ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
Il D.P.R. 448/88 e la sua applicazione

Chiara Rugi, 2000

2.1. Le principali fonti sovranazionali come presupposti del nuovo processo penale minorile

Il lungo processo di affermazione dei diritti dei minori ha seguito, in generale, lo sviluppo dei diritti dell'uomo e si è snodato, non a caso, in concomitanza con l'evolversi dei diritti della donna e dei soggetti marginali.

I primi segni, a livello internazionale, di un nuovo interesse per l'infanzia e di un modo nuovo di concepire il minore come soggetto di diritti si ebbero nel 1902 nell'ambito di una 'Conferenza di diritto privato' tenutasi all'Aja, durante la quale venne approvata una Convenzione sulla tutela del minore. In seguito, nel 1913 la 'Conferenza internazionale per la protezione dell'infanzia' di Bruxelles, promosse la cooperazione internazionale in quest'ambito. Spetta invece all'OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) il merito di aver promosso concretamente lo sviluppo del diritto minorile in ambito internazionale. Nel 1919 tale organizzazione fissò l'età minima di ammissione dei bambini al lavoro nelle industrie a 14 anni e vietò il lavoro notturno per i ragazzi minori di 18 anni.

Solo con la 'Dichiarazione dei diritti del fanciullo' (1) tuttavia, venne sovvertita la logica che fino a quel momento aveva caratterizzato i precedenti ordinamenti giuridici; con essa vengono per la prima volta affermati alcuni fondamentali ed irrinunciabili principi: il minore viene considerato soggetto di diritti e diviene cittadino.

Il secondo conflitto mondiale rallentò il processo di rinnovamento in campo minorile ma, nello stesso tempo, fu anche un'occasione di rilettura dell'interesse per il minore; la guerra aveva esasperato al massimo i già gravi problemi della condizione minorile mondiale, ai quali occorreva porre rimedio con tempestività.

Nel 1948, il diritto internazionale, infatti, fece un altro passo in avanti nell'affermazione della dignità della persona umana, con la 'Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo', con la quale i diritti umani divennero oggetto di tutela internazionale, ponendosi come 'diritti positivi universali'. La 'Dichiarazione Universale', tuttavia, non dedicò molta attenzione ai minori ma stabilì, comunque, alcuni principi che sono collegati in modo diretto con la materia minorile e che hanno costituito la base delle successive dichiarazioni, carte o convenzioni sui fanciulli. In particolare, l'art. 1 sancisce l'uguaglianza e la libertà degli esseri umani e si riferisce a tutti gli individui, a prescindere dall'età; gli artt. 2-9 affermano diritti e divieti in ordine alla salvaguardia della persona e della sua libertà. L'art. 26, infine, sottolinea il diritto all'istruzione come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana ed è, quindi, rivolto in modo specifico al minore.

Un vero e proprio codice di riferimento per tutti gli ordinamenti sociali e civili delle nazioni fu rappresentato dalla nuova 'Dichiarazione dei diritti del fanciullo' del 1959. I due presupposti fondamentali alla base dei principi enunciati in questo documento, sono contenuti nel preambolo: "la fede nei diritti fondamentali dell'uomo e nella dignità e nel valore della persona umana", e la convinzione che "il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica ed intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali, compresa una adeguata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita". Viene, perciò, affermato "un diritto non più sui minori, ma per i minori". Nel documento si mette in rilievo che occorre sempre tener presente "il superiore interesse del fanciullo" e che il godimento dei diritti e delle libertà che sono affermati nella 'Dichiarazione' costituisce un interesse per la società stessa e non solo per il ragazzo. Viene affermato, inoltre, il "diritto a un'educazione che, almeno a livello elementare, deve essere gratuita e obbligatoria".

In seguito, altri documenti contribuirono a rafforzare e a consolidare la cultura dei diritti dell'uomo e del minore.

Nell'ambito specifico della devianza minorile e dell'amministrazione della giustizia, una importanza fondamentale hanno le 'Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile' (Regole di Pechino), approvate al VI 'Congresso delle delle Nazioni Unite' del novembre del 1985, che costituiscono la fonte alla quale si sono ispirati i più recenti codici minorili. I principi più innovativi ed illuminati di tali regole sono stati accolti anche nel Nuovo Codice di procedura penale minorile (D.P.R. n. 448 del 1988). L'oggetto principale di questo importante documento è la tutela dei diritti del minore entrato in conflitto con la giustizia minorile. Il documento si articola in cinque parti.

Nella prima parte si sottolinea che la protezione dei minori può essere garantita efficacemente solo attraverso un'opera di prevenzione sociale (art. 1.1); in tale direzione, si sottolinea la necessità di mobilitare tutte le risorse familiari, sociali ed istituzionali al fine di ridurre al minimo l'intervento giudiziario (art. 1.3). Negli artt. 2.1 e 2.3 viene evidenziata la specificità dell'intervento penale nei confronti dei minori e la necessità di tener conto delle esigenze particolari di questi soggetti. Tra le disposizioni più significative a livello processuale rientrano sia l'art. 4, che stabilisce che la soglia della responsabilità penale non deve essere fissata ad un limite troppo basso, sia l'art. 5 che, invece, fissa come obiettivi del sistema della giustizia minorile la tutela del giovane e il ricorso a pene proporzionali alle circostanze del reato e all'autore dello stesso. All'art. 6, si prevede, anche in considerazione della varietà delle misure applicative nei confronti dei minorenni, l'esercizio di un potere discrezionale, in modo che sia possibile adottare le misure più idonee al caso a tutti i livelli dell'amministrazione della giustizia minorile, sia nell'istruttoria che nel processo e nella fase esecutiva. Naturalmente tale potere discrezionale dovrà essere coerentemente gestito secondo principi di responsabilità e professionalità. All'art. 7, vengono assicurate alcune garanzie procedimentali: presunzione di innocenza, diritto alla presenza del genitore o del tutore, diritto alla notifica delle accuse, al confronto e all'esame incrociato dei testi, il diritto a non rispondere e il diritto di appello. Il diritto del minore alla riservatezza è tutelato all'art. 8, che stabilisce il rispetto alla vita privata in modo da evitare possibili danni causati da una pubblicità inutile e denigratoria; di regola è vietata ogni pubblicità circa gli atti relativi al minore che potrebbe favorirne l'etichettamento come deviante, con gravi conseguenze sulla strutturazione della personalità del minore.

La seconda parte riguarda l'istruzione del processo. L'art. 10 raccomanda che l'informazione ai genitori e ai tutori dell'avvenuto arresto del minore avvenga nel più breve tempo possibile e che venga immediatamente esaminata la questione del rilascio. I contatti tra le forze dell'ordine ed il minore autore di reato dovranno avvenire in modo da rispettare lo stato giuridico del giovane e da evitare di nuocergli. Un aspetto particolare viene trattato all'art. 11 che riguarda le misure extragiudiziarie, ossia l'affidamento ai servizi della comunità, e ad altri servizi con il consenso dei genitori o del tutore. Ciò evita il processo formale da parte dell'autorità competente previsto dall'art. 14.1 e rappresenta, quindi, la misura migliore per i minori, soprattutto per coloro che sono autori di reati di lieve entità. L'art. 12 raccomanda l'istituzione di un corpo di polizia specializzato e l'art. 13 prevede che la custodia preventiva sia la più breve possibile; si consigliano, inoltre, misure alternative atte a limitare la contaminazione criminale.

La terza parte riguarda il giudizio e il processo. L'art. 14 sottolinea la necessità che il minore venga giudicato da un'autorità competente, che la procedura seguita tenda a tutelare gli interessi del minore e debba svolgersi in un clima di comprensione che permetta la libera partecipazione del soggetto. Viene stabilito il diritto del minore all'assistenza legale e a quella psicologica ed affettiva derivante dalla partecipazione al processo di genitori e tutori. L'art. 17 stabilisce alcuni principi guida riguardanti il giudizio e la sentenza. La decisione finale dovrà essere proporzionata alle circostanze ed alla gravità del reato, nonché alla condizioni ed ai bisogni del soggetto autore del reato, come anche, ai bisogni della società; la limitazione delle libertà dovrà essere ridotta al minimo e la tutela del minore deve rimanere il criterio determinante nella valutazione del singolo caso. Non si applicano ai minori né la pena capitale né le punizioni corporali. L'art. 18 si occupa della decisione al termine del giudizio. Viene sottolineata la necessità di ricorrere a sanzioni alternative molto diversificate, consentendo una grande flessibilità allo scopo di evitare per quanto possibile il collocamento in un istituzione. Tali misure, consistono nel: a) disporre un sostegno, un orientamento, una sorveglianza; b) applicare misure di probation; c) disporre l'intervento dei servizi della comunità; d) applicare multe, risarcimento e restituzione; e) disporre un regime ausiliario o altri regimi; f) disporre la partecipazione a gruppi o ad altre attività analoghe; g) disporre il collocamento in una famiglia, in una comunità o in un altro ambiente educativo; h) adottare altre decisioni pertinenti. Viene inoltre stabilito che in nessun caso il minore sarà inutilmente sottratto alla famiglia. Coerentemente con le precedenti disposizioni, l'art. 19 prevede che il collocamento in istituto resti la soluzione estrema, mentre l'art. 20 raccomanda che ogni caso sia trattato più rapidamente possibile, evitando ritardi nocivi. Si ribadisce che gli atti relativi ai procedimenti sui minori sono riservati (art. 21), auspicando la promozione di interventi per lo sviluppo delle competenze professionali degli addetti ai lavori (art. 22).

Nella quarta parte viene esaminato il trattamento in libertà. Con l'art. 24 si assicura ai minori, in ogni fase del procedimento, un'assistenza, soprattutto a livello educativo, che favorisca il reinserimento del minore nella società e si raccomanda che ciò avvenga attraverso la mobilitazione di volontari, di privati, di istituzioni locali ed altri servizi comunitari (art. 25).

L'ultima parte è dedicata al trattamento in istituzione. L'art. 26 stabilisce che la formazione e il trattamento dei minori collocati in istituzione hanno l'obiettivo di assicurare loro assistenza, protezione, educazione e competenza professionale affinché siano posti in grado di avere un ruolo costruttivo e produttivo nella società. Si sottolinea che il trattamento si svolga in istituzioni separate dagli adulti e, all'art. 28 si caldeggia l'utilizzo della liberazione condizionale con il sostegno di un funzionario incaricato e della comunità; si prospetta la creazione di centri di accoglienza e di sostegno, di comunità socio-educative, di centri di formazione professionale e altre strutture atte al regime di semilibertà (art. 29). Infine, si raccomanda che siano compiuti sforzi per lo studio e la ricerca delle tendenze, delle cause e dei problemi relativi alla delinquenza minorile e ai bisogni dei minori detenuti.

Si tratta, quindi, di un documento dai contenuti molto ampi, che pur essendo frutto di compromessi tra diverse filosofie in ordine all'intervento penale sul minore deviante, risulta, nel complesso, accurato e netto. Le Regole minime risentono delle influenze di almeno tre differenti modelli di giustizia minorile presenti a livello mondiale: un modello fondato sulla garanzia giurisdizionale, che pone il minore coinvolto in una procedura giudiziaria sotto la protezione di norme legali e garanzie; un modello fondato sul principio del parens patriae, volto ad assicurare al minore in contatto con la giustizia, la giusta protezione sociale ed economica; un ultimo modello, cosiddetto 'partecipativo', secondo il quale la giustizia per i minori esige la partecipazione attiva della collettività per limitare il disadattamento minorile. Tale ultimo modello prevede l'inserimento di giovani emarginati o delinquenti nella società e la riduzione al minimo dell'intervento formale giudiziario nei confronti del minore.

In ambito comunitario è poi necessario fare cenno anche alla Raccomandazione n. 87/20 redatta dal Consiglio d'Europa e relativa alle risposte sociali alla delinquenza minorile (Strasburgo, 17 settembre 1987). Secondo tale documento, il sistema penale dei minori deve continuare a caratterizzarsi per il suo obiettivo di educazione e di inserimento sociale e deve tendere, quanto più possibile, alla soppressione della carcerazione dei minori. Nei casi in cui, le leggi nazionali, non prevedano la possibilità di evitare pene che comportino la privazione della libertà personale, è necessario "prevedere una gamma di pene adatte ai minori e stabilire delle modalità di esecuzione e di applicazione più favorevoli a quelle previste per gli adulti; esigere la motivazione delle pene limitative della libertà da parte del giudice; assicurare la formazione sia scolastica che professionale, preferibilmente in collegamento con la comunità, o ogni altra misura che favorisca il reinserimento sociale; assicurare un sostegno educativo dopo la fine delle carcerazione e, eventualmente, un appoggio al reinserimento sociale del minore (art. 16).

Un altro contributo a livello internazionale per la tutela e la promozione del minore, è rappresentato dalla 'Convenzione ONU sui diritti del bambino' del 20 novembre 1989, con valore vincolante per gli stati che l'hanno ratificata. La Convenzione è tesa a tutelare i diritti dei soggetti in età evolutiva fino al diciottesimo anno di età. In relazione alle disposizioni che si riferiscono all'intervento penale, l'art. 37 stabilisce che il minore non può essere soggetto a pene capitali né all'ergastolo. Viene sostenuta la necessità di evitare privazioni di libertà arbitrarie o illegali. Nel caso in cui si debba giungere, comunque, alla privazione della libertà, si impone un trattamento umanitario, nel rispetto della dignità del minore e secondo modalità adeguate alla sua condizione di soggetto in età evolutiva che, pertanto, deve essere tenuto separato dagli adulti. Il minore, seppure ristretto, deve poter mantenere i contatti con il proprio ambiente familiare e deve poter disporre di un'adeguata assistenza legale. Si sottolinea, inoltre, che l'obiettivo principale nei confronti del minore deve essere quello dell'educazione tesa alla promozione della sua persona e del senso della sua dignità e del suo valore. La stessa Convenzione, inoltre, istituisce un organismo di controllo, con il compito di vigilare affinché siano rispettati i diritti dei bambini e che, quindi, non solo ha il compito di individuare questi diritti in modo compiuto, ma possiede gli strumenti per tutelarli e promuoverli, indicando precisi impegni per gli Stati.

I più recenti contributi in materia di prevenzione della delinquenza minorile e di protezione del minore, sono quelli dell'VII Congresso ONU del 27 agosto 1990, durante il quale, in seduta plenaria, si è giunti all'elaborazione delle 'Direttive delle Nazioni Unite per la prevenzione della delinquenza minorile' ('Direttive di Ryadh').

In considerazione del carattere transitorio di alcuni comportamenti devianti da parte dei soggetti in età evolutiva, le Direttive sostengono la necessità di evitare tutte quelle forme di azione tendenti all'etichettamento del soggetto. Si delineano, poi, i punti essenziali per le politiche di una prevenzione che sia complessiva e che coinvolga tutte le agenzie educative. In merito alla legislazione e all'amministrazione della giustizia minorile, si sottolinea che "al fine di evitare stigmatizzazione, vittimizzazioni o criminalizzazioni dei minori, dovrà essere approvata una legislazione che disponga che nessuna condotta non considerata reato né penalizzata se commessa da un adulto, non sia considerata reato né sia penalizzata se commessa da un minore" (art. 56).

Durante il medesimo Congresso ONU è stato disposto, anche, il 'Regolamento delle Nazioni Unite per la protezione dei minori privati della loro libertà'. Viene, così, ribadito che "il sistema della giustizia minorile dovrebbe sostenere i diritti e la sicurezza dei minori, nonché promuovere il loro benessere fisico e mentale. La carcerazione dei minori dovrebbe essere l'ultima risorsa" (art. 1). Si evidenzia la necessità di accrescere la consapevolezza della società intorno all'idea che l'assistenza ai minori detenuti è il presupposto per il reinserimento dei soggetti nella società (art; 8); per questo motivo, l'intervento privativo della libertà deve permettere l'accesso a quelle attività che tendono a promuovere la salute e l'autostima del minore e sviluppano il senso di responsabilità e la capacità del singolo.

Il miglior recupero del minore, sempre secondo il Regolamento, si ottiene adattando il progetto educativo sul singolo, attuando un trattamento individualizzato (art. 27), in piccole comunità (art. 30) avendo sempre riguardo ai diritti all'istruzione, al lavoro, allo svago, all'istruzione religiosa, all'assistenza medica (artt. 38-55).

Ormai, da più di dieci anni il diritto internazionale, nell'ambito della devianza minorile, ha intensificato la necessità di tener conto dell''interesse del minore', riconducibile, in prima istanza, al diritto all'educazione, come premessa per il pieno sviluppo della personalità; ha sancito una serie di principi per una giustizia minorile che si muove essenzialmente nel senso del garantismo, del minimalismo e della depenalizzazione.

2.2. Il delinearsi del nuovo processo penale minorile tra le sentenze della Corte Costituzionale e il dibattito parlamentare

In campo penalistico minorile, il lavoro della Corte Costituzionale ha sempre rappresentato un forte contributo all'innovazione, influenzando spesso, quei cambiamenti di prospettiva che caratterizzano, anche, i principi e la nuova filosofia della legge istitutiva del nuovo processo penale minorile del 1988 (2).

La Corte ha più volte ribadito la specificità della condizione minorile, rilevando come essa superi d'importanza quello che è l'interesse tipico di ogni sistema penale, e cioè, l'efficacia intimidatrice della sanzione, attraverso la sua applicazione ai casi accertati. Tuttavia, nell'ambito di un generale orientamento, volto ad interpretare in senso riduttivo il principio di rieducazione (art. 27 Costituzione), la Corte, per molto tempo, si è astenuta dall'assumere posizioni che evidenziassero la condizione particolare dei minorenni in rapporto al sistema penale. Negli anni successivi all'emanazione della Costituzione, le interpretazioni della Corte hanno ridimensionato notevolmente il significato innovarivo del 'principio di rieducazione', rifacendosi alla concezione 'polifunzionale' (3) della pena, al fine di assicurare il contemperamento dei diversi scopi assegnabili alla sanzione penale.

A questo proposito, con le sentenze n. 12 del 1966 e n. 264 del 1974 sono state ritenute costituzionalmente legittime rispettivamente, la pena pecuniaria e quella dell'ergastolo nei confronti dei minori.

Nella prima sentenza la Corte sostiene che "la rieducazione del condannato pur nell'importanza che assume in virtù del precetto costituzionale, rimane pur sempre inserita nel trattamento penale vero e proprio" e non può, perciò, essere intesa "in senso pieno ed assoluto". Da ciò deriva la legittimità anche di quelle sanzioni penali che sono idonee a realizzare la finalità rieducativa, tenuto conto, anche, "delle altre funzioni della pena che, al di là della prospettiva del miglioramento del reo, sono essenziali alla tutela dei cittadini e dell'ordine pubblico contro la delinquenza, e da cui dipende l'esistenza stessa della vita sociale".

Dello stesso tenore è anche la motivazione della sentenza n. 264, laddove, sempre allo scopo di contemperare le diverse finalità della pena, la Corte afferma che la funzione della sanzione "non è certo il solo riadattamento del delinquente, purtroppo non sempre conseguibile"; la sanzione, infatti deve tendere, anche, alla prevenzione e alla difesa sociale. Si deve aggiungere, inoltre, che per molto tempo la Corte ha ritenuto che la rieducazione, come funzione della pena, dovesse trovare la propria attuazione nella fase esecutiva, durante l'espiazione della sanzione penale all'interno del carcere.

Nelle argomentazioni della Corte Costituzionale le differenti funzioni della pena sono poste sullo stesso piano e non viene determinato il contenuto del concetto di 'rieducazione', per delineare il quale sono stati usati, indifferentemente termini con contenuto ambiguo, quali "emenda", "recupero sociale", "riadattamento" (4).

Nel 1974 la Corte ha per la prima volta affermato che "sulla base del precetto costituzionale sorge il diritto del condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale". Vi sarebbe, dunque, un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle (5).

La sentenza n. 50 del 1980, la Corte ha poi specificato che il sistema penale, così come configurato dalle disposizioni della Costituzione, non è "in linea di principio" armonizzabile con "previsioni sanzionatorie fisse". La Corte, ha così constituzionalizzato il criterio di commisurazione della pena, individualizzata in rapporto alle caratteristiche personali dei destinatari della sanzione.

In seguito si è consolidata una posizione intermedia secondo la quale la pena ha, in primo luogo, funzione retributivo-generalpreventiva e conserva tutte le garanzie legate alla retribuzione, come la proporzionalità edittale alla gravità del reato. In concreto, tuttavia, la pena viene determinata anche in funzione delle esigenze specialpreventive-risocializzative del soggetto. Secondo la Corte, infatti, la 'afflittività' e la 'retributività' sono caratteristiche "senza le quali la pena cesserebbe di essere tale" ed anche la 'reintegrazione', la 'intimidazione' e la 'difesa sociale' sono valori che hanno un fondamento costituzionale, ma nessuno di questi profili "può autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della pena...È per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stessa della pena" (6). Tali esigenze non sono relative solo al sistema penitenziario, cioè non trovano attuazione solo nella fase dell'esecuzione della pena; esse investono anche la "teoria stessa della pena" e, quindi, la fase legislativa, di creazione di un sistema sanzionatorio differenziato, interessando anche il momento giudiziario della possibilità, da parte del giudice, di scegliere tra pene diverse, quella più adeguata al soggetto destinatario (7).

In merito al non chiaro concetto di 'rieducazione' è stato evidenziato come esso non possa essere inteso nel senso di pentimento o emenda del reo, astrattamente possibile con qualsiasi pena. Piuttosto dev'essere ricondotto ad un "concetto di relazione rapportabile alla vita sociale e che presuppone un ritorno del soggetto alla comunità" e quindi come sinonimo di 'risocializzazione' (8). È importante sottolineare come l'idea della specialprevenzione possa facilmente degenerare in "risocializzazione autoritaria", ottenuta attraverso un mutamento coattivo della personalità. In considerazione del fatto che il trattamento risocializzativo può indurre delle modificazioni irreversibili delle strutture fondamentali della personalità, si pone il problema della legittimità e dei limiti dell'attività di risocializzazione in relazione ai diritti dell'individuo, iniziando dal diritto di ciascuno alla propria personalità e dignità umana. La prevenzione speciale, in uno stato democratico che non impone, ma si limita a proporre valori dominanti nella società, deve essere intesa, quindi, quale offerta solidaristica di opportunità, come creazione delle condizioni oggettive che permettono al condannato di poter correggere - ma solo se lo desidera - il proprio comportamento, adeguandolo alle regole sociali (9).

In considerazione della specificità della condizione minorile le ambiguità e le problematiche connesse al concetto di rieducazione si accentuano: la personalità ancora in via di formazione di questo soggetto pone in primo piano la necessità di risocializzazione rispetto a quella di punizione.

Già con la sentenza n. 25 del 1964 (10) la Corte Costituzionale aveva preso posizione evidenziando la 'specialità' della giustizia minorile la quale ha una "particolare struttura in quanto è diretta in modo specifico alla ricerca delle forme più adatte per la rieducazione dei minorenni". La Corte aveva sottolineato come le diversità della giustizia minorile fossero giustificate in funzione del recupero del minore alla società. Tale obiettivo fondamentale, al quale deve tendere tutto il sistema, è compreso tra i compiti di protezione della gioventù assegnati dall'art. 31 comma 2 Cost. allo Stato che deve anche favorire il completamento degli "istituti destinati a tale scopo".

A partire dagli anni settanta la Corte, presa consapevolezza di ciò, ha emanato numerose sentenze che sottolineano l'interesse-dovere dello Stato alla "tutela dei minori".

La logica secondo la quale tutta la legge minorile debba essere interpretata, appunto, alla luce del principio generale della tutela dell'interesse del minore è stata oggetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 198 del 1972 (11). In riferimento all'ufficio del pubblico ministero venne affermato che esso, oltre ad avere le funzioni e le competenze tipiche circa l'iniziativa dell'azione penale, aveva quelle specifiche di tutela dell'interesse del minore, e di prevenzione sotto il profilo dell'educazione. L'interesse alla realizzazione della pretesa punitiva, infatti è subordinato al "peculiare interesse-dovere dello Stato al recupero del minore" che trova la sua origine nell'art. 31 della Costituzione (sentenza 49/73) (12).

Il tema della carcerazione minorile quale ultima ratio è oggetto anche della sentenza n. 120 del 1977 (13) con la quale la Corte ha sottolineato l'importanza del perdono giudiziale per consentire al minore di uscire dal circuito penale il prima possibile. Si è osservato che il fatto che "il perdono giudiziale possa essere concesso solo ai minori ultraquattordicenni... dipende dalla minor fiducia del legislatore nell'efficacia rieducativa del carcere per i minori e dalla maggior fiducia nella possibilità del loro recupero sociale dopo il primo incontro con la giustizia penale". L'obiettivo è quello di cercare forme alternative di intervento, in una cornice che, seppure giuridico-penale, è comunque, non istituzionale.

Sempre in riferimento al tema della detenzione minorile la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 46 del 1978 (14), si esprime in merito ai divieti di concessione della libertà provvisoria, ritenuti non operanti per gli imputati minorenni. La Corte respinse la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 22 maggio 1975 n. 52, fondata sull'affermazione che tale legge disciplinasse in maniera uguale situazioni sostanzialmente diseguali, quella degli adulti e dei minori, in relazione al diverso significato e alla differente funzione che assumerebbe per essi la carcerazione preventiva.

La Corte sostenne che la legge 52 del 1975 appariva, invece, "suscettibile di un'interpretazione" che non escludeva "la concessione della libertà provvisoria ai minori infradiciottenni, sulla base di valutazioni del giudice fondata su prognosi ovviamente individualizzate in ordine alle prospettive di recupero del minore deviante". E rinforzò questa tesi con una considerazione di ordine sistematico: "Il largo ricorso alla sospensione condizionale della pena e al perdono giudiziale nell'ambito della giustizia minorile conferma... la tendenza generale a considerare come ultima ratio il ricorso all'istituzione carceraria per questa fascia di minorenni... L'ordinamento italiano, in attuazione dell'art. 31 Cost. non si è ispirato ad un generico favor per gli imputati minorenni, ma ha provveduto a sviluppare istituti e servizi che dovrebbero rendere residuale l'internamento dei minori nei riformatori giudiziari e nelle prigioni scuola; ciò non comporta alcuna sottovalutazione della pericolosità e gravità del fenomeno della delinquenza minorile; ma significa solamente che non si intende lasciare intentata alcuna possibilità di recupero di soggetti non ancora del tutto maturi dal punto di vista fisiopsichico".

Secondo la Corte l'obbligo di tutela del minore da parte dello Stato si trasforma in un interesse dovere di recupero da attuarsi attraverso l'attività di un organo specializzato, nel momento in cui l'adolescente commette un reato. Questa tesi è sostenuta in un gruppo di sentenze, anch'esse anticipatrici del D.P.R. 448/88, volte a sottolineare l'importanza della specialità del giudice minorile. In tali sentenze emerge con chiarezza che il processo penale minorile è occasione di rieducazione del minore, prima che di affermazione della pretesa punitiva dello Stato.

Secondo la sentenza n. 16 del 1981, il dibattimento deve svolgersi a porte chiuse per evitare che la pubblicità possa turbare l'imputato e rendere difficile il suo successivo inserimento sociale. La Corte, infatti, in quella sede giudicò non fondate, in riferimento agli artt. 3 e 21 della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 684 c.p., 164 n. 3 c.p.p. e 16 R.D.L. 1404/34, che vietano di dare notizia di procedimenti penali a carico di imputati minorenni.

Le "finalità di tutela dei minori", che trovano fondamento costituzionale nell'art. 31 comma 2 e nell'art. 2, giustificano - secondo la Corte - la deroga alla pubblicità dei dibattimenti; ciò in considerazione degli effetti che la diffusione di fatti emersi nel dibattimento può provocare sulla formazione sociale dove si svolge la personalità del minore. Né, in questo caso, può invocarsi la violazione dell'art. 21 Costituzione, poiché il diritto all'informazione deve conciliarsi con il rispetto della personalità dell'imputato, in quanto la tutela costituzionale dei diritti ha sempre un limite nell'esigenza insuperabile che nell'esercizio di questi non siano violati altri beni ugualmente tutelati a livello costituzionale. Non è perciò contestabile che la tutela dei minori sia delegata ad una disciplina speciale, in riferimento alla necessità della formazione della personalità.

La successiva sentenza n. 222 del 1983, garantisce al minore di essere giudicato da un magistrato specializzato, anche a costo di sacrificare il ricorso al processo cumulativo.

Infatti, l'art. 9 del R.D.L. 1404/34 stabiliva la competenza del Tribunale per i minorenni per tutti i procedimenti relativi ai reati commessi dal minore degli anni diciotto, ma al comma 2 specificava che "la disposizione non è applicabile quando nel procedimento vi sono coimputati maggiorenni".

In precedenza, la Corte (sentenza n. 198 del 1972), aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale di detta norma nella parte in cui non limitava la deroga alla competenza del Tribunale dei minorenni alla sola ipotesi in cui i minori e i maggiori degli anni diciotto fossero computati dello stesso reato. Proprio in relazione a tale ipotesi è stata dichiarata l'illegittimità dell'art. 9 per contrasto con gli artt. 3 comma 1 e 2, 31 e 24 comma 2 della Costituzione. In riferimento all'art. 3 comma 1 vi sarebbe, infatti, secondo la Corte, una "ingiustificata disparità di trattamento tra i minori che vengono a trovarsi nella descritta situazione, e gli altri minori, autori di reati, che restano sottoposti al giudizio del Tribunale per i minorenni, pur essendo, gli unì come gli altri, su un piano di sicura parità quanto all'esigenza di recupero e reinserimento sociale, maggiormente garantita dal processo avanti all'organo specializzato".

Il contrasto è rilevabile anche con il comma 2 dello stesso articolo, in quanto "il Tribunale per i minorenni svolge una precisa funzione di garanzia dello sviluppo della personalità dell'adolescente, e un'eccezione alla sua generale competenza si configurerebbe come un ostacolo a tale sviluppo".

In riferimento all'art. 31 vale la considerazione che l'organo giudiziario minorile, a differenza del Tribunale ordinario, è uno degli strumenti di protezione della gioventù previsti e che vanno favoriti.

Per effetto della norma denunciata, infine, la Corte ritiene "che il minore si vedrebbe negata la possibilità di avvalersi per la sua difesa delle particolari garanzie offerte dal procedimento innanzi al Tribunale per i minori, che gli viene precluso", con violazione dell'art. 24 comma 2 della Costituzione.

La Corte ha ritenuto, innanzi a tali violazioni del precetto costituzionale, di non poter far prevalere la necessità - come, invece aveva fatto in precedenti pronunce - della regola processuale del simultaneus processus, per giustificare la deroga alla competenza del giudice specializzato. La necessità di assicurare al minore un giudizio più attento alle sue particolari esigenze, è prevalente, nelle argomentazioni della sentenza, rispetto alla regola della connessione processuale, volta ad evitare un possibile conflitto di giudicati. Proprio a tale fine è stato creato il Tribunale per i minorenni, che fa parte di quegli 'istituti' dei quali la Repubblica deve favorire lo sviluppo ed il funzionamento secondo quanto prevede l'art. 31, che la impegna alla protezione della gioventù.

Questi importanti interventi della Corte Costituzionale sono stati un'autorevole guida per il legislatore del D.P.R. 448/88, che ha riprodotto negli articoli della normativa il contenuto della sentenze, specificandolo ed integrandolo (15).

È interessante osservare come nelle prime sedute parlamentari dedicate alla riforma del codice di procedura penale, si discusse sull'opportunità di comprendere, nella legge delega, anche la riforma del rito minorile. Si pensava che, una volta delineato il nuovo codice processuale per gli adulti, si dovesse affrontare la tematica dell'intervento penale nei confronti del minore con provvedimento autonomo, proprio in virtù della specificità della materia. La prima legge delega (16), infatti, conteneva poche secondarie norme relative a fatti commessi da minorenni: si limitava a sancire "l'esclusione dalla connessione in caso di imputati minori" (art. 2 n. 13) ed a prevedere "l'esercizio facoltativo del potere di arrestare il minore colto nella flagranza di un grave reato" (art. 2 n. 30). A causa della parzialità delle previsioni si pose subito la questione della sorte che avrebbe dovuto avere la disciplina processuale prevista dal R.D.L. 1404/34, che aveva istituito il Tribunale per i minorenni. In un incontro di studio promosso dal Consiglio Superiore della Magistratura per l'esame di tale problema, si delinearono tre posizioni; secondo la prima la legge delega doveva includere la riforma del processo penale minorile; per la seconda questa idea era da escludere; per la terza, infine, era preferibile che la legge 108 del 1974 autorizzasse il legislatore delegato ad apportare modifiche alla disciplina minorile, ma non ad innovarne i contenuti principali (17).

Un chiarimento in tal senso si ebbe grazie alla Commissione consultiva per il nuovo codice di procedura penale, la quale espresse il parere che la legge delega non autorizzasse il Governo a procedere alla riforma del R.D.L. 1404/34 e soprattutto non consentisse di modificare le strutture organizzative della giustizia minorile (18).

Nell'ottobre del 1974, con decreto ministeriale venne istituita una Commissione di studio per i problemi minorili. Essa, investita della questione, redasse una bozza di schema di disegno di legge relativo alla delega al Governo per l'emanazione di una nuova legge in materia di intervento penale in campo minorile. Il Ministro di grazia e Giustizia presentò tale testo alla Camera nel corso della VI e della VII legislatura, ma in nessuna delle due venne posto all'ordine del giorno. Quattro anni più tardi la commissione consultiva per il nuovo Codice di procedura penale, fu chiamata ad esprimere il proprio parere sul progetto della commissione redigente e in tale sede ribadì che in base alla legge delega il Governo non poteva ritenersi autorizzato a riformare il R.D.L. 1404/34. Tuttavia essa precisò che ciò non significava che il rito minorile dovesse svolgersi necessariamente secondo le norme del vecchio codice anche dopo l'emanazione di quello nuovo, dato che il decreto 1404 operava un rinvio non recettizio al codice di procedura penale; il legislatore, quindi, doveva adeguare le norme del R.D.L. 1404/34 al nuovo rito con apposito provvedimento.

Nonostante ciò non seguirono nuove iniziative legislative concernenti il processo minorile. Nell'ottobre del 1979 il Ministro di Grazia e Giustizia presentò, però, un disegno di legge alla Camera dei deputati che prevedeva profonde modifiche all'impianto normativo alla delega del 1974 e dette così il via alla seconda delega (19).

Fu soltanto nel corso dei lavori della Commissione giustizia, però, che venne avviato il cammino della delega concernente i minori; il 15 luglio 1982 fu approvato un testo la cui direttiva n. 87 conteneva la "disciplina del processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato".

Nel corso della IX legislatura vi furono varie iniziative legislative (20): esse influenzarono sia la legge delega di iniziativa parlamentare, sia il successivo disegno di legge di iniziativa ministeriale.

Tale delega relativa al processo minorile, contenuta inizialmente nella direttiva n. 87, nel testo approvato dall'Assemblea della Camera dei deputati risultò trasferita dall'art. 2 all'art. 3, interamente riservato alla materia. Il successivo esame da parte del Senato lasciò sostanzialmente inalterate la struttura generale e la collocazione della delega minorile, che fu in tal forma approvata dalla Camera dei deputati (21).

La commissione incaricata di dare attuazione alla delega legislativa contenuta nell'art. 3 della legge n.81 del 1987, dopo aver predisposto lo schema preliminare contenente la disciplina del rito minorile, lo presentò alla commissione redigente con l'auspicio che la normativa fosse inserita all'interno del codice di procedura penale.

Il governo, però, presento alla Commissione parlamentare, istituita ex art. 8 della legge delega, un testo che presupponeva l'emanazione di un decreto separato. Sebbene anche la Commissione parlamentare avesse espresso un'opinione favorevole all'inserimento delle disposizioni del processo minorile nel codice di procedura penale, per assicurare un migliore coordinamento tra le norme dei processi, furono, comunque, emanati due decreti. Si pensò, infatti che i dati testuali desumibili dalla legge n. 81 del 1987, facessero propendere per l'autonomia della delega e tale opinione fu rafforzata dalla considerazione della specialità della materia, nonché dalla necessità di non appesantire ulteriormente il codice di rito, già di per sé molto complesso (22).

Tale delega è stata attuata con il D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448 (23) integrato dal D.P.R. n. 449 dello stesso anno e dalle norme di attuazione di coordinamento e transitorie allo stesso D.P.R. 448/88, del D.L. 28 luglio 1989, n. 272.

2.3. Il D.P.R. n. 448 del 1988: i principi generali del nuovo processo minorile

Come è stato evidenziato nel primo capitolo, nell'evoluzione della cultura istituzionale nei confronti della devianza giovanile si possono individuare dei periodi storici nei quali sono stati prodotti dei mutamenti a seguito di fatti legislativi ed organizzativi specifici delle giustizia minorile o generali (24). Punto fondamentale di questi mutamenti è dapprima la novella del 1956 al R.D.L. n.1404 del 1934 con l'introduzione dell'affidamento del minore al servizio sociale per un trattamento in libertà assistita tra le misure rieducative; poi lo smantellamento, dal punto di vista organizzativo, degli istituti di rieducazione; quindi il D.P.R. n.616/1977, che, come abbiamo visto, ha trasferito agli Enti Locali la gestione dei servizi incaricati della competenza amministrativa "con il significato importante di rifiuto della pan-criminalizzazione del disagio giovanile (Corte Costituzionale, sentenza n. 287/1987)" (25). Il D.P.R. del 22 settembre 1988 n. 448 (26) costituisce la prima ampia riforma del diritto minorile. Il processo penale minorile, così come si delinea nei suoi principi guida è considerato un evento delicato ed importante nella vita del minore; deve perciò, essere adeguato alle esigenze di una personalità in fase evolutiva. Se da un lato, pertanto, si configura un processo penale con tutte le garanzie del processo ordinario, dall'altro si tende a limitare, per quanto possibile, gli effetti dannosi che il contatto con la giustizia può provocare.

Il D.P.R. 448/88, integrato dal D.P.R. 449/88 e dal D.L. 28 luglio 1989, n. 272, recante norme di attuazione, di coordinamento e transitorie, delineano un sistema di giustizia penale diversificato, dove il cui momento più significativo è è rappresentato dal passaggio del minore da oggetto di protezione e tutela a soggetto titolare di diritti. Infatti, per la prima volta si parla esplicitamente di "interesse del minore", di "esigenze educative" e di "tutela del minore" come criteri giuridicamente rilevanti destinati a influenzare esplicitamente le decisioni e le scelte in tutto il percorso processuale attraversato dal minore (27).

Nella letteratura specialistica (28), i principi accolti nel nuovo processo penale minorile sono stati categorizzati e commentati nei modi che qui sembra opportuno enunciare, in quanto determinano la fisionomia particolare della giustizia minorile e si discostano da quelli contenuti nel codice di procedura penale.

Anzitutto è molto presente e persuasivo il "principio di adeguatezza" per cui il processo penale per i minori deve adeguarsi, sia nella sua concezione generale che nella sua applicazione concreta, alla "personalità del minore e alle sue esigenze educative". Il sistema penale deve essere caratterizzato dalla finalità di reintegrazione sociale del minore. Il processo penale, quindi, come sede di verifica del possibile disagio del ragazzo, deve tendere a restituire il soggetto alla normalità della vita sociale, evitando gli interventi che possano destrutturarne la personalità.

Ciò comporta l'impegno della legge e di tutti gli attori del processo a tenere conto delle caratteristiche di personalità del ragazzo e delle sue esigenze educative in termini di criteri fondamentali per operare scelte, per prendere decisioni e attivare interventi in sede processuale.

Questo principio implica una rilevanza centrale dei contributi dei Sevizi Sociali e colloca il lavoro interdisciplinare tra i vari operatori del sistema penale minorile, al livello di condizione necessaria al fine del raggiungimento dei risultati voluti dalla legge.

Collegato a questo principio, ma con significato e valore più vasti, vi è il "principio della minima offensività" che esprime la consapevolezza che l'incontro con la giustizia penale contiene vari rischi per il minore, potendo compromettere lo sviluppo armonico della sua personalità, della sua immagine e dei suoi successivi percorsi di socializzazione.

La norma, però, va oltre questa affermazione di carattere generale e introduce una categoria più specifica e mirata quando vincola giudici e operatori a preoccuparsi nelle loro decisioni di non "interrompere i processi educativi in atto". Il minore deve essere tutelato dai rischi che possono derivare alla sua personalità in formazione dal precoce ingresso nel circuito penale, per cui va evitato, se possibile, tale ingresso favorendo la chiusura del processo e consentendo al minore di uscire al più presto da circuito penale. Il che significa che se il processo penale non riesce a mettersi a servizio di quelle esigenze educative, deve almeno cercare di non essere di intralcio ad esse e di tutelarne la continuità.

"La destigmatizzazione" è a sua volta un principio che deriva dall'esigenza di non nuocere al minore. Infatti, il fatto stesso di essere sottoposto a procedimento giudiziario può essere causa di danni legati a diverse forme di stigmatizzazione, ovvero attribuzioni negative, e comportamenti, sulla persona del minore e sulle sue immagini sociali.

Per la nuova legge evitare stigmatizzazione significa garantire e tutelare la riservatezza e l'anonimato rispetto alla società esterna. Ciò avviene attraverso varie modalità, ma soprattutto: vietando ai mezzi di comunicazione di massa la diffusione di immagini e di informazioni sull'identità del minore; assicurando il processo a porte chiuse, tranne che il ragazzo non richieda, dopo i 16 anni di età, nel suo esclusivo interesse, di far accedere al processo anche la stampa; dando, infine la possibilità tutti i minorenni di cancellare i precedenti penali dal casellario giudiziale dopo il diciottesimo anno di età.

Un principio che opera su un altro piano, forse il più importante, è quello della "residualità della detenzione" per cui si cerca di garantire in ogni caso che l'esperienza della detenzione di tipo carcerario divenga residuale e addirittura eccezionale.

La nuova normativa sottolinea che ogni intervento penale nei confronti della delinquenza minorile, coerentemente con il principio di depenalizzazione, è concepito come extrema ratio e non più come regola. La detenzione viene prevista, nell'ottica del massimo riduttivismo carcerario, esclusivamente quando sia giustificata da rilevanti preoccupazioni di difesa sociale, e ciò sia per quanto attiene agli arresti cautelari, sia per l'esecuzione delle pene. Sono state perciò previste misure completamente nuove nel nostro paese che sono alternative alla custodia detentiva ed hanno una maggiore valenza responsabilizzante e un minore impatto costrittivo, afflittivo e passivizzante.

Il principio di "autoselettività" del processo penale, infine, tende a garantire il primato delle esperienze educative del minore, attraverso forme di autolimitazione e perfino di chiusura che il processo impone a se stesso. Infatti, sulla base delle informazioni raccolte circa la personalità, la famiglia e l'ambiente di vita del ragazzo, oltre che sul reato, il processo può chiudersi con la dichiarazione di "irrilevanza sociale" del reato commesso dal minore, quando l'esperienza giudiziaria rischierebbe di "interrompere i processi educativi in atto". Oppure il processo può essere sospeso per dare avvio ad un percorso operativo che sostituisce il giudizio processuale; si tratta della "messa alla prova" intesa come programma finalizzato ad approfondire le conoscenze sulla personalità del ragazzo e metterne alla prova, appunto, le capacita di cambiamento e di recupero.

2.3.1. Il ruolo dei servizi minorili

Come abbiamo accennato, il nuovo processo penale minorile richiede espressamente - per la piena attuazione delle sue finalità - la collaborazione dei Servizi ministeriali e di quelli dell'Ente Locale (29). Ed infatti il D.P.R. 448/88 assegna ai Servizi minorili compiti di partecipazione e forme di collaborazione capaci di integrazione dall'attività giurisdizionale, riconoscendone la funzione fondamentale (30).

Il nuovo processo minorile sposta l'attenzione del giudice dall'accertamento del fatto, alle caratteristiche personali del soggetto e ciò comporta una autolimitazione inevitabile del diritto penale, per concedere spazio ai servizi minorili, a cui il D.P.R. 448/88, costituito da quarantuno articoli, fa riferimento per ben sedici volte (31).

Nel momento in cui il soggetto entra nel circuito penale gli viene offerta la possibilità di uscire dall'area custodialistica, e poi dallo stesso sistema penale. Per facilitare il suo reinserimento sociale ed individuale devono essere assicurati interventi di sostegno orientati alla valorizzazione ed al coinvolgimento delle diverse risorse, istituzionali e non, presenti nel territorio (32). È in questo ambito che assumono rilevanza i servizi periferici dell'Amministrazione della Giustizia Minorile, che in collaborazione con gli Enti Locali e il terzo settore, hanno ricevuto dalla nuova normativa processuale un compito di fondamentale importanza.

L'art. 6 del D.P.R. 448/88 stabilisce, infatti, che "In ogni stato e grado del procedimento l'autorità giudiziaria si avvale dei servizi minorili della Giustizia. Si avvale altresì dei servizi di assistenza istituiti dagli Enti Locali". Da questo punto di vista appare molto importante, per il suo contenuto innovativo, la disposizione contenuta nell'art. 12 dello stesso D.P.R., secondo la quale "in ogni caso al minorenne è assicurata l'assistenza dei servizi indicati dall'art. 6". Se, infatti, secondo l'art. 6 il potere di iniziativa è attribuito all'organo giurisdizionale, ex art. 12 i servizi minorili hanno un potere autonomo di intervento in ambito giudiziario che garantisce al minore una assistenza continua ed effettiva. Si può notare, infatti, come il ruolo che l'art. 12 comma 2 assegna ai servizi sia peculiare e più ampio rispetto a quello riservato ai genitori o agli altri soggetti a cui è demandata l'"assistenza affettiva e psicologica". E ciò non perché ai servizi spettino funzioni di integrazione della difesa, le quali sarebbero non conciliabili con la funzione di terzietà che essi devono avere nei confronti delle parti (33). L'azione dei servizi si esplica invece in modo diverso poiché, da un lato, essi dovrebbero offrire un'assistenza psicologica qualitativamente diversa, in quanto costituiti da personale specializzato e assistiti dalla collaborazione di esperti in diverse discipline; d'altra parte, essi dovrebbero assicurare un ulteriore supporto informativo al minore ed ai suoi familiari.

I Servizi minorili, inoltre, hanno il compito di provvedere agli accertamenti sulla personalità del minore (art. 9 D.P.R. 448/88), intervengono durante l'applicazione delle misure cautelari (art. 19, 20, 21 D.P.R. 448/88) e provvedono all'applicazione ed al funzionamento dei Centri di prima accoglienza nei quali vengono ospitati i minori arrestati o fermati fino all'udienza di convalida (art. 9 D.L. 272/1989). Essi possono organizzare comunità previste a diversi fini), collaborano con il minore nella fase seguente alla liberazione nel periodo della semilibertà o di semidetenzione. Una attività molto particolare è svolta in caso di sospensione del processo e messa alla prova (art. 28).

Tutti questi articoli esprimono un perentorio accordo tra penale e sociale. D'altra parte lo spirito che anima tutto il processo penale minorile è quello di sostituire a sanzioni penali, interventi sociali, secondo l'ideologia fondata sui principi di extrema ratio e di sussidiarietà della risposta penale, di rieducazione e di individualizzazione della pena.

La nuova configurazione e le funzioni previste per i servizi decentrati dell'Ufficio Centrale della Giustizia Minorile hanno come testo normativo di riferimento il D.P.R. n. 272 del 1989 "Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del D.P.R. 448/88 recante disposizioni sul processo penale minorile a carico di imputati minorenni".

L'art. 8 delle disposizioni d'attuazione si occupa della articolazione dei servizi periferici. Tali Centri dipendono dal Ministero di Grazia e Giustizia ed hanno una competenza regionale.

I Servizi che fanno parte dei Centri della giustizia minorile sono:

  1. gli Uffici di Servizio Sociale per minorenni;
  2. gli Istituti penali per minorenni;
  3. i Centri di prima accoglienza;
  4. le Comunità;
  5. gli Istituti di semilibertà con servizi diurni per misure cautelari, sostitutive o alternative.

L'art. 10 D.P.R. 272/89 stabilisce che i Centri per la giustizia minorile stipulano convenzioni con le comunità pubbliche e private, associazioni e cooperative che operano in campo minorile e che sono riconosciute o autorizzate dalla Regione competente per territorio. I Centri possono anche organizzare proprie comunità od occuparsene in gestione mista con gli Enti Locali. L'organizzazione delle comunità deve essere di tipo familiare e prevedere anche la presenza di minorenni non sottoposti a procedimento penale, in modo che possa essere garantita, anche attraverso progetti personalizzati, una condizione ed un clima educativamente significativi; è inoltre prevista l'utilizzazione di operatori professionali delle diverse discipline e la collaborazione di tutte le istituzioni interessate e delle risorse del territorio.

I Centri di prima accoglienza assicurano la permanenza del minore arrestato o fermato fino all'udienza di convalida, senza caratterizzarsi come strutture di tipo carcerario. Essi devono essere necessariamente situati al di fuori degli istituti penitenziari per assicurare un filtro processuale e operativo rispetto a tutte le altre misure.

I servizi diurni (art. 12 D.L. 272/1989) hanno il compito di attivare, con gli Enti Locali, programmi educativi di studio e di formazione lavoro, di tempo libero e di animazione per l'attuazione delle misure sostitutive, delle misure alternative e di quelle cautelari. L'organizzazione e la gestione di questi servizi devono essere frutto della collaborazione di tutte le istituzioni interessate alle problematiche giovanili ed i sevizi devono rappresentare un ambiente educativo a cui il giudice affida il minore nel disporre le misure di cui si è parlato. Tali servizi, quindi, "devono costituire opportunità decisionali per il giudice nel caso che il minore non disponga all'interno della rete di possibilità autonome" (34).

2.4. Alcune riflessioni critiche a margine della nuova procedura penale minorile

La riforma del processo penale minorile non suscitò grande clamore in dottrina poiché l'interesse predominante fu riservato al nuovo processo penale e le questioni interpretative del rito penale minorile furono relegate alla riflessione quasi esclusiva degli addetti ai lavori. Gran parte della dottrina si limitò a lambire questioni giuridiche, per lo più di natura dogmatica e tecnica (35); eppure il D.P.R. 448/88 è un testo ricco di contenuti e solleva questioni di grande importanza che si offrono ad interpretazioni plurime e spesso contrastanti.

Secondo La Greca, nell'evoluzione della cultura istituzionale tesa a contenere la devianza minorile, un passaggio fondamentale è rappresentato dall'aver distinto nettamente l'intervento di tipo penale da quello correzionale che invece appartiene all'area della rieducazione, con il grande merito di recuperare la chiarezza per cui "ciò che è aiuto è aiuto, ciò che è punizione è punizione" (36).

Nell'ambito dei rapporti tra sistema penale e sistema sociale, infatti, il nuovo processo penale minorile si caratterizza, secondo Palomba, per il fatto che "mentre da un lato non penalizza l'intervento sociale, da un altro lato non socializza il penale" (37). I due ambiti sono distinti, non essendo sufficiente ad escludere questo assetto la previsione della possibilità di interventi sociali in occasione del processo penale. Infatti, la separazione è caratterizzata dalla piena indipendenza dei due sistemi, che non è contraddetta dalla possibilità che, in presenza di determinati presupposti, ciascuno esplichi il proprio intervento. Alcune disposizioni del nuovo processo come l'art. 27 e l'art. 28 (38) prevedono, anzi, istituti che presuppongono il primato del sociale sul penale, che è tenuto a fare un passo indietro se la condotta o il soggetto non appaiono di interesse penale.

Altri, in dottrina hanno, invece, avanzato il timore che il nuovo processo penale minorile configuri un ritorno alla rieducazione. L'ipotesi, sostenuta da Gatti e Verde (39), è che le innovazioni realizzino, complessivamente, un ammodernamento e una razionalizzazione del settore penale, e ciò influirebbe anche su rapporto tra quest'ultimo e gli apparati di welfare, portando quindi ad una modificazione globale dell'intero sistema di controllo della devianza giovanile. Tuttavia, al di là di tutta una serie di innovazioni che possono essere valutate positivamente, è convinzione dei due autori, che il testo configuri globalmente un sistema orientato in senso rieducativo, caratterizzato da una commistione tra punizione e sostegno, tra difesa sociale e terapia.

In particolare la connotazione rieducativa delle disposizioni sul processo penale a carico di minorenni sembra emergere, secondo gli autori, da una analisi dettagliata di alcuni articoli del testo. Dopo aver prospettato i possibili effetti perversi del nuovo sistema di misure cautelari, nel senso della loro probabile più ampia utilizzazione da parte dei giudici (40), gli autori si soffermano sui nuovi istituti dell'irrilevanza del fatto (art. 27) e della sospensione del processo e messa alla prova (art. 28). Tali norme sono state subito criticate da una parte della dottrina per la loro permissività; in particolare l'art. 28, in quanto, si sostiene, permette di evitare la pena detentiva anche ad autori di gravissimi delitti.

Gatti e Verde, invece, sostennero:

In realtà va rilevato che il controllo esercitato in libertà può essere molto penetrante ed afflittivo; in secondo luogo, occorre segnalare che la lunga esperienza applicativa straniera ha dimostrato che la probation non possiede capacità socializzanti o rieducative particolari, se non in quanto evita l'esperienza detentiva. A nostro avviso, quindi, la probation dovrebbe essere riservata soltanto a quei casi che attualmente sono o possono essere oggetto di misura detentiva, attraverso la previsione di limiti alla sua applicazione, finalizzati ad evitare che essa possa venire impiegata per trattare i casi c.d. 'bagatellari' e che l'effetto generale della sua utilizzazione non risulti tanto in una diminuzione dell'uso delle pene carcerarie, quanto piuttosto in un'estensione di forme più penetranti di controllo sociale a quei casi che attualmente fruiscono di altre misure (perdono, assoluzione per incapacità di intendere e di volere, ecc.) (41).

In generale, il nuovo testo, pur introducendo una limitata possibilità di diversion (improcedibilità ex art. 23), sia di probation, sembrava essere articolato in modo da favorire un maggior ricorso alle misure penali e al controllo di tipo giudiziario, tanto che si poteva pensare che la riforma rappresentasse una inversione di tendenza rispetto alla situazione che si era andata sviluppando in Italia negli ultimi dieci anni, caratterizzati, come si è visto, da una progressiva contrazione degli interventi penali, da un parallelo ampliamento del funzionamento dei servizi territoriali destinati alla generalità dei minori.

Secondo gli stessi autori la riforma sembrava corrispondere, in definitiva, ad una istanza di riaffermazione del settore degli operatori della giustizia minorile, che avevano sviluppato nell'arco degli ultimi trent'anni una cultura fortemente legata a temi rieducativi.

In linea con la tesi di Gatti e Verde, l'attenzione della dottrina e degli operatori si è soffermata anche sul contenuto stesso di ciò che poteva significare "altro" rispetto al carcere. Il timore in questo caso riguardava una possibile e pericolosa commistione tra funzioni disciplinari e di controllo di natura non penale - la cui attuazione è demandata ai soggetti pubblici e privati quali la famiglia, le comunità pubbliche, i servizi minorili e gli Enti Locali - e funzioni disciplinari e di controllo di tipo penale. I due mandati, considerata la loro disomogeneità, se posti in capo allo stesso soggetto, vedrebbero l'estendersi del 'penale' su ogni altra funzione pedagogica. Inoltre, considerato che spesso il mandato disciplinare e di controllo al 'sociale' viene costruito, dalla nuova disciplina, su ipotesi custodiali, di cui solo alcune attenuate (permanenza in casa, collocamento in comunità ecc.), il timore è che diffonda il carcerario - di una vera e propria "carcerizzazione del sociale" - anche al di fuori delle garanzie proprie del sistema penitenziario.

Si sostiene anche che il vero problema della nuova procedura penale minorile risiede nel forzato e incoerente assemblaggio tra dispositivo penale e dispositivo educativo-assistenziale che accompagna la logica trattamentale della messa alla prova e delle misure cautelari. La contraddizione tra ritualità penale e progetto educativo è complicata dal fatto che, con la riforma, il disegno trattamentale tentava di realizzarsi dentro il penale nel senso è il nuovo codice a stabilire i tempi, i modi e le forme del progetto nonché le possibili conseguenze. "Non è possibile porre determinati contenuti (di tipo educativo) all'interno di un contenitore di tutt'altro genere (penale) senza che i contenuti ed il contenitore subiscano una irrimediabile trasformazione così che i primi perderanno per strada la loro qualità educativa, il secondo le garanzie proprie della procedura penale" (42) La contraddizione tra ritualità penale e progetto educativo appare, dunque, insanabile proprio perché percorre ogni elemento distintivo dei due discorsi (43).

Ancora più allarmante è la prospettazione delle conseguenze, nel lungo periodo, di questo contrasto tra logica educativa e regole penali. Infatti l'ambiguità dei provvedimenti emessi e la carenza anche qualitativa di risorse, potrebbero condurre molte delle misure deliberate (in particolare ex art; 22 ed ex art. 28) ad un veloce fallimento; questo, come in una reazione a catena, comporterebbe un irrigidimento repressivo e quindi il rientro dell'adolescente in carcere.

Tra gli operatori, quindi, si prospetta il rischio dell'attivazione di un meccanismo perverso che sarebbe stato innescato non dalla possibile misura cautelare adottata o dalla possibile condanna impartita, ma dalla loro correlazione, anziché con l'azione illecita, con condotte che illecite non sono e che rimandano a quella sfera di libertà individuale che dovrebbe essere assolutamente inaccessibile al diritto penale.

Per evitare questa possibilità appare necessario ricondurre la procedura nell'ambito del dispositivo penale e delle sue garanzie, rinunciando a quell'aspirazione educativa che sembra ancora "l'oscuro oggetto del desiderio della giustizia penale minorile" (44).

Secondo Palomba, invece, la possibilità di un ritorno alla rieducazione costituisce un importante richiamo al rigore metodologico e, a questo fine, sarebbe sufficiente ricordare "che la rieducazione è connotata dall'essere svincolata da un reato e dall'indeterminatezza (per qualità e durata) delle conseguenze dell'intervento: ma il processo penale minorile è legato al principio di stretta legalità, con tutte le garanzie che non sono proprie della rieducazione" (45). Ne' l'istituto della messa alla prova (art. 28) può richiamare questa ideologia, dal momento che esso si fondava su un rigoroso patto formale accettato dal minore e avente ad oggetto punti precisi. Sotto questo profilo, la discrezionalità del giudice minorile (46) è "solamente un correttivo dell'eccessiva rigidità dell'apparato sanzionatorio da utilizzare, non secondo criteri di arbitrarietà ma in attuazione di un metodo dialogico inter-professionale che costituisce garanzia primaria di carattere sostanziale". (47) Se così non fosse si potrbbe pensare ad un disinteresse del sociale per il ragazzo che delinque, ed alla fredda riaffermazione del sistema sanzionatorio penale, secondo i criteri della ideologia neo-classica. Cosa che non sarebbe, però, compatibile con i principi espressi dalla Costituzione, in particolare con la natura rieducativa della pena, come anche la Corte Costituzionale ha affermato (48).

2.4.1. Il nuovo processo e la decarcerazione

Un diverso rilievo problematico, sul quale si è soffermata la dottrina riguarda l'impatto del nuovo processo sui processi di decarcerazione. Ci si è chiesti se la riforma del processo penale minorile favorisca un'ulteriore riduzione delle presenze carcerarie dei minori in Italia. Il sistema della giustizia minorile, come è stato evidenziato, è da lungo tempo segnato da una tendenza riduzionistica, ancora più sorprendente ove si osserva che la decarcerazione aveva avuto modo di realizzarsi al di fuori di ogni riforma legislativa orientata a questo esito. Era quindi naturale che la riforma del procedimento penale minorile favorisse ulteriormente questa tendenza alla diminuzione, sia nel settore della custodia cautelare, sia in relazione al carcere come pena.

In relazione alla custodia cautelare, in effetti, le nuove misure cautelari delle prescrizioni (art. 20), della permanenza in casa (art. 21), del collocamento in comunità (art. 22), nonché la nuova disciplina dell'arresto in flagranza (art. 16) e del fermo di indiziato (art. 17), sembrano configurare una ulteriore diminuzione dell'uso di misure privative della libertà per ragioni processuali, se non altro per i delitti per i quali la legge prevede la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni, per i quali sono consentite soltanto misure diverse dalla custodia cautelare.

Altrettanto può dirsi del carcere come pena: la disciplina prevista dall'art. 30 in tema di pene sostitutive, nonché l'istituto della sospensione del processo e messa alla prova, sembrano strumenti atti a ridurre il numero dei minori in carcere per l'esecuzione della pena (49).

La scelta del legislatore del 1988 appare, quindi, astrattamente tesa ad un progressivo superamento dell'istituzione carcere e di ogni altra risposta custodialistica alla devianza giovanile. Nell'opinione di Pavarini, tuttavia, questo obiettivo è perseguito attraverso delle modalità sbagliate e cioè attraverso un ulteriore ampliamento del potere discrezionale in fase giudiziaria, compromettendo, così, e non trascurabilmente, la volontà a cui il riformato processo dichiarava di ispirarsi: "ciò che è alternativo al carcere 'può' essere concesso, assai raramente 'deve'" (50).

Scrivendo a caldo, dopo l'approvazione del D.P.R. 448/88, anche Pavarini manifestava il timore che la potenzialità decarcerizzante insita nei percorsi alternativi alla detenzione previsti dalla nuova disciplina, ma mai certi, non avrebbe prodotto nessuna ulteriore decarcerazione. Ciò perché, avendo il nuovo processo "implementato nella fase giudiziaria la facoltà di decarcerizzare, l'esito è sempre incerto e 'imprevedibile', comunque condizionato dal contingente e dal particolare" (51). La potenziata gamma sanzionatoria prevista, inoltre, favorisce nella prassi, l'utilizzazione delle alternative, più come alternative allo stato di libertà che allo stato di detenzione.

Scrive Pavarini:

...prescrizioni, permanenza in casa e forse anche collocamento in comunità potrebbero così diversamente limitare la libertà dell'imputato in tutte quelle ipotesi in cui, comunque, in assenza di altre misure cautelari, non si sarebbe fatto ricorso alla custodia: le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata, potrebbero offrirsi ben più come valide alternative alla sospensione condizionale della pena detentiva vera e propria. Il rischio è presente e realistico, come stanno ad insegnare le esperienze in questo senso in altri paesi. (52)

Il rischio prospettato è, dunque, lo stesso induviduato da Gatti e Verde e sopra richiamato (53), e cioè che si possa anche non avere decarcerazione, o peggio ancora, che venga estesa una penalità alternativa al carcere, ma pur sempre limitativa della libertà personale, con il probabile esito di ampliare l'indotto carcerario stesso quando questa si dimostri inefficace; "insomma invece di 'meno carcere più alternative', 'più carcere e più alternative' è il prezzo che si paga avendo assegnato in fase giudiziale ed esecutiva (e non in fase edittale) il potere di fare a meno del carcere" (54).

2.5. Il carcere dopo le riforme

Nonostante i timori espressi da una parte degli operatori e dalla dottrina sull'effetto che le nuove norme avrebbero prodotto sui processi di decarcerazione, la conseguenza più evidente generata inizialmente dalla riforma fu costituita dalla netta diminuzione dei minori detenuti.

Come è stato evidenziato nel primo capitolo, già prima dell'emanazione delle nuove disposizioni penali a carico di imputati minorenni, i dibattiti sulla de-istituzionalizzazione minorile iniziati negli anni settanta, avevano sottolineato la necessità di limitare le risposte di tipo segregativo alla devianza giovanile. A ciò era seguita una politica di deflazione carceraria che era stata successivamente avallata dal legislatore con l'ampliamento a due anni delle pene sostituibili con semidetenzione e libertà controllata, dalla nuova disciplina del riformatorio giudiziario e dalle nuove norme molto restrittive in tema di arresto in flagranza di reato, con cui si era ulteriormente ristretto l'accesso dei minori in carcere. Ancora prima che entrasse in vigore il D.P.R. 448/88, quindi, si era potuto parlare di "tramonto del carcere" (55) come di qualcosa che già si stava realizzando, tanto che si ipotizzava che le nuove disposizioni processuali avrebbero consentito il sostanziale svuotamento degli istituti penali minorili.

In effetti a partire dal 24 ottobre del 1989 i carceri minorili iniziarono a svuotarsi in modo molto evidente realizzando un risultato neanche pensabile fino a qualche anno prima (56). Se, tra il 1988 ed il 1989, le statistiche avevano evidenziato un elevato numero di di ingressi mai inferiore alle 5500 unità, l'introduzione della nuova normativa determinò una drastica riduzione nel numero delle entrate, che scesero a sole 782 unità. La previsione secondo la quale il carcere si sarebbe 'spento' "di morte naturale, privo di 'clienti' da tenere rinchiusi e svuotato" (57), sembrò dunque dimostrarsi esatta almeno in un primo momento.

Per tutto il 1990 la cultura minorile prevalente coltivò il sogno di liberarsi definitivamente del carcere per i ragazzi.

Scriveva Occhiogrosso:

Se l'andamento del fenomeno verrà confermato e non interverranno drastici ripensamenti legislativi nel prossimo futuro, non avrà più senso mantenere in piedi il carcere minorile nell'attuale estensione ambientale e nel suo ruolo, ma dovranno essere pensate utilizzazioni più consone alla nuova situazione pur tenendo maggior conto delle probabili esigenze nuove che deriveranno dalla semidetenzione o dalla detenzione di giovani adulti (58).

La controriforma attuata con il D.Lgs. 14 gennaio 1991 n.12, segnò, però l'inizio di un periodo diverso, contrassegnato da un'opposta tendenza. Con questo decreto, contenente le "Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate", ha apportato una serie di modifiche sia al D.P.R. 448/88 che alle disposizioni di attuazione (D.P.R. 272/89). In particolare, l'art. 42 del D.Lgs. 12/91, sostituendo interamente l'art. 23 delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, ha portato ad un ampliamento della categoria dei delitti che consentono l'applicazione della misura della custodia cautelare. Dall'inizio del 1991, dunque, gli ingressi negli istituti penitenziari iniziarono nuovamente a crescere, attestandosi intorno alle 2000 unità annue, con una intensità che, seppure con qualche oscillazione, si è mantenuta costante fino al 1998.

Per tentare una esauriente spiegazione del calo della popolazione delinquenziale minorile, così come appare dalle istituzioni penitenziarie, è necessario, infatti far riferimento, anche, agli atteggiamenti che l'opinione pubblica assume nei confronti di questi temi e del modo di affrontarli. Da sempre infatti il maggiore o minore ricorso a strumenti repressivi o a risposte di accettazione e comprensione è correlato con la reazione sociale al problema che con questi mezzi si vuole affrontare. Nonostante che i dati statistici indichino il contrario, l'opinione pubblica può tuttavia essere convinta, che i fenomeni della delinquenza siano in crescente aumento e che le carceri minorili siano stracolme di piccoli criminali. Spesso anche un singolo episodio criminoso suscita grande clamore e genera un clima di paura collettiva. Può accadere che le norme restrittive con le quali il legislatore interviene in tali casi siano il frutto, più che di una coerente politica penale e penitenziaria, della necessità di contenere l'allarme sollevato nella società dal singolo fenomeno. Il decreto del 1991, a modifica del D.P.R. 448/88 rappresentò la risposta rassicurante del legislatore alla richiesta, da parte dell'opinione pubblica, di maggiore severità nei confronti della devianza giovanile e interruppe il processo di svuotamento del carcere cui aveva dato vita la normativa relaiva al nuovo processo.

Il dato di fatto di un persistente, seppur diminuito rispetto al passato, numero di ragazzi presenti istituti penali minorili, ha posto, comunque, la necessità di occuparsi della struttura contenitiva. In particolare ci si sarebbe dovuti chiedere come doveva essere il carcere per i giovani che ancora lo popolano. Si poteva pensare ad un carcere diverso ad iniziare dal modo di presenza dei detenuti. Le esperienze alle quali era possibile fare riferimento potevano "un po' grossolanamente essere, divise in due filoni". (59) Un primo gruppo di carceri minorili si raggruppava intorno alla comune caratteristica di essere indirizzati al migliorarsi all'interno. L'esempio più noto, ma non unico, era quello del "Ferrante Aporti" di Torino (60), con il quale si era tentato di far diventare più umano il carcere minorile, permettendo l'ingresso in istituto di artigiani, associazioni sportive, gruppi volontari; si era cercato, per usare un'espressione di Pazè, di "portare la città in carcere" (61)... Ma questo modello in realtà si era già esaurito anche a Torino, dove era stato superato da iniziative organizzate al di fuori delle mura carcerarie.

Altre esperienze, infatti erano sorte e si erano sviluppate nella direzione di un carcere minorile tendenzialmente aperto, da cui i ragazzi uscivano per andare a scuola, al lavoro, alle associazioni, a fare sport; utilizzando il carcere come luogo e il momento da cui partire "per costruire all'esterno una rete di rapporti destinati a durare" (62). Si trattava, in questo caso di un "carcere aperto alla città", che esprimeva "una nuova impostazione della pena": "far servire quel tempo della pena a qualcosa, a costruire un'alternativa alla vita libera rispetto ad una situazione di vita coatta" (63).

Il fallimento del sogno di liberarsi dal carcere per i minori - sogno coltivato per l'intero anno 1990 intercorso, come ripetiamo, tra l'entrata in vigore delle disposizioni sul processo penale minorile e la c.d. controriforma del D.L. 12/1991, quando il carcere minorile si era quasi del tutto svuotato - ha indottoil dibattito intorno alle problematiche della devianza minorile a trascurare la questione carceraria; essa ha, col tempo, perduto al centralità culturale che la tensione morale, che l'aveva accompagnata nel decennio precedente, le aveva consentito di acquisire. Solo di recente si è riproposto tra gli operatori la necessità di stabilire quale sia l'atteggiamento culturale più corretto in ordine alla questione carceraria minorile; nelle parole di Occhiogrosso:

...se si debba, in sostanza, riprendere la precedente prospettiva ed insistere perché si giunga al superamento del carcere minorile oppure se si debba fare un discorso di realtà, prendendo piuttosto atto che non sussistono oggi concretamente le condizioni per riproporre una tale indicazione (64).

Secondo lo stesso Occhiogrosso è preferibile questa seconda strada, perché se è vero che i ragazzi ad oggi detenuti negli istituti penali minorili sono solo poche centinaia, che tutto il sistema delle misure cautelari non detentive, delle sanzioni penali sostitutive e di quelle penitenziarie alternative per i minorenni si fonda sulla concreta previsione che, in caso di violazione delle prescrizioni di volta in volta negoziate o imposte, ciascuno degli interventi suddetti sarà modificato in pena detentiva. "Eliminare il carcere minorile significherebbe, quindi, eliminare il supporto su ci si regge tutto il sistema penal-penitenziario minorile e segnarne irrimediabilmente il crollo" (65).

L'opposizione tra coloro che sostengono la necessità del carcere e coloro che ne negano ogni utilità si va ponendo negli ultimi tempi in una dimensione più sottile, meno netta, ma non per questo meno significativa. La posizione ormai nettamente prevalente sostiene che allo stato attuale il carcere minorile non possa scomparire; il problema che si pone è, quindi, quale carcere si debba ipotizzare: se cioè esso (e tutto il sistema della risposta penale) debba rimanere quale ora è nei fatti con i limiti e le violazioni dei diritti dei minori difficili, oppure se se alla presa d'atto dell'attuale indispensabilità del carcere debba accompagnarsi un progetto diretto ad una rapida eliminazione delle carenze e delle inadeguatezze. È fin troppo facile rilevare che nessuno si sogna di sostenere esplicitamente la prima alternativa e che tutti si dichiarano a parole per la seconda. Ma poi emergono considerazioni che ripropongono la perifericità della condizione carceraria, la necessità di tempi troppo lunghi per risolvere i problemi che quindi sono di fatto favorevoli a perpetuare l'attuale negativa condizione carceraria minorile (66).

2.6. Gli istituti penali per minorenni

All'interno del sistema penale minorile, il carcere ha subito una serie di modificazioni; le norme di attuazione del nuovo codice hanno infatti soppresso l'Istituto di osservazione (per i minori in custodia cautelare) e la Prigione-scuola (per l'esecuzione della pena detentiva) prevedendone la sostituzione con l'Istituto Penale Minorile (I.P.M.).

L'Istituto Penale Minorile assolve principalmente funzioni esecutive della pena e della custodia cautelare, nei casi in cui non sia stato possibile attivare la concessione di altre misure non detentive. L'organizzazione ed il funzionamento dell'Istituto trovano la loro disciplina nelle norme dell'Ordinamento Penitenziario e nella circolare del 19 gennaio 1995, che rappresenta l'unico documento specifico sulla detenzione minorile, e che ne traccia il modello organizzativo e il quadro operativo di riferimento. L'esigenza che sottende l'emanazione della circolare è di individuare una guida di riferimento che consenta di razionalizzare e rendere omogenee sul territorio nazionale modalità operative già in uso, ma anche di riconoscere la necessità di differenziazioni sulla base di un evidente cambiamento nella visione complessiva della delinquenza giovanile. Nel delineare tale modello organizzativo-gestionale la circolare prende in considerazione diversi profili che attengono all'utenza, alle finalità istituzionali, all'organizzazione interna e all'organizzazione delle attività.

Dal punto di vista del profilo d'utenza gli I.P.M. sono preposti a due funzioni: l'esecuzione della pena e l'esecuzione della misura cautelare. Si tratta di funzioni diverse che si rivolgono a utenze diverse e che devono svolgersi possibilmente anche in locali separati. Gli ingressi in istituto per l'esecuzione della misura cautelare detentiva riguardano i ragazzi tra i 14 e i 18 anni sulla base di provvedimenti disposti dal magistrato a seguito di arresto o fermo, di violazione della misura cautelare del collocamento in comunità per un periodo non superiore ad un mese o anche di custodia cautelare a seguito della celebrazione del processo di primo e secondo grado (67). La seconda funzione assicurata dagli I.P.M. è quella dell'esecuzione delle pene ed interessa oltre a ragazzi della fascia d'età tra 14 e 18 anni, anche quelli della fascia dei giovani adulti tra 18 e 21 anni, sempre che la pena in espiazione si riferisca a reati commessi nella minore età. All'interno degli istituti è possibile l'esecuzione, ma in locali separati, delle misure della semilibertà e della semidetenzione.

Le finalità istituzionali sono rappresentate dall'esecuzione dei provvedimenti dell'Autorità Giudiziaria, dalla garanzia dei diritti soggettivi dei minori (diritto alla salute ed ad una crescita armonica, sia fisica che psicologica; diritto all'istruzione, al lavoro, alle attività ludiche, alla socializzazione; diritto alla non interruzione dei processi educativi in atto ed al mantenimento dei legami significativi) e dall'attivazione dei processi di responsabilizzazione e di promozione del minore anche attraverso lo svolgimento della vita comunitaria.

Per l'organizzazione interna degli istituti minorili viene prevista una classificazione dettata dalla capienza funzionale che la struttura edilizia consente, individuandosi così sette diverse classi di capienza che delimitano il numero minimo e massimo di disponibilità di posti all'interno di ogni istituto (68). Da tale definizione si evidenzia come i vari spazi architettonici siano tra loro differenziati, a causa, anche dell'anacronismo dell'edilizia penitenziaria (69), e come essi siano il risultato di una politica spesso irrazionale, incapace di adeguare alla specificità del settore minorile e alla sua evoluzione sul piano legislativo e operativo, le relative strutture carcerarie. È possibile notare, inoltre, come in relazione alle specificità territoriali corrisponda una differenziazione strutturale per cui gli istituti a maggiore capienza risultano essere quelli afferenti ai grandi centri urbani. Infine, in alcune regioni sono presenti più istituti minorili, secondo una distribuzione differenziata sul piano nazionale.

La struttura organizzativa degli I.P.M. è definita da tre aree funzionali: l'area tecnico-pedagogica che comprende educatori, consulenti, animatori ed è coordinata dall'educatore più alto in grado e più anziano; l'area della sicurezza che attiene alla vigilanza e alla tutela della sicurezza dei ragazzi e della struttura; e l'area amministrativo-contabile che svolge attività amministrativa relativa al complessivo funzionamento della struttura e del personale.

Secondo le disposizioni della circolare ogni istituto dovrebbe essere organizzato in gruppi composti da 10-12 ragazzi. Ogni gruppo dovrebbe far capo a due educatori che costituiscono i referenti diretti per ogni esperienza del minore, e da sei unità di polizia penitenziaria che partecipano alle attività di osservazione e trattamento dei minori. L'organizzazione di tali gruppi viene però centrata su un necessario criterio di flessibilità "stante le differenze-difficoltà strutturali esistenti allo stato nel patrimonio edilizio minorile penitenziario" (70).

Le modalità di svolgimento della vita all'interno dell'istituto sono definite dal regolamento interno che contiene le regole di riferimento, le prassi codificate e formalmente riconosciute, cui tutti, operatori e ragazzi, devono attenersi. Il regolamento rappresenta ila normativa interna dell'istituto; esso deve necessariamente essere predisposto e viene ratificato con un ordine di servizio del direttore. La circolare individua in modo generale gli ambiti che il regolamento dovrà definire nei particolari (es. colloqui, perquisizioni, pasti, attività di studio e di lavoro, organizzazione e gestione delle sezioni di isolamento destinate ai ragazzi esclusi dalle attività in comune). In mancanza di un unico regolamento specificamente pensato dal legislatore per gli istituti penali minorili, il regolamento interno rappresenta l'unica norma di riferimento e deve esssere conforme con quanto disposto in generale dal regolamento in uso negli istituti penali per adulti. La parte della circolare che definisce l'organizzazione delle attività, definisce la formazione scolastica e quella professionale. Per i minori in custodia cautelare possono essere organizzate attività di pre-orientamento formativo, che si caratterizzano come brevi esperienze di impegno lavorativo, affidate a cooperative o artigiani, e finalizzate all'individuazione di attitudini e potenzialità individuali. L'organizzazione delle attività scolastiche e professionali dovrebbe tendere a sviluppare le integrazioni con la comunità esterna in modo da diminuire le distanze tra il carcere e il territorio e coinvolgere quest'ultimo in un ruolo più responsabile nei confronti dei minori in carcere.

2.7. Analisi storica degli ingressi negli istituti penali minorili (71)

L'analisi che segue rappresenta la sintesi dell'elaborazione dei dati statistici inviati dagli Istituti penali per minorenni all'Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile. Questi dati costituiscono un quadro del flusso dei minorenni transitati nei servizi della Giustizia minorile, rappresentando quindi solo una parte del complesso fenomeno della delinquenza minorile in Italia. In particolare, la seguente indagina, analizza la devianza minorile 'visibile' cioè i minorenni che entrano in contatto con la giustizia attraverso i suoi servizi.

Inoltre è necessario sottolineare come i dati di seguito riportati non si riferiscano al singolo minore individuabile anagraficamente ma siano rappresentativi del numero di ingressi nei servizi minorili in esame e non già del numero dei minori che entrano in I.P.M.: vale a dire che i minori che hanno fatto ingresso più volte nel corso dell'anno nei servizi minorili (della stessa o di altre città) vengono conteggiati tante volte quanti sono stati gli ingressi. Occorre infine ricordare che, benché si parli genericamente di soggetti minorenni, la fascia d'età di specifica competenza della giustizia minorile è da 14 a 21 anni (si parla infatti di 'minorenni' per la fascia d'età 14-18 e di 'ultradiciottenni' per la fascia 18-21 anni); il Tribunale per i minorenni è infatti competente per i reati commessi dai minori degli anni 18, tuttavia esso continua ad esercitare le proprie attribuzioni nei confronti di coloro che commisero il reato quando erano minori degli anni 18 fino al compimento del 21º anno di età. Pertanto, anche la competenza dei servizi della giustizia minorile hala medesime estensione.

Gli Istituti penali minorili in Italia sono ventuno di cui quattro al Nord, cinque al Centro, undici al Sud (tra questi quattro sono in Sicilia) e uno in Sardegna. L'elevato tasso di criminalità minorile e gli alti livelli di problematicità presenti al Sud giustificano il numero degli I.P.M. presenti in questa zona del paese.

I minorenni che hanno fatto il loro ingresso negli Istituti penali per minorenni nel 1988 sono stati 1888; di questi 884 sono italiani (il 46,8%) e 1004 sono stranieri (il 53,2%). (Tabella 7.1)

Il numero degli ingressi nel complesso risulta stabile rispetto all'anno precedente, ma disaggregando il numero dei detenuti italiani da quello dei detenuti stranieri, si nota come il numero dei minori italiani sia in progressiva diminuzione mentre quello dei ragazzi stranieri sia in aumento.

Tabella 7.1 - Ingressi in I.P.M. per nazionalità dei soggetti e anno
Anni Italiani Stranieri Totale
1991 1.228 726 1.954
1992 1.492 797 2.289
1993 1.465 849 2.314
1994 1.322 918 2.240
1995 1.110 903 2.013
1996 1.093 882 1.975
1997 934 954 1.888
1998 884 1.004 1.888

La distribuzione dei detenuti stranieri sul territorio nazionale, continua ad essere marcatamente disomogenea: il 91,8% degli ingressi dei minori stranieri, infatti, riguarda gli I.P.M. delle regioni del Centro-nord, cui corrispondono i Centri di Giustizia Minorile (C.G.M.) di Milano (29,3%), Torino (17,2%), Firenze (10,1%), Bologna (9,3%), Venezia (2,8%). Il restante 8,2% degli ingressi dei minori stranieri si riferisce invece alle regioni del Sud, ovvero ai C.G.M. di Napoli (4,4%), Bari (2,8%), Palermo (0,4%) e Catanzaro (0,6%). Sulla percentuale di stranieri nel Centro di Giustizia Minorile di Napoli incidono soprattuto gli ingressi nella sezione femminile dell'I.P.M. di Nisida.

Andando a considerare la distribuzione degli ingressi per nazionalità all'interno di ogni singolo I.P.M., si può notare come le più alte percentuali di ingressi di minori stranieri si riferiscono agli I.P.M. di Firenze (90%), di Bologna (89%), di Torino (87%), di Roma (72%), di Milano (81%) e di Treviso (64%).

Analizzando il fenomeno dal punto di vista temporale dalla tabella che segue (7.2), si evince come gli ingressi dei minorenni italiani stanno registrando un decremento sia al centro-nord sia al Sud dell'Italia (soltanto nell'ultimo anno in esame gli ingressi degli italiani negli I.P.M. del Sud risultano stabili); per gli stranieri invece l'incremento in atto riguarda essenzialmente il Centro-Nord.

Tabella 7.2 - Distribuzione territoriale degli ingressi in I.P.M. per anno e nazionalità
anno ITALIANI STRANIERI TOTALE
C. Nord Sud Italia C. Nord Sud Italia C. Nord Sud Italia
1991 450 778 1228 667 49 716 1117 827 1944
36,6% 63,4% 100% 93,3% 6,7% 100% 57,7% 42,3% 100%
1992 535 957 1492 732 65 797 1267 1022 2289
35,9% 64,1% 100% 91,8% 8,2% 100% 55,4% 44,6% 100%
1993 548 917 1465 780 69 849 1328 986 2314
37,4% 62,6% 100% 91,9% 8,1% 100% 57,4% 42,6% 100%
1994 493 824 1317 859 59 918 1352 883 2235
37,7% 67,3% 100% 93,6% 6,4% 100% 60,6% 39,4% 100%
1995 363 747 1110 868 35 903 1231 782 2013
32,7% 67,3% 100% 96,1% 3,9% 100% 61,2% 38,8% 100%
1996 383 710 1093 807 75 882 1190 785 1975
35,0% 65,0% 100% 91,5% 8,5% 100% 60,3% 39,7% 100%
1997 343 591 934 848 105 953 1191 696 1887
36,7% 63,3% 100% 88,9% 11,1% 100% 63,1% 36,9% 100%
1998 291 593 884 922 82 1004 1213 675 1888
32,9% 67,1% 100% 91,8% 8,2% 100% 64,2% 35,8% 100%

Per quanto attiene alla distribuzione degli ingressi in relazione alla distinzione per sesso la tabella 7.3. indica come nel 1988 siano entrate in I.P.M. 381 femmine, pari al 20% del totale degli ingressi. Questi ultimi riguardano soprattutto gli istituti del Centro-nord, essenzialmente perché si tratta in gran parte di minorenni straniere (91,6%). Le 349 femmine straniere rappresentano il 34,8% degli stranieri, mentre le italiane corrispondono al 3,6% degli italiani. La distribuzione territoriale per sesso degli ingressi degli italiani e degli stranieri evidenzia, inoltre, che mentre per gli italiani la componente femminile è esigua sia al Centro-nord sia al Sud, per gli stranieri la disparità tra sessi si attenua su tutto il territorio nazionale.

Tabella 7.3. - Distribuzione storico-territoriale degli ingressi distinti per nazionalità e sesso
ANNI ITALIANI STRANIERI TOTALE
Maschi Femm. Totale Maschi Femm. Totale Maschi Femm. Totale
1991 C. Nord 397 53 459 402 275 677 799 328 1127
Sud 778 0 778 49 0 49 827 0 827
Italia 1176 53 1228 451 275 726 1626 328 1954
1992 C. Nord 505 30 535 381 341 732 896 371 1267
Sud 957 0 957 61 1 65 1021 1 1022
Italia 1462 30 1492 455 342 797 1917 372 2289
1993 C. Nord 518 30 648 480 320 700 978 360 1325
Sud 911 6 917 50 19 69 961 25 985
Italia 1420 36 1465 510 339 849 1039 375 2314
1994 C. Nord 481 17 498 514 345 859 995 362 1357
Sud 822 1 824 43 16 59 865 18 883
Italia 1003 19 1322 557 361 918 1860 380 2240
1995 C. Nord 347 16 363 566 302 868 913 318 1231
Sud 739 8 747 26 9 35 765 17 782
Italia 1086 24 1110 592 311 903 1673 335 2013
1996 C. Nord 355 18 383 506 301 807 871 319 1190
Sud 702 8 710 40 35 75 742 43 785
Italia 1067 26 1093 546 336 882 1613 362 1976
1997 C. Nord 325 18 343 520 528 848 845 346 1191
Sud 585 6 591 53 43 106 848 49 697
Italia 910 24 934 583 371 954 1493 395 1888
1998 C. Nord 266 25 291 602 320 922 868 345 1213
Sud 586 7 593 53 29 82 639 36 675
Italia 852 32 864 655 349 1004 1507 381 1888

Analizzando l'evoluzione temporale degli ingressi per sesso, si nota come gli andamenti degli ingressi maschili e femminili siano simili. Poiché soltanto cinque I.P.M. su ventuno hanno una sezione femminile, vale la pena evidenziare le percentuali di tali ingressi in ciascuno di questi istituti. All'I.P.M. di Milano gli ingressi femminili rappresentano il 42% del totale: per il 92,1% si tratta di ragazze straniere; a Torino le femmine sono il 28,3%, tutte straniere tranne una; a Roma rappresentano il 44% degli ingressi e si tratta di straniere nel 91,2% dei casi; a Nisida le femmine sono il 24,8% del totale, l'80,6% delle quali straniere; infine a Caltanissetta nel 1998 non si sono verificati ingressi femminili.

Passando ad analizzare la posizione giuridica di coloro che sono entrati in I.P.M. dal 1991 al 1998, dalla tabella che segue notiamo come la maggior parte degli ingressi avvenga per custodia cautelare (79% nel 1998), sia per gli italiani (69,7%) sia per gli stranieri (87,2%).

Gli ingressi per custodia cautelare, nell'ultimo triennio in esame, sono in aumento, essenzialmente per l'aumento degli ingressi degli stranieri; la componente italiana invece, nell'ultimo anno in esame, è risultata essere abbastanza stabile, mentre con riferimento all'intero periodo sta registrando una tendenza alla diminuzione.

Gli ingressi per esecuzione di pena sono in diminuzione sia per gli italiani sia per gli stranieri.

Tabella 7.4. - Ingressi in I.P.M. secondo la posizione giuridica
Anni Custodia cautelare Esecuzione pena Totale
Italiani Stranieri Totale Italiani Stranieri Totale Italiani Stranieri Totale
1991 1035 696 1731 193 30 223 1228 726 1954
1992 1197 724 1921 295 73 368 1492 797 2289
1993 1131 693 1824 334 156 490 1465 849 2314
1994 900 785 1685 422 133 555 1322 918 2240
1995 725 768 1493 385 135 520 1110 903 2013
1996 706 714 1420 387 168 555 1093 882 1975
1997 618 783 1401 316 171 487 934 954 1888
1998 616 876 1492 268 128 396 884 1004 1888

La presenza media giornaliera negli I.P.M. diminuisce complessivamente, soprattutto a causa della della diminuzione delle presenze medie di minori italiani; la presenze medie di minori stranieri continuano, al contrario, ad aumentare, in linea, con con la tendenza emersa negli anni precedenti.

È da rilevare tuttavia come la presenza media in I.P.M. di ragazzi italiani sia maggiore rispetto a quella straniera. Ciò in particolare è vero per quanto riguarda i ragazzi in esecuzione di pena. Per la custodia cautelare invece, contrariamente agli anni passati, nel 1998 si è registrata una, seppur lieve, maggiore presenza media di giovani stranieri. Quest'ultimo dato potrebbe far presupporre che per gli stranieri una volta che è stata applicata la custodia cautelare, in genere non si verificano interventi volti a modificarla; pertanto essa rimane tale sino a nuova udienza. Per i minorenni italiani invece, essendo maggiormente presenti i documenti di identità e la reti sociali di supporto, si attuano più spesso misure cautelari non detentive.

Viceversa la maggiore presenza di italiani in espiazione di pena può trovare spiegazione nel fatto che il ragazzi italiani che si trovano in I.P.M. sono spesso autori di delitti molto gravi e spesso risultano essere stati condannati anche per reati associativi (art. 416bis) a causa dei quali è sostanzialmente preclusa la possibilità di accedere a misure di decercerazione. Inoltre i ragazzi taliani sono più facilmente individuabile ed è per loro più difficile sottrarsi dallo scontare da una condanna passata in giudicato. Lo straniero invece una volta fuori dall'istituto diventa difficilmente rintracciabile a causa della difficoltà di identificarlo.

Grafico 7.5. - Presenze medie alla mezzanotte dell'ultimo giorno del mese distinte per nazionalità. Anno 1998. Composizione percentuale per età

2.7.1. I minori stranieri negli istituti penali minorili

Appare evidente dai dati riportati nel precedente paragrafo come negli ultimi anni il flusso di immigrazione straniera nel nostro Paese, in particolare di soggetti extra-comunitari, sia divenuto sempre più consistente (72). Dai primi anni Ottanta ad oggi, la denunce, gli arresti e le condanne nei confronti di minori immigrati dai 14 ai 18 anni sono costantemente aumentati (73). Un altro dato altrettanto visibile è quello che attiene alla forte territorializzazione delle tipologie di detenuti tra il Centro-Nord e il Sud d'Italia, che sembra essere un dato ormai stabile. Al Nord gli ingressi dei minori stranieri in I.P.M. sono cresciuti progressivamente dal 1992, quando già rappresentavano più della metà (57,5%) degli ingressi totali, al 1998 quando diventano più dei due terzi degli stessi. Al Centro la situazione è meno caratterizzata, anche se la presenza dei minori stranieri nell'arco degli anni è sempre stata superiore al 63,8%. Al contrario il Sud e le isole sono caratterizzate da una netta maggioranza delle presenze di minori italiani: la loro percentuale non è mai scesa sotto l'88,9%, dato registrato nel 1987.

Da queste cifre emerge una tendenziale diminuzione degli ingressi dei minori italiani ed un contemporaneo costante incremento dell'indice degli ingressi di minori stranieri. Tale tendenza accentua la differenza già rilevabile, tra le diverse aree geografiche del Paese ed apre, nell'orizzonte quotidiano degli operatori della giustizia che sono coinvolti in questo problema, uno spazio di incertezza e di crisi in cui le diverse competenze coinvolte si scoprono rigide, sorde, non soltanto alle logiche della tutela e alle esigenze conoscitive ad essa pertinenti, ma anche verso le conseguenze pragmatiche che il vuoto di conoscenza produce nel contesto giudiziario.

I minori stranieri (in particolare nomadi e nord-africani) che commettono reati non solo stanno suscitando un certo allarme ma pongono problemi in termini di qualità degli interventi nei loro confronti (74).

Nella giustizia penale minorile, i ragazzi nomadi ed extracomunitari hanno un impatto molto più difficoltoso - rispetto ai ragazzi italiani - con le risposte processuali sanzionatorie. A parità di reato, i minori immigrati ricevono molto più frequentemente misure cautelari detentive (carcere), vi rimangono per più tempo, e sono più spesso condannati, mentre con molta meno frequenza ricevono misure in comunità alloggio, in famiglia, in libertà (75). Per questi soggetti la prospettiva del contenimento sembra rimanere reale, "lì dove la difficoltà a percepire risorse familiari e comunitarie sembra aver decretato per questi casi una sorta di rassegnata incapacità ad estendere il confine operativo oltre i contesti istituzionali" (76). Si tratta, in più generale, di una complessiva difficoltà di applicazione della normativa a questi ragazzi; la cultura di provenienza, i valori, la lingua, mettono in difficoltà gli operatori della giustizia minorile italiana nell'attivare interventi o nell'elaborare progetti educativi (77).

I motivi di tale situazione possono essere molti. In primo luogo vi è la difficoltà ad identificare il minore straniero per la mancanza di documenti personali e ciò comporta, come prima conseguenza una maggiore facilità di fuga da strutture 'aperte' come, ad esempio, le comunità (78). Un altro motivo è la lontananza del minore dalla sua famiglia poichè, l'assenza di figure adulte di riferimento non rende possibile l'applicazione di misure come la permanenza in casa. Secondo De Leo le "risposte anacronistiche" dei servizi e la "perdita di tutela" per i minori immigrati dipendono anche da una sorta di "paradosso egualitario", che si genera con la tendenza dei giudici minorili e degli operatori sociali a dare ai minori immigrati lo stesso tipo di risposte che vengono date ai minori italiani, mantenendo come regola lo stesso tipo di aspettative in merito ai risultati. Ma siccome le condizioni dei minori immigrati sono fortemente diverse rispetto a quelle degli italiani, in particolare dal punto di vista della relazioni con la famiglia e la comunità territoriale, i risultati degli interventi saranno inevitabilmente diversi: i giudici e gli operatori si sentiranno perciò legittimati a ricorrere a 'necessarie' risposte rigide ed istituzionali. "È paradossale, oltre che ottuso, - sostiene De Leo - questo tipo di egualitarismo perché adotta un meccanismo della risposta e delle aspettative di risultato, indipendentemente dalle condizioni, dalle identità, dalle culture" (79).

La presa in carico dei ragazzi stranieri, pertanto richiede l'individuazione di strategie differenziate, di azioni locali capaci di fornire risposte adeguate al contesto socio-territoriale di inserimento, ma anche alla provenienza territoriale del minore straniero (80), poiché si pone un vero e proprio problema di uguaglianza dei diritti che deve trovare soluzione attraverso la ricerca delle risorse necessarie a finanziare gli strumenti ed i servizi, in modo da rendere, anche di fatto, i giovani stranieri uguali a quelli italiani (81).

Note

1. Approvata dalla Società delle Nazioni il 24 settembre 1924, detta anche Dichiarazione di Ginevra.

2. In merito agli orientamenti espressi dalla Corte Costituzionale in tema di giustizia minorile, cfr. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, Milano 1989; C. De Angelis, Prime riflessioni sulla nuova procedura penale minorile, in Esperienze di giustizia minorile, 1, 1988, p. 42.

3. Secondo questa concezione le sanzioni tendono contemporaneamente a scopi afflittivi, retributivi, generalpreventivi, specialpreventivi e di reintegrazione dell'ordine giuridico violato.

4. G. Fidanca, Il terzo comma dell'art. 27, in G. Branca, A. Pizzorusso (a cura di), Commentario alla Costituzione. Artt. 27-28, Zanichelli, Bologna 1991, pp. 330-339.

5. Cfr. Corte Costituzionale 27 giugno 1974 n. 204, in Giurisprudenza Costituzionale 1974, p. 510; si vedano anche le sentenze 343/87 e 292/98 che si richiamano alla sentenza del 1974.

6. Corte costituzionale 26 giugno 1990, n. 313, in Giurisprudenza Costituzionale 1990, p. 875.

7. Sulle diverse posizioni cfr. G Vassalli, Funzione e insufficienza della pena, in Rivista italiana, 1961, p.269; S. Ranieri, Il secondo capoverso dell'art. 27 Cost. e il problema della rieducazione del condannato, in Studi De Francesco, Giuffrè, Milano 1957, vol. I, p. 561.

8. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p.756.

9. E. Dolcini, La rieducazione del condannato, in Rivista italiana 1979, p. 469.

10. Cfr. Corte Costituzionale 23 marzo 1964 n. 25, in Giurisprudenza italiana, I, 1, 1964, p. 653.

11. Cfr. Corte Costituzionale 29 dicembre 1972, n. 198, in Giurisprudenza costituzionale, 1972, p. 2206.

12. Cfr. Corte Costituzionale 30 aprile 1973, n. 49, in Giurisprudenza Costituzionale, 1973, p. 421.

13. Cfr. Corte Costituzionale 20 Giugno 1977, n. 120, in Giurisprudenza Costituzionale, 1977, p. 1075. In una sentenza successiva (31 dicembre 1986, n.295, in Giurisprudenza Costituzionale, I, 1986, p. 2353), la Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 169 c.p., che nega la possibilità di concedere una seconda volta il perdono giudiziale. La Corte così argomenta: "Rivelatasi errata la favorevole prognosi formulata dal giudice in occasione del primo perdono di non ricaduta nel reato, l'esecuzione della pena per il secondo reato è da ritenersi frutto di una non irrazionale scelta del legislatore tesa, appunto, a realizzare esigenze educative del minore. Anche le pene tendono alla rieducazione, non soltanto le misure liberatorie quali il perdono giudiziale".

14. Cfr. Corte Costituzionale 20 aprile 1978, n. 46, in Giurisprudenza Costituzionale, 1978, p. 537.

15. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., pp.39-44.

16. Si tratta della legge 3 aprile 1974, n. 108.

17. G La Greca, Dalla delega del 1974 al decreto n. 448 del 1988, in G Conso, V. Grevi, G. Neppi Modona (a cura di), Il nuovo codice di procedura penale, Cedam, Padova 1990, vol. VII, pp.5-6.

18. Questo documento è rimasto inedito ma un richiamo ad esso si trova nel Parere della Commissione consultiva sul progetto preliminare del codice di procedura penale, 1979, p. 21, nella quale si può leggere: "Neppure il processo relativo ai minori degli anni diciotto regola il Progetto: ed anche in merito la Commissione consultiva, preventivamente interpellata, espresse il parere che non fosse possibile in base alla legge delega".

19. Cfr; G. Conso, L'iter della legge n. 81 del 1987, in G. Conso, V. Grevi, G. Neppi Modona (a cura di), Il nuovo codice di procedura penale, cit., vol. II, pp. 3-4.

20. In verità i disegni di legge a cura dei senatori Gozzini (n. 24 del 1983), Marinucci (n. 1589 del 1985) e Martini (n.1673 del 1986) lasciarono sostanzialmente immutato il modello penal-processuale minorile. Più innovativi furono, invece, i disegni di legge presentati dai senatori Ricci (n. 960 del 1984) e Martinazzoli (n. 1742 del 1986) che costituirono un punto di riferimento per la commissione incaricata di dare attuazione alla delega legislativa per la riforma del processo penale a carico di imputati minorenni. Crf. S. Giambruno, Cinque disegni di legge per la riforma della giustizia minorile, in G. Pansini (a cura di), Archivio penale, Università di Urbino 1986, pp. 583-597.

21. Si veda G. La Greca, Dalla delega del 1974 al decreto n. 448 del 1988, in G. Conso, V. Grevi, G. Neppi Modona (a cura di), Il nuovo codice di procedura penale, cit., vol. VII, p. 8.

22. Ivi, pp. 10-11.

23. Peraltro, quest'ultimo modificato dal D.L. 14 gennaio 1991, n. 12.

24. Per i contributi sull'evoluzione dela giustizia minorile si veda: L. Sacchetti, Riflessioni sull'esperienza del Tribunale per i minorenni, in Balloni -Pellicciari-Sacchetti, Devianza e giustizia minorile, Angeli, Milano 1979; F. Palomba, Questioni di costituzionalità del decentramento, in Esperienze di rieducazione, 1981; T. Bandini, U. Gatti, Evoluzione della crisi della gistizia minorile. Una difficile scelta tra educazione e punizione, in Dei delitti e dele pene, 1, 1983; L De Cataldo Neuburger, Analisi strico-giuridica del processo penale minorile, Nel segno del minore, Noto, Bari 1989.

25. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., p. 113.

26. La lettura del D.P.R. 448/88 che segue considera le modifiche introdotte allo stesso dal D.L. 14 gennaio 1991, n. 12, recante soprattutto disposizioni relative ai provvedimenti in materia di libertà personale.

27. Cfr. A.C. Moro, I minori e il nuovo procedimento penale, in Il bambino incompiuto, n.3, 1988.

28. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit.

29. La partecipazione dei servizi degli Enti Locali all'interno di un procedimento penale era già stata riconosciuta come necessaria dalla Corte Costituzionale. Con la sent. n. 287 del 1987, infatti, la Corte ha ritenuto che i servizi relativi alla giustizia possano essere affidati agli Enti Locali. La tesi opposta, infatti, "corrisponde ad una superata concezione che ravvisa negli Enti Locali e negli interessi di cui sono portatori, situazioni secondarie marginali ... La Costituzione, valorizzando decentramento e autonomie, ha invece, inteso sottolineare la opportunità che la cura di determinati interessi sia decentrata proprio per assicurare una più completa e penetrante realizzazione attraverso una decentrata organizzazione territoriale". Cfr. Corte Costituzionale 28 luglio 1987, n. 287, in Giurisprudenza Costituzionale, 1987, p.2244.

30. Cfr. D. Spirito, Servizi minorili, in Enciclopedia del diritto, cit., vol. XLII, p. 407.

31. Che la disposizioni sui servizi minorili siano da ricollegare alla particolare posizione di cui gode il minore nel nuovo processo e alle finalità proprie di quest'ultimo, è messo in evidenza da G. Battistacci, Il nuovo processo penale a carico di imputati minorenni, in AA..VV., Le nuove disposizioni sul processo penale, Cedam, Padova 1989, pp. 125-130.

32. Cfr. I. Mastropasqua, I minori e la giustizia, cit., p. 94.

33. Cfr. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit. p.131.

34. I. Mastropasqua, I minori e la giustizia, cit., p. 162. L'unico centro del genere presente sul territorio nazionale è quello esistente nell'ambito del "Filangeri" di Napoli. Si tratta del "Centro Diurno Polifunzionale" cioè di un servizio sperimentale che si caratterizza come struttura finalizzata all'attuazione di misure cautelari non detentive e di misure alternative e sostitutive.

35. Per questa dottrina, cfr. I. Cividali, Qual'è il ruolo del giudice dei minori?, in Esperienze di giustizia minorile, 2, 1989, pp. 9-37; C. De Angelis, Prime riflessioni critiche sulla nuova procedura penale minorile, in Esperienze di giustizia minorile, 2,1988, pp.39-65; P. Pazè, Luci ed ombre della riforma del processo penale minorile, in Esperienze di giustizia minorile, 2, 1988, pp. 67-94; A.C. Moro, Ruolo del giudice e dei servizi nei confronti della devianza adolescenziale, in Il bambino incompiuto, 3, 1988, pp.73-88; A.C. Moro, Minori e nuovo processo penale, in Il bambino incompiuto, 3, 1988; pp. 127-134; S. Cutrona, La custodia in carcere e le misure cautelari nel D.P.R. 448, in Esperienze di giustizia minorile, 3, 1988, pp. 109-129; R. Romano, Legge minorile e nuovo processo penale, Maggioli, Rimini 1990; G. Battistacci, Il processo minorile, in A. Gaito, G. Paolozzi, G.P. Voena, Le riforme complementari. Il nuovo processo minorile e l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario, Cedam, Padova 1991. Fece eccezione i Palomba, più volte citato ed autore del primo esauriente volume di commento alla legge di riforma procedurale minorile, F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, op. cit.

36. Così La Greca in un lucidissimo e fondamentale intervento a un Seminario internazionale del Consiglio d'Europa per i giudici dei minori, in G. La Greca, Le sanzioni e le altre misure di trattamento prese nei riguardi dei minori, in Esperienze di rieducazione, 4, 1979.

37. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., p. 115.

38. Si tratta, rispettivamente degli istituti dell'irrilevanza del fatto e della sospensione del processo e messa alla prova.

39. U. Gatti, A. Verde, Il sistema della giustizia minorile alla riconquista dei territori perduti: osservazioni sulla riforma della procedura penale minorile, in P. Pazè (a cura di), I minori e il carcere, cit., pp. 72 e ss.

40. Gli autori fanno riferimento ad una possibile più ampia applicazione della custodia in fase processuale, sia in relazione alla custodia cautelare in carcere - a causa del meccanismo c.d. "a cascata" -, sia in relazione all'utilizzazione della misura del collocamento in comunità, che, in definitiva essendo una "comunità chiusa" (diversa dalle strutture educative utilizzate dagli Enti Locali e fondate criteri di apertura verso l'ambiente esterno), raddoppierebbe le possibilità detentive destinate ai minori; cfr. U. Gatti, A. Verde, Il sistema della giustizia minorile alla riconquista dei territori perduti, cit., pp.82-84.

41. Ivi, p. 85.

42. E. Roli, Dispositivo penale e dispositivo educativo: una convivenza improbabile, in F. Occhiogrosso (a cura di), Il processo penale minorile: prime esperienze. Atti del convegno di Bari (30-31 marzo, 1º aprile 1990), Unicopli, Milano 1991, p. 66.

43. Su questa linea cfr. anche P. Pazè, Le scelte ideologiche del nuovo processo penale minorile, in F. Occhiogrosso, Il processo penale minorile: prime esperienze, cit., pp.49- 50.

44. E Roli, Dispositivo penale e dispositivo educativo: una convivenza improbabile, cit., p.76.

45. Cfr. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., p. 116.

46. E. Roli, Alcune riflessioni critiche in margine alla nuova procedura penale minorile, dattiloscritto presentato al Convegno su "La delinquenza giovanile e il nuovo processo penale per i minorenni", tenuta a Paola dal 28 al 30 aprile 1988.

47. Cfr. F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., p. 116.

48. Vedi G. Vissani, Il dibattito sulla rieducazione, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1982.

49. Su questo punto si vedano, però, le tesi sostenute da Gatti, Verde e da operatori del settore, che sono state esaminate nel paragrafo precedente e che prospettano una probabile espansione del 'penale' a seguito dell'entrata in vigore delle nuove norme sul processo penale; vedi retro.

50. M. Pavarini, Il rito pedagogico, cit., p. 124.

51. Ibidem.

52. Ivi, p.125.

53. Vedi supra.

54. Ibidem.

55. P. Pazè, I minori e il carcere, cit., pp.11 e ss.

56. Basta ricordare che solo nel marzo 1987 al Gazzetta Ufficiale dava notizia della decisione di realizzare altri quattro istituti penitenziari minorili (a Bari, Catania, Foggia, Potenza) per avere la misura di quanto rapido ed imprevisto fu il mutamento.

57. D. Scatolero, Il Carcere negato. Considerazioni sulla decarcerizzazione in ambito minorile, in P. Pazè, I minori e il carcere, cit., p. 110.

58. F. Occhiogrosso, Il processo nella prospettiva dei nuovi diritti, in Il processo penale minorile: prime esperienze, cit., p.23.

59. Cfr. P. Pazè, I minori e il carcere, cit., p. 23; cfr., anche, supra, cap. I, par 7.1, p. 81.

60. Cfr. M. Motta, Il "Progetto F. Aporti" del Comune di Torino, in P. Pazè, I minori e il carcere, cit., p. 280.

61. P. Pazè, I minori e il carcere, cit., p. 23.

62. Ibidem.

63. A. Margara, La modifica della legge penitenziaria: una scommessa per il carcere, una scommessa contro il carcere, in Questioni giustizia, 3,1986, p. 545; l'autore si riferisce nello specifico agli adulti, ma l'argomento vale a maggior ragione per i minori.

64. F. Occhiogrosso, prefazione a I. Mastropasqua, I minori e la giustizia, cit., p. 8.

65. Ivi, p. 9.

66. Ivi, p. 9.

67. In base all'art. 24 del D.P.R. 448/88, possono entrare in I.P.M., per le situazioni sopraelencate anche i giovani d'età compresa tra i 18 e i 21 anni, per reati commessi nella minore età.

68. Tali classi vanno da un minimo di capienza di 10-12 posti fino ad un massimo di 70-84 posti.

69. Sull'architettura penitenziaria si veda G. Michelucci, Un fossile chiamato carcere, Pontecorboli, Firenze 1993; E. Gallo, Contenitore per corpi vivi, in Narcomafie, n. 5, maggio 1996.

70. Ivi, p. 141.

71. Per i dati contenuti in questi paragrafo cfr. Ministero di Grazia e Giustizia - Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, Analisi statistica dei fliussi di utenza dei centri di prima accoglienza, degli Istituti penali minorili, degli Uffici di servizio sociale per minorenni e delle Comunità ministerialie convenzionate, 1998.

72. Cfr. G. Birindelli, La presenza straniera in Italia. Il caso dell'area romana, F. Angeli, Milano 1993; A. Sergi, F. Carchedi, Immigrazione degli stranieri in Italia. Il tempo dell'intergrazione, Ed. Lavoro Iscos, 1992.

73. Si veda, G. De Leo, A. Dell'Antonio, Nuovi ambiti legislativi e di ricerca per la tutela dei minori, Giuffrè, milano 1993; AA.VV., Uso dei minori in attività criminali, in Esperienze di Giustizia minorile, nn. 2 - 4, 1992.

74. Cfr. G. De Leo, A. Serafini, Un'indagine esplorativa sui minori stranieri istituzionalizzati nel Comune di Roma, in Rasegna italiana di criminologia, anno IV, n. 4, 1993, pp. 533-545.

75. Cfr. G. De Leo, A. Dell'Antonio, Nuovi ambiti legislativi e di ricerca per la tutela dei minori, cit.; AA.VV., Uso dei minori in attività criminali, cit.; C. De Michelis, Minori nomadi e slavi nell'istituto di osservazione minorile di Casal del marmo. Aspetti psicologici e comportamentali, in Infanzia e società, nn. 3 - 4, 1988; G. Dosi, Sistema giuridico e gruppi etnici nella prospettiva delle scienze sociali, in AA.VV., Minori nomadi, Giustizia, Servizi e istituzioni, Ed. Associate, Roma 1986.

76. G. De Leo, G. Leone, Riflessioni metodologiche sull'intervento con i minori immigrati nella giustizia penale, in AA.VV., Minori stranieri e giustizia: verso un approccio interculturale, Giappichelli, Torino 1997, p.96.

77. I dati dell'Ufficio Centrale evidenziano come i ragazzi stranieri, in particolare di origine magrebina, commettano atti di autolesionismo quando devono affrontare penalizzanti situazioni di isolamento, Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, Atti di autolesionismo, evasioni, rapporti disciplinari, nota n. 18508/ 3 del 20.6. 97. Divisione III.

78. La mancanza dei documenti è anche il motivo della forte presenza di minori stranieri nel nostro Paese: ai fini dell'ottenimento dei benefici previsti dalla legge per i minorenni, l'età da loro dichiarata è quasi sempre inferiore a quella vera. È ipotizzabile pertanto che fra i minori stranieri sia compresa una parte rilevante di ultradiciottenni. La perizia per l'accertamento del'età minore, in realtà, per motivi economici, viene richiesta molto raramente, e più spesso si presume che il ragazzo sia minorenne (art. 8 D.P.R. 448/88).

79. G. De Leo, La devianza minorile, Carocci, Roma 1998, p.171.

80. S i veda, I. Mastropasqua, Per non rincorrere il futuro. Strategie operative e strategie formative della giustizia minorile, in AA.VV., Minori stranieri e giustizia: veso unapproccio interculturale, cit., pp. 45 e ss.

81. Una verifica sull'applicazione delle misure di decarcerazioine nei confronti dei minori stranieri sarà effettuata nel prossimo capitolo.