ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo II
L'imputabilità nel diritto italiano

Laura Basilio, 2002

Imputato, ascolta,
noi ti abbiamo ascoltato.
Tu non sapevi di avere una coscienza al fosforo
piantata tra l'aorta e l'intenzione.
Noi ti abbiamo osservato dal primo battere del cuore
fino ai ritmi più brevi dell'ultima intenzione,
quando uccidevi... Fabrizio De André

1. L'imputabilità nella codificazione penale italiana

1.1. Il Codice Zanardelli

L'elemento dell'imputabilità trova espresso riconoscimento solo con il progetto di codice penale presentato alla Camera nel 1887 dal guardasigilli Zanardelli; infatti, come ricorda il Manzini, (1) il precedente progetto di codice penale del 1883, dello stesso Zanardelli, non conteneva una disposizione generale sulla imputabilità.

Il codice penale del 1889, con il quale si rispondeva, in seguito alla nascita del regno italiano nel 1861, alla necessità di una legislazione penale unica per tutta l'Italia, contiene molteplici innovazioni, importanti e moderne, che lo fecero apprezzare non solo nel nostro paese ma anche all'estero. Secondo il Ghisalberti il nuovo codice penale era "veramente moderno nella sua struttura e nelle sue norme e non solo per la soppressione della pena di morte" - questione che aveva maggiormente ostacolato l'unificazione effettiva della legislazione penale, che doveva scegliere se ripristinare la pena di morte in Toscana o abolirla nel resto d'Italia - "ma anche, e forse soprattutto, per le soluzioni che prospettava ai più discussi problemi del diritto penale". (2) E tra questi vi era, senza dubbio, la questione dell'imputabilità, da sempre al centro di dibattiti dottrinali e unanimemente considerata uno dei nodi principali del diritto penale. Uno dei maggiori pregi del progetto dello Zanardelli è proprio quello di avere previsto l'elemento morale - avendone intuita l'importanza - accanto alla esecuzione materiale del fatto ai fini della dichiarazione di colpevolezza, secondo la convinzione ormai comune "che la sola esecuzione materiale del fatto non possa ritenersi sufficiente per dichiarare l'autore medesimo colpevole di un reato ed assoggettarlo alla sanzione penale corrispondente". (3)

Per quanto concerne la questione del fondamento dell'imputabilità penale, sebbene secondo il Ghisalberti il progetto dello Zanardelli risultasse "estremamente concreto nella sua impostazione, e pertanto non riconducibile [...] ai dettami e ai principi di una singola scuola", (4) la prima parte dell'articolo 46 - nella stesura progettuale (5)-sembra in realtà ispirata alla tesi "che fa consistere il cardine dell'imputabilità nella volontarietà del fatto, indipendentemente dal libero arbitrio", (6) cioè che fa proprie le conclusioni di quella posizione dottrinale intermedia tra i deterministi e gli indeterministi. E proprio perché si ammetteva che in certi casi "nell'azione od omissione stessa, sebbene sia opera di un uomo, ed anche fuori dell'ipotesi dell'errore di fatto, può non concorrere la volontà", (7) il legislatore ritenne necessario stabilire le circostanze in presenza delle quali potesse e dovesse risultare esclusa o diminuita l'imputabilità dell'autore materiale del fatto, senza lasciare che la determinazione delle stesse fosse rimessa alla dottrina. (8)

Sotto il profilo della struttura, la formula accolta dal progetto definitivo del codice penale (9) risulta essere il frutto tormentato di una scelta a favore del sistema analitico, che il ministro Zanardelli difendeva, sostenendo che "il pregio di una legge non è quello di aver una veste scientifica, sebbene di nulla disporre che sia contrario alla scienza, e di coordinare le proprie disposizioni ai postulati di questa, purché ciò sia fatto nel modo più pratico e più intelligibile". (10) Si preferiva cioè dare una definizione, seppur minima, dei disturbi psichici in grado di escludere l'imputabilità, piuttosto che ricorrere ad una formula generale - quale ad esempio quella prevista dal codice penale toscano (11)- "intesa a fissare solo sinteticamente gli estremi della morale imputabilità, senza indicare specificatamente alcuna delle cause concrete che ne inducono l'esclusione o la diminuiscono". (12) I motivi di una scelta simile devono essere ravvisati nella considerazione che, sebbene una maggiore genericità ha l'indubbio vantaggio "di evitare incomplete specificazioni", il metodo analitico consente, con l'indicazione delle cause escludenti o diminuenti, di allontanare "il pericolo che le disposizioni della legge siano estese oltre i giusti confini e che sia attribuito un effetto dirimente alle umane passioni, le quali [...] sono sempre un coefficiente inevitabile delle umane determinazioni". (13) Secondo la Bertolino il metodo analitico, da una parte, riuscirebbe a "garantire un'applicazione delle norme più trasparente e certa, anche nel caso in cui l'evoluzione della scienza non fosse lineare e univoca" e, dall'altra, avrebbe "una maggiore idoneità a definire, delimitandoli, gli spazi di operatività della disciplina della non imputabilità per vizio di mente". (14)

Sulla base di considerazioni simili, l'art. 47 del progetto dello Zanardelli (15) prevedeva nozioni sintetiche, per evitare un'elencazione troppo casistica, ma specifiche quali quelle di "stato di deficienza o di morbosa alterazione di mente". Però la Commissione di revisione, accogliendo la proposta fatta dalla Commissione del Senato, preferì utilizzare la formula ancora più sintetica di "infermità di mente", formula poi accolta nel codice (16) - nonostante le perplessità manifestate al riguardo dal Ministro Zanardelli (17)- perché si ritenne che nel concetto di deficienza poteva venir erroneamente ricondotto "anche lo stato di sonno, che, in quanto mancanza di volontà degli atti compiuti da chi è addormentato, andava ricondotto all'articolo precedente relativo all'elemento soggettivo del reato". (18) Nel testo originario dell'art. 47, inoltre, si era ritenuto necessario specificare che tale anomalia dovesse dipendere "da uno stato psichico tale da togliere la coscienza dei propri atti o la possibilità di operare altrimenti", (19) cioè tale da eliminare la capacità di intendere e di volere, non essendo ogni turbamento idoneo ad escludere l'imputabilità. Ma anche questa espressione fu modificata, sostituendo nel testo definitivo le parole "possibilità di operare altrimenti" con quelle ritenute più efficaci e concrete di "libertà dei propri atti". E anche questa volta la decisione incontrò l'opposizione del guardasigilli, preoccupato che una tale formula potesse essere intesa come libero arbitrio, principio oggetto di accese controversie e come tale ritenuto, sulla scia degli insegnamenti di Kant, inidoneo a costituire la base sulla quale innalzare un edificio legislativo. (20)

Ma i conflitti più aspri emersero riguardo al trattamento dei soggetti ritenuti non imputabili. La formula originaria del progetto Zanardelli (21)- che prevedeva il ricovero del soggetto in manicomio criminale o comune, su ordine del giudice - non fu, infatti, accolta da nessuna delle Commissioni parlamentari, per paura che, in questo modo, si attribuisse al magistrato un arbitrio troppo ampio. Queste, infatti, sostituirono la formula ministeriale con altra che prevedeva la consegna dell'imputato assolto, ritenuto pericoloso, all'Autorità amministrativa. Ma, come giustamente fece osservare Zanardelli, "pare che, il rimettersi all'arbitrio dell'Autorità amministrativa per isfuggire quello del giudice, sia proprio uno sfuggir l'acqua sotto le grondaie". (22) Il risultato - considerato uno dei più grandi errori della nostra legislazione penale - fu l'attribuzione al giudice solo della possibilità di ordinare la consegna del soggetto all'autorità competente, nel caso in cui la sua liberazione fosse ritenuta pericolosa. (23) Questo generico affidamento all'autorità competente - che si traduce, di fatto, nel ricovero in manicomio comune - sollevò il disappunto dei positivisti, fermi fautori dell'idea che solo i manicomi criminali potessero costituire una soluzione efficace al problema. Tuttavia, la scelta del legislatore faceva parte del più ampio progetto di "realizzazione del modello di diritto penale teorizzato dalla Scuola classica", (24) di cui il Codice Zanardelli costituisce appunto il risultato; per cui le proposte elaborate e avanzate dalla Scuola positiva non venivano prese molto in considerazione, mentre costituirono preziosi suggerimenti per la redazione del successivo codice penale, il Codice Rocco.

Il settore, forse, nel quale è maggiore l'influenza della Scuola positiva è quello minorile. Il principio del discernimento del minore al momento della commissione del fatto, come criterio in base al quale si stabiliva l'imputabilità, è frutto, infatti, delle elaborazioni della Scuola positiva, legata all'idea della necessità di individualizzare le pene, attraverso l'instaurazione di un sistema penale incentrato più sull'esame del soggetto che del reato. Se quindi al Codice Zanardelli "fu fatta l'accusa di non aver tenuto in adeguata considerazione la personalità del delinquente", bisogna però "riconoscere che per quanto riguarda i minori, avuto presente lo stato della dottrina nel tempo in cui quel codice fu promulgato, lo sforzo del legislatore di adeguare la sanzione penale allo sviluppo psichico del minore fu notevole". (25) Il Codice Zanardelli, il codice unitario, presentava, riguardo alla questione dell'imputabilità minorile, delle differenze rispetto sia al codice sardo che a quello toscano. Il codice sardo prevedeva all'art. 88 che il minore di quattordici anni, che avesse agito senza discernimento, non fosse passibile di pena e che, in caso di delitto o di crimine, l'autorità giudiziaria potesse decidere a sua discrezione di consegnarlo ai genitori o ricoverarlo in uno stabilimento pubblico di lavoro. Il codice toscano, invece, prevedeva l'assoluta non imputabilità per i fanciulli minori di dodici anni. (26)

Innanzitutto, bisogna ricordare che il codice penale del 1889 fissava, su proposta delle Commissioni della Camera e del Senato, la maggiore età, ai fini penali, a ventuno anni, come già disponeva il codice sardo. Il progetto originario prevedeva, invece, il raggiungimento della maggiore età a diciotto anni, sull'esempio delle legislazioni straniere e dello stesso codice toscano. (27) Secondo Zanardelli, la considerazione che la maggiore età civile era stabilita a ventuno anni non era una valida argomentazione per fissare alla stessa età la piena responsabilità penale, giacché per "esercitare gli uffici di vita civile sono richieste maturità di mente ed esperienze di vita, ben superiori a quelle che occorrono per aver piena consapevolezza di ciò che è lecito od illecito e per distinguere un'azione delittuosa da un'altra indifferente o meritoria". (28) Ma le Commissioni, soprattutto in considerazione del fatto che "la delinquenza non consiste tutta nei reati di sangue e di lucro, dove è più facile distinguere ciò che è lecito da quello che non lo è", sostenevano, invece, che "la legge penale, [...] richiede quella stessa maturità e serenità intellettuale, che la legge civile esige per ammettere la maggioretà". (29) E a Zanardelli non rimase che accogliere le proposte fatte dalle due Commissioni del Parlamento, alle quali si era, peraltro, associata la Commissione di revisione.

Per quanto riguarda, invece, la minore età agli effetti penali, il Codice Zanardelli distingueva quattro periodi e per ognuno di questi prevedeva un diverso trattamento: fino ai nove anni vigeva un regime di assoluta non imputabilità (art. 53); dai nove ai quattordici anni il minore era considerato imputabile solo se il magistrato, che ne aveva espresso obbligo, ne aveva accertato il «discernimento» (art. 54); dai quattordici ai diciotto anni valeva la regola dell'imputabilità, accompagnata dalla previsione di notevoli riduzioni di pena (art. 55); dai diciotto ai ventuno anni erano stabilite alcune diminuzioni di pena (art. 56). Le più forti riduzioni rispetto all'entità delle pene previste per gli adulti erano previste per l'ipotesi in cui il minore fra i nove e i quattordici anni fosse stato considerato imputabile. Se, invece, era ritenuto non imputabile il giudice penale poteva ordinare che il minore, nel caso in cui avesse commesso un fatto per il quale fossero previsti «l'ergastolo o la reclusione, ovvero la detenzione non inferiore ad un anno», fosse «rinchiuso in un istituto di rieducazione e correzione» o, in alternativa, che si provvedesse ad una ingiunzione nei confronti dei genitori, o di coloro che avevano l'obbligo di provvedere all'educazione del fanciullo, perché vigilassero sulla sua condotta; gli stessi provvedimenti potevano essere presi dal presidente del tribunale civile, (30) su richiesta del pubblico ministero, nei confronti del minore di nove anni (art. 53, comma 2º). (31)

Il criterio del discernimento per stabilire l'imputabilità del minore al momento della commissione del fatto, presente fin dal codice del 1859, presuppose, tra l'altro, l'introduzione della figura del medico, quale ausiliare del giudice, con il compito di valutare nei singoli casi la capacità di discernimento del minore. Il principio del discernimento è frutto, infatti, delle elaborazioni della Scuola positiva, legata all'idea della necessità di individualizzare le pene, attraverso l'instaurazione di un sistema penale incentrato più sull'esame del soggetto che del reato: l'imputabilità non è più stabilita attraverso criteri generali, ma caso per caso.

Tre decenni dopo l'entrata in vigore del primo codice penale italiano, le spinte della Scuola positiva, oltre alla nuova situazione politica generale, indussero il guardasigilli Mortara ad affidare ad Enrico Ferri, il massimo esponente di tale indirizzo criminologico, il compito di aggiornare la legislazione penale. Era il 1919. Dopo due anni, nasceva il Progetto Ferri che si poneva in decisa antitesi rispetto al codice Zanardelli, espressione coerente della rivale Scuola classica. Così ne parla Ghisalberti:

Rovesciando, infatti la logica ispiratrice di ogni legislazione penale codificata tendente a considerare il reato invece del reo e la repressione retributiva piuttosto che in forma preventiva, il progetto [...] era essenzialmente costruito sulla personalità e sulla pericolosità del delinquente, ritenendo il delitto un elemento di valutazione di queste e non anche il dato oggettivamente più rilevante. (32)

E, sempre coerentemente con i postulati della Scuola positiva, il progetto Ferri poneva come fondamento del diritto penale il principio della responsabilità sociale al posto del principio della responsabilità morale del delinquente, con la conseguante negazione del criterio della imputabilità e la esaltazione di quello della pericolosità. La colpevolezza non poteva essere ricondotta alle "consuete norme astratte di responsabilità morale", ma piuttosto "ispirarsi sempre al criterio fondamentale della responsabilità del delinquente, più o meno pericoloso, più o meno correggibile". (33)

Ma le varie critiche suscitate sia a livello dottrinale che politico portarono all'abbandono del progetto Ferri.

1.2. Il Codice Rocco

Con l'avvento del regime fascista l'idea di un nuovo codice penale si fece sempre più viva, sia per la volontà di un ammodernamento della legislazione, sia per la pressione esercitata da certi ambienti in favore di norme penali più rispondenti alla concezione politico-ideologica del fascismo. Con la Legge 24/12/25 nº 2260 veniva delegato il governo ad emanare un nuovo codice e nominato dal Ministro Alfredo Rocco un comitato di esperti per la redazione del progetto preliminare. Venuto alla luce nel 1930, in pieno regime fascista, il codice penale Rocco riflette la concezione autoritaria dello Stato, soprattutto nella parte speciale. Secondo Ghisalberti il disegno di "fascistizzazione" della legislazione penale si sarebbe fermato al livello delle intenzioni, sia perché, in qualche modo, la smania di plasmare tutto secondo l'ideologia di regime si era placata con le prime riforme illiberali e antigarantiste introdotte per consolidare la dittatura, sia grazie al peso della tradizione giuridica prefascista, con il risultato che il codice Rocco apparirebbe "sostanzialmente frutto della esperienza giuridica italiana e non dettato dall'ideologia del potere" (34). Il codice penale non risulterebbe essere un prodotto del regime anche grazie alla vastissima collaborazione, alla sua stesura, di personalità non tutte certo legate al fascismo.

La partecipazione di questi influssi dottrinali diversi se ha, certamente, fatto sì che il Codice Rocco non sia risultato il prodotto di una sola scuola di diritto penale, non sembra però aver evitato che il diritto penale si caratterizzasse in senso autoritario e borghese. Espressione diretta di questa concezione autoritaria è la regolamentazione delle conseguenze penali, caratterizzata da una severità che, in Europa, non ha uguali. Questo rigorismo sanzionatorio si manifesta non solo con l'introduzione della pena di morte, ma anche con l'ampliamento della pena dell'ergastolo e con l'inasprimento sia delle pene principali che delle pene accessorie. Lo stesso sistema del doppio binario, che prevede l'applicazione delle misure di sicurezza in aggiunta o in sostituzione della pena, era espressione della severità del codice e costituiva un ulteriore strumento repressivo di difesa dell'ordine giuridico, dal momento che le misure di sicurezza, indeterminate nella durata e retroattive, potevano essere utilizzate al di fuori delle ormai residue garanzie che ancora offriva la pena. Ma l'impronta autoritaria è presente anche in altri settori, come in quello della personalità, dove "la logica autoritaria del legislatore del '30 ha vanificato le innovatrici aperture verso la personalità del delinquente, operate dal diritto sostanziale [...] sotto la spinta del positivismo penale, sia attraverso la configurazione della pericolosità sociale presunta [...] sia vietando [...] al giudice di avvalersi dei mezzi scientificamente più appropriati per l'esame della pericolosità e più in generale della personalità del soggetto". (35)

Per quanto riguarda più specificatamente il tema dell'imputabilità, dalle dichiarazionidi Arturo Rocco e dalla Relazione al Re del guardasigilli emerge che il codice del 1930 sembra voler prendere distanza dalle classiche enunciazioni del libero arbitrio, per accogliere invece le posizioni del cosiddetto determinismo psicologico, fondato sulla capacità del soggetto di essere determinato nella propria volontà da motivi consci. (36)

Come ricorda il Frosali, Arturo Rocco nelle sue dichiarazioni precisa che "ai fini dell'accertamento dell'imputabilità, è sufficiente che l'azione sia volontaria, [...] che colui che l'ha posta in essere abbia l'attitudine psicologica di volere". Ciò perché, continua il giurista,

non si può concepire una volontà senza causa, una volontà senza motivi, una volontà come un «fiat» che nasca dal nulla, una volontà come mero arbitrium indifferentiae. La volontà umana non si sottrae [...] alla legge di causalità che governa tutti i fenomeni. Ma c'è differenza tra causalità e causalità, tra determinazione e determinazione. C'è un determinismo fisico o meccanico, che governa i movimenti fisiologici del corpo, agendo come stimolo; e poi c'è il determinismo psicologico che è determinazione secondo cause psicologiche, cioè motivi coscienti, che determinano la volontà umana. (37)

Secondo il Marini, nonostante l'ufficiale posizione di agnosticismo assunta dai compilatori del codice e ribadita dal Ministro di giustizia, una analisi approfondita del pensiero del Rocco consente di affermare "l'esistenza di una sostanziale vicinanza tra le conclusioni della dottrina classica, informata al libero arbitrio, e quelle fatte proprie dal legislatore del 1930". (38) Infatti, mentre il Grispigni considera il Codice Rocco un compromesso tra i principi della Terza scuola e la quelli della Scuola positiva, (39) il Marini vede una sostanziale identità tra il determinismo psicologico e le "più recenti formulazioni della dottrina del libero arbitrio inteso come «libero arbitrio determinato», e, cioè, come mero rifiuto del cosiddetto arbitrium indifferentiae". (40)

Sulla base di tali osservazioni, possiamo dire che l'aver mantenuto la sanzione tradizionale della pena come corrispettivo del reato commesso dal soggetto imputabile, accanto alla misura di sicurezza introdotta come conseguenza del fatto commesso invece dal non imputabile, indica che il nuovo codice pone come fondamento dell'imputabilità la libertà di determinarsi del soggetto agente, anche se accolta in termini diversi da quelli propriamente filosofici.

Il legislatore del 1930, quindi, ufficialmente sembra non aderire né alle posizioni della Scuola classica né alle conclusioni dei positivisti. E questo è spiegato chiaramente nella Relazione al Re, laddove si dice che:

Il nuovo codice non ha creduto di dover aderire in toto ai postulati di una piuttosto che di un'altra scuola criminologica [...] il nuovo codice penale ha ritenuto migliore avviso non giurare in modo esclusivo nel verbo di una o di altra scuola scientifica. Esso ha ritenuto opportuno prendere da ciascuna scuola soltanto ciò che in esse vi è di buono e di vero, poco curandosi di creare un sistema legislativo logicamente dedotto, fino alle estreme conseguenze, da un principio teorico unilaterale, e molto preoccupandosi, invece, di foggiare un sistema che tutte le scuole componesse nell'unità di un più alto organismo atto a soddisfare i reali bisogni e le effettive esigenze di vita della società e dello Stato. (41)

Da una parte, infatti, il legislatore si allontana dai postulati della Scuola classica, considerando comunque anche il fatto del non imputabile come reato se rispondente ad un modello criminoso; dall'altra respinge l'impostazione positivista, prevedendo per i soggetti incapaci di intendere e di volere per motivi a loro non rimproverabili una sanzione speciale, extrapenale, con finalità terapeutiche e di prevenzione speciale. Questa tesi è sostenuta fra gli altri dal Frosali, che considera i non imputabili non destinatari solo del precetto secondario (cioè della sanzione penale), rimanendo però, questi, soggetti alla obbligatorietà del precetto primario (imperativo di condotta). (42)

Concludendo, si può dire che l'intenzione del legislatore è quella, da un lato, di colpire con la pena il soggetto che, al momento della commissione del fatto, non era affetto da incapacità di determinarsi per motivi a lui non rimproverabili; e, dall'altro, di agire in via di prevenzione sociale nei confronti di chi invece era affetto da tale incapacità. Quindi, se nella sostanza è vivo il principio di stampo classico di sanzionare penalmente solo l'autore del reato che abbia agito liberamente, è pur vero che il codice del 1930 ha ricondotto sotto la competenza penale anche l'illecito commesso dal soggetto privo di tale libertà, predisponendo allo scopo un diverso trattamento sanzionatorio. E se consideriamo che il Codice Zanardelli dichiarava non punibile il fatto del non imputabile e prevedeva la restrizione amministrativa della libertà personale dell'autore, la scelta fatta dal nostro legislatore acquista un maggior peso.

Per quanto riguarda più specificatamente la disciplina sostanziale possiamo notare che, mentre il Codice Zanardelli non conteneva una definizione esplicita di imputabilità - come del resto non definiva il dolo o la colpa - e, dopo avere stabilito all'art. 46 che nessuno poteva essere punito per un delitto, se non lo aveva voluto come conseguenza della sua azione od omissione, nel successivo art. 47 si limitava a richiedere, ai fini della punibilità, che il soggetto, al momento del fatto, non fosse in uno «stato di infermità di mente» tale «da toglierli la coscienza o la libertà dei propri atti», il Codice Rocco introduce una definizione generale di soggetto imputabile e distingue nettamente l'imputabilità dalle altre componenti soggettive del reato, anche attraverso uno spostamento delle norme nel titolo dedicato al reo. L'introduzione di questa definizione generale rispondeva - come lo stesso Ministro Rocco precisa nella sua Relazione ministeriale di presentazione del disegno di legge alla Camera dei Deputati - alla necessità di una revisione del titolo quarto del primo libro, relativo alle cause di esclusione e diminuzione dell'imputabilità, "non già al fine di apportare modificazione alcuna al principio della imputabilità, assiso da secoli sulla base incrollabile della capacità psichica individuale di intendere e di volere, e della coscienza e volontarietà degli atti umani, ma per emendare, in conformità dei nuovi dettati della scienza e dell'esperienza, le norme relative alle circostanze" che escludono o diminuiscono "l'imputabilità psichica o morale e la responsabilità giuridica penale". (43) E così, pur riconoscendo "che la capacità di intendere e di volere è un presupposto della volontà nel fatto commesso", (44) per l'esigenza di ordinare istituti che il codice previgente aveva previsto in modo alquanto disorganico, si preferì sistemare le norme fondamentali sull'imputabilità nel capo autonomo dedicato alle cause di esclusione o diminuzione della stessa.

In questo modo si confermava l'orientamento, già proprio del Codice Zanardelli, a favore di una "responsabilità penale delle azioni umane, che noi chiamiamo reati, [...] saldamente affidata al principio dell'imputabilità psichica e morale dell'uomo, fondato a sua volta sulla normale capacità di intendere e di volere". (45)

2. Il dibattito in dottrina sulla posizione sistematica dell'imputabilità

2.1. Imputabilità e reato

L'incessante dibattito all'interno della dottrina sull'imputabilità nasce dal problema sollevato poco dopo l'inizio del '900 dal Grispigni, che si domandava se l'illecito commesso dal non imputabile fosse configurabile come reato o meno. (46)

La dottrina dominante riteneva che l'atto dannoso o pericoloso compiuto dall'infermo di mente fosse giuridicamente indifferente. Nella prolusione tenuta presso la Università di Roma nel 1920, Grispigni si pone in aperta polemica con tale impostazione alla cui base vi sarebbe, secondo il giurista, "una confusione dei rapporti fra diritto e morale", (47) che induce a considerare gli atti del non imputabile non suscettibili di valutazione giuridica in quanto non suscettibili di valutazione morale. Grispigni, nella stessa prolusione, analizza e sottopone ad una accurata critica i due argomenti che la dottrina predominante all'epoca, rappresentata tra gli altri dal Merker e dal Manzini, portava a sostegno della tesi secondo cui il pazzo è "incapace di compiere qualsiasi atto avente valore giuridico". (48) Secondo la prima argomentazione il diritto non dovrebbe valutare l'atto dell'infermo, dal momento che sarebbe privo delle tre caratteristiche ritenute essenziali affinché l'azione possa considerarsi giuridicamente rilevante: la volontà, la coscienza e la libertà. Per Grispigni, l'unico elemento indispensabile, in quanto elemento che rende possibile la riferibilità del fatto all'autore, è quello della volontà; ma affermando la necessità della volontarietà dell'atto, non si richiede anche che la volontà sia cosciente e libera, cioè normale. Perciò, anche l'atto dell'incapace deve essere valutato dal diritto e dichiarato lecito o illecito a seconda che sia conforme alla norma o meno. L'argomento principe a sostegno della non configurabilità del reato del non imputabile è quello per cui gli incapaci, non essendo in grado di conformare la propria volontà a quanto richiesto dal comando giuridico, non potrebbero essere validi destinatari della norma. Ma allora, si chiede il Grispigni, "come si può sostenere che i precetti giuridici non valgono di fronte agli incapaci, quando [...] la norma penale vale perfino contro chi ne ignora l'esistenza?" (49). Il comando giuridico è infatti obbligatorio in via assoluta e non va subordinato alla capacità del cittadino di intendere lo stesso e di confermarvisi. E le condizioni psichiche del soggetto rileveranno solo al momento di determinare quali sono le conseguenze giuridiche del fatto. Come si spiega, infine, il fatto che certi istituti come la decadenza o la prescrizione valgono, pacificamente, anche nei confronti degli incapaci? Perché in questi casi non si ritiene necessaria l'indagine psicologica? Inoltre, sviluppando la tesi della non configurabilità del reato del non imputabile, non si arriva all'assurdo per cui gli incapaci avrebbero il diritto di compiere l'azione proibita dalla norma, dato che i comandi giuridici non si rivolgerebbero a loro?

Secondo la conclusione del Grispigni,

la verità è che la norma giuridica ha un valore assoluto, e cioè tanto di fronte ai sani come agli infermi di mente, e tanto di fronte agli adulti come di fronte ai minori. E non è vero affatto che l'azione dell'incapace sia al di fuori della valutazione giuridica; ma la medesima può essere dichiarata lecita o illecita, secondo che sia conforme o non alla norma. (50)

I sostenitori delle idee grispignane considerano l'imputabilità una qualificazione giuridica soggettiva e perciò materia inerente la tematica del reo piuttosto che quella del reato. Ne discende che il rapporto fra reato e imputabilità è di assoluta indipendenza, potendo sussistere il primo anche in assenza della seconda. La dottrina più recente, ormai, sostiene che la categoria dell'imputabilità non può essere considerata né presupposto, né elemento costitutivo dell'illecito penale. Basta pensare che al fatto commesso dal non imputabile, così come a quello commesso dal soggetto imputabile, conseguono effetti giuridici penali, caratterizzati solo dalla diversa finalità special-preventiva. Perciò, come rileva Marini, (51) l'eventuale presenza di situazioni di incapacità naturalistica rilevante o di pericolosità sociale saranno oggetto di accertamento, in vista della misura di sicurezza, solo dopo l'accertamento del merito, cioè l'accertamento dell'avvenuta commissione di un fatto previsto come reato, completo di tutti i sui elementi soggettivi ed oggettivi.

2.2. "Capacità penale" e "capacità alla pena"

Diversamente dalla capacità giuridica di diritto civile, quella di diritto penale non è un concetto definito dal legislatore e questo ha portato alcuni a considerare tale nozione una elaborazione meramente dottrinale. (52) Ma, all'interno della stessa dottrina dominante, la quale ritiene che il concetto di capacità giuridica trovi posto anche nel diritto penale, si è giunti a conclusioni assai diverse fra loro.

Innanzitutto, c'è chi fa coincidere le nozioni di capacità di agire e capacità giuridica, facendole confluire nel concetto unitario di capacità di diritto penale.

Per chi, invece, ritiene che le due nozioni siano dotate di una propria autonomia, la capacità di agire rappresenta l'attitudine a porre in essere una condotta penalmente rilevante, e la capacità giuridica la capacità dell'individuo a essere soggetto di imputazione dell'illecito penale e della relativa sanzione. Di questi, alcuni, come Pagliaro, pensano che a tutti, in quanto persone fisiche, debba essere riconosciuta la capacità di agire, quindi anche ai non imputabili e ai cosiddetti immuni, che però sarebbero privi della capacità giuridica di diritto penale. Altri, come Gallo, ritengono che solo chi è in grado materialmente di compiere un'azione penalmente rilevante abbia la capacità di agire (escludendola, così, ad esempio, nei neonati) (53), mentre i non imputabili, dal momento che non possono essere soggetti di imputazione di un illecito penale e della rispettiva sanzione, sarebbero privi della capacità giuridica. Altri ancora, infine, sostengono che i soggetti inimputabili e gli immuni per ragioni politiche difetterebbero della stessa capacità di agire.

Ma qual è il rapporto fra la capacità penale e l'imputabilità?

Prima di tutto, bisogna precisare che la problematica circa i rapporti fra questi due concetti riguarda solamente l'aspetto della destinatarietà degli obblighi e doveri penali, e non anche quello della tutela.

Detto questo, occorre ricordare che da parte di alcuni autorevoli giuristi (54) si tende a far coincidere la nozione di capacità alla pena (imputabilità) con quella di capacità di diritto penale, finendo così per annullare l'autonomia della seconda, la quale non sarebbe altro che un nuovo nome per l'antica nozione della imputabilità. Ma tale identificazione non può essere accettata: tutti, anche un bambino o un infermo di mente, sono in grado di commettere un fatto previsto dalla legge come reato e sono perciò soggetti attivi del rapporto. Bisogna quindi distinguere fra la capacità penale, cioè la capacità, appunto, di essere soggetto di diritto penale e, quindi, soggetto al diritto penale, e che è propria di tutti gli individui, prescindendo dall'età, da fattori psico-fisici o dalla immunità; e la capacità alla pena, ovvero l'imputabilità, concetto sul quale, invece, incidono tali aspetti fisiologici e psicologici.

Altri, pur non arrivando alla identificazione delle due nozioni, ritengono però la capacità di intendere e di volere elemento necessario della capacità penale, costituendone una condicio sine qua non, per cui la mancanza della prima escluderebbe la stessa esistenza della seconda, di modo che i soggetti non imputabili sarebbero penalmente incapaci. Anche se la capacità giuridica riguarderebbe solo gli individui imputabili, non andrebbe vista sotto un profilo psicologico, ma solo normativo: sarebbe il presupposto per il sorgere di una situazione giuridica in capo a un determinato soggetto. In altre parole, quelle di Moro, "dall'incontro immancabile tra la norma astratta, che disciplina [...] una determinata situazione, con un soggetto empirico" sorgerebbe in testa a questo la qualificazione di giuridicamente capace. Questo punto di incontro è caratterizzato dalla convergenza di una norma che prevede astrattamente un dato comportamento e di un soggetto in possesso di certi requisiti come la capacità di intendere e di volere e l'assenza di situazioni di immunità. Nel pensiero di Moro, quindi, la capacità non è altro che una "figura di qualificazione giuridica che rende possibile l'attivarsi della norma astratta verso concrete soggettivazioni", (55) il rivestimento della imputabilità. In posizione critica rispetto alla concezione della capacità penale come qualificazione preliminare al fenomeno di subiettivazione si pone anche Dell'Andro, il quale ritiene che l'incontro tra norma e soggetto, dal momento che produce una qualificazione di questo come giuridicamente capace, costituisce esso stesso una subiettivazione della stessa norma, preliminare se si vuole rispetto a quella effettiva che dà luogo alla titolarità di diritti e obblighi, ma pur sempre una subiettivazione della norma penale. (56)

Secondo Marini, dato che la capacità penale fa parte della teoria generale del diritto, sul piano formale "la questione va risolta chiedendosi se al fatto commesso dal «non imputabile» siano o no ricollegate conseguenze giuridiche «penali» riportabili alle «sanzioni» comminate per i fatti che «costituiscono reato»". (57) Se la risposta è positiva - e la dottrina è ormai concorde nell'attribuire alle misure di sicurezza natura di sanzioni penali, anche se con finalità e contenuti diversi - l'identificazione dell'imputabilità con la capacità penale non ha senso: le misure di sicurezza si applicano al soggetto che ha commesso il fatto previsto dalla legge come reato, previo accertamento della sua avvenuta realizzazione; come pure va negata la considerazione della prima quale presupposto della seconda. Per cui, la presenza o l'assenza dell'imputabilità è del tutto irrilevante ai fini dell'accertamento della capacità di diritto penale.

2.3. Imputabilità e colpevolezza

I rapporti tra imputabilità e colpevolezza sono da sempre stati oggetto dell'attenzione della dottrina, dibattuta se considerare o meno la prima presupposto o requisito della seconda.

Con il termine «colpevolezza» viene indicato l'elemento soggettivo del reato. Il fatto di reato è costituito, infatti, da un aspetto oggettivo e da un aspetto psicologico (la colpevolezza), entrambi essenziali. Affinché, cioè, il fatto possa essere considerato reato, non basta che il soggetto lo abbia materialmente posto in essere, ma occorre anche che gli appartenga psicologicamente.

Il concetto di colpevolezza si è sviluppato attraverso due concezioni. Nella seconda metà del XIX secolo dominava la concezione psicologica, secondo la quale la colpevolezza consisteva in un nesso psichico tra l'agente e il fatto. Tale nesso serviva a stabilire l'an della responsabilità, ma essendo fisso, non graduabile, non consentiva la valutazione del quantum di essa. Agli inizi del '900 viene elaborata la concezione normativa, la quale concepisce la colpevolezza come un concetto normativo, che esprime "il giudizio di rimproverabilità per l'atteggiamento antidoveroso della volontà che era possibile assumere". (58)

È proprio con l'affermarsi della concezione normativa che l'imputabilità viene ad essere vista come presupposto della colpevolezza. La dottrina tradizionale, infatti, ritiene che l'imputabilità vada ricondotta nella teoria generale del diritto quale presupposto della colpevolezza intesa in senso normativo come rimproverabilità per il comportamento. Per cui l'imputabilità prima ancora di essere capacità alla pena sarebbe capacità alla colpevolezza, non essendoci colpevolezza senza imputabilità, e pena senza colpevolezza. Come rileva Antolisei, "ne consegue che il non imputabile non commetterebbe un reato non punibile, ma un fatto tipico non colpevole". (59) Tale opinione si basa anche sulla radicata convinzione che il giudizio sulla colpevolezza implica un rimprovero morale al soggetto, per cui, dal momento che per "rimproverare ad una volontà di non essere stata diversa occorre che essa si sia formata in un soggetto capace di intendere e di volere: rispetto all'infans e all'amens non è possibile ravvisare una volontà colpevole". (60) In particolare si sostiene che la colpevolezza implica necessariamente la maturità e normalità psichica, dal momento che per agire con dolo è necessario conoscere la realtà, rendersi conto dell'azione che si compie e delle conseguenze che essa comporta; così come per agire con colpa occorre essere capaci di agire diligentemente e prudentemente, anche se poi ci si comporta diversamente. Quindi, in mancanza di imputabilità non si avrà colpevolezza, ma solo pericolosità.

La dottrina prevalente muove, invece, dalla concezione psicologica ed esclude che l'imputabilità costituisca un presupposto della colpevolezza. Chi sostiene la piena autonomia del giudizio sulla colpevolezza rispetto a quello sulla capacità di intendere e di volere, afferma che il dolo e la colpa possono riscontrarsi anche nel fatto commesso da un minore o da un infermo di mente. Forse che - si chiedono Mantovani e Antolisei (61)- un ragazzo di tredici anni non può ferire un compagno intenzionalmente o per imprudenza, maneggiando, ad esempio, una pistola carica? Forse che - mi chiedo io - i "fidanzatini" di Novi Ligure non hanno ammazzato la mamma e il fratellino di Erika intenzionalmente?

Quanto detto ora sarebbe poi confermato a livello normativo. Prima di tutto, si può notare come non ci sia alcuna norma che, direttamente o indirettamente, impedisca l'applicazione anche nei confronti dei soggetti non imputabili di tutte le disposizioni comunque attinenti alla riferibilità psichica del fatto al suo autore, quali quelle contenute negli artt. 42, 45 e 46. (62) In secondo luogo, importanza fondamentale hanno gli artt. 222 e 224. Queste norme, infatti, fissano, per le misure di sicurezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario e del riformatorio giudiziario, dei minimi di durata che dipendono dalla gravità del reato; ma, siccome questa va ricavata - per l'art. 133 - dall'intensità del dolo o dal grado della colpa, il giudice è obbligato ad accertare se il fatto compiuto dall'incapace è doloso o colposo. Quindi, se "dalla forma che l'atteggiamento psichico dell'agente ha assunto dipende la durata minima della misura di sicurezza, la quale, d'altra parte, non potrebbe in alcun modo ordinarsi, se facesse difetto anche una semplice imprudenza o negligenza", (63) non si vede come possa pretendersi di escludere la configurabilità del dolo e della colpa anche nei confronti delle persone non imputabili.

A questo è stato obbiettato che non bisogna confondere la visione naturalistica con quella giuridica del fenomeno: per cui, "i fatti e i momenti psichici che assumono rilevanza anche in relazione al comportamento del non imputabile sarebbero intenzione ma non dolo, mancata rappresentazione delle conseguenze della propria condotta ma non colpa". (64) E si è parlato, in questi casi, di pseudo-dolo e di pseudo-colpa. Pronta è la replica: il legislatore non ha offerto una nozione degli elementi soggettivi diversificata a seconda che l'agente sia un imputabile o un non imputabile, ma ha costruito tali concetti con formulazioni provviste di validità generale.

L'imputabilità risulta essere così uno status della persona, e come tale deve essere trattata nell'ambito della teoria del reo e non del reato. E la stessa sistemazione operata dal nostro codice lo confermerebbe: l'istituto dell'imputabilità, infatti, è collocato nel titolo IV del libro I che si occupa del reo, e non tra le norme che disciplinano l'elemento soggettivo del reato.

2.4. "Capacità di intendere e volere" e "Coscienza e volontà della condotta"

Per quanto riguarda il rapporto tra "la capacità di intendere e volere" prevista dall'art. 85 e la "coscienza e volontà" richiesta dall'art. 42, (65) taluni hanno ritenuto che si trattasse di espressioni del tutto equivalenti. Già in sede dei lavori preparatori, i redattori del codice si erano posti il problema del coordinamento fra le due disposizioni e si erano preoccupati di precisare che fra queste norme vi è la stessa differenza che c'è in diritto privato tra le norme che disciplinano il contratto e quelle che regolano il consenso: mentre l'art. 85 regola la generica capacità di agire nel diritto penale, l'art. 42 regola l'effettiva volontà del caso concreto, "non vi è, adunque, identità di obbietto". (66) Si tratterebbe di "due posizioni diverse della volontà. Nella capacità di diritto penale o imputabilità, la volontà è considerata al momento della possibilità. Nella effettiva responsabilità penale, la volontà è considerata nel momento della sua attuazione" (67). Da queste parole Maggiore ha dedotto la necessità di una quadruplice indagine sull'autore del fatto-reato, che si traduce in una assurda probatio diabolica: si dovrebbe, infatti, verificare, "in astratto: 1) se l'autore è capace di intendere; 2) se l'autore è capace di volere (prova dell'imputabilità); in concreto: 3) se l'autore agì con coscienza; 4) se l'autore agì con volontà (prova della responsabilità)". (68) E, continua il giurista, visto che ai fini perseguiti dall'ordinamento conta la presenza dell'imputabilità al momento del reato, non bisogna compiere due indagini separate - prima sulla coscienza e volontà e poi sull'imputabilità - ma "un giudizio unico, indivisibile e contemporaneo. Chi ha agito con coscienza e volontà era capace di intendere e volere, e chi era, nell'atto di compiere il reato, capace di intendere e volere, agì con coscienza e volontà". (69)

La dottrina dominante ritiene che l'art. 85 non sia un inutile duplicato dell'art. 42, dal momento che l'imputabilità è considerata uno status, una condizione della persona, mentre la coscienza e la volontà implicano una relazione tra il volere del soggetto e un certo atto. La diversità tra le due nozioni risulta, poi, evidente nelle ipotesi in cui non è possibile negare, da un lato, l'assenza di volontà, e, dall'altro, la presenza di maturità psichica e sanità mentale. Così, ad esempio, nel caso dell'operaio che, cascando da un'impalcatura a causa del vento, uccide un passante, o nel caso della guardia giurata che, legata ad un palo da alcuni rapinatori di banca, omette di dare l'allarme, da una parte è assurdo negare la loro maturità e sanità, dall'altra è indubbio che la forza maggiore, per l'uno, e il costringimento fisico, per l'altro, denunciano la mancanza di volontà negli autori del fatto. Secondo Antolisei, l'individuo può essere imputabile e, allo stesso tempo, compiere un'azione senza coscienza e volontà, anche nelle ipotesi di piena incoscienza per delirio o per sonnambulismo: così la madre che nel sonno, muovendosi, soffoca il neonato che le dorme accanto.

Concludendo, possiamo dire che, nonostante l'ambiguità delle formule utilizzate dal legislatore, mentre l'art. 42 concerne l'attribuibilità o meno di un determinato atto alla volontà dell'agente, in base all'art. 85 si considera se, al momento del reato, l'individuo possedeva le qualità personali richieste esclusivamente per l'applicabilità della pena.

3. Contenuto sostanziale dell'imputabilità

3.1. Nozione di imputabilità

Come abbiamo già avuto modo di ricordare, l'articolo 85 c.p. richiede che il soggetto, affinché sia «imputabile» e quindi punibile, abbia, al momento della commissione del fatto, la «capacità di intendere e di volere». Quindi, se "dal punto di vista formale l'imputabilità è quel momento della capacità giuridica penale che consente di attribuire a un soggetto un illecito sanzionato con pena", dal punto di vista sostanziale, invece, "essa è «capacità di intendere e di volere»". (70)

Per capire il reale significato della formula utilizzata dal legislatore del 1930 può essere utile dare un'occhiata ai lavori preparatori. Da questi, infatti, emerge che, eliminato il riferimento alla «libertà» contenuto nel codice precedente, e respinta la proposta di introdurre un accenno alla «coscienza», (71) il legislatore ha voluto concentrare l'attenzione solo sul "momento intellettivo e volitivo, in senso stretto, della psiche, con assoluta esclusione di ogni riferimento ad elementi 'moralistici' o etici o attinenti alla coscienza dell'illiceità del fatto". (72) Il legislatore ha, cioè, delimitato il significato di questa formula alla sfera esclusivamente psicologica; ha accolto "un concetto di imputabilità psicologica, non di imputabilità morale, secondo la distinzione acquisita in psicologia, nel senso che si ha imputabilità psichica quando esiste autonomia psichica, intesa come processo volitivo che ha il normale decorrere comune alla media degli uomini, esclusa quella necessità psichica determinata da cause psico-patologiche". (73)

Ciò premesso, possiamo definire, secondo l'insegnamento più diffuso, la capacità di intendere come l'idoneità del soggetto a rendersi conto del valore sociale dell'atto che compie, precisando che il rendersi conto del valore sociale del proprio comportamento non ha nulla a che fare con la coscienza della illiceità penale del fatto. Per cui, "non è necessario che l'individuo sia in grado di giudicare che la sua azione è contraria alla legge: basta che possa genericamente comprendere che essa contrasta con le esigenze della vita in comune". (74) Capacità di volere significa attitudine del soggetto ad autodeterminarsi, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo che appare più ragionevole e, quindi, di resistere agli stimoli degli avvenimenti esterni, ovvero, più brevemente, "facoltà di volere quello che si giudica doversi fare". (75) Vi sono, infatti, delle persone che, pur sapendo distinguere il male dal bene, non sono però in grado di determinarsi in conseguenza, di agire, cioè, in conformità al proprio giudizio. Queste sono le ipotesi in cui manca la capacità di volere.

Tuttavia, la presenza di questa dicotomia legislativa tra la capacità di intendere e la capacità di volere ha, da sempre, suscitato un acceso dibattito e sollevato numerose critiche, ritenendosi, soprattutto alla stregua delle moderne conoscenze psicologiche, che sia impossibile scindere queste due facoltà mentali, perché "la psiche dell'uomo è infatti una entità fondamentalmente unitaria, per cui le diverse sue funzioni si rapportano l'una all'altra, influenzandosi vicendevolmente". (76) Le operazioni mentali non sono considerate dalla moderna psicologia delle entità autonome, ma aspetti di un processo mentale che non è possibile dissociare se non per la necessità di poterlo studiare: "l'attività conoscitiva e quella volitiva risultano [...] saldamente fuse e si generano l'un l'altra in un processo di influenza e di sviluppo reciproco che [...] è di natura dialettica, e vivono, si può dire, l'uno all'interno dell'altro". (77) La capacità di intendere e la capacità di volere sarebbero perciò facoltà mentali strettamente connesse tra loro, per cui, sebbene in teoria i due concetti possono essere distinti uno dall'altro, in concreto difficilmente la compromissione dell'una non si rifletterà sull'altra. (78) Come sottolineato da più parti, mentre risulta evidente che si può avere la capacità d'intendere senza quella di volere, è più difficile concepire quest'ultima indipendentemente dalla prima. I rapporti tra le due capacità, si dice, (79) sono strettissimi, e questo spiega l'atteggiamento del legislatore che richiede, perché un soggetto sia imputabile, il concorso di entrambe le capacità, al momento della commissione del fatto: la mancanza anche di una sola di esse priva il soggetto della capacità naturalistica.

La voluta limitazione della nozione di capacità naturalistica ai soli momenti intellettivo e volitivo, e la richiesta natura, come vedremo, solitamente patologica delle cause idonee ad escluderla, sembrano spiegare perché il legislatore abbia negato rilevanza ad eventuali vizi che interessino il cosiddetto terzo centro della psiche, normalmente individuato nel sentimento. (80) Costante, in tal senso, è anche l'orientamento della giurisprudenza, la quale ribadisce che "delle tre facoltà psichiche (sentimento, intelligenza e volontà), che caratterizzano l'azione nel suo lato subiettivo, il codice penale - ai fini dell'imputabilità e quindi anche dell'infermità di mente - prende in considerazione soltanto le ultime due, e non anche la prima: e pertanto le anomalie del carattere e l'insufficienza di sentimenti etico-sociali non possono essere di per se stesse considerate indicative di infermità di mente, ove ad esse non siano associati disturbi nella sfera intellettiva e volitiva di indubbia natura patologica". (81)

La limitazione a cui accennavo risulta, oltre che dai già menzionati lavori preparatori, anche da alcune disposizioni del codice penale.

In primo luogo dall'art. 90 c.p. per il quale «gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità». Nella relazione al progetto sul codice penale si precisava che "la soluzione del problema della influenza delle passioni e delle emozioni sull'imputabilità non può essere che quella adottata, perché il vizio di mente va inteso solo come conseguenza d'infermità fisica o psichica clinicamente accertata. Le passioni, le emozioni attengono alla valutazione della quantità del delitto e della pericolosità del delinquente, ed è problema di politica criminale il determinare le ipotesi e la misura, entro le quali debbono o possono essere prese in considerazione". (82) La dottrina però, come ricorda Albomonte, sin dall'inizio "sostenne che gli stati emotivi e passionali, di norma non influenti sull'imputabilità, possono, in alcune circostanze, provocare perturbazioni tali da raggiungere l'intensità di un'alterazione psichica idonea a scemare od escludere la capacità di intendere e di volere". (83) La giurisprudenza, inizialmente, ritenne che gli stati emotivi e passionali potevano influire sull'imputabilità solo quando erano dovuti a stati di infermità mentale, quando cioè l'imputabilità era già esclusa dalla stessa malattia mentale. Successivamente arrivò ad ammettere che gli stati emotivi e passionali dovevano essere considerati anche ai fini di un accertamento dell'imputabilità, nel senso che quando da un tale stato emotivo fosse derivato un vero e proprio sconcerto psichico, esso potesse considerarsi come una forma di infermità suscettibile di influenzare la capacità di intendere e di volere. Questo orientamento giurisprudenziale si è andato consolidando, per cui, generalmente, si ritiene che gli stati emotivi e passionali possono influire sull'imputabilità "solo quando, esorbitando dalla sfera psicologica provochino una infermità mentale anche transitoria [...] così da eliminare o attenuare la capacità di intendere e di volere"; (84) si tratta cioè di un'ipotesi eccezionale, rimanendo la regola generale quella per cui le emozioni e le passioni di per sé non influiscono sull'imputabilità.

In secondo luogo dall'art. 108 c.p. che, occupandosi del «delinquente per tendenza», limita il suo ambito di applicazione ai soli soggetti non affetti da vizio totale o parziale di mente, affermando così la imputabilità di quei soggetti malvagi in cui "la assenza di disturbi dell'intelletto e della volontà" si accompagna ad "una profonda alterazione, che giunge alla soppressione, del senso morale o sociale". (85) Dal momento che il delinquente per tendenza è considerato dal nostro codice pienamente imputabile e pericoloso, se ne deduce che il legislatore non attribuisce alcun rilievo, ai fini del giudizio di imputabilità, ad una insensibilità morale che non sia dovuta ad una vera e propria malattia mentale. La Cassazione aveva detto, in proposito, che "è moralmente e penalmente imputabile ogni uomo la cui autodeterminazione, risultante dall'intelletto e dalla volontà, non sia impedita o turbata dall'organismo corporeo e psichico dell'agente, mentre il legislatore, accennando nell'art. 108 c.p. all'indole particolarmente malvagia del colpevole, ha esplicitamente escluso dalle cause discriminanti quelle anomalie della personalità che si concretano nelle perversioni del temperamento e del carattere, cosicché il delitto è penalmente perseguibile ogni qualvolta sia dovuto non già a malattia del corpo o della mente, bensì a deviazioni del sentimento". (86)

Queste osservazioni portano ad ammettere, da una parte, la piena compatibilità tra imputabilità e vizi attinenti al cosiddetto terzo centro della psiche, e, dall'altra, l'irrilevanza, ex art. 85 c.p., dell'eventuale carenza di senso morale.

Concludendo, possiamo dire che la capacità di intendere di volere, così come l'abbiamo individuata, risulta mancare in due categorie di soggetti: quelli che non hanno un sufficiente sviluppo intellettuale e quelli che sono affetti da gravi anomalie psichiche. Da cui deriva che il contenuto sostanziale dell'imputabilità va ravvisato nella maturità psichica, da una parte, e nella sanità mentale, dall'altra.

3.2. Cause di esclusione e diminuzione dell'imputabilità

La definizione di imputabilità come capacità di intendere e di volere si capisce meglio se prendiamo in considerazione le cause che escludono o diminuiscono la imputabilità, disciplinate negli articoli da 88 a 96 del codice penale.

Queste cause "si distinguono in condizioni di natura fisiologica dipendenti dall'età, condizioni di natura patologica derivanti da infermità di mente o da anomalie congenite (sordomutismo) e condizioni di natura tossica dovute all'abuso di alcolici e di sostanze stupefacenti". (87) Più specificatamente esse sono:

  1. la minore età,
  2. l'infermità di mente,
  3. il sordomutismo,
  4. l'ubriachezza,
  5. l'intossicazione da sostanze stupefacenti.

In dottrina si sostiene che la capacità di intendere e di volere, intesa in senso strettamente naturalistico, non costituirebbe "il substrato empirico della qualifica di imputabilità del soggetto e [...] presupposto della punibilità", (88) dal momento che ci sono ipotesi nelle quali - articoli 92, 93 e 94 (89)- la pena è applicata al reo, considerato imputabile, anche se incapace di intendere e di volere. A ben vedere, dunque, l'art. 85 c.p. non sancisce una identificazione fra imputabilità e capacità di intendere e di volere. La nozione naturalistica di capacità di intendere e di volere esprimerebbe, invece, "(al massimo) la tendenza dell'ordinamento giuridico a far coincidere un determinato tipo di sanzione con prefissate condizioni empiriche dell'agente", (90) nel senso che, ogni volta in un soggetto autore di un reato venga riscontrata la capacità di intendere e di volere, dovrà procedersi all'applicazione della pena. Inoltre, ci sono anche ipotesi in cui l'ordinamento, ai fini del trattamento penale del reo, prende in considerazione elementi diversi dalla capacità o meno di intendere e di volere, come nel caso previsto dall'art. 97 c.p., nel quale "l'età dell'agente è l'unica condizione, necessaria e sufficiente, del substrato soggettivo che determina l'applicazione della misura di sicurezza invece che della pena". (91)

Pur partendo da queste stesse considerazioni, la dottrina si divide sulle conclusioni.

Secondo alcuni, infatti, la regolamentazione da parte del legislatore delle cause di non imputabilità toglie alla capacità di intendere e di volere funzione di criterio direttivo. Dal momento che la legge, invece di limitarsi a porre "dei principi generali in base ai quali la categoria naturalistica ha rilevanza", ha previsto "espressamente e tassativamente i singoli casi in cui far luogo alla dichiarazione di non imputabilità del soggetto autore del reato", (92) il giudice, accertata la non sussistenza di queste ipotesi, non deve far altro che applicare la pena, senza preoccuparsi di accertare la mancanza o la presenza nel soggetto della capacità di intendere e di volere. Ne deriva che, ai fini della dichiarazione di imputabilità e della applicazione della pena, non ha, di regola, importanza la presenza della capacità di intendere e di volere, ma l'assenza delle ipotesi, espressamente previste, di non imputabilità. (93)

Ma quello che viene rimproverato a tale teoria è proprio aver considerato pacifica la tassatività delle cause di esclusione dell'imputabilità, quando, invece, la questione della possibilità o meno di estendere, mediante procedimento analogico, le norme disciplinanti la capacità di intendere e di volere è oggetto, in dottrina, di accese discussioni.

Per chi ritiene che sia possibile un'applicazione analogica di tale norme, le conclusioni sono opposte. Se, infatti, l'art. 85 c.p. richiede che il soggetto, perché possa essere punibile, sia imputabile, "ogni causa di esclusione della imputabilità, seppure non contemplata dalla legge penale, è decisamente incompatibile con la punibilità". (94) E il fatto che le cause di incapacità che verranno concretamente in considerazione saranno solo quelle espressamente previste dal codice serve solo a spiegarne la loro esplicita previsione normativa e non a costringere l'interprete a non tenere in conto nessun altra eventuale condizione soggettiva del reo che fosse in contrasto con la direttiva generale sancita dall'art. 85 c.p.. Inoltre, le norme sulla minore età e sul sordomutismo, che fanno obbligo al giudice di accertare in concreto l'eventuale capacità o incapacità dell'agente, al fine di applicargli la pena o la misura di sicurezza, non sarebbero eccezioni che rompono "il rigido sistema instaurato in via generale", (95) bensì una conferma della "validità di criterio autenticamente direttivo attribuito in via di principio alla capacità di intendere e di volere". (96) Per cui, secondo questa impostazione, ai fini dell'applicazione della pena, non ha importanza l'assenza delle ipotesi di non imputabilità previste dalla legge, quanto piuttosto la presenza della capacità di intendere e di volere, che svolge funzione discriminatrice tra le conseguenze giuridiche del reato. L'unica considerazione che si può fare è che, avendo l'art. 85 c.p. vincolato l'imputabilità alla sola capacità di intendere e di volere, unicamente questa avrà rilevanza per l'imputabilità, mentre, come abbiamo già rilevato, non avrà influenza nessun altro aspetto della personalità dell'agente, come le anomalie del sentimento e del senso morale.

Note

1. Vincenzo Manzini, voce Codice penale, in Dig. it., vol. VII, parte II, Torino 1929, p. 509: «in esso, nel definire i reati e le rispettive circostanze, si era quasi costantemente omessa l'enunciazione dell'elemento morale, rimaneva dunque incerto quel principio su cui si regge tutta la materia dell'imputabilità e quindi tutta la funzione penale prima della condanna».

2. Carlo Ghisalberti, La codificazione del diritto in Italia 1865/1942, Editori Laterza, Bari 1985, p. 171.

3. Relazione della Commissione della Camera dei Deputati sul progetto del codice penale, LXIV, Ute, Torino 1888.

Cfr.anche quanto dichiarato dal ministro guardasigilli nell'udienza del 30 giugno 1889: "senza elemento morale, senza il concorso della volontà nel fatto preveduto dalla legge, e, prima ancora, nell'azione od omissione che lo produsse, non può esservi responsabilità, non imputabilità, non materia di reato e di pena". (Relazione a S. M. il Re, XXV, Roma 1889).

4. C. Ghisalberti, op. cit.: "il progetto redatto dallo Zanardelli poco induceva alle astrazioni filosofiche dei teorici del diritto e dei cultori della sociologia criminale, risolvendo il complesso problema della imputabilità nella concreta valutazione della volontarietà del fatto definito come reato".

5. Art. 46 del progetto del codice penale: «Nessuno può essere punito se non per un'azione od omissione volontaria.

Nei delitti, nessuno può essere punito per un fatto, ove dimostri che non lo ha voluto come conseguenza della sua azione od omissione, tranne che la legge non lo ponga altrimenti a suo carico.

Nelle contravvenzioni non è ammessa la ricerca del fine che si è proposto chi le ha commesse».

6. Relazione della Commissione della Camera dei deputati cit., LXVI.

7. Relazione Ministeriale sul libro primo del progetto di codice penale, XLIV, Roma 1888.

8. Ibidem. "la legge non può abbandonare alla dottrina ed all'apprezzamento disforme ed arbitrario de' giurisperiti il determinare le circostanze dal concorso delle quali può o deve risultare escluso o diminuito l'elemento morale del reato, ossia la imputabilità di questo all'autore del fatto materiale".

9. Art. 45 del codice penale nella versione definitiva: «Nessuno può essere punito per un delitto, se non abbia voluto il fatto che lo costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico, come conseguenza della sua azione od omissione.

Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione, ancorché non si dimostri che egli abbia voluto un fatto contrario alla legge».

10. Relazione Ministeriale sul libro primo del progetto di codice penale, cit., XLIV.

11. Codice penale toscano, art. 34: «Le violazioni della legge penale non sono imputabili, quando chi le commette non ebbe coscienza dei suoi atti e libertà d'elezione».

12. Marta Bertolino, L'imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Giuffrè, Milano 1990, p. 365.

13. Relazione Ministeriale cit., XLVI.

14. M. Bertolino, ibidem.

15. Art. 47, comma 1, del progetto del codice penale: «Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di deficienza o di morbosa alterazione di mente da togliergli la coscienza dei propri atti o la possibilità di operare altrimenti».

16. Art. 46, comma 1, del codice penale nella versione definitiva: «Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza dei o la libertà dei propri atti».

17. In occasione del suo discorso al Senato, nella tornata del 15 novembre 1888, il Ministro Zanardelli aveva espresso le sue perplessità riguardo all'espressione "infermità di mente", dovute alla preoccupazione che il concetto di infermità non fosse idoneo a comprendere tutte le ipotesi che si volevano prendere in considerazione con quella disposizione. (Lavori parlamentari del nuovo codice penale, discussioni al senato, VII, Torino 1889).

18. Verbali della Commissione, Roma 1889.

19. Relazione Ministeriale cit., XLVI.

20. Zanardelli precisava: "credo che sia giusta la sentenza di Kant, che non si abbia ad innalzare un edificio legislativo sulla base di una proposizione filosoficamente controversa" (Lavori parlamentari cit., VIII).

21. Art. 47, comma 2, del progetto del codice penale: «Il giudice può tuttavia ordinare che sia ricoverato in un manicomio criminale o comune, per rimanervi sino a che l'Autorità competente lo giudichi necessario».

22. Lavori parlamentari cit., VIII.

23. Art. 46, comma 2, del codice penale nella versione definitiva: «Il giudice, nondimeno, ove stimi pericolosa la liberazione dell'imputato prosciolto, ne ordina la consegna all'Autorità competente per i provvedimenti di legge».

24. Dolcini, E., voce Codice penale, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino 1989, p. 276.

25. G. Novelli, Note illustrative del Regio Decreto 20 luglio 1934, XII, n. 1404 su l'istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni, in Riv. dir. penit. 1934, II, p. 801.

26. L'art. 36 stabiliva che "le loro azioni contrarie alla legge penale appartengono alla disciplina domestica, e, nei casi più gravi, richiamano le autorità di polizia amministrativa a prendere un provvedimento adatto alle circostanze".

27. "Ed invero, se il termine della piena responsabilità penale si raggiunge ai diciotto anni nei paesi nordici, con tanta maggiore ragione dovrebbe adottarsi lo stesso limite in un paese meridionale, quale è il nostro, in cui più sollecito e precoce è lo sviluppo fisico ed intellettuale". Le differenze, fra le legislazioni, riguardo all'età raggiunta la quale l'uomo diventa pienamente responsabile, si spiegherebbe, secondo Zanardelli, proprio in considerazione del "diverso sviluppo delle facoltà umane nelle varie regioni della terra" (Relazione ministeriale, cit., XLIX).

28. Ibidem.

29. Relazione della Commissione della Camera dei Deputati sul progetto del codice penale, cit., LXXII.

30. Come giustamente ricorda Pisani, "a questi criteri legislativi di individalizzazione in sede giudiziaria non corrispondeva un giudice specializzato, cosicché il giudice penale dei minori era lo stesso giudice degli adulti". E questa mancanza di specializzazione del giudice minorile è ancora più evidente nell'ipotesi disciplinata dall'art. 53, in cui i provvedimenti venivano emanati dal Presidente del Tribunale civile (Mario Pisani, Il tribunale per i minorenni in Italia, in Ind. pen., 1972, p. 232).

31. Questa disposizione non era prevista nel progetto originario, ma fu proposta dalla Commissione di revisione, sull'esempio di alcuni codici stranieri, e inserita nel codice penale per adempiere "il sacro debito che ha la società di rivolgere le sue provvide cure alla correzione delle adolescenti generazioni". E, per raggiungere questo scopo, fu "adattata al caso la norma analoga dell'articolo seguente, attribuendo la competenza del provvedimento al giudice civile anziché al penale, che non avrebbe titolo per procedere" (Relazione a S. M. il Re, cit., XXXII).

32. C. Ghisalberti, La codificazione del diritto in Italia cit., pp. 220-221.

33. Relazione al progetto Ferri, in Riv. dir. penit., 1934, p. 808.

34. C. Ghisalberti, op. cit., p. 223.

35. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 31.

36. Nella Relazione al Re, in Gazzetta Ufficiale 26 ottobre 1930, il libero arbitrio viene definito una "questione filosofica insoluta e forse insolubile, che deve rimanere del tutto estranea al diritto penale, in quanto la soluzione di essa non è affatto necessaria per la giustificazione razionale e per l'applicazione della legge penale". E poco prima si era detto che "la verità è che il volere dell'uomo subisce anch'esso la legge di causalità, al pari di ogni altro fenomeno, ma questa causalità non è fisica o materiale, e neppure fisiologica: è invece, in conformità della natura psicologica del fenomeno, ch'essa è chiamata a regolare, una causalità meramente psicologica, cioè un determinismo, non solo fisico o meccanico o fisiologico, ma meramente psicologico".

37. Atti della commissione ministeriale, in Lavori preparatori del codice penale, vol. IV, Roma 1929, p. 137.

38. G. Marini, voce Imputabilità, in Dig. pen., vol.VI, 1992, p. 248.

39. Grispigni afferma che considerare il codice un compromesso tra la scuola positiva e la scuola classica è "un'inesattezza", e che per escludere un tale errore "basta considerare che quando fu incaricato il Rocco di preparare la nuova legislazione, era già pronto il Progetto Ferri, di netta orientazione positivista, ed inoltre che la scuola classica era già stata definitivamente superata dal Codice Zanardelli, ed era perciò da escludere che si volesse preparare una legislazione che avrebbe rappresentato un regresso rispetto al codice già in vigore. Si aggiunge che in quel momento la scuola classica non aveva alcun rappresentante autorevole [...], e pertanto nessuno reclamava che si forgiasse un codice che rimettesse in onore le dottrine classiche". Inoltre, continua l'autore, il Rocco era seguace della terza scuola, per cui "non aveva alcun motivo di far tornare in auge [...] la scuola classica, mentre si comprende come potesse mirare ad un accordo tra la scuola positiva, che aveva preparato il Progetto Ferri, e la terza scuola da lui rappresentata" (Filippo Grispigni, Diritto penale italiano, Giuffrè, Milano 1950, p.80).

40. G. Marini, voce Imputabilità, in Enc. Giur. Treccani, p. 3.

41. Relazione al Re, cit.

42. R.A. Frosali, op. cit., pp. 213-215: "la conoscenza dell'obbligo non è elemento necessario alla obbligatorietà giuridica, perché il vincolo giuridico è posto efficacemente anche se non implica rispondenza nella psiche del soggetto obbligato. E perciò [...] non vi è alcuna impossibilità logica di ammettere che l'obbligo giuridico sia costituito non solo anche in confronto a chi lo ignora, ma anche in confronto a chi lo ignora perché non ha la capacità (psichica) di intenderlo".

43. Relazione presentata alla Camera dei Deputati il 13 gennaio 1925, in Lavori preparatori cit., vol. I, p. 16.

44. Ivi, p.17.

45. Relazione al Re, cit.

46. Filippo Grispigni, Il delitto del non imputabile nel concorso di più persone in uno stesso reato, in Sc. Pos., 1911, p 1: "se un pazzo, un ubriaco, un fanciullo feriscono o uccidono una persona, incendiano una casa, stuprano una donna ognuno deve convenire che - dal punto di vista della realtà psicologica e sociale - esistono vari delitti ed altrettanti delinquenti. Invece, dinanzi agli stessi fatti, il diritto - sia come norma statuale sia come dottrina - proclama: giuridicamente in questi casi non esistono né delitti né delinquenti".

47. F. Grispigni, La responsabilità giuridica dei c.d. non imputabili, in Sc. Pos., SEL, Milano 1920, p. 6.

48. Vincenzo Manzini, Trattato di diritto penale, vol.II, UTET, Torino 1950.

49. F. Grispigni, La responsabilità giuridica dei c.d. non imputabili, cit., p. 15.

50. F. Grispigni, ivi, p. 19.

51. G. Marini, voce Imputabilità, in Enc. giur. Treccani, p. 5.

52. Antolisei sostiene che parte della dottrina, ritenendo che non tutti gli uomini possono essere soggetti attivi del diritto, avrebbe elaborato la nozione di capacità penale (intesa come l'insieme delle condizioni per cui un uomo può considerarsi soggetto di diritto penale), escludendone la sussistenza sia nelle persone che godono delle immunità sia nei non imputabili. Per Antolisei tale nozione, mutuata dal diritto privato, "non ha ragione d'essere". E, per quanto riguarda chi fruisce di un'immunità, l'inapplicabilità della sanzione costituisce solo un trattamento particolare, ma non significa una non assoggettibilità alle leggi; per i non imputabili, se non sono soggetti alla pena, sono passibili di misure di sicurezza, e quindi non sono fuori dell'ordinamento penale (Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale, Pt. gen., Giuffrè, Milano 2000, p. 597).

53. Secondo Gallo, infatti, dato che in diritto penale la capacità di agire "si definisce come l'attitudine a porre in essere un fatto penalmente rilevante, il suo substrato positivo (cioè il complesso di requisiti che debbono verificarsi perché vi sia capacità) non può prescindere dalla possibilità fisica di realizzare un illecito, e, si badi, un illecito al completo di tutti i suoi elementi, oggettivi e cosiddetti psicologici" (Marcello Gallo, voce Capacità penale, in Nuovissimo Digesto italiano, vol. II, 1958, p. 888).

54. Si veda, come esempio, Bettiol, per il quale "capacità è sinonimo di imputabilità" (Giuseppe Bettiol e Luciano Pettoello Mantovani, Diritto penale, Pt. gen., Cedam, Padova 1986, p. 455).

55. Moro, La capacità giuridica penale, Padova 1938, p. 64.

56. Renato Dell'Andro, voce Capacità giuridica penale, in Enc. dir., VIII, 1960, p. 106.

57. G. Marini, voce Imputabilità, in Enc. giur. Treccani cit., p. 4.

58. F. Mantovani, Diritto penale cit., p. 294.

59. F. Antolisei, op. cit., p. 320.

60. F. Mantovani, Diritto penale cit., p. 303.

61. Cfr. F. Antolisei, op. cit., p. 321; F. Mantovani, Diritto penale cit., p. 302.

62. A. Crespi (voce Imputabilità, in Enc. dir., XX, 1970, p. 767) e F. Antolisei (op .cit., p. 322) fanno giustamente notare che non potrebbe venir applicata la misura del riformatorio giudiziario al minore che è stato costretto da altri con violenza fisica a commettere un furto; così come non potrebbe venir ordinato il ricovero in manicomio giudiziario all'infermo di mente che ha cagionato la morte di una persona per forza maggiore.

63. F. Antolisei, op. cit., p. 322.

64. Così sia M. Gallo (voce Capacità penale cit., p. 888) che A. Crespi (voce Imputabilità cit., p.767) riportano quanto sostenuto da Petrocelli, La colpevolezza, Padova 1951, pp. 100-101.

65. Art. 42: «Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà».

66. Relazione sul libro I del progetto del guardasigilli Alfredo Rocco, n. 99, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, Roma 1929, p. 140.

67. Relazione al Re, n. 26, in Gazzetta Ufficiale 26 ottobre 1930.

68. G. Maggiore, Diritto penale, Pt. gen., I, Bologna 1955, p. 374-376.

69. Ibidem.

70. Antonio Pagliaro, Principi di diritto penale, Pt. gen., Giuffrè, Milano 2000, p. 629.

71. In sede di lavori preparatori, Massari, in risposta a Ferri e Morello, osservò al riguardo che "nella valutazione dell'evento psicologico ci si deve limitare a due indagini: capacità intellettiva e capacità volitiva. [...]. Aggiungere pertanto ancora l'elemento della coscienza morale, significherebbe stravolgere il sistema basilare del codice" (Lavori preparatori, vol. IV, parte II, 1929, p.267).

72. Portigliatti Barbos, Marini, La capacità di intendere e di volere nel sistema penale italiano, Giuffrè, Milano 1964, p. 49; Cfr. G. Marini, voce Imputabilità, in Dig. pen., vol. VI, 1992, p.253.

73. R. A. Frosali, Sistema penale italiano, cit., p.438.

74. F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 608.

75. Ibidem.

76. Fiandaca, Musco, Diritto penale, Giappichelli, Bologna 1989, p.248.

77. Pasquale Filastò, Il problema della capacità di intendere e di volere, in Giust. pen., 1973, II, p. 449.

78. Forse è proprio per questo motivo che nella maggior parte delle pronunce giudiziarie che si sono occupate dell'imputabilità, l'accertamento viene incentrato soprattutto, se non esclusivamente, sulla capacità di intendere.

79. Così, ad esempio, osserva Sabatini: "la coscienza esercita il potere di controllo, la volontà quello di inibizione, e da entrambe le due attività psichiche coordinate scaturisce la condotta individuale. Infatti il processo intellettivo, che muove dalle sensazioni e attraverso la percezione si fa giudizio, è intimamente coordinato al processo volitivo, che trasforma la sensazione in impulso, le percezioni in desiderio o appetito e il giudizio nella concreta determinazione ad agire consapevolmente e volontariamente"; questo spiega "la inscindibilità della capacità di intendere e di volere, come capacità di volere e di agire coscientemente" (G. Sabatini, Istituzioni di diritto penale, Pt. gen., vol.I, 1946, p. 184).

80. Secondo la tripartizione kantiana i fatti psichici si distinguerebbero in fatti di sentimento, di intelletto e di volontà.

81. Cass. 13 aprile 1966, in Cass. pen. mass., 1967, p. 530; Cass. 26 giugno 1968, in Cass. pen. mass., 1969, p. 1215.

82. Relazione sul libro I del progetto del guardasigilli Alfredo Rocco, n. 102, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, Roma 1929, p. 143.

83. Adalberto Albamonte, Gli stati emotivi e passionali e la imputabilità, in Giust. pen., II, 1974, p. 408.

84. Cass. 22 gennaio 1973, in Giust. pen., II, 1974, p. 407.

85. Relazione sul libro I del progetto, cit., n.122, p. 157.

86. Cass. 29 ottobre 1965, in Cass. pen. mass., 1966, p. 668.

87. F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 618.

88. Portigliatti Barbos, Marini, La capacità di intendere e di volere nel sistema penale italiano, cit., p. 34.

89. Si tratta delle ipotesi di ubriachezza volontaria o colposa, preordinata, abituale. Quando l'ubriachezza non deriva da caso fortuito o da forza maggiore non esclude né diminuisce l'imputabilità, anzi, quando è preordinata al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa e quando è abituale, si fa luogo ad un aumento di pena. Infatti, dal momento che in base all'art. 85 c.p. per sottostare a pena l'agente deve essere imputabile al momento della commissione del fatto, la incapacità procuratasi dal soggetto anteriormente al reato lo renderebbe sempre non punibile, perciò è necessario, in certi casi, ritenere il soggetto imputabile e responsabile, pur essendo incapace di intendere e di volere. La disciplina è identica anche per quanto riguarda l'azione degli stupefacenti. Sul tema si veda: F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 647.

90. Portigliatti Barbos, Marini, op. cit., p. 36.

91. Ivi, p. 37.

92. Ivi, p. 38-39.

93. "Dal combinato disposto degli artt. 85 e 88 ss. si desume: a) che l'imputabilità è considerata normalmente esistente [...]; b) che essa è esclusa o diminuita soltanto in presenza di determinate cause; c) che, pertanto, il giudice deve accertare non, positivamente, la esistenza della capacità di intendere e di volere, ma, negativamente, la assenza (totale o parziale) o il dubbio sulla esistenza per effetto di dette cause" (F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 646).

94. Crespi, voce Imputabilità, cit., p. 771.

95. Portigliatti Barbos, Marini, op. cit., p. 40, dove si legge, appunto, che gli artt. 96 e 98 sarebbero l'unica eccezione a questo regime: "nella fattispecie da queste disposizioni disciplinate il giudice dovrà, invero, concretamente procedere all'accertamento delle reali condizioni soggettive del reo ed, in conseguenza, far luogo al trattamento penale", prescindendo così dalle regole poste nei precedenti articoli.

96. Crespi, voce Imputabilità, cit., p. 771.