ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Chiara Rugi, 2000

La decarcerazione minorile ha trovato per la prima volta fondamento culturale nei movimenti abolizionisti degli anni settanta, che criticavano le degradazioni e le inefficienze delle istituzioni totali. L'idea del carcere come extrema ratio è stata parzialmente accolta dal legislatore con l'Ordinamento Penitenziario (legge n. 354 del 1975) e dal D.P.R. 616 del 1977.

La riforma penitenziaria non ha avuto ad oggetto la specifica situazione dei minori, ma la portata delle trasformazioni introdotte dal legislatore è stata, comunque, tale da condizionare ampiamente anche lo sviluppo del dibattito sul carcere minorile. Le misure alternative introdotte dall'Ordinamento Penitenziario hanno funzionato come importanti stimoli sulla via della decarcerizzazione, poiché hanno offerto la possibilità di concepire la sanzione penale al di fuori di istituzioni chiuse.

Anche la riforma attuata con il D.P.R. n. 616 del 1977 ha contribuito al processo di decarcerazione, attribuendo le competenze amministrative, riguardo ai minorenni, agli enti locali, ed aprendo così alla possibilità di predisporre servizi e istituzioni più elastici e modificabili e perciò adatti a facilitare la socializzazione dei minori.

Il movimento di decarcerazione ha trovato poi riconoscimento a livello legislativo nel D.P.R. n. 448 del 1988, che con il nuovo processo penale minorile ha sancito, quale principio fondamentale, quello della residualità della detenzione ed ha favorito un'ampia decarcerazione, determinando, per tutto il 1990, una drastica riduzione del numero degli ingressi in carcere. Il processo di deistituzionalizzazione è stato tuttavia bruscamente interrotto dall'emanazione del D.P.R. n. 12 del 1991, per effetto del quale il numero dei minori presenti negli istituti penali è iniziato nuovamente a crescere.

Dal 1991 l'applicazione in concreto delle misure di decarcerazione, e i conseguenti diritti alla educazione e alla socializzazione garantiti ai minori che commettono reati, sono stati decisamente influenzati da variabili extragiudiziarie, ossia da dimensioni di tipo culturale, operativo e sociale, la cui importanza sulle scelte di politica giudiziaria non deve essere sottovalutata.

La ricerca condotta ha evidenziato, infatti, come le diverse misure di decarcerazione non vengano applicate in modo bilanciato e coerente a tutti i minori. I giudici decidono la concessione di tali misure tenendo conto dell''economicità' del reinserimento in quanto, consapevoli della limitatezza delle risorse esistenti, tendono ad escludere dai provvedimenti di decarcerazione i soggetti più svantaggiati che renderebbero più alto il rischio di fallimento.

Il primo 'filtro selettivo' nell'applicazione delle misure viene attivato dal Tribunale per i Minori che è il principale attore delle politica di decarcerazione. La verifica sull'applicazione della sospensione del processo e messa alla prova, ad esempio, ha mostrato che il numero di provvedimenti concessi ai minori stranieri è molto esiguo rispetto a quello degli italiani nella stessa posizione giuridica. In generale, la circostanza che nei confronti dei soggetti in condizione di maggiore disagio vengano concessi un numero minore di provvedimenti, dimostra che questa misura non viene applicata in modo proporzionale al livello del bisogno e della problematicità delle condizioni, mentre è probabile che i minori con più problemi non rientrino nei programmi di intervento che tendono a evitare la carcerazione. Probabilmente per questa stessa ragione i Tribunali dispongono la misura nei confronti di soggetti di età abbastanza elevata, che, per questo, hanno una maggiore capacità di confrontarsi con gli impegni di responsabilità che la prova comporta.

L'indagine condotta presso il Tribunale per i Minori di Firenze ha messo in luce, inoltre, quanto raramente i giudici facciano ricorso all'applicazione delle misure sostitutive alla detenzione. In particolare, nel quinquennio considerato, una sola volta la pena detentiva è stata sostituita dalla semidetenzione. Il ricorso marginale a questa misura risulta essere comune a tutto il territorio nazionale - come dimostrano i dati diffusi dall'Ufficio Centrale per Giustizia Minorile - e trova spiegazione essenzialmente nella carenze di strutture penali adeguatamente attrezzate per l'esecuzione della semidetenzione. Tale misura dovrebbe infatti trovare esecuzione in appositi istituti o in sezioni autonome di istituti ordinari ed è quindi l'assenza di questi spazi che giustifica la sua mancata applicazione. In particolare, i minori stranieri, che spesso sono privi di dimora e che non possono accedere ad altre misure che presuppongono tale requisito, potrebbero, invece, trovare nella semidetenzione un modo per accedere, seppure parzialmente, ad una misura di decarcerazione.

Poco applicata risulta essere anche la pena sostitutiva della libertà controllata. I dati generali mostrano come i Tribunali che la concedono con più frequenza sono quelli del Sud e delle isole, dove il ricorso alla carcerazione dei minori è più elevato. Si può dedurre che la libertà controllata sia utilizzata, in tali circostanze, come strumento deflattivo, anche se non specifico per i minori. Possiamo ritenere inoltre che i Tribunali in questione preferiscono ricorrere alla libertà controllata, piuttosto che alla messa alla prova, in considerazione del minore impegno progettuale che la misura sostitutiva richiede a tutto il sistema della giustizia minorile, a fronte di una scarsa disponibilità quantitativa, ma anche qualitativa, dei servizi in queste realtà locali. A differenza della misura prevista dall'art. 28 D.P.R. 448/88, infatti, la libertà controllata si sostanzia, in genere, in una serie di prescrizioni a contenuto negativo e non richiede necessariamente la predisposizione di un programma articolato che preveda una serie di attività finalizzate agli obiettivi di crescita dei minori.

Il secondo 'filtro selettivo' per l'applicazione delle misure di decarcerazione è rappresentato dalla Magistratura di Sorveglianza a cui è attribuita la competenza a decidere sulla concessione delle pene alternative alla detenzione sui casi che già sono passati al 'filtro selettivo' del Tribunale per i minori. Siccome la selezione avviene attraverso i medesimi criteri di 'economicità' delle risorse, il numero dei provvedimenti disposti dai Magistrati di Sorveglianza è di fatto limitato. D'altra parte in relazione alle misure alternative è ragionevole rilevare come, essendo esse dirette soltanto a coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva, le applicazioni siano limitate. L'analisi effettuata sulla situazione dell'istituto penale minorile "Meucci" ha infatti mostrato come la maggior parte degli ingressi nell'istituto riguardi minori stranieri in custodia cautelare, un numero rilevante dei quali ha fatto ingresso più volte nel corso dei cinque anni considerati, ma quasi sempre in qualità di imputati. Anche la maggior parte delle scarcerazioni avviene per scadenza dei termini di custodia cautelare riguarda soprattutto minori stranieri. I minori in esecuzione di pena definitiva costituiscono, invece, un numero molto basso e tra questi molti sono italiani. Ciò spiega come mai, tra i motivi di uscita dall'istituto, solo una bassa percentuale è rappresentata dai provvedimenti che dispongono una misura alternativa.

I dati relativi alla tipologia delle misure alternative concesse a Firenze confermano la tendenza nazionale. I provvedimenti che dispongono l'affidamento in prova al servizio sociale costituiscono la maggioranza delle misure applicate, seguiti dai provvedimenti di concessione della detenzione domiciliare e da un numero ridotto di affidamenti ex art. 94 D.P.R. 309/90. Rarissimi i provvedimenti che dispongono la misura della semilibertà, ma valgono in proposito le considerazioni svolte circa la mancata applicazione della semidetenzione.

Dall'analisi dei fascicoli relativi all'applicazione dell'art. 47 e dell'art. 94 D.P.R. 309/90 (che contiene la disciplina dell'affidamento terapeutico di soggetti tossicodipendenti), è apparso piuttosto chiaro l'automatismo con il quale il Tribunale di Sorveglianza concede tali misure in presenza della possibilità di predisporre, nei confronti del minore, una serie di attività che tendano all'attivazione delle sue potenzialità di sviluppo. Spesso l'affidamento in prova al servizio sociale viene concesso ad extracomunitari nei confronti dei quali il Tribunale per i Minori avrebbe concesso la messa alla prova, ma per i quali mancavano, al momento del processo, strutture disponibili ad accoglierli.

La detenzione domiciliare è complessivamente un istituto meno applicato rispetto all'affidamento in prova. Nell'area fiorentina risultano essere destinatarie di questo provvedimento quasi esclusivamente ragazze nomadi. In particolare, partire dal 1998, i Magistrati di Sorveglianza hanno deciso di concedere la detenzione domiciliare nonostante che le minori non avessero fissa dimora, disponendo l'esecuzione della misura presso il campo nomadi, evidentemente con lo scopo di evitare la carcerazione.