'interno di un'ideologia di tipo reazionario". (85) Secondo l'analisi di Gatti:

la pena può essere considerata inevitabile, per motivi di convivenza sociale, ma difficilmente se ne intravede un effetto positivo diretto per il soggetto che vi è sottoposto. Oltre tutto il fatto di puntare su una funzione positiva della pena suona particolarmente stridente in un paese come l'Italia, ove i minori sono sottoposti a un regime detentivo del tutto inumano, privo di rispetto per i loro diritti, distorto nei suoi aspetti processuali e incapace, ormai da decenni, di una seppur minima evoluzione. (86)

L'obiettivo sembra, quindi, quello di ridurre al massimo il ricorso al sistema penale, senza però ricadere nel sistema rieducativo.

2. L'affermazione internazionale dei diritti del minore

La previsione di una soglia minima di età, la differenziazione del trattamento nel processo e nel sistema sanzionatorio tra minori e adulti, nonché la specializzazione dell'organo giudicante costituiscono ormai punti fermi della cultura minorile, entrati a far parte anche della normativa internazionale.

I primi passi a livello internazionale verso un nuovo modo di concepire il minore come soggetto di diritti sono stati mossi nel 1912, quando durante una Conferenza di diritto privato tenutasi all'Aja fu approvata una Convenzione sulla tutela del minore, e nel 1913, anno in cui una Conferenza internazionale per la protezione dell'infanzia svoltasi a Bruxelles promosse la cooperazione internazionale in questo settore.

La prima guerra mondiale interruppe, però, questo processo di rinnovamento in campo minorile, che fu ripreso alla fine della guerra con ancora più forza, soprattutto grazie all'intervento dell'OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro). (87) Tale organizzazione, nel 1919, fissò l'età minima per accedere al lavoro nelle industrie a 14 anni e vietò il lavoro notturno per i minori di diciotto anni.

Ma il documento che rappresenta "la chiave di volta che rovesciò completamente la vecchia logica che aveva finora costituito la base dei precedenti ordinamenti giuridici" (88) è, senza dubbio, la «Dichiarazione dei diritti del fanciullo», nota come la Dichiarazione di Ginevra, approvata dalla Società delle Nazioni il 24 settembre 1924. Con questo documento vengono, per la prima volta, affermati alcuni diritti fondamentali, tra i quali quello di avere un processo formativo normale che metta il fanciullo nelle condizioni di poter sviluppare a pieno le sue potenzialità (art. 1).

La seconda guerra mondiale provocò un nuovo arresto dei lavori ma, allo stesso tempo, portando all'esasperazione anche i problemi della condizione minorile, fu la causa di un mutato interesse nei confronti del minore.

Nel 1948 fu approvata la «Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo», con la quale si riconoscevano nuovi diritti quali, ad esempio, quelli al lavoro, alla salute e al riposo, senza, però, dedicare molta attenzione alla questione minorile. Nella Dichiarazione sono tuttavia contenuti alcuni principi i quali, benché non espressamente rivolti ai minori, sono ad essi direttamente collegati. In particolare, si può richiamare l'art. 1 che afferma l'uguaglianza e la libertà degli esseri umani tutti, a prescindere dall'età, e l'art. 26 che, configurando il diritto all'istruzione come strumento per il raggiungimento del pieno sviluppo della persona umana, si rivolge specificatamente ai minori. (89) Sempre nel 1948 il Consiglio generale dell'Unione internazionale della protezione dell'infanzia approvò un'integrazione alla Dichiarazione del '24, nella quale si affermava il diritto del bambino ad essere protetto indipendentemente dalla razza, dalla nazionalità e dalla fede (art. 1), si sanciva il diritto del fanciullo ad essere aiutato nel rispetto dell'integrità della famiglia (art. 2), e si stabiliva il principio di rieducazione del bambino "deficiente" o "disadattato" (art. 4).

Il 20 settembre 1959 si giunse, dopo una lunga fase di elaborazione iniziata nel 1950, alla approvazione della nuova «Dichiarazione sui diritti del fanciullo».

In seguito sono stati emanati altri importanti documenti, alcuni specifici ed altri no, ma l'affermazione, a livello internazionale, dei principi essenziali nell'ambito della materia minorile ha trovato esplicito riconoscimento nelle «Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile», approvate al IV Congresso delle Nazioni Unite nel novembre del 1985. Queste cosiddette «Regole di Pechino», che costituiscono peraltro la fonte più prossima alla quale si è ispirato il nostro processo minorile, contengono una serie di significative enunciazioni, tra le quali possiamo ricordare le seguenti:

  1. «in quei sistemi giuridici che riconoscono la nozione di soglia della responsabilità penale, tale inizio non dovrà essere fissato ad un limite troppo basso, tenuto conto della maturità effettiva, mentale ed intellettuale» (art. 4);
  2. «un minore è un ragazzo o una giovane persona che, nel rispettivo sistema legale, può essere imputato per un reato, ma non è penalmente responsabile come un adulto» (art. 2.2.a);
  3. «il sistema di giustizia minorile deve avere per obiettivo la tutela del giovane ed assicurare che la misura adottata nei confronti del giovane sia proporzionale alle circostanze del reato e all'autore dello stesso» (art. 5);
  4. «devono essere assicurate sempre garanzie procedurali di base [...]» e «nessuna disposizione di queste regole deve essere interpretata come preclusiva della possibilità di applicare ai giovani le regole minime delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti e le altre regole relative ai diritti dell'uomo» (artt. 7 e 9).

Le «Regole di Pechino» sono il frutto di un compromesso tra varie filosofie di intervento penale sul minore deviante, esistenti nel panorama mondiale. In particolare, il documento risente di almeno tre diversi modelli di giustizia minorile:

a) un modello fondato sulla garanzia giurisprudenziale, che ponga il minore sotto la protezione di norme legali e su garanzie nei confronti del minore coinvolto in una procedura giudiziaria; b) un modello protettivo, fondato sul principio parens patriae, volto ad assicurare al minore in contatto con la giustizia la giusta protezione sociale ed economica; c) un modello cosiddetto "partecipativo", secondo il quale la giustizia per i minori esige la partecipazione attiva della collettività per limitare il disadattamento minorile; tale modello prevede l'inserimento dei giovani emarginati o delinquenti nella società e la riduzione al minimo dell'intervento formale del giudiziario nei confronti del minore. (90)

Successivamente anche il Consiglio Europeo ha redatto una Raccomandazione sulle risposte sociali alla delinquenza minorile (R(87)20, Strasburgo, 17 settembre 1987).

Il 20 settembre del 1989 è stata, inoltre, approvata la Convenzione dell'ONU sui diritti del bambino, (91) la quale ha valore vincolante per gli Stati che l'hanno ratificata. Le principali idee-forza espresse nel documento, il quale consta di 54 articoli, sono: "il riconoscimento della famiglia come ambiente primario di sviluppo per il minore; l'identificazione del bisogno del minore ad essere educato ed aiutato a vivere nella società; la dichiarazione che il minore è portatore e titolare di tutti i diritti civili e sociali riconosciuti all'uomo; il riconoscimento della necessità di tutelare situazioni particolari che possono creare svantaggio o disagio nel soggetto in età evolutiva". (92) In particolare presenta un certo rilievo l'art. 37, il quale stabilisce che il minore non può essere soggetto né a pena capitale né all'ergastolo; il bambino, inoltre, non può essere privato della sua libertà in modo arbitrario o illegale e, qualora sia privato della libertà, deve essere trattato con umanità e nel rispetto della dignità della sua persona e secondo condizioni adeguate alla sua peculiare situazione di soggetto in età evolutiva; pertanto deve essere tenuto separato dagli adulti. Infine, l'intervento penale nei confronti dei minori deve avere principalmente obiettivi educativi tesi alla promozione della sua persona e del senso della sua dignità e del suo valore. Con questa Convenzione si è provveduto anche all'istituzione di un organismo di controllo, il quale ha il compito di sorvegliare e garantire il rispetto dei diritti dei bambini da parte degli Stati ratificanti.

Nell'ambito del VIII Congresso ONU sulla prevenzione dei reati e sulla protezione del minore, nel 1990 si è giunti all'elaborazione delle Direttive delle Nazioni Unite per la prevenzione della delinquenza minorile (Direttive di Riyadh), ed è stato disposto un Regolamento delle Nazioni Unite per la protezione dei minori deprivati delle loro libertà. Si tratta di due documenti che si pongono in linea con quanto già espresso nelle «Regole minime di Pechino» e nella Convenzione dell'ONU del 1989 sui diritti del bambino, ma che hanno una certa importanza per aver evidenziato delle specifiche linee programmatiche di intervento per le politiche degli Stati.

Concludendo, possiamo dire che, in questi ultimi anni,

il diritto internazionale ha promosso una cultura dell'infanzia fondata sull'affermazione della dignità dell'essere in ogni età e in ogni condizione e ha favorito lo sviluppo di linee direttive per gli interventi a tutela e a promozione del minore. Nell'ambito della devianza minorile, ha accentuato la necessità di tener conto anche qui del maggiore «interesse del minore», riconducibile, primariamente, al diritto all'educazione quale premessa al pieno sviluppo di una personalità armonica, e ha predisposto gli indirizzi per una più equa e calibrata giustizia nelle direzioni principali del garantismo, del minimalismo e della depenalizzazione. (93)

Note

1. Appunti di storia del diritto italiano, raccolti alle lezioni del prof. Vincenzo Mancini dagli studenti Leonello d'Aloja e Dante Gaeta, Cedam, Padova 1932, p. 74.

2. Sull'argomento vedi Ignazio Baviera, Diritto minorile, II, Giuffrè, Milano 1976, p. 31.

3. Sul tema: Mario Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Giuffrè, Milano 1990, p.156; Alberto Burdese, voce Età (dir. rom.), in Enc. dir., XVI, 1967, p. 79.

4. Il codex ha abolito la distinzione che veniva fatta nell'antico diritto tra due specie di impuberi, quelli proximi infantiae e quelli proximi pubertati, e ha stabilito espressamente al can. 2204 che la loro responsabilità, sia morale che penale, sussiste sicuramente una volta raggiunto l'usus ragionis col settennio; ma tale responsabilità deve giudicarsi attenuata «eoque magis quo ad infantiam proprius accedit» e che pertanto, benché sottoposti alle leggi ecclesiastiche, anche negli effetti penali, devono essere risparmiate loro censure e pene vendicative più gravi, a favore di punizioni educative (Pietro Agostino d'Avack, voce Età (dir. can.), in Enc dir., XVI, 1967, p. 100).

5. Si veda: Vincenzo Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. II, Utet, Torino 1981, p. 75-76; Ugo Gualazzini, voce Età (dir. interm.), in Enc. dir., XVI, 1967, p. 84.

6. Baviera ricorda a questo proposito "le sentenze dell'Old Bailey (la Corte centrale criminale di Londra) che nel 1833 condannava un ragazzo di nove anni «ad essere appeso al collo fino alla morte» perché responsabile di aver sfondato con un bastone una vetrina; la sentenza di una corte inglese del 1899 che condannava ai lavori forzati due ragazzi, di undici e tredici anni, per aver danneggiato una porta". (I. Baviera, Diritto minorile, cit., p. 166).

7. Gian Paolo Meucci, Repressione e comunità: esperienze di un giudice dei minori, in AA. VV., Minori in tutto. Un'indagine sul carcere minorile in Italia, Atti del Convegno giovanile Pro Civitate Christiana, Assisi 27-31 dicembre 1973, Emme Edizioni, Milano 1974, pp. 58-59.

8. Alfredo Carlo Moro, I diritti inattuati del minore, La Scuola, Brescia 1983, pp. 31-54.

9. Lorena Milani, Devianza minorile, Vita e pensiero, Milano 1995, pp. 140 e 164.

10. Ivi, pp. 136-137.

11. Philippe Ariès, Padri e figli nell'Europa medievale e moderna, Laterza, Bari 1981, p. 483.

12. Jean Pierre Gutton, La società e i poveri, Mondatori, Milano 1977, pp. 99-125.

13. G. De Leo, La giustizia dei minori. La delinquenza minorile e le sue istituzioni, Einaudi, Torino, 1981, p. 29.

14. B. Ballavate, L'adolescenza nella storia, in AA. VV., La condizione giovanile, Cooperativa centro di documentazione, Pistoia 1939, p. 124.

15. Vanna Nuti, Discoli e derelitti. L'infanzia povera dopo l'Unità, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 99.

16. Ivi, p. 100.

17. L. Milani, op. cit., p. 143.

18. Il testo integrale del Motu proprio è riportato in Riv dir. penit., 1934, II, p. 786.

19. Ivi, p. 787.

20. Gaetano De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 33.

21. R. Villa, Il deviante e i suoi segni Lombroso e la nascita dell'antropologia criminale, Franco Angeli, Milano 1985, p. 24.

22. L. Milani, op. cit., p. 53.

23. M. Beltrani-Scalia, La riforma penitenziaria in Italia, Giunti Martello, Roma1879, pp. 328 e ss.

24. L. Milani, op. cit., pp. 147- 152.

25. V. Nuti, Discoli e derelitti, cit., p. 113.

26. L. Milani, op. cit., pp. 153-154.

27. Jack Wright, Ralph James, Trattamento e prevenzione della devianza minorile. Un approccio comportamentale, Giuffrè, Milano 1982, pp. 78-79.

28. In Europa il primo Stato ad avere istituito un tribunale per i minorenni è stato, nel 1912, il Belgio; seguirono poi la Francia nello stesso anno, l'Olanda nel 1921 e la Germania nel 1922.

29. Fanny Dalmazzo, La tutela sociale dei fanciulli abbandonati o traviati, F.lli Bocca, Milano-Torino-Roma 1910, pp. 97-101.

30. Da un'indagine condotta dalla Società delle Nazioni, nel 1931 ben trenta Stati avevano già provveduto all'istituzione di un tribunale per i minorenni (I. Baviera, Diritto minorile, cit., p. 171).

31. Art. 222 del Codice Civile del Regno D'Italia del 1865.

32. M. Beltrani-Scalia, La riforma penitenziaria in Italia, Giunti Martello, Roma1879, p. 332.

33. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 37.

34. Ivi, p. 41.

35. Legge sulla pubblica sicurezza del 30 giugno 1889, Regi Decreti 8 novembre 1889, 19 novembre 1889, 12 gennaio 1890, Pietrocola, Napoli 1908.

36. Questi istituti privati, che erano soprattutto religiosi, ma ve ne erano anche di laici, si distinguevano per il fatto di risultare ispirati a principi più umanitari rispetto a quelli governativi (V. Nuti, Discoli e derelitti, cit., p. 100).

37. L. Milani, op. cit., p. 157-158.

38. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 42-45.

39. Cioè, entro i limiti di pena aumentati del doppio rispetto a quelli previsti in linea generale, di sei mesi.

40. Mario Pisani, Il Tribunale per i minorenni in Italia, in Ind. pen., 1972, p. 233.

41. O. Quarta, L'incremento e il trattamento della delinquenza dei minori, in Sc. pos., 1908, pp. 5-7.

42. Luisa De Cataldo Neuburger, Analisi storico giuridica del sistema e del processo penale minorile, in Nel segno del minore (a cura di L. De Cataldo Neuburger), Cedam, Padova 1990, p. 16.

A questo proposito De Leo mette in evidenza la "coincidenza [...] fra la creazione delle nuove forme istituzionali per il controllo di nuove categorie di giovani e l'aumento progressivo dell'allarme sociale rispetto al fenomeno della delinquenza minorile": la società si sarebbe preoccupata per i minori abbandonati, vagabondi, prostituti, discoli, ladri, ecc., ma "con l'istituzionalizzazione di queste categorie di minori, la preoccupazione diventa allarme e l'oggetto di tale allarme si definisce direttamente e semplicemente in termini di delinquenza". Così la delinquenza aumentava "sia perché veniva vista aumentare a causa dell'ottica che era stata adottata, sia perché veniva fatta aumentare a causa della politica istituzionale che era stata scelta" (G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., pp. 45-46).

43. Il testo della circolare è riportato in G. Novelli, Note illustrative del regio decreto 20 luglio 1934, n. 1404, su l'istituzione e il funzionamento del Tribunale per i minorenni, in Riv. dir. penit., 1934, II, p. 802.

44. Per sottolineare l'importanza di una magistratura per i minori, Pisani fa notare come, nel corso dei lavori preparatori del progetto Quarta, si sia posto l'accento sul peso dei metodi processuali ordinari sul fenomeno della delinquenza minorile, "dal momento che «il minorenne viene sottoposto alla giurisdizione dello stesso giudice, che deve valutare la responsabilità dei delinquenti di età maggiore, ed esposto ad un apparato esteriore e a solennità di forme, che lasciano nell'animo di lui profonde e funeste impressioni». Per converso «l'istituzione di una magistratura speciale» veniva definita «condizione necessaria per informare ad un concetto razionale e concreto il trattamento della delinquenza dei minorenni" (M. Pisani, Il Tribunale per i minorenni in Italia, in Ind. pen., 1972, p. 235).

45. Circolare del Ministro della Giustizia V.E. Orlando, in Riv. di dir. penit., 1934, II, p. 802. Cfr. I. Baviera, Diritto minorile, Giuffrè, Milano1976, p. 172-173.

46. D. Izzo, Il trattamento dei minorenni delinquenti dalla circolare Orlando al progetto Ferri, in Rass. studi penit., 1957, p. 170.

47. Cfr. I. Baviera, Diritto minorile, cit., p. 173-176.

48. Tra gli altri, si può menzionare a titolo di esempio il "I Congresso internazionale per l'infanzia", tenutosi a Firenze nell'ottobre del 1896 su iniziativa di Adolfo Scander Levi, fondatore anche di un'associazione per l'infanzia (V. Nuti, Discoli e derelitti, cit., p. 132-138).

49. L. Milani, op. cit., p. 160, dove viene riportata anche la posizione critica di Gian Paolo Meucci nei confronti delle vere motivazioni che presiedettero alla costituzione del giudice dei minori: "nessuno, salvo qualche pia dama della San Vincenzo, può accettare l'idilliaca presentazione delle motivazioni che presiedettero alla costituzione del giudice dei minori, per le quali solo il desiderio di essere amorevolmente vicini ai bisogni dei ragazzi, di mitigare l'asprezza delle pene, di evitare loro il carcere o addirittura la pena di morte, sarebbero stati presenti nei sostenitori del movimento che condusse alla costituzione di tale giudice [...]. Un tale peccato di origine presiede ad un'istituzione che assunse aspetti di repressività mistificati dalla volontà di un 'far bene' ai ragazzi che poi era un far bene all'adulto e alla sua struttura sociale nella quale i rapporti di potere esistenti imponevano condizionamenti crescenti".

50. Ivi, p. 161.

51. Relazione al progetto Ferri, in Riv. dir. penit., 1934, II, p. 808.

52. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 50.

53. Circolare del Ministro Guardasigilli Rocco, n. 2236, del 22 settembre 1929, in Boll. Uff. del Ministero della Giustizia e degli Affari di culto, 1929, p. 766.

54. «La istituzione dei magistrati per i minorenni viene limitata ai principali centri urbani, giacché è noto che il fenomeno della delinquenza minorile è quasi esclusivamente delle città [...]. Ciò non esclude che anche negli altri centri giudiziari, i presidenti delle Corti d'appello, dei tribunali e i pretori, debbano curare di destinare per i minorenni, volta per volta, speciali udienze, anticipando, così, l'attuazione della già menzionata norma del progetto del nuovo codice di rito penale» (Alfredo Rocco, ivi, p. 766).

55. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., pp. 52-53.

56. F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova 1992, p. 842.

57. Relazione ministeriale sul progetto definitivo di un nuovo codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, 1929, p. 220.

58. Boll. Uff. del Ministero di Grazia e Giustizia, 1933, p. 234.

59. M. Pisani, Il Tribunale per i minorenni in Italia, in Ind. pen., 1972, p. 240.

60. S. Di Nuovo, G. Grasso, Diritto e procedura penale minorile, Milano 1999.

61. L. Milani, op. cit., p. 162.

62. Nel 1956, con la legge n. 1441, fu modificata la composizione dell'organo giudicante, perché si ritenne necessario affiancare al privato cittadino, di sesso maschile, una donna, ricreando in qualche modo la compagine genitoriale. Questo comportò che il collegio di primo grado fosse composto da quattro membri, numero che non consentiva la formazione numerica di una tesi di maggioranza. Ma di questo i legislatori non si preoccuparono, perché quello che più premeva era l'idea di riprodurre nell'organo giudicante l'atmosfera della famiglia, fondata anche sulla complementarietà tra la psicologia tipica dei due sessi. Cfr. J. Watson, Il fanciullo e il magistrato, Garzanti, Milano 1950, p. 20.

63. L. Milani, op. cit., p. 163-164.

64. Ivi, p. 179.

65. Circolare 7 febbraio 1957, n. 721/ 3196.

66. Tamar Pitch, Responsabilità limitate, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 122-123.

67. G. De Leo, M.P. Cuomo, La delinquenza minorile come rappresentazione sociale, Marsilio, Venezia 1983, pp. 67-68.

68. G. Senzani, L'esclusione anticipata, Jaca book, Milano 1970, p. 463: "negli istituti i minori sono divisi in gruppi di 20/30 ragazzi [...], affidati [...] ad un solo agente [...] per cui, di fatto, è impossibile il trattamento rieducativo".

69. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., pp. 14-15.

70. Ivi, p. 62.

71. G. Senzani, L'esclusione anticipata, cit., p. 464.

72. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 62.

73. Tullio Seppilli, Devianza e controllo sociale, in Minori in tutto, Emme Edizioni, Milano 1974, pp. 22-23.

74. Tullio Bandini, Uberto Gatti, Il controllo sociale dei giovani, in Giovani, responsabilità e giustizia (a cura di Gianluigi Ponti), Giuffrè, Milano 1985, p. 90.

75. T. Seppilli, Devianza e controllo sociale, in Minori in tutto, cit., p. 23.

76. Ivi, p. 25.

77. Fernanda Rizzo, Adolescenze al limite, Pensa Multimedia, Lecce 1999, p. 36.

78. G. De Leo, Azione deviante, responsabilità e norma: proposta per un nuovo schema concettuale, in De Leo (a cura di), L'interazione deviante. Per un orientamento psicosociologico al problema norma-devianza e criminalità, Giuffrè, Milano 1981, p. 12.

79. G. De Leo, La natura del rapporto tra giovani e istituzioni nella legislazione penale minorile, in Dei delitti e delle pene, 1983, 2, p. 239.

80. Ibidem.

81. G. De Leo, Azione deviante, responsabilità e norma: proposta per un nuovo schema concettuale, cit., p. 19.

82. Tullio Bandini, Uberto Gatti, La minore età, in Guglielmo Gulotta (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria, Giuffrè, Milano 1987, p. 878.

83. Uberto Gatti, I diritti del minore nell'ambito penale, in G.B. Traverso (a cura di), Criminologia e psichiatria forense, Giuffrè, Milano 1987, p. 490.

84. Ivi, p. 491.

85. Ivi, p. 489.

86. Ibidem.

87. G. Conetti, Le fonti internazionali, in P. Cendon (a cura di), I bambini e i loro diritti, Il Mulino, Bologna 1991, p. 33.

88. L. Milani, Devianza minorile, cit., p. 167.

89. Maria Rita Saulle, Le dichiarazioni internazionali a tutela dei minori e il progetto di Convenzione sui diritti del bambino, in Il bambino incompiuto 1989, I, pp. 7-9.

90. Gilda Scardaccione, Una strategia di intervento per la prevenzione e la tutela dei diritti del minore, in Esperienze di giustizia minorile 1986, 1, pp. 9-10.

91. Con il termine «bambino», ai sensi della Convenzione, ci si riferisce ad «ogni essere umano al di sotto del diciottesimo anno di età a meno che, secondo le leggi del suo paese, non abbia raggiunto prima la maggiore età».

92. L. Milani, Devianza minorile, cit., pp. 174-175.

93. L. Milani, op. cit., p. 178.