ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
L'imputabilità e il suo fondamento: le varie teorie

Laura Basilio, 2002

Perché malvagio nessuno è di sua volontà, ma il malvagio diviene malvagio per qualche prava disposizione del corpo e per un allevamento senza educazione, e queste cose sono odiose a ciascuno e gli capitano contro sua voglia. Platone

L'articolo 85 del nostro codice penale stabilisce che "nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l'ha commesso, non era imputabile", e specifica che "è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere".

Perché la legge richiede l'imputabilità? Perché i cosiddetti non imputabili sono esenti da pena?

Il problema del fondamento dell'imputabilità costituisce un tema particolarmente controverso, anche perché strettamente collegato sia con la questione del fondamento del diritto di punire che con quella della natura e dello scopo della pena.

1. La Scuola Classica

La teoria più antica, che per lungo tempo ha dominato e che ancora oggi ha numerosi sostenitori, è quella della Scuola classica. La Scuola classica nasce, in pieno illuminismo, come reazione alla situazione politica, sociale e giuridica in cui si trovava l'Italia, e nella battaglia contro il sistema penale allora vigente - caratterizzato dall'uso della tortura e dalla ferocia delle pene - trova le proprie ragioni di esistenza. Questa dottrina, che fa propria una concezione metafisica del diritto, (1) pone a fondamento del diritto penale i seguenti principi:

  1. il delinquente è un uomo uguale a tutti gli altri;
  2. la condizione e la misura della pena sono date dall'esistenza e dal grado del libero arbitrio;
  3. la pena ha funzione etico-retributiva del male commesso, perciò deve essere assolutamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile.

Per quanto attiene più specificatamente la questione che ci interessa, la Scuola classica fonda l'imputabilità sul libero arbitrio, cioè sulla facoltà di autodeterminarsi secondo una libera e totale scelta della propria volontà. Secondo tale indirizzo la pena, in quanto castigo per il male commesso, ha senso se l'uomo ha volontariamente e consapevolmente scelto la violazione della norma, pur avendo, invece, la possibilità di sceglierne l'osservanza. E "il reato è violazione cosciente e volontaria" del comando penale, ma perché la volontà sia colpevole l'autore del reato, posto davanti all'alternativa tra il bene e il male, deve avere "la concreta capacità di intendere il valore etico-sociale delle proprie azioni e di determinarsi liberamente alle medesime, sottraendosi all'influsso dei fattori interni ed esterni". (2)

Da questo deriva che gli individui affetti da anomalie psichiche o comunque immaturi, non essendo liberi - perché privi di questa libertà di scelta fra il bene e il male - non possono essere biasimati per il male commesso e quindi non possono essere puniti; e inoltre, si aggiunge che in caso di una libertà non del tutto assente, ma limitata, la pena dovrà essere diminuita.

2. La Scuola positiva

Per quanto riguarda la Scuola positiva, che si è sviluppata nel XIX secolo, tre sono i fattori ritenuti determinanti per la nascita di tale indirizzo criminologico. Il primo fattore va ricollegato all'affermarsi del metodo di indagine induttivo-sperimentale. Il secondo è da ricercare nella necessità di "reagire contro l'affievolirsi della difesa sociale" per "ristabilire un equilibrio fra garanzie individuali e garanzie sociali nel campo della giustizia penale". (3) Come abbiamo detto, la Scuola classica si è imposta per rivendicare e proteggere i diritti individuali contro gli abusi e i soprusi dell'autorità nell'amministrazione della giustizia penale. E sotto l'influsso di tale teoria, la difesa sociale era stata inevitabilmente trascurata, cosicché, commenta il Frosali, "per i soggetti moralmente non imputabili, abbandonati dalla giustizia penale anche se commettevano fatti di reato, non esistevano, al di fuori di essa, provvidenze sufficienti alla difesa della società". (4) Il terzo fattore che ha contribuito a dare origine al nuovo indirizzo è stata la inefficacia dell'allora vigente sistema penale per la diminuzione del crimine.

Per la Scuola positiva il principio cardine in base al quale si devono spiegare tutti i fenomeni, fisici e psichici, individuali e sociali, è il principio di causalità. E sulla base di tale presupposto, per i positivisti, il delitto è il prodotto non di una scelta libera e responsabile del soggetto, ma di un triplice ordine di cause: antropologiche, fisiche e sociali. (5) Mentre la Scuola classica considera il reato come ente giuridico astratto staccato dall'agente, per la concezione positivista il reato è un fenomeno naturale e sociale, un fatto umano individuale, indice rivelatore di una personalità socialmente pericolosa. Ecco che l'attenzione del diritto penale si sposta dal fatto criminoso in astratto alla personalità del delinquente in concreto, dalla colpevolezza per il fatto alla pericolosità sociale dell'autore "intesa come probabilità che il soggetto, per certe cause, sia spinto a commettere fatti criminosi". (6) Ed ecco che il principio di responsabilità individuale è sostituito dal principio di responsabilità sociale.

Sulla base di tali presupposti non ha più senso castigare con la pena il reo, "perché fatalmente spinto da forze che agiscono dentro e fuori di lui" (7) e scopo dei provvedimenti repressivi deve essere la difesa sociale, per cui coloro che delinquono devono essere sottoposti a misure di sicurezza, volte a prevenire ulteriori manifestazioni criminose mediante il loro allontanamento dalla società e, ove possibile, il loro reinserimento nella vita sociale. Tali misure pertanto non devono essere proporzionate alla gravità del fatto, ma alla pericolosità del reo e, nella loro applicazione, devono variare di forma per adattarsi alle diverse tipologie psichiche del delinquente, devono essere indeterminate nella durata e derogabili col cessare della pericolosità. Dal momento che anche i fatti psichici sono sottoposti al principio di causalità (determinismo psichico), il libero arbitrio - considerato una illusione psicologica - non ha più senso. Date queste premesse la Scuola positiva arriva inevitabilmente a negare la stessa categoria dell'imputabilità e la distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili. (8) Se infatti, come si è detto, la sanzione penale serve solo come strumento per impedire la commissione di crimini, non vi è motivo per escludere dalla sua applicazione gli autori di reato infermi di mente.

3. La Terza scuola, la Nuova difesa sociale e le teorie della normalità, dell'identità personale e dell'intimidabilità

Tra i primi effetti della nascita di questo nuovo indirizzo e della polemica che seguì con i rappresentanti della Scuola classica vi è senza dubbio il proliferare di una serie di dottrine intermedie, che, da una parte, mantenevano alcuni dei vecchi principi e, dall'altra, accoglievano posizioni proprie dei positivisti.

Fra queste correnti criminologiche va annoverata la Terza scuola, che ha cercato la prima mediazione tra le posizioni proprie delle due scuole. Da questo tentativo è nato il sistema del doppio binario, "fondato sul dualismo della responsabilità individuale-pena retributiva e della responsabilità sociale-misura di sicurezza". Per quanto riguarda il fondamento del diritto di punire, questo indirizzo respinge il principio positivista della responsabilità sociale, e si avvicina alla concezione classica incentrando il diritto penale sulla responsabilità del fatto commesso con volontà colpevole e sull'imputabilità, ma fonda quest'ultima non sul postulato del libero arbitrio, bensì sui concetti di sanità mentale e di normalità (principio del «determinismo psicologico»). Per questo principio l'uomo è determinato dal motivo conscio più forte. Alimena osserva in proposito che:

se di fronte alla stessa offesa, uno uccide ed altri no, questo avviene perché l'uno vuole uccidere e l'altro non vuole: e, fin qui, l'accordo fra i liberisti e i deterministi è perfetto. Ma perché vuole uno, e l'altro non vuole, uccidere? Perché in quel momento, nell'uno, l'idea omicida costituisce il motivo maggiore, e nell'altro no, e forse non si è nemmeno presentata. (9)

Secondo Mantovani, il movimento che ha realizzato il maggior sforzo di sintesi è quello della Nuova difesa sociale, movimento di pensiero che "non sopprime la nozione di responsabilità, non nega le libertà dell'uomo né rifiuta la possibilità della punizione. Ma fonda la politica criminale della difesa sociale sulla responsabilità individuale, la cui realtà esistenziale [...] viene assunta come la molla ed il motore essenziale del processo di risocializzazione e torna ad essere la giustificazione profonda della giustizia penale". (10)

Nell'intento di evitare dispute filosofiche e psicologiche, molti criminalisti hanno cercato di fondare l'imputabilità su basi diverse, empiriche, dando così origine a nuove teorie. Si ritiene che la scienza del diritto penale possa arrivare a delle conclusioni in tema di imputabilità prescindendo da quale sia la soluzione teorica da dare al problema filosofico del libero arbitrio.

Secondo Antolisei, (11) le principali teorie che hanno tentato di uscire dall'antinomia tra libertà e causalità sono quelle della normalità, dell'identità personale e della intimidabilità.

La teoria della normalità concepisce l'imputabilità come normale facoltà di determinarsi, per cui imputabile sarebbe solo chi reagisce normalmente, cioè l'uomo sano e maturo; quindi, se manca la normalità, manca la ragione stessa del punire. Questa teoria è stata sostenuta in particolar modo da Liszt e più di recente da Nuvolone, che distingue il concetto di normalità per il diritto penale da quello proprio della psicologia e della psichiatria. Se, secondo un indirizzo psicologico, non esiste un discrimen preciso fra normalità e anormalità - e tale impostazione si ritrova nel nostro codice nella distinzione tra infermità e semiinfermità - per il diritto è necessario fissare un limite al di là del quale inizia la cosiddetta follia. Questo non vuol dire che i soggetti considerati capaci ai sensi del diritto penale siano necessariamente normali anche per le altre scienze. E, continua Nuvolone, "la normalità, per il diritto penale, è la facoltà di intendere gli oggetti della percezione con una mente non viziata da infermità [...] e a un livello di maturità corrispondente alla media di sviluppo caratteristico dell'età; e la facoltà di adeguarsi a tale rappresentazione". (12)

A questa teoria viene obiettato che il concetto stesso di normalità su cui essa si basa è troppo evanescente, soprattutto se si tiene conto che la stessa psicologia moderna esclude possa essere determinato con esattezza. Ma un altro è l'aspetto che lascia più perplessi: seguendo tale teoria, rimarrebbero esenti da pena una serie di delinquenti, come quelli abituali e professionali, che spesso presentano delle anomalie psichiche.

Per la teoria dell'identità personale (Tarde, Sabatini), invece, l'imputabilità consisterebbe nella appartenenza dell'atto all'autore, per cui l'autore del fatto sarebbe imputabile quando la condotta è conforme alla sua personalità, mentre sarebbe non imputabile "quando viene meno nel soggetto il potere di manifestarsi secondo il proprio Io", (13) come avviene in caso di certe anomalie psichiche.

Al di là delle possibili critiche, si ritiene però quantomeno opinabile considerare l'azione dell'infermo di mente non rispondente alla sua personalità.

Secondo la teoria dell'intimidabilità (Impallomeni, Vannini, Alimena), la imputabilità consiste nella capacità di essere intimiditi dalla minaccia della sanzione; per cui chi non è compos sui - come gli infermi di mente - non può essere sottoposto a pena, perché non sarebbe in grado di sentirne e di subirne la coazione psicologica.

Ma tale tesi non è confermata dalla realtà, visto che i bambini e i malati di mente, entro certi limiti, possono subire l'efficacia intimidatrice dei castighi. Mentre non si può certo dire che tutti gli uomini subiscono l'intimidazione della pena.

Peraltro queste ultime tre teorie, sebbene manifestamente diverse tra loro, appaiono comunque accomunate da una caratteristica ricorrente in ognuna: esse sembrano confondere il problema del fondamento dell'imputabilità con quello dei criteri per determinare chi è imputabile e chi non lo è. E quindi, pur non riconoscendo esplicitamente di fondarsi sul concetto di libertà di volere, mostrano comunque di presupporlo. Infatti le loro distinzioni fra imputabile (normale o suscettibile di intimidazione) e non imputabile (anormale o non suscettibile di intimidazione), presuppongono che il soggetto possa agire diversamente da come ha agito.

4. La teoria dell'eliminazione della mens rea

4.1. I primi dubbi della dottrina britannica sulla responsabilità come presupposto dell'imputabilità

La filosofia di fondo del diritto penale lega strettamente i concetti di imputabilità e responsabilità, perché l'idea base è quella secondo la quale ogni soggetto è imputabile, ovvero a lui è ascrivibile un certo comportamento o una data azione, in quanto a ogni individuo è riconosciuta la capacità di essere responsabile, cioè di essere autore di certi atti e di certi comportamenti e di poterne, doverne rispondere davanti alla società. Dunque presupposto dell'imputabilità è la responsabilità, la quale, a sua volta, presuppone la libertà di agire dell'uomo. Per cui affrontare la questione della responsabilità richiede necessariamente di considerare la reale capacità dell'individuo di rispondere alle norme etico-morali nelle diverse situazioni concrete della vita quotidiana. (14)

Nella dottrina moderna si è assistito ad un crescente scetticismo nei confronti dell'idea che condizione necessaria della punizione per i reati sia la presenza di un atto che il delinquente avrebbe potuto evitare di compiere.

In tutti gli ordinamenti giuridici progrediti, infatti, l'assoggetabilità alla condanna è fatta dipendere non solo dal fatto che il soggetto agente abbia compiuto un atto contrario alla legge, ma anche che l'abbia compiuto in un certo stato d'animo o con una certa volontà. Si tratta dei cosiddetti "elementi mentali" della responsabilità penale, richiesti, appunto, dalla maggior parte degli ordinamenti giuridici, sebbene con varianti e terminologia diverse. (15) I giuristi anglosassoni indicano con la frase mens rea l'insieme di questi elementi mentali necessari alla responsabilità, e ritengono, secondo la tradizione, che tutto ciò vada accertato prima della sentenza, e non solo dopo per determinare il modo in cui va trattato il condannato. E, per almeno un secolo, gli studiosi del diritto si sono trovati d'accordo nel considerare il rispetto per la dottrina della mens rea un segno distintivo di un ordinamento giuridico civile. Ma verso la metà dell'800, in Inghilterra, i critici del diritto hanno iniziato a mettere in dubbio questo pilastro dell'elemento mentale come condizione necessaria della responsabilità penale, arrivando a sostenere che non si può realmente indagare sullo stato mentale effettivo di una persona prima di punirla.

L'oscillazione del diritto penale inglese su questo argomento può essere rappresentata dalle opposte posizioni sostenute, a distanza di qualche secolo, da due giudici: da una parte quella del Chief Justice Brian della Corte dei Common Pleas che, nel 1477, disse che "i pensieri dell'uomo non sono processabili; solo il diavolo conosce i pensieri dell'uomo"; (16) dall'altra quella del Lord Justice Bowen che, nel caso Edgington v. Fitzmaurice del 1885, affermò che "lo stato di mente di un uomo è un fatto, come lo stato della sua digestione". (17)

Il cambiamento dell'atteggiamento dei critici nei confronti della mens rea riguarda principalmente, la responsabilità delle persone mentalmente anormali. Fino a poco tempo fa la principale dottrina inglese in materia era costituita dalle norme formulate dalla Camera dei Lord nel 1843 nel caso M'Naghten. Secondo tale dottrina, perché la anormalità mentale potesse costituire motivo di proscioglimento da un'accusa penale doveva possedere tre elementi:

  1. l'imputato, al momento del fatto doveva essere affetto da un difetto della ragione;
  2. questo difetto della ragione doveva derivare da una malattia mentale;
  3. ne doveva derivare che l'imputato non capisse la natura del proprio atto o che questo fosse illegale.

Questi requisiti furono criticati fin dall'inizio, perché il loro effetto era quello di sollevare dalla responsabilità penale soltanto coloro la cui anormalità di mente avesse intaccato la sfera cerebrale, producendo una mancanza di comprensione. La critica tradizionale, in sostanza, riteneva che la mancanza di responsabilità andasse estesa anche ai casi nei quali la malattia mentale avesse intaccato la sfera affettiva e volitiva, in modo che il soggetto, benché sapesse quello che faceva, e che era sbagliato e illegale, tuttavia non aveva la capacità di controllare le proprie azioni. A sostegno di queste critiche venivano portati come esempi gli ordinamenti stranieri, liberi da questa ossessione per cui solo l'elemento della comprensione sarebbe elemento costitutivo dalla responsabilità: ad esempio, il codice francese del 1810 che scusava chi fosse semplicemente affetto da démence, senza specificare quale dovesse essere la connessione tra questa e l'atto. (18) L'obiettivo di questi critici fu, per tutto l'800, solo quello di modificare la dottrina della mens rea integrando il criterio puramente conoscitivo con uno riguardante la volontà, ammettendo, così, che si può essere incapaci di obbedire al diritto, pur sapendo che lo si sta violando. Ma, nonostante numerosi tentativi, nulla cambiò fino al 1957, anno in cui si giunse al compromesso della cosiddetta "responsabilità attenuata", mutuata dal diritto scozzese. In che consisteva tale novità? L'articolo 2 del Homicide Act del 1957 stabilì che in caso di accusa di omicidio, se l'imputabilità (detta "responsabilità mentale") è diminuita in modo considerevole da un'anormalità mentale, il soggetto può venir condannato non per murder (omicidio), ma per manslaughter (omicidio semplice), il che voleva dire che veniva condannato alla pena della detenzione a vita invece che alla pena di morte.

Si tratta evidentemente di un piccolissimo cambiamento, visto che riguarda solo l'omicidio, e di un cambiamento a metà, dal momento che l'imputato non viene sollevato dalla responsabilità, ma solo punito in modo meno grave. Se è vero che si tratta di un cambiamento sostanzialmente piccolo, è vero anche che ha segnato la fine di un'epoca, all'interno della critica della dottrina della mens rea, e l'inizio di un'altra. Da questo momento, infatti, le richieste dei critici mutarono: non si chiedeva più l'ampliamento della dottrina della mens rea, ma l'eliminazione della stessa. È proprio a partire dal 1957 che nasce quello scetticismo di cui si è detto all'inizio, uno scetticismo che riguarda l'intera situazione della sanzione penale, fin tanto che questa continuerà a contenere elementi non propri di un sistema, si dice, di igiene sociale proiettato esclusivamente in avanti.

4.2. Lo sviluppo del dibattito negli anni '60 - '70

Negli anni sessanta, come si dirà più avanti, a causa di una mutata ideologia penale, caratterizzata dall'abbandono della visione retributiva della pena e dall'avvicinamento alle finalità rieducative - "il delinquente è stato meno percepito come persona da punire perché colpevole e piuttosto come persona da «curare» e da risocializzare" (19)- si assiste ad una tendenza a ridurre "lo spazio della responsabilità individuale". (20) Questo atteggiamento si è posto all'interno di un più vasto fenomeno culturale incentrato intorno alla secolare domanda relativa al libero arbitrio dell'uomo, questione che ha messo in discussione lo stesso diritto dello Stato a punire: è lecito punire l'uomo per quello che ha illegittimamente fatto, se in realtà non è veramente responsabile delle sue azioni?

Così, alla vigilia degli anni '70 si assiste, nel centro-Europa, al riproporsi del quesito se esiste una libertà del volere umano, su cui fondare l'imputabilità dell'uomo e la sua colpevolezza in relazione all'azione compiuta. Il problema nasce dal fatto che se, da una parte, non può contrastarsi l'affermazione di quanti sottolineano come il principio di colpevolezza presuppone che l'autore, al momento del fatto, avrebbe potuto agire diversamente da come ha agito, dall'altra non si possono nascondere i dubbi sull'esistenza di una tale libertà del volere, o, comunque, sulla possibilità di provarla scientificamente. E tali perplessità muovono da due considerazioni distinte: primo, "il legislatore ha affermato questo principio più attraverso la mozione degli affetti, che non col richiamo a dati scientifici" - operazione, peraltro ritenuta impossibile, come si vedrà, da Barbara Wooton; secondo, "la dottrina ha collegato il principio di colpevolezza al fine retributivo della pena, fondandosi su astratti principi filosofici - rispettabili - ma, al limite, in contrasto con l'assetto delle moderne società civili". (21)

Uno dei fattori al quale viene imputata la nascita di tale scetticismo nei confronti della mens rea come presupposto della responsabilità è il declino delle idee retributive.

In Inghilterra il dibattito sulla giustificazione della pena può ricondursi alla contrapposizione tra "utilitarismo" e "retributivismo". (22) Secondo le teorie utilitaristiche, le pene sono giustificabili solo se producono conseguenze positive - la prevenzione di danni futuri - maggiori delle sofferenze inflitte; per le teorie retributive, invece, la giustificazione delle pene si trova solo nel fatto che esse ricompensino, bilancino la malvagità morale dell'atto reo. Queste ultime teorie, dice Hart (23)- uno dei maggiori studiosi contemporanei di filosofia del diritto - guardano indietro, giustificando la pena con riferimento al fatto del reato commesso da chi è successivamente punito; le prime, invece, guardano avanti, stando la giustificazione della pena nel suo contributo alla prevenzione della criminalità e al riadattamento sociale del delinquente.

Chiusa questa parentesi, bisogna capire qual è il nesso tra retributivismo e dottrina della mens rea. Diffuso è l'assunto che solo nel quadro di una teoria retributiva ha senso la dottrina della responsabilità. Barbara Wooton, considerata la sostenitrice più importante della teoria della eliminazione della responsabilità, sostiene che se il fine della pena è la prevenzione di azioni socialmente dannose e non la retribuzione per il male commesso, allora la dottrina tradizionale sbaglia a considerare la mens rea condizione necessaria della assoggettabilità del trasgressore a misure coattive, essendo questa, invece, rilevante solo dopo la condanna. (24) Imputabilità e colpevolezza, secondo la scrittrice, dovrebbero, infatti, essere considerate solo come circostanze determinanti per il carattere della reazione penale. Questa conclusione può essere così formulata: (25)

  1. la funzione della legislazione penale è preventiva, non retributiva;
  2. la legislazione penale deve ispirarsi alle proprie finalità;
  3. il sistema penale deve quindi mirare solo ai fini di prevenzione e non esprimere riprovazione morale;
  4. il criterio dell'imputabilità ha senso solo come condizione di una riprovazione morale;
  5. quindi il criterio dell'imputabilità deve essere eliminato.

Secondo Alf Ross, l'errore sta nell'assurda contrapposizione tra "prevenzione" e "retribuzione" come due possibili scopi della legislazione criminale. La retribuzione non è lo scopo della legislazione penale. I teorici classici della retribuzione, come Kant, non si ponevano il problema di quale fossero gli scopi della legislazione penale, ma la questione morale se lo Stato avesse il diritto di sottoporre l'individuo alla sofferenza della pena, a pesanti interventi nella sua libertà e nella sua vita. E chiedere l'esistenza di una colpa corrisponde ad una visione che limita e condiziona il diritto dello Stato ad utilizzare la pena. Inoltre è sbagliato concludere che se lo scopo della pena è la prevenzione allora bisogna eliminare ogni discorso sulla colpa, sull'imputabilità, sulla retribuzione e sulla disapprovazione. La disapprovazione, infatti, nella forma del rimprovero, è un atteggiamento di reazione che ha la funzione preventiva di determinare un'azione, poiché viene avvertita da colui che ne è colpito come qualcosa di spiacevole. Molti temono più la vergogna e l'infamia, connesse alla pena, che non la sofferenza della pena stessa.

Anche Hart sostiene che il principio di responsabilità abbia valore ed importanza del tutto indipendenti dalle teorie retributive della pena, che quindi possiamo tranquillamente abbandonare, non rinunciando però al principio. Per fare questo, secondo lui, bisogna operare una reinterpretazione della nozione di responsabilità, in grado di evidenziare le idee di equità e giustizia e il valore di libertà individuale, che rimangono fondamentali anche se i nostri scopi nel punire sono proiettati nel futuro della prevenzione sociale. Così, se un soggetto non ha la capacità e l'opportunità di adattare il proprio comportamento al diritto, non dovrebbe essere punito, anche se si puniscono le persone non perché malvagie, ma in quanto dannose. Inoltre, pensiamo a cosa succederebbe se eliminassimo il principio di responsabilità e passassimo ad un sistema in cui ogni responsabilità è oggettiva, cioè non condizionata al requisito della colpevolezza:

perderemmo la capacità [...] di prevedere e pianificare il corso futuro delle nostre vite all'interno della struttura coattiva del diritto [...] infatti il sistema che rende dipendente da un atto volontario l'assoggettabilità alla sanzione giuridica, non solo massimizza la capacità degli individui di determinare il proprio futuro destino mediante una propria scelta, ma massimizza anche la capacità di identificare in anticipo lo spazio che verrà loro lasciato libero dalle interferenze del diritto. (26)

La stessa visione catastrofica della vita, nel caso in cui il sistema penale dovesse eliminare il principio di responsabilità, è presente anche in Alf Ross: "se ogni imprudenza e ogni caso fortuito dovessero causare un'azione da parte della polizia e un'incriminazione, solo che lo stesso atto fosse, se doloso, secondo le norme attuali, sanzionato penalmente, [...] una vita siffatta sarebbe insopportabile". (27) Un sistema di questo tipo, probabilmente, a lungo andare attenuerebbe l'effetto della legislazione penale, perché "quest'effetto dipende innanzitutto dalla capacità del sistema di reazione di rafforzare e plasmare gli atteggiamenti morali di riprovazione della popolazione di fronte ad atti penalmente sanzionati". E questa capacità di rafforzare la condanna della società nei confronti dei reati "dipende a sua volta dal fatto che la pena venga considerata giusta dalla popolazione, cioè che la pena colpisca il colpevole e sia proporzionata alla sua colpa. E questa condizione non sarebbe soddisfatta da un ordinamento giuridico in cui dipenda dal puro caso se una persona sia incriminata ed eventualmente condannata a qualche sofferenza o cura". (28) Un sistema per cui, invece, solo i reati che possono essere attribuiti ad una persona comportano una sanzione penale, dà a ognuno la certezza che la sua sorte dipende da lui stesso e non dal caso. Ne deriva che il principio di colpevolezza è la condizione necessaria affinché ciascuno possa pianificare la propria vita, senza avere a che fare con il codice penale.

Alla base di tutte queste considerazioni vi sarebbe, per Hart, un principio generale più importante: ovvero, il fatto che la società umana è una società fatta di persone che non sono e, soprattutto, non si considerano solo corpi in movimento, che certe volte causano dei danni da prevenire. I movimenti propri e altrui sono avvertiti da ciascuno di noi come delle manifestazioni di scelte e di intenzioni, e questi fattori "soggettivi" sono sentiti spesso come più importanti del movimento fisico attraverso il quale si manifestano. Voglio dire, se veniamo colpiti da una persona, non pensiamo a questa solo come a un corpo che ci ha causato del dolore, ma per noi sarà importante il motivo di tale colpo: se, infatti, il colpo è leggero, ma intenzionale, proveremo nei confronti di chi ci ha colpito rabbia, timore, risentimento, insomma, avremo un giudizio morale diverso dall'ipotesi in cui il colpo, benché più forte, sia accidentale. E il diritto deve riflettere queste distinzioni e non trattare gli uomini meramente come cose modificabili o curabili. Secondo Lady Wooton nessuno nega che queste distinzioni siano largamente apprezzate e intensamente sentite, nessuno dice che la "guilty mind" non sia importante; quello che si contesta è la sbagliata collocazione della mens rea come parte della definizione dei reati, collocazione da cui consegue la regola "no gulty intention, no crime". Infatti, "se la legge dice che certe cose non devono essere fatte, è illogico limitare questo divieto ai casi in cui esse sono state fatte con malice; perché almeno le conseguenze materiali di un atto e le ragioni di proibirlo sono le stesse sia che esso sia il risultato di una premeditazione, sia di una negligenza, oppure di un puro caso". (29) Quindi, la questione della motivazione è, in un primo momento, irrilevante; solo successivamente diventa importante, come guida alle misure da prendere per prevenire il ripetersi dell'atto proibito. Il sistema penale perciò non dovrebbe più essere incentrato sul principio di colpevolezza, ma piuttosto dovrebbe diventare un sistema di correzione basato sul trattamento: il giudice, nel valutare il caso concreto, non dovrebbe basarsi su un giudizio di colpevolezza o meno dell'imputato, ma su un giudizio di prevenzione generale e speciale, cioè dovrebbe chiedersi quale sia la pena migliore che inflitta nel singolo caso favorisca il non ripetersi del crimine. (30)

Un altro fattore che ha contribuito al sorgere di questo nuovo scetticismo verso il principio di responsabilità è da individuare in una certa interpretazione del determinismo. (31)

Chi, infatti, ha un approccio deterministico a queste tematiche, sostiene che la fedeltà ai principi scientifici comporti l'abbandono dell'idea che qualcuno avrebbe potuto fare qualcosa che di fatto non fece. Inoltre, l'ideologia scientifica ritiene che quello che si trova nella mente dell'uomo - compresa quindi la sua capacità di resistere alle tentazioni - non essendo osservabile da nessuno, non può essere studiata con metodi razionali. Ma le argomentazioni più importanti portate da Barbara Wooton a sostegno di questo sistema, in cui basta la prova del solo atto esteriore per rendere l'imputato assoggettabile a misure coattive di trattamento o pena, sono quelle mediche, indipendenti dalle sue affermazioni filosofiche. Secondo questa scrittrice non ci sono dei criteri chiari che ci permettano di giudicare se una persona che ha agito in un certo modo aveva o meno la forza, la capacità di agire diversamente. Questo perché la malattia mentale - dalla quale, per la teoria tradizionale dell'imputabilità, deve dipendere lo stato anormale - diversamente da una malattia somatica, non può essere diagnosticata sulla base di sintomi la cui presenza o assenza sia stabilita da esperti attraverso una osservazione scientifica, scevra da ogni valutazione soggettiva. (32) Per di più ci sono dei casi in cui viene applicata l'etichetta di malato mentale ad una persona solo perché ha avuto un comportamento contrario alle norme sociali riconosciute. Ma in questi casi il comportamento antisociale è l'unica cosa che identifica la malattia, considerata la causa stessa del comportamento, per cui il comportamento diventa la scusante di se stesso. Così, ad esempio, per quanto riguarda la cleptomania, non c'è altra indicazione della malattia che non il comportamento anormale stesso. Infine, Lady Wooton afferma che il criterio della malattia non offre ragioni per sostenere che l'impulso sia stato "irresistibile": il bisogno dell'uomo ricco di rubare per cleptomania è più irresistibile del bisogno dell'uomo povero di rubare per mangiare? La risposta della scrittrice è che "né la scienza medica, né alcuna altra scienza può mai sperare di provare, quando un uomo non resiste ai propri impulsi, se ciò è successo perché non ha potuto o non ha voluto". (33) A sostegno di questa argomentazione adduce la considerazione che non si può entrare nell'intimo di un'altra persona, ed è proprio qui, nella sua coscienza, che è sepolta la sua capacità di resistere alla tentazione. A tale osservazione replicano sia Hart che Ross, facendo rilevare che la Wooton non ha però la stessa idea a proposito della questione, che sorge in base alle classiche M'Naghten Rules, se la persona sapeva cosa stava facendo o che era illegale: in questo caso ella accetta la possibilità di conoscere la psiche di un uomo, sebbene la conoscenza di un uomo sia racchiusa nel suo intimo come la sua capacità di autocontrollo. Ma la Wooton fa un'altra osservazione, meno debole di quella appena vista. Attraverso uno studio delle prove presentate in tribunale per dimostrare che l'imputato non aveva la capacità di obbedire al diritto o che questa era diminuita, si nota che la mancanza di capacità dell'imputato di controllare le sue azioni viene dedotta dalla sua propensione a commettere reati. Per cui la mancanza di capacità di obbedire al diritto viene dedotta solo sulla base di una ripetuta disubbidienza, e poi si spiega tale propensione e scusiamo i reati dell'imputato in base alla sua mancanza di capacità. Ella chiama questo argomento "circolare".

Benché anche questo argomento sia passibile di critiche, è superfluo farle - afferma Hart - dal momento che non possiamo non ammettere la difficoltà di trattare in aula la questione se una persona mentalmente disturbata avrebbe potuto controllare le proprie azioni, e se la sua capacità di farlo era o meno sostanzialmente diminuita. E, in realtà, il programma di eliminare la responsabilità non intende eliminare il dovere di rispondere giuridicamente, ma solo queste indagini tese a verificare se la persona che ha compiuto l'atto vietato dal diritto sia responsabile nel momento in cui lo commise. Viste in quest'ottica, le idee di Barbara Wooton sembrano meno pericolose. E, a ben guardare, sono anche meno nuove di quel che si pensa. Infatti c'era già un'importante eccezione alle idee tradizionali: il Mental Health Act del 1959 disponeva, all'articolo 60, che in qualunque caso, eccetto quando il reato non è punibile con la detenzione o la condanna è determinata in modo fisso dal diritto (omicidio), e dopo la dichiarazione di colpevolezza del trasgressore, se due medici sono d'accordo che l'imputato rientri in una delle quattro categorie di disordine mentale specificate - categorie ampie, che includevano qualsiasi disordine psicopatico - il tribunale può ordinare la sua detenzione per trattamento medico, invece di comminare una condanna penale, anche se occorrono prove che questa detenzione è giustificata. I sostenitori del programma di eliminazione della responsabilità non potevano non guardare con favore ai poteri, attribuiti ai tribunali, di sostituire un trattamento obbligatorio alla pena, ma li ritenevano ancora insufficienti. Primo, perché si trattava pur sempre di poteri discrezionali, per cui, anche se venivano prodotte le prove mediche necessarie, i tribunali rimanevano liberi di infliggere la pena convenzionale. Secondo, perché il diritto era ancora legato all'idea della pena come retribuzione del male commesso e si rifiutava di concepire le misure punitive e quelle mediche come forme differenti di igiene sociale da usare in base a una prognosi dei loro effetti sul colpevole. Terzo, perché il Mental Health Act presupponeva la possibilità di distinguere tra i mentalmente anormali e i sani di mente, possibilità non condivisa, come ho detto, da Lady Wooton. Quarto, perché i poteri di scelta dei tribunali venivano utilizzati solo dopo la dichiarazione di colpevolezza, per la quale, però, era ancora necessaria la prova della mens rea al momento del reato. L'imputato poteva, se lo desiderava, sollevare, come difesa, la questione della anormalità mentale prima della condanna, quindi, la dottrina della mens rea non era ancora stata eliminata. (34)

Secondo i sostenitori di una revisione radicale dell'ordinamento penale bisognerebbe progredire sulla strada tracciata dal Mental Health Act, verso un sistema in cui le corti siano finalmente libere dalla dottrina della mens rea e possano arrivare ad utilizzare misure penali e mediche a loro discrezione, solo sulla base della prova che il comportamento esterno dell'imputato corrisponde alla definizione giuridica di un qualche reato. In tale sistema le misure coattive possono essere di tipo penale o terapeutico o entrambi, ma si può anche accertare che non è necessaria alcuna misura. E la scelta fra queste alternative va fatta non con riferimento allo stato psichico passato del soggetto, ma tenendo in considerazione cosa, visto il suo stato mentale attuale, darà gli effetti migliori per lui e per la società.

Questa è la forma estrema della teoria della eliminazione della mens rea, perché ipotizza un sistema applicabile a tutti i trasgressori nello stesso modo, senza nessuna distinzione tra azione commessa intenzionalmente e azione involontaria.

4.3. Una teoria meno estrema: quella di Hart

Accanto a tale versione estrema della teoria, Hart ne propone una più moderata, secondo la quale la mens rea continuerebbe ad essere una condizione necessaria della responsabilità, su cui indagare e da risolvere prima della dichiarazione di colpevolezza, eccetto per quanto riguarda l'anormalità mentale. Questa forma moderata chiede, cioè, non la eliminazione di tutta la dottrina della mens rea, ma solo di quella sua parte che riguarda la responsabilità giuridica delle persone mentalmente anormali. L'imputato mentalmente normale continuerebbe, secondo questa concezione, ad essere scusato se dimostra di aver agito non intenzionalmente o sotto costrizione o simili; mentre nessuna forma di pazzia o anormalità mentale potrebbe essere addotta per impedire la dichiarazione di colpevolezza. La questione della sua anormalità mentale costituirebbe oggetto di indagine solo dopo la condanna, per determinare quali misure penali o di trattamento sarebbero più efficaci nel suo caso, e l'indagine si occuperebbe principalmente del suo stato mentale attuale piuttosto che passato. Questa proposta meno estrema si basa sull'idea che, nella maggior parte dei casi di condotta meramente accidentale o di reati commessi sotto costrizione, l'imputato verosimilmente non ripeterà il reato, per cui la pena o il trattamento non sono necessari. (35)

Il motivo per il quale Hart non si aggiunge alla schiera dei sostenitori della eliminazione dell'intera dottrina della mens rea è scomponibile in tre dubbi. (36) Il primo dubbio viene alla luce dalla considerazione del fatto che in un sistema che non richiede la mens rea come condizione necessaria della condanna aumentano le occasioni di interferenza della polizia nelle vite dei cittadini, dal momento che ogni colpo, anche se appare chiaramente essere del tutto accidentale (e come tale, oggi, non considerato una violenza privata), diventa oggetto di indagini dirette a valutare la necessità o meno di un trattamento, medico o penale che sia. E, per permettere alle autorità inquirenti di separare dalla massa i casi che più sembrano aver bisogno di una tale indagine, si dovrebbe dar loro ampi poteri discrezionali, cosa che, ovviamente, getta l'individuo in una maggiore incertezza. Il secondo dubbio riguarda la visione, di Lady Wooton, della pena e del trattamento medico come forme alternative di igiene sociale, da usare a seconda dei loro prevedibili effetti futuri. Per cui, anche nel caso in cui vengano applicate al soggetto dichiarato colpevole misure penali, quali l'incarcerazione, non si dovrebbe ricorrere a nessun previo giudizio sulla sua responsabilità. Questo perché nel mondo futuro, disegnato da Barbara Wooton, non ci sarà più una distinzione formale tra ospedali e prigioni, ma entrambi saranno solamente "luoghi sicuri" nei quali chi ha offeso riceverà il trattamento che, secondo quanto l'esperienza suggerisce, più probabilmente susciterà le risposte desiderate. (37) Quello che non convince Hart è il mantenimento della incarcerazione anche come strumento di dissuasione nei confronti sia del soggetto condannato che della società, cosa che deve essere giustificata, secondo lui, dalla dimostrazione che l'individuo punito avrebbe potuto agire diversamente. Si può replicare che queste perplessità sono destinate a sparire con il tempo, visto che, secondo l'idea di Lady Wooton, un giorno si arriverà a considerare la dichiarazione di colpevolezza, seguita dalla condanna al carcere, alla stregua dell'ispezione medica coattiva, seguita dalla detenzione in ospedale. Ma allora, dice Hart, prima di arrivare a questa assimilazione, dovranno essere eliminate le due caratteristiche che, oggi, distinguono la pena dal trattamento medico: la prima è che la pena, come dicevo prima, a differenza del trattamento, è utilizzata anche allo scopo di dissuadere non solo il soggetto condannato, ma, con il suo esempio, anche gli altri membri della società; la seconda è che la condanna di un tribunale e la conseguente sentenza di carcerazione, diversamente dalla detenzione in ospedale a seguito della ispezione medica, è un atto pubblico che esprime il biasimo della società nei confronti di chi viola la legge. E, conclude Hart, finché queste caratteristiche costituiranno degli aspetti della pena, non la si potrà utilizzare verso chi non avrebbe potuto evitare di fare ciò che fece. (38) Il terzo dubbio, infine, riguarda l'affermazione di Barbara Wooton per cui sarebbe illogico introdurre nella definizione di reato un riferimento alla mens rea. E il dubbio, in particolare, riguarda il fatto che, oggi, sono considerate reati, e sempre lo saranno, delle attività socialmente dannose, identificate solo con il riferimento all'intenzione o a qualche altro elemento mentale. Sto parlando, ad esempio, del tentativo di reato. Nessuno, credo, sarà disposto a rinunciare a che venga condotto davanti ad un tribunale chi ha tentato di uccidere, anche se non gli è riuscito. Per cui non potrebbe essere visto con soddisfazione un codice penale che, nella definizione dei reati, omettesse ogni riferimento all'intenzione.

Oggi i rappresentanti delle istanze favorevoli alla mitezza nel trattamento dei criminali ritengono che la soluzione migliore del problema sia, sic et simpliciter, la scomparsa del sistema delle pene a favore di un sistema di trattamento o rieducazione o simili. Hart, come giustamente rileva Mario Jori, (39) ci mostra come la sostituzione della pena con il trattamento medico e la rieducazione comporti il sacrificio di una serie di valori irrinunciabili, quali quelli impliciti nell'essere considerati persone moralmente responsabili solo per quello che si è fatto intenzionalmente. Secondo Hart il principio di responsabilità può essere sacrificato "quando il costo sociale del conservarlo è troppo alto" e "i benefici da esso assicurati sono minimi". (40) Per questo, dobbiamo essere pronti, da una parte, ad accettare delle eccezioni al principio e, dall'altra, a controllare che non venga limitato in modo non necessario. I problemi maggiori riguardano i delinquenti giovani e quelli mentalmente anormali. Per quanto concerne i primi, ad esempio, se è vero che i benefici di un sistema di responsabilità possono essere inferiori al bisogno di salvarli da una carriera criminale, è anche vero che il tentativo di salvarli richiede, spesso, trattamenti medici e riabilitativi più sgradevoli e coattivi della pena.

Si può comunque osservare che il pur importante sforzo operato dai cosiddetti "filantropi" per mitigare il sistema penale non implica necessariamente maggiore libertà, potendo ciò comportare, loro malgrado, anche pesanti limitazioni della libertà personale. Basti pensare che la differenziazione tra pene e misure di sicurezza è stata definita come "una truffa delle etichette senza risultati pratici per colui che ne è colpito". (41)

4.4. I riflessi in Italia del dibattito inglese

In Italia, come mette in evidenza la Bertolino, (42) l'idea dell'abolizione nasce proprio come risposta, in chiave polemica, nei confronti dell'ospedale psichiatrico giudiziario, rivelatosi in concreto istituzione custodialistica-repressiva, anziché istituzione di cura e trattamento. Contro gli effetti devastanti dell'ospedale psichiatrico e contro la compresenza di differenti modelli interpretativi del concetto di malattia mentale (43) l'unica soluzione è sembrata mettere al bando la stessa categoria dell'imputabilità dal diritto penale. Ma ci si chiede "se i suggerimenti provenienti da queste tendenze radicali siano da seguire o se piuttosto non si debba continuare a ritenere ancora utilizzabili le categorie in questione, accettando la sfida di condurle a nuove dimensioni più adeguate alle esigenze complessive del diritto penale contemporaneo". (44) Tuttavia la strada dell'abolizionismo cancellerebbe una distinzione, quella tra soggetto sano e soggetto malato di mente, che continuerebbe a permanere nella cultura sociale, per cui negarla all'interno del diritto penale significherebbe negare questa realtà, con il rischio - sottolinea la Bertolino - di una delegittimazione del sistema penale stesso. (45) Il problema dell'imputabilità deve essere risolto non solo attraverso l'utilizzo di dati e verifiche offerti dal sapere psichiatrico-psicologico, ritenuto insufficiente, (46) ma anche tenendo in considerazione un'altra dimensione, quella di politica criminale, (47) "per la quale la rinuncia alla punizione di soggetti 'capaci' ma 'non normali' potrebbe rivelarsi - in dati casi e a date condizioni - una soluzione preferibile". (48) La strada in grado di superare questa alternativa tra l'abolizione e il mantenimento dello status quo sarebbe, perciò, quella di modificare gli artt. 85 e ss.del codice penale italiano, ma senza tralasciare una riforma delle sanzioni, perché la sola introduzione dell'elenco specifico dei disturbi psichici che integrano il vizio di mente - come avviene nella Repubblica federale tedesca - non risolve il problema, se poi le conseguenze sanzionatorie, riservate al delinquente malato di mente, risultano inadeguate.

Non ci sono dubbi sul fatto che riguardo ai criteri di valutazione di quanto nel comportamento dipende da una libera scelta e di quanto, invece, è determinato da cause esterne al soggetto che agisce c'è ancora disaccordo. Se poi il comportamento riguarda degli adolescenti tutto è ancora più difficile.

Note

1. Secondo Carrara, uno dei massimi rappresentanti della Scuola classica, "il diritto è congenito all'uomo perché dato da Dio all'umanità fin dal primo momento della sua creazione". Cfr. Francesco Carrara, Programma del corso di diritto criminale, prefazione alla V edizione, vol. I, Fratelli Cammelli, Firenze 1897, p.10.

2. Ferrando Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova 1992, p. 560.

3. Raul Alberto Frosali, Sistema penale italiano, vol.I, Utet, Torino 1958, pp. 36-37.

4. Ibidem: "la situazione (era) resa ancor più grave dal fatto che, specialmente per opera dei giudici popolari, erano largamente ammessi a beneficiare della non imputabilità soggetti ritenuti colpiti, al momento del fatto, da infermità di mente transitoria - es., delinquenti passionali, delinquenti per «forza irresistibile»...".

5. Enrico Ferri, fondatore della Scuola positiva, individuò, nel suo libro Sociologia criminale (vol. 1, Utet, Torino 1929) tre categorie di fattori del reato:

  1. antropologici, distinti nelle tre sottoclassi della "costituzione organica"(caratteri somatici), della "costituzione psichica" (intelletto, volontà, sentimento) e delle "condizioni bio-sociali" (classe sociale, stato civile, professione, ecc.);
  2. fisici (clima, natura del suolo, ecc.);
  3. sociali (densità demografica, religione, costume, politica, ecc.).

6. F. Mantovani, Diritto penale cit., p. 562.

7. Ibidem.

8. Nel 1878 Enrico Ferri pubblica La teoria dell'imputabilità e la negazionedel libero arbitrio, in cui raccoglie tutte le prove che le diverse scienze offrono per dimostrare l'inconsistenza del libero arbitrio.

9. Trovo la citazione, senza alcun riferimento bibliografico, in R. A. Frosali, op. cit., p. 62.

10. Cfr. F. Mantovani, Diritto penale cit., pp. 567; dello stesso autore, Il problema della criminalità, Cedam, Padova 1984, p. 40: la Nuova difesa sociale "ricevette la sua prima consacrazione internazionale con la istituzione nel 1948 della Sezione di difesa sociale delle Nazioni Unite e si sviluppò soprattutto per iniziativa della Societé international de défence sociale, fondata nello stesso anno".

11. Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale, Pt. gen., Giuffrè, Milano 2000, pp. 610-612.

12. Pietro Nuvolone, Il sistema del diritto penale, Cedam, Padova 1975, p. 246.

13. F. Antolisei, op. cit., p.611.

14. Cfr. Lorena Milani, Devianza minorile, Vita e pensiero, Milano 1995, pp. 377-378.

15. I codici continentali di solito fanno una netta distinzione tra le questioni che riguardano la capacità generale - descritte come questioni di responsabilità o imputabilità - e quelle che riguardano la presenza o meno di conoscenza o di intenzione in occasioni particolari - incluse nell'argomento della colpevolezza. Il diritto inglese non traccia in modo altrettanto netto questa contrapposizione e spesso utilizza l'espressione mens rea per comprendere tutte le varie condizioni psicologiche giuridicamente necessarie per l'assoggettabilità alla pena.

16. Citazione del Year Book trovata in Herbert Lionel Adolphus Hart, Responsabilità e pena, Edizioni di Comunità, Milano 1981, p. 215.

17. H. Hart, ibidem.

18. Per quanto riguarda la situazione italiana preunitaria, è interessante rilevare come, diversamente dai codici sardo-piemontese, parmense e degli Stati estensi, i quali facevano riferimento ai concetti di «imbecillità, pazzia e morboso furore», il codice delle Due Sicilie parlava di «demenza», concetto già proprio, come abbiamo detto, del codice napoleonico.

19. Ibidem.

20. Adolfo Ceretti, Come pensa il Tribunale per i Minorenni, FrancoAngeli, Milano 1996, p. 24.

21. Francesco Tagliarini, L'imputabilità nel progetto di nuovo codice penale, in Ind. pen., 1994, p. 455.

22. Le discussioni che si sono svolte, nell'arco di tutta la storia dell'umanità, sul fondamento della pena - che hanno assunto in altri paesi terminologie diverse, come l'opposizione tra teorie relative e teorie assolute della pena - possono essere ricondotte a tre teorie fondamentali: la teoria retributiva, la teoria della prevenzione generale e la teoria della prevenzione speciale. All'interno di ciascuna di queste vi sono, poi, indirizzi diversi.

23. H. Hart, op. cit., p. 259.

24. Barbara Wooton, Crime and The Criminal Law, Stevens and Sons, London 1963, pp. 51-52.

25. Trovo questo schema del ragionamento di Barbara Wooton in Alf Ross, Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano 1972, p. 236.

26. Hart, op. cit., p.208.

27. Alf Ross, op. cit., p. 226: "ogni danno casuale ad una cosa sarebbe da incriminare come danneggiamento o devastazione. Ogni offesa casuale inferta al corpo di un altro (un colpo, una spinta, una ferita) sarebbe da definirsi lesione" ecc.

28. Ivi, p. 211.

29. B. Wooton, Crime and The Criminal Law cit., p. 51: "un uomo è ugualmente morto e i suoi parenti sono ugualmente colpiti sia che sia stato accoltellato sia che sia stato investito da un automobilista ubriaco".

30. Ivi, p. 53.

31. Il determinismo è quell'indirizzo filosofico che ha come tema centrale l'idea che tutte le cose, sia gli eventi della natura che i fatti umani, siano rigorosamente necessitate e determinate. Il determinismo moderno si differenzia da quello antico perché, invece di basarsi su considerazioni puramente teoriche, prende le mosse da un'immagine scientifica del mondo - inaugurata da Galilei e sviluppata da Newton - secondo la quale l'universo è retto da leggi inviolabili, che si identificano con le connessioni causali. Questo approccio scientifico influenzò, infatti, la filosofia, che si sforzò di applicare il metodo meccanicistico alla comprensione dei fenomeni psicologici e morali.

32. "If mental health and ill-health cannot be defined in objective scientific terms that are free of subjective moral judgments, it follows that we have no reliable criterion by which to distinguish the sick from the healthy mind". Lady Wooton arriva a tale conclusione dopo aver confrontato 29 definizioni di salute mentale offerte dalla letteratura. Queste definizioni, infatti, contengono come motivo ricorrente, l'identificazione della salute mentale con la capacità di vivere felici e di esplicare le proprie doti. Si tratta cioè di definizioni che implicano valutazioni e ideali culturali. (B. Wooton, Social Science and Social Pathology, Allen and Unwin, 1959, p. 227).

33. B. Wooton, Crime and The Criminal Law cit., p. 74: "le proposizioni della scienza sono soggette per definizione a verifica empirica: ma poiché non è possibile mettersi nei panni di un altro uomo non è concepibile un criterio oggettivo che possa distinguere tra il 'non ha resistito' e il 'non ha potuto resistere' [...]. Si deve allora dire che è impossibile fissare alcuna misura esatta della responsabilità, nel senso di capacità del soggetto di agire diversamente da come in realtà ha agito".

34. Il merito comunque riconosciuto al Mental Health Act è quello di permettere al trasgressore mentalmente anormale - che prima, per evitare la detenzione a tempo indeterminato a Broadmoor, non avrebbe avanzato una difesa in base alle M'Naghten Rules - di far valere, ora, le proprie condizioni mentali dopo la dichiarazione di colpevolezza, per ottenere un ordine di spedalizzazione invece di una sentenza di carcerazione.

35. Secondo Hart questa posizione potrebbe essere conseguita abbastanza facilmente, "eliminando le difese per malattia mentale e responsabilità attenuata ed estendendo le disposizioni del Mental Health Act" a tutti i reati, omicidio compreso. Un altro tassello della sua riforma consisterebbe nell'eliminare, in presenza di prove dirette di disturbo mentale, la possibilità per le corti di pensare in termini di responsabilità e di condannare a misure penali e non mediche. Hart è consapevole del fatto che anche questa sua riforma moderata può sollevare delle questioni, tra le quali possiamo riportare, a titolo esemplificativo, la seguente: se l'indagine, che viene fatta dopo la dichiarazione di colpevolezza sull'anormalità mentale del soggetto, deve occuparsi del suo stato presente, cosa si fa nel caso in cui il trasgressore soffrì di disturbi mentali al tempo del reato, ma ora è guarito? O nell'ipotesi in cui era, all'epoca del fatto, "normale" ma, al momento della dichiarazione di colpevolezza, disturbato mentalmente? (Hart, op. cit., p. 233).

36. Hart, Responsabilità e pena cit., pp. 233-237.

37. B. Wooton, Crime and The Criminal Law cit., pp. 79-80: "For purpose of convenience offenders for whom medical treatment is indicated will doubtless tend to be allocated to one building, and those for whom medicine has noting to offer to another".

38. "D'altra parte - si chiede Hart - se queste caratteristiche non rimanessero, il diritto non avrà forse perso un elemento importante della sua autorità e forza deterrente - forse altrettanto importante per qualche colpevole che non la forza deterrente delle misure effettive da esso amministrate?" (Hart, Responsabilità e pena cit., p. 236).

39. Nella sua introduzione alla già più volte citata Responsabilità e pena di Hart.

40. H. Hart, op. cit., pp. 210-211.

41. Citazione di Ellscheid-Hassemer, Strafe ohne Vorwuf, trovata in Rotondo, Riflessioni su responsabilità personale e imputabilità nel sistema penale dello stato sociale di diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 500.

42. Marta Bertolino, Profili vecchi e nuovi dell'imputabilità penale e della sua crisi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 270-275.

43. A questo riguardo si veda Marta Bertolino, La crisi del concetto di imputabilità, in Riv. it. Dir. proc. pen. 1981, pp. 190 e ss.

44. Ivi, p. 230.

45. Marta Bertolino, Profili vecchi e nuovi dell'imputabilità penale e della sua crisi, in Riv. it. dir. proc. pen. 1988, p. 272.

46. Abbiamo già visto come uno dei rilievi dal quale muove l'orientamento abolizionista è proprio quello relativo alla natura sfuggente dei concetti di infermità, di malattia di mente, come testimoniano le diverse e contraddittorie definizioni rinvenibili nella psichiatria.

47. Il fatto che la questione dell'imputabilità, per la sua soluzione, richiede precise scelte di politica criminale, lo sostiene anche Pulitanò, il quale osserva che "non per prepotenza dei giuristi o del legislatore, ma per sua natura, il problema dell'imputabilità è un problema di politica criminale, o politica del diritto penale". (Pulitanò, L'imputabilità come problema giuridico, in corso di pubblicazione, p. 7-10).

48. Ivi, p. 10.