ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 1
La nascita e l'evoluzione della giustizia minorile

Chiara Rugi, 2000

1.1. Nascita e sviluppo storico delle istituzioni privative della libertà

Il sistema penale minorile rappresenta il risultato di un lungo processo di maturazione della coscienza civile, che, nel tempo, è andata riconoscendo la specificità della condizione minorile. In conseguenza di ciò la politica penale ha tentato di costruire un sistema differenziato di diritto penale che tende alla tutela di diritti dei minori, primo fra tutti il diritto all'educazione.

Nel corso dei secoli la funzione sociale della pena e, in particolare, le modalità di attuazione del sistema sanzionatorio, sono stati oggetto di numerosi studi da parte della scienza del diritto penale (1). Tuttavia accade spesso che si affronti il problema della giustizia minorile dando per scontato le questioni che custodiscono le motivazioni storiche, culturali, sociali della specificità di questa giustizia rispetto a quella ordinaria. Il dibattito sociale sulla giustizia dei minori deve allora chiedersi in che momento sia sorta una giustizia separata per i minorenni e per far fronte a quali problemi sociali, dal momento che gli impulsi che l'hanno fatta sorgere sono legati a periodi storici precisi, a specifiche culture e ad una determinata concezione della minore età e della giustizia.

1.1.1. La Scuola Classica ed i primi istituti per minori

Fino all'Illuminismo in assenza di teorizzazioni specifiche si rappresentava il delinquente come un "soggetto moralmente traviato" (2) e lo si sottoponeva a pene crudeli ed arbitrarie. "Il problema si pose, perciò, inizialmente, come 'necessità di ricostruzione' di 'un'equa giustizia' secondo i parametri indicati da una 'visione illuministica dell'uomo'" (3).

La teoria e la prassi consolidate lasciavano il soggetto che aveva infranto la legge in balia di norme dettate da una autorità il cui unico interesse era quello di riaffermare, attraverso la condanna del reo, il proprio potere. I principi della ragione e del libero arbitrio presupposti uguali in ogni individuo richiesero, invece, un adeguamento e un rinnovamento, in primo luogo in campo giuridico. L'impegno dei teorici illuministi fu proprio quello di porre precisi limiti al potere di punire dei sovrani e, pertanto, all'arbitrarietà delle pene.

L'Illuminismo ebbe effetti determinanti per la concezione della funzione della pena e per le modalità della sua esecuzione: vennero messi in discussione i modi tradizionali di intendere la pena e il dibattito portò all'affermazione di nuove teorie.

Sorse, allora, la Scuola Classica che, sulla scorta delle dottrine illuministiche di Cesare Beccaria (4) e, alla fine del XIX secolo, grazie alle capacità di sintesi del suo maggiore teorico italiano Francesco Carrara, contribuì all'affermazione dei nuovi ed importanti principi come quello per cui "il delitto è un ente giuridico in quanto la sua essenzialità deve consistere impreteribilmente nella violazione di un diritto". La teoria che è alla base della Scuola Classica muove dal postulato del libero arbitrio, da cui deriva la preclusione di ogni ricerca sulle condizioni mentali, morali e familiari del reo. Conseguenza di questi presupposti è una concezione della giustizia che attribuisce alla pena una funzione esclusivamente retributiva. La gravità del reato costituisce l'unico criterio in base al quale vengono stabilite le pene, le quali, pur nella loro durezza, non possono essere attuate in condizioni disumane o mediante supplizi corporali, essendo tese a redimere il reo, oltre che a punirlo.

Il contributo della Scuola Classica nell'ambito specifico della giustizia minorile - a parte l'ispirazione garantista da essa espressa - ha riguardato esclusivamente la questione dell'imputabilità del minore e della sua capacità di intendere e di volere. "Evidentemente il presupposto del libero arbitrio - principio fondamentale di questo filone di pensiero - valeva a partire da una certa età, dal raggiungimento dello status di persona con margini di autonomia entro cui esercitare le scelte" (5). Questa concezione molto astratta e idealizzata dell'uomo, dotato di alta moralità e di libertà di scelta e d'azione, nonché le altre premesse ideologiche del diritto illuministico, così rigidamente fondate sull'uguaglianza soltanto formale di ogni cittadino, si dimostrarono incapaci di rapportarsi alla varietà della condizioni reali. Nel corso dell'ottocento "la crescente proletarizzazione, la concentrazione nelle città, l'abiezione fisica e morale di un proletariato e un sottoproletariato in massiccia espansione, l'alto tasso di malattia e criminalità, connessi all'industrializzazione e allo sfruttamento capitalistico, contrastavano con l'ideale illuministico di un sicuro progredire verso il bene e la felicità" (6).

Le prime istituzioni specificamente minorili che sorsero a partire dal XVIII sec., recepirono, in parte, i principi espressi dalla Scuola Classica.

È necessario osservare innanzitutto che le istituzioni minorili apparvero per la prima volta in Italia nello stesso periodo in cui in Europa iniziava ad affermarsi il capitalismo, non solo come nuovo modo di produzione ma anche come motore di una profonda trasformazione e riorganizzazione della società.

In questa situazione si deve mettere in evidenza che le nuove istituzioni si proponevano di affrontare in primo luogo il problema dell'aumento di minori abbandonati, vagabondi, incontrollati ed incontrollabili da una società investita da rapide e profonde trasformazioni (7).

In ogni forma di civiltà è sempre stato evidente lo sforzo di appropriazione e di integrazione culturale del bambino e dell'adolescente da parte della comunità costituita. L'educazione del minore, conformemente alle norme ed ai valori condivisi dalla maggioranza della popolazione, rappresenta una costante storica ed antropologica che ha come alternativa l'eliminazione dei fanciulli che la comunità non riesce ad integrare.

È così che, nel periodo tra il XVI e il XVII sec., quando per la prima volta sembrò emergere un atteggiamento nuovo nei confronti dell'infanzia, (8) si ebbero anche i primi tentativi di controllo nei confronti di poveri, vagabondi, folli e chiunque altro fosse stato considerato pericoloso per l'ordine pubblico. Contemporaneamente iniziò anche la pratica dell'internamento in istituto dove la disciplina ed il lavoro si ponevano come i due imperativi pedagogici, attraverso i quali rendere ineccepibile la vita di coloro che vi erano internati (9). "La preoccupazione moralizzatrice ed il controllo sociale" (10) furono le caratteristiche principali di queste istituzioni che, tentarono anche un intervento specifico nei confronti dei minori, separandoli e differenziandoli sia fisicamente, sia nei trattamenti, dagli adulti. La "sensibilità pedagogica" (11) del XVII sec. nei confronti dei fanciulli in condizioni di grave disagio, incoraggiò la separazione dei minori, verso i quali si diresse principalmente la tensione educativa della società adulta (12). La separazione delle istituzioni penali per minorenni da quella per gli adulti fu motivata dalla consapevolezza che questi due soggetti avevano caratteristiche così diverse da rendere inadeguato il medesimo trattamento sanzionatorio. Tale operazione di differenziazione, tuttavia, fu condotta più per motivi pratici che per ragioni ideologiche, contrastando essa con l'ideale illuminista dell'unicità del soggetto. L'istituzionalizzazione separata dei minori segnò, infatti, un allontanamento dai principi sostenuti dalla Scuola Classica secondo cui la sanzione doveva essere applicata in modo uniforme a tutti i reati, indipendentemente dalle loro condizioni personali (13). Tuttavia, la teoria classica continuò ad influenzare il regime vigente negli istituti minorili; l'estensione del controllo sociale, si accompagnò alla riconosciuta necessità di educare l'adolescente e lo strumento per farlo fu rappresentato da una severa disciplina impartita dall'autorità.

Firenze può vantare fin dal Seicento, un primato nel campo delle istituzioni per la correzione dei giovani. La prima 'Casa di correzione' fu fondata, infatti, a Firenze nel 1650 da Ippolito Francini.

Si trattò, almeno inizialmente, di un istituto per il recupero di ragazzi abbandonati o vagabondi, attraverso l'azione educativa di scuola e lavoro che rappresentò il primo tentativo di differenziazione istituzionale tra adulti e minori (14).

All'attuazione di un vero e proprio trattamento correzionale nei confronti dei minori traviati si giunse, però, successivamente, quando, nel 1653, il sacerdote Filippo Franci, successore di Francini, dette vita allo Spedale di S. Filippo Neri.13 Un'istituzione che accoglieva ragazzi minori di 16 anni "che la notte dormivano per le strade, nei cimiteri, nelle osterie" con l'intento di "rivestirli, nutrirli, medicarli, trovar loro un lavoro in botteghe esterne o in officine interne e istruirli nel santo timore di Dio" (15). Nello Spedale furono costruite, in luogo separato, delle piccole celle dove gli indisciplinati della stessa Casa Pia venivano isolati poiché, risultando già "corrotti dalla strada e dall'ozio" (16), non rafforzassero le cattive tendenze degli altri ragazzi. Nelle stesse cellette, pero', potevano essere rinchiusi anche i figli di famiglia ribelli all'autorità paterna, poiché all'epoca i padri avevano il potere di far imprigionare i figli, a loro discrezione, quando erano incapaci di ottenere obbedienza da loro in altro modo. La reclusione avveniva segretamente in modo da non recare infamia né ai ragazzi né alle loro famiglie, in modo che fosse più facile ottenere un sincero pentimento (17).

L'accostamento di minori mendicanti oziosi e vagabondi a quelli ribelli all'autorità paterna non deve sorprendere; "dal Seicento i mendicanti rappresentarono un problema di ordine pubblico da risolvere attraverso una pedagogia coattiva basata sull'educazione e sul lavoro" (18).

Un istituto simile a quello fiorentino sorse nel 1703 a Roma presso l'ospizio di S. Michele in Ripa, per volontà di Papa Clemente XI.

Il testo normativo del Motu Proprio (19) dispose che tutti i minorenni, condannati da un qualsiasi tribunale per motivi penali, fossero imprigionati nell'Istituto di S. Michele. Era possibile, inoltre, internare nello stesso Istituto, per volontà "dei loro Genitori, Tutori, Curatori o Amministratori ... i Ragazzi e i Giovani discoli inobbedienti ai loro genitori e ad altri sotto la cui tutela, e cura, vivono che per i loro cattivi principi dimostrano pessima inclinazione ai vizi". Anche in questo caso si può inferire una sorta di continuità tra prassi educativa della famiglia e dello stato nel controllo della repressione dei comportamenti devianti (20).

Il Motu Proprio rappresentò il primo documento ufficiale con il quale venne a delinearsi, con chiari scopi, sul piano legislativo e istituzionale, un trattamento differenziato per i minori (21), e il nome con cui nel testo l'istituto fu indicato, "Casa di correzione", ne indica la finalità educativa e preventiva.

Nel 1786 anche a Palermo fu aperta una "Real casa di correzione per donne e minori traviati". La Sicilia, d'altra parte, poteva vantare alcuni degli interventi più' antichi e illuminati in materia di legislazione penale minorile. Nel 1231 Federico II dispose l'equiparazione dell'infante omicida al pazzo - in entrambi i casi essendo necessaria una valutazione della capacità di intendere e di volere - stabilendo, così, l'immunità, in tali circostanze, dalla pena di morte per i fanciulli. Nel 1635 fu anche prevista una differenza di trattamento tra i minori di 10 anni (non imputabili) ed i minori di 15 anni; un terzo regime vigeva per i giovani tra 15 e 18 anni (22).

Dalla seconda metà del XVIII sec., nei diversi stati italiani, furono aperti vari istituti come la "Casa di Correzione" fondata a Milano nel 1759 e, nello stesso periodo, le prigioni speciali per giovani di Napoli. Pochi anni più tardi il riformatorio "La Generala" di Torino divenne famoso per i rigidi metodi carcerari adottati.

Nel 1827, papa Leone XII dispose il trasferimento dei giovani corrigendi dell'istituto di S. Michele, nelle carceri di via Giulia, con notevole peggioramento della vita carceraria dei minori reclusi. Nel nuovo edificio, fatto appositamente costruire dal pontefice, venne adottato un sistema trattamentale ispirato a quello di Auburn, basato sull'isolamento notturno e sull'assoluto silenzio nelle ore di lavoro obbligatorio durante il giorno (23).

1.1.2. L'influenza della Scuola Positiva e i primi tribunali per i minori

Nella prima metà dell'Ottocento, col mutare del clima culturale prese vita una nuova concezione del soggetto delinquente. In questo periodo le ricerche in tema di delinquenza subirono l'influenza del positivismo, che assegnò alle scienze sociali il compito di interpretare totalmente la realtà e di studiare e definire la natura umana, e del metodo sperimentale basato su dati oggettivi e misurabili (24).

Così, sul finire del secolo, affondando le proprie radici culturali nel positivismo metodologico, alcuni intellettuali (Lombroso, Ferri, Garofalo ecc.) iniziarono l'esperienza della Scuola Positiva che, in contrapposizione al razionalismo illuminista della Scuola Classica, affermò la supremazia dell'indagine sperimentale, e quindi del metodo induttivo, sugli astratti giudizi di colpevolezza etica "che avevano messo al riparo da valutazioni storico-sociali, dietro la roccaforte del libero arbitrio, la falsa coscienza dell'intera classe dirigente" (25).

La fiducia nelle scienze portò Cesare Lombroso a ritenere "che si potesse studiare l'uomo, l'individuo che delinque con strumentazioni derivate da altre scienze dell'uomo" (26), inaugurando l'antropologia criminale e l'indirizzo individualistico dello studio della criminalità che condizionò notevolmente sia lo sviluppo del diritto penale, sia gli indirizzi in tema di trattamento dei delinquenti.

Il determinismo biologico e la concezione patologizzante della devianza, portarono la Scuola Positiva ad uno spostamento di prospettiva rispetto alle elaborazioni della Scuola Classica. Al centro dello studio della criminalità venne posto il soggetto delinquente, che venne concepito come un soggetto malato, privo di responsabilità. Sia Ferri che Garofalo sosterranno, quindi, che il libero arbitrio è un concetto illusorio, e la pena assume un carattere di prevenzione o comunque di 'cura' per il soggetto delinquente (27). Il principio della pericolosità sociale diventò la misura della pena e venne assunta come condizione di diritto la possibilità di recupero sociale del condannato.

Sulla base di questi assunti la stessa Scuola avviò un intricato processo di rilettura alle problematiche della criminalità e della devianza, in special modo in ambito minorile. Ne risultò un'immagine di delinquente quale soggetto assolutamente condizionato da fattori interni o esterni, che teneva comportamenti anormali in relazione alla sua anormalità.

Il fatto che "a comportamenti 'diversi' dovesse far sempre riscontro una diversità come patologia dei rispettivi autori sembrò particolarmente evidente riguardo ai minori 'delinquenti' per i quali la diversità, la non normalità, la condizione di non responsabilità erano fra l'altro considerate ovvi attributi dell'età" (28); fu, cioè, la condizione particolare dei minori in quanto tali, che li rese oggetto ideale delle applicazioni delle nuove istanze positive.

Come fonte di legittimazione scientifica di nuove potenzialità punitive, la Scuola Positiva ha la responsabilità di aver riaperto un varco senza limiti in cui il potere istituzionale ha potuto far passare, in maniera elastica, in relazione alle esigenze contingenti e storiche, l'arbitrio nella scelta di soggetti e di comportamenti da punire, nonché nelle forme, nei modi e nei tempi della punizione, facendo appello alla scienza, alle esigenze di differenziazione e di individualizzazione della pena, ai criteri di rieducazione terapia.

Le nuove istanze di differenziazione del trattamento, promosse dal positivismo giuridico, non trovarono tuttavia applicazione pratica in quanto erano destinate a scontrarsi con la politica, ancora fortemente contenitiva, adottata dagli enti minorili (29).

Nel corso di tutto l'Ottocento, infatti, l'attenzione rivolta ai minori evidenziò una inconciliabile ambiguità. Il positivismo proponeva come necessaria la conoscenza scientifica del bambino e tutto quanto era relativo all'educazione, con l'obbiettivo della tutela, della promozione, della protezione dei giovani; allo stesso tempo, pero', il forte controllo sull'infanzia rendeva gli interventi sui minori assai punitivi, introducendo in ambito penale istituti fino allora sconosciuti, con misure coercitive e correzionali derivanti da una concezione dell'infanzia come età dipendente dall'autorità di coloro che erano preposti all'educazione.

Sul finire del secolo, comunque, la creazione di organi giudiziari minorili specializzati si presentava, ormai, un'esigenza indifferibile. Anche a Londra il movimento di opinione, da cui era nata la "Società per la rieducazione dei giovani delinquenti", portò alla creazione di strutture per ragazzi abbandonati e per giovani criminali.

Nel luglio 1899, sotto la spinta del Child-saving movement (30), sorse a Chicago la prima Juvenile Court del mondo: un Tribunale per i Minorenni con un giudice specializzato che tutelava l'infanzia 'deviata' attraverso disposizioni correttive o anche solo meramente educative. Si trattava, comunque, di un istituzione con una marcata impronta paternalistica, che mancava delle garanzie necessarie "secondo i criteri della giurisprudenza classica" (31), e per il quale non fu mai prevista una disciplina speciale (32). Altre corti giovanili nacquero subito dopo a Boston e New York.

Anche in Europa l'inizio del XX secolo segnò la nascita dei primi Tribunali per i Minorenni. Nel 1895 venne inaugurata la Juvenile Court di Birgmingham e nel 1908 tali istituzioni divennero obbligatorie in Inghilterra, in Scozia ed in Irlanda con il Children Act, con il quale venne abolita quasi del tutto la pena di morte per i minori e stabilito che nessun minore di 16 anni potesse essere condannato al carcere (33).

Leggi simili vennero promulgate anche in Francia e in Belgio nel 1912 e, dopo il 'Congresso internazionale del Tribunale per i Minorenni', tenutosi a Parigi nel 1913, giurisdizioni speciali per minorenni furono create anche in Olanda (nel 1921) ed in Germania (leggi del 1922 e 1923).

In Italia il Tribunale per i Minorenni fu istituito solo nel 1934 con il R.D. 1404.

Prima di questa data alcune disposizioni erano contenute nel Codice penale del 1859 (34), che stabiliva la piena responsabilità penale solo per i maggiori di 21 anni, mentre i ragazzi tra 14 e 21 usufruivano di una riduzione della pena che, comunque, doveva essere scontata nelle carceri comuni. I minori di 14 anni, colpevoli di un reato, dovevano essere accolti in apposite Case di custodia o in stabilimenti pubblici di lavoro, ai quali erano destinati anche giovani mendicanti, vagabondi, oziosi, minori di 16 anni (35).

Era possibile l'internamento dei giovani discoli in Case di correzione o di educazione, per volontà dei genitori. L'art. 222 del Codice civile del Regno d'Italia (in vigore fino al successivo del 1942) infatti stabiliva: "Il padre che non riesca a frenare i traviamenti del figlio, può allontanarlo dalla famiglia, assegnandogli secondo i propri mezzi gli alimenti strettamente necessari; e ricorrendo, ove sia d'uopo, al presidente del tribunale, collocarlo in quella casa, o in quell'istituto di educazione o di correzione, che reputi più conveniente a correggerlo e migliorarlo. L'autorizzazione può essere chiesta anche verbalmente, ed il presidente provvederà senza formalità di atti e senza esprimere i motivi del suo decreto" (36).

Gli istituti di educazione e di correzione furono organizzati su regole carcerarie paternalistiche e coercitive. Nel 1877, un nuovo regolamento istituì le figure degli 'istitutori o censori' in sostituzione delle guardie carcerarie comuni e vennero previsti interventi differenziati per i minori sottoposti alla custodia per condanna penale e i ricoverati per altre cause.

In seguito, fino al codice Zanardelli del 1889, furono compiuti vari tentativi per cercare di unificare, sistematizzare e rendere organica la legislazione minorile (37). "Quando entrò in vigore il codice Zanardelli, che pure è di chiara impostazione classica, la cultura positivista era già divenuta cultura onnipresente in ambito minorile" (38).

1.1.3. Il Codice Zanardelli

Nel 1890 entrò in vigore il nuovo Codice penale. Per il Codice sardo (art. 88) il minore di quattordici anni, che avesse agito senza 'discernimento', non era passibile di pena e, in caso di crimine o delitto, poteva, a discrezione dell'autorità giudiziaria, essere consegnato ai genitori o ricoverato in uno stabilimento pubblico di lavoro (39). Il nuovo Codice Zanardelli poneva delle distinzioni: l'età minima per l'imputabilità venne fissata a nove anni, quindi quasi nell'infanzia (art. 53); fra i nove e i quattordici anni il ragazzo era imputabile, ma solo nel caso in cui il Magistrato, che ne aveva espresso obbligo, ne avesse accertato il 'discernimento' (art. 54); dai quattordici ai diciotto anni era ugualmente imputabile, nel senso che si partiva dalla presunzione di imputabilità (art. 55) (40). Qualora il minore fosse stato ritenuto imputabile, veniva assoggettato a pene diminuite, e lo stesso regime era previsto per il minore di ventuno anni. Per la prima fascia di età, il Presidente del Tribunale civile, su richiesta del P.M., poteva ordinare che il minore fosse rinchiuso in un istituto di educazione e di correzione oppure affidato ai genitori sotto la loro responsabilità. Gli stessi provvedimenti poteva prendere il Tribunale penale per la seconda categoria - i minori tra i nove e i quattordici anni - nei casi di non imputabilità. A questi criteri legislativi di individualizzazione in sede giudiziaria peraltro, non corrispose mai la previsione di un organo giudicante specializzato, cosicché il giudice penale dei minori era lo stesso degli adulti (41).

Il principio del 'discernimento' del minore al momento della commissione del fatto, in base al quale si stabiliva l'imputabilità, fu il risultato delle elaborazioni della Scuola Positiva che tese sempre a focalizzare l'attenzione sulla necessità di individualizzare le pene, attraverso l'instaurazione di un sistema penale concentrato sull'esame dell'individuo, più che sul reato. Ciò presuppose, anche, che divenisse indispensabile la figura del medico, quale ausiliario del giudice capace di stabilire l'esistenza o meno del discernimento nei singoli casi.

Il Codice penale Zanardelli, inoltre, non si occupò più di disciplinare il vagabondaggio, l'oziosità o la mendicità dei minori poiché la materia fu demandata agli articoli 113-116 della nuova Legge di Pubblica Sicurezza (42). In particolare fu stabilito che "il minore degli anni 18 privo di genitori, ascendenti o tutori" fosse ricoverato, per ordine del "presidente"o del "giudice delegato", "presso qualche famiglia onesta" in grado di accoglierlo, "ovvero in un istituto di educazione correzionale, finché non abbia appreso un'educazione, un'arte o un mestiere; ma non oltre il limite della maggiore età" (art. 114). L'art. 116 estese l'applicazione di queste norme anche ai minori esercenti "abitualmente la mendicità o il meretricio".

Dalla coordinazione delle norme di Pubblica Sicurezza con le disposizioni del Codice penale sopra richiamate, vennero a delinearsi quattro diverse categorie di corrigendi: i minorenni delinquenti o autori personali di delitti (artt. 53, 54, 55 del Codice penale); minorenni corrotti e diffamati (art. 114 Legge di P.S.); minorenni oziosi, mendicanti o vagabondi (art. 116 di Legge di P.S.); minorenni allontanati dalla casa paterna o ribelli all'autorità paterna (artt. 221 e 222 del Codice civile). L'effetto di questa suddivisione fu un'accresciuta possibilità di ricovero nelle forme istituzionali di nuove categorie di minori, mentre le misure diverse dall'istituzionalizzazione non trovarono attuazione nella pratica.

Con il Regolamento carcerario del 1891, anche i 'Riformatori' - così chiamati secondo la nuova denominazione ufficiale - si specializzarono secondo le età e le categorie giuridiche.

Si distinsero, così, le Case di correzione per minorenni sotto i 18 anni condannati in applicazione degli articoli 54 e 55 del Codice penale; gli Istituti di educazione e di correzione per fanciulli con meno di 9 anni, che avevano commesso un delitto punibile con la reclusione o la detenzione non inferiore ad un anno (art. 53) e per i minori tra 9 e 14 anni, che avevano commesso un reato senza discernimento (art. 54); gli Istituti di educazione correzionale per i minorenni infradiciottenni dediti all'oziosità, al vagabondaggio, alla mendicità e al meretricio (artt. 113, 114, 116 Legge di P.S.); infine, istituti di correzione paterna per giovani ricoverati a norma degli articoli 221 o 222 del Codice civile.

In questo modo venne a formalizzarsi la separazione istituzionale fra condannati e corrigendi e gli istituti riservati ai minori corrigendi furono, per lo più, riformatori privati. Fin dall'Unità d'Italia, infatti, la direzione delle carceri si avvalse di due tipi di istituzioni per il ricovero e la correzione dei minori: quelle governative e quelle private con la quali venivano stipulate apposite convenzioni per la parte amministrativa (43).

Nel 1904 si ebbe un nuovo regolamento penitenziario denominato "Regolamento per i riformatori governativi" che introdusse, almeno sulla carta, notevoli cambiamenti. Gli agenti di custodia vennero sostituiti dalla figura degli istitutori, reclutati fra gli insegnanti elementari; ma, soprattutto, si affrontò il problema della delinquenza giovanile, non più esclusivamente in termini di contenimento e repressione, quanto, piuttosto, nel senso dell'educazione e della riabilitazione. Venne esplicitamente dichiarato che "occorreva adattare il trattamento a questi principi tenendo presente, inoltre, l'età del minore e il tipo di reato commesso" (44). In teoria, l'osservazione e lo studio delle caratteristiche psico-fisiche del minore da parte del medico, nonché un'organizzazione penitenziaria fondata sull'educazione religiosa e la disciplina, avrebbero dovuto garantire un trattamento penitenziario individualizzato. In concreto i criteri ed i principi a cui ci si ispirò, nella gestione dei riformatori, non furono affatto attenti alla cura del singolo ma tesero, semmai, ad ottenerne il consenso e la sottomissione (45).

È interessante mettere in evidenza come vi sia stata una singolare coincidenza, nel tempo, fra la creazione delle nuove forme istituzionali per il controllo di nuove categorie di giovani e l'aumento progressivo dell'allarme sociale rispetto al fenomeno della delinquenza minorile. Come se l'allarme sociale avesse identificato 'nell'aumento della delinquenza dei minorenni' un grave pericolo emergente, soltanto dopo che erano state create e regolamentate le nuove istituzioni per i minorenni. Mentre in precedenza, la società del tempo era preoccupata per i minori abbandonati, vagabondi, oziosi, discoli e così via, con l'istituzionalizzazione penale e civile di queste categorie di minori, la 'preoccupazione' diventa 'allarme' e l'oggetto di tale allarme si definisce semplicemente e direttamente in termini di 'delinquenza'. Paradossalmente, l'allarme per l'aumento della delinquenza veniva a sua volta utilizzato per incrementare proprio quella istituzionalizzazione dei minori che aveva contribuito a determinarlo. All'apertura dell'anno giudiziario, il 3 gennaio 1908, il Senatore Quarta citò precisi dati statistici che testimoniavano l'esistenza di un grave incremento della delinquenza giovanile in molti stati occidentali tra cui l'Italia (46).

Nello stesso anno fu compiuto un importante progresso nel senso dell'individualizzazione del trattamento, in un sistema penale caratterizzato ancora da una rigorosa unificazione. Con la circolare emanata dal Ministro Guardasigilli Orlando vennero create le premesse perché potessero affermarsi, nell'ambito della giustizia minorile, i principi della specializzazione del giudice, della non pubblicità del processo che vedeva coinvolto un minore, nonché la necessità dell'indagine sulla personalità del minore. Nella circolare si sollecitavano i tribunali affinché "fossero sempre i medesimi giudici ad occuparsi dell'istruzione e del giudizio dei processi contro i minorenni" e a studiare "con animo paterno la psicologia dell'imputato, trattandolo senza intimidazioni". Si invitavano inoltre i giudici a "non limitarsi al mero accertamento del fatto, ma a procedere ad indagini volte a conoscere lo stato di famiglia del minore, le condizioni di vita, l'indole e il carattere di coloro che su di lui esercitano la potestà, a raccogliere tutte le notizie che possono dare un criterio esatto delle cause dirette e indirette per cui il minore è giunto alla violazione delittuosa della legge" (47). Al duplice fine dell'accertamento della responsabilità del minore e della determinazione della relativa pena, i giudici erano esortati a considerare anche elementi quali le condizioni di abbandono del minore, l'abiezione e la depravazione delle sue condizioni di vita; l'azione repressiva veniva considerata "ulteriore fattore di corruzione e un incitamento a futuri delitti". (48)

Con Regio Decreto del 7 novembre 1909 venne nominata una commissione presieduta dal senatore Quarta, che approntò un progetto per una 'Magistratura dei minorenni' di particolare apertura per quei tempi: si trattava di una magistratura specializzata che avrebbe avuto il compito di vigilare negli ambiti dell'assistenza, della tutela, dell'istruzione e della correzione del minore. Si pensò ad un Codice minorile unificato che escludesse l'arresto o la carcerazione preventiva in fase di istruzione e prevedesse la possibilità di giudicare soltanto i fatti reato lievi, per cui erano applicabili misure simili alle alle attuali sanzioni sostitutive. Per i fatti reato più gravi il giudizio passava al magistrato ordinario: in caso di condanna si prevedeva una serie articolata di misure: l'ammonimento, la detenzione in casa propria per periodi da stabilirsi, l'affidamento familiare, l'assegnazione ad un istituto di beneficienza, il riformatorio e così via. È interessante notare come, nel corso dei lavori preparatori di tale progetto, si pose l'accento sui metodi processuali, sottolineando come questi ultimi avevano la loro influenza sul fenomeno della delinquenza minorile, dal momento che "il minorenne viene sottoposto alla giurisdizione dello stesso giudice, che deve valutare la responsabilità del delinquente maggiore d'età, ed esposto ad un apparato esteriore e a solennità di forme che lasciano nell'animo di lui profonde e funeste impressioni". Per converso "l'istituzione di una magistratura speciale" veniva definita "condizione necessaria per informare ad un concetto razionale e concreto il trattamento della delinquenza dei minorenni". (49) Il progetto Quarta, appoggiato con decisione dalla Scuola Positiva, non ebbe neanche gli onori della discussione parlamentare e simile sorte ebbero i progetti successivi. (50)

Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale, numerosi dibattiti sulle problematiche della minore età tennero vivo l'interesse per la delinquenza minorile. I temi dell'infanzia traviata furono sollevati dai numerosi movimenti filantropici e riformisti molto impegnati nell'assistenza e nella difesa dei minori. Queste organizzazioni contribuirono a produrre significativi miglioramenti, soprattutto favorirono la diffusione di nuovi atteggiamenti nei confronti delle necessità e dei bisogni di fanciulli e adolescenti. La loro opera fu, però, "segnata anche da una 'concezione adultistica' del minore legata all'idea della 'moralizzazione' e del 'controllo sull'infanzia'" (51). Sebbene contraddistinto "dall'ambiguità insita nella 'doppia visione' della protezione, della tutela e dell'educazione, da una parte, e della correzione, del controllo e della punizione, dall'altra", l'impegno di questi movimenti in campo minorile sollecitò alcune sperimentazioni proprio in ambito degli interventi penali. Nel 1906 fu fondato il primo 'Patronato italiano per minorenni condannati condizionalmente' grazie alle associazioni di volontariato, ai cui membri venivano affidati i giovani condannati (52).

Nel 1921 Enrico Ferri, noto esponente della Scuola Positiva, presiedette una nuova commissione che elaborò un progetto di riforma conforme ad una concezione 'plurifattoriale' dell'interpretazione della devianza: gli agenti della criminalità giovanile trovavano spiegazione nell'insieme delle cause sociali, familiari, psicologiche, ma anche ereditarie ed evolutive. "Le sorgenti di criminalità dei minori" erano da ricercarsi soprattutto nelle condizioni di abbandono in cui versava l'infanzia "moralmente maltrattata o torturata", mentre i rimedi più efficaci dovevano essere trovati al di "fuori del codice penale", intendendosi con ciò, la necessità di ricorrere a "rimedi sociali di prevenzione, di profilassi, di educazione, di cura". In una prospettiva più strettamente giuridica, la colpevolezza non poteva essere ricondotta alle "consuete norme astratte di responsabilità morale", ma piuttosto "ispirarsi sempre al criterio fondamentale della responsabilità del delinquente, più o meno pericoloso, più o meno correggibile" (53). Tale progetto, fu caratterizzato, nell'insieme, da una maggiore rigidità e da un minore ottimismo rispetto al progetto Quarta, soprattutto per il pesante intervento scientifico su tutta la materia.

Il successivo progetto Orlandini del 1922, riprese, semplificandoli, i contenuti del progetto Quarta e, come questo ed il progetto Ferri, non fu mai trasformato in legge.

L'esigenza di una Magistratura speciale per i minori, però, incominciava a farsi sentire al punto che si possono segnalare iniziative spontanee, come quella - eccezionale - dell'accordo tra la Magistratura milanese e l'Associazione Cesare Beccaria di quella città, che nel 1928 permise l'istituzione ante legem di un Tribunale per i Minorenni. Le cause contro i minori vennero celebrate non nelle normali aule di udienza, ma in apposite sale messe a disposizione dall'Associazione; alle udienze vennero chiamati, ad assistere e a fornire la loro consulenza, due psichiatri, esperti in problemi dell'età evolutiva.

1.1.4. Il Codice Rocco

Il Codice Rocco, del 1930, rappresentò un momento tecnicamente rilevante di compromesso e di equilibrio tra le opposte istanze della Scuola Classica e della Scuola Positiva. Con esso, infatti, venne a delinearsi una netta distinzione tra i soggetti che erano da considerarsi in condizioni di "normalità biologica e psichica" e quelli che erano in condizioni valutate di "non normalità biologica e psichica": per i primi di cui era presunto il libero arbitrio e, quindi, l'imputabilità, la pena assolveva a una funzione soprattutto retributiva; ai secondi, invece, cui non era negato il libero arbitrio e per i quali l'imputabilità doveva essere provata, la pena, sotto forma di misura di sicurezza, acquisiva funzioni terapeutiche e di difesa sociale.

Nel campo della normalità si utilizzarono, per lo più, i criteri retribuzionistici della Scuola Classica; in campo della non normalità operarono prevalentemente i criteri di individualizzazione della pena, propri della Scuola Positiva. In realtà, la funzione terapeutica, attribuita alla sanzione dai positivisti, fu del tutto ideologica e secondaria rispetto a quella di difesa sociale. I soggetti anormali rappresentavano una minaccia per l'ordine costituito e le misure di sicurezza furono il nuovo metodo con il quale vennero resi innocui gli individui pericolosi. Nello specifico della materia minorile, le teorie della scienza positiva portarono a considerare, in conformità al precedente processo storico, l'appartenenza dei minori all'area della non normalità biologica e psichica (54).

L'articolo 97 del codice, tuttora in vigore, elevò il limite per la presunzione di non imputabilità assoluta, dai nove ai quattordici anni (55). Dai quattordici a diciotto anni, invece, dove prima esisteva una presunzione di responsabilità, il minore venne ritenuto imputabile solo se in possesso della "capacità di intendere e di volere". In questa fascia d'età, la capacità di intendere e di volere non è presunta, ma deve essere accertata caso per caso con l'ausilio della 'scienza positiva'; la pena, in caso di condanna, è comunque diminuita. Per determinare l'imputabilità venne introdotto dalla medicina legale e dalla giurisprudenza, il concetto di 'immaturità', mai comparso prima in nessun testo legislativo e il termine "discernimento" fu sostituito con quello della "capacità di intendere e di volere". Per i soggetti che, invece, si trovavano in condizioni valutate di normalità biologica e psichica, il codice stabilì una presunzione di maturità e, quindi, di imputabilità.

Per il Codice Rocco, la capacità di intendere e di volere dopo i 18 anni è sempre presunta e non sono previste diminuzioni di pena (art. 98). I minori, riconosciuti non imputabili, a prescindere dall'età, possono, comunque, essere riconosciuti socialmente pericolosi e sottoposti alle misure di sicurezza del riformatorio giudiziario, nella forma del collocamento in comunità o della libertà vigilata (art. 224). Quest'ultima misura può essere data solo se i genitori o altre persone o istituti di assistenza sociale sono in grado di garantire l'obbligo di provvedere all'educazione, al controllo e all'assistenza del minore (art. 232).

Dal punto di vista dell'esecuzione delle pene, era previsto che i minori debbano scontare la condanna, fino al compimento dei diciotto anni, "in stabilimenti separati da quelli riservati agli adulti, ovvero in sezioni separate di tali stabilimenti, ed è loro impartita, durante le ore non destinate al lavoro, un'istruzione diretta soprattutto alla rieducazione morale..." (art. 142).

All'art. 176 è contenuta la disciplina della liberazione condizionale che ha rappresentato la prima 'misura alternativa alla detenzione' (56). Essa consente di trascorrere il resto della pena in regime di libertà vigilata. Condizione necessaria per ottenere il beneficio è che il soggetto, durante la detenzione, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuri il suo ravvedimento (57).

Grande rilievo, per i suoi effetti depenalizzati, assunse l'istituto del 'perdono giudiziale', introdotto con l'art. 169 dello stesso Codice (58). Secondo la Relazione Ministeriale del 1929, lo scopo di tale istituto doveva essere quello di "salvare dalla perdizione giovani esistenze e di favorire in tal modo il progresso civile, rendendo sempre migliori, materialmente e moralmente, le condizioni della convivenza sociale". Il perdono giudiziale, misura esclusivamente riservata ai minori, "consiste nella rinuncia dello stato alla condanna o addirittura al rinvio al giudizio, pur avendo il giudice accertato la responsabilità dell'imputato" (59). Esso costituisce una causa di estinzione del reato che il giudice lo può utilizzare quando ritiene che il ragazzo, alla sua prima esperienza penale e responsabile di un reato per il quale è prevista una pena detentiva non superiore a due anni, si asterrà, in futuro, dal commettere altri reati. Con il perdono giudiziale "si riconosce la necessità di non stigmatizzare una storia personale e di attivare stimoli positivi e di rinforzo psicologico e di fiducia" (60).

Assieme alla maggiore ampiezza con la quale venne accordata ai minorenni la sospensione condizionale della pena, il perdono giudiziale mise in evidenza una maggiore attenzione per i minori e una strategia punitiva più elastica, in cui la pena sospesa o minacciata, più che quella applicata, venne per la prima volta utilizzata come nuovo strumento di dissuasione.

1.2. L'istituzione del Tribunale per i minorenni

In sintonia con il contesto europeo del tempo, il R.D.L. del 20 luglio 1934 n.1404, istituì il Tribunale per i minorenni, apportando una profonda trasformazione al sistema giudiziario ordinario ritenuto inadeguato a farsi carico del settore minorile. In questo decreto trovarono la sintesi le diverse prospettive che avevano portato all'elaborazione dei progetti di riforma precedentemente esaminati, nonché le conquiste dei grandi movimenti umanitari, emersi nei decenni precedenti a livello internazionale. Ma il Tribunale per i minori rappresentò, anche, il risultato delle teorie positivistiche allora imperanti che promossero l'attenuazione del rigore delle misure penali, sostenendo anche la necessità del ricorso all'educazione nei confronti dei minori; nello stesso tempo fu anche un prodotto del regime fascista che, comunque, ne favorì la nascita più per "ragioni di prestigio che di reale presa di coscienza della necessità di promuovere il minore" (61).

Ecco come vennero riassunti nel 1934 gli scopi del decreto:

  1. "specializzare il giudice minorile nella forma più completa e più ampia;
  2. indirizzare risolutamente la funzione punitiva verso finalità del riadattamento del minorenne;
  3. organizzare un sistema di prevenzione della delinquenza minorile con la rieducazione dei traviati;
  4. rendere possibile ai minori che delinquirono, o che furono ritenuti semplicemente traviati, il ritorno alla vita sociale senza che alcuno possa ad essi opporre la qualifica dei precedenti trascorsi".

Il Tribunale minorile venne istituito quale organo autonomo rispetto agli altri Tribunali penali e civili, dato il suo organico così diverso e la sua competenza territoriale differenziata e più ampia rispetto a quella del Tribunale ordinario. Si trattò, inoltre, di un organo di decisione specializzato, in relazione alle necessità della condizione minorile.

In origine era composto da due magistrati togati e da un cittadino benemerito dell'assistenza sociale, scelto tra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia o psicologia, secondo le disposizioni dell'art 2 (62). L'articolo in questione del Regio decreto legge 1404 prevedeva, quindi, originariamente, la presenza di un solo giudice laico; ma nel 1956, con la legge 27 dicembre n. 1441, fu aggiunta la presenza di una donna, data l'accertata l'importanza del suo intervento per una migliore comprensione della personalità del minore (63).

Il R.D.L. del 1934, collocandosi quale ultimo atto di questo lungo processo di elaborazione di strumenti legislativi specifici per il controllo penale dei giovani, cercò di disciplinare in maniera sistematica la materia minorile.

Al tribunale vennero attribuiti tre settori di competenza: penale, civile ed amministrativa. Fin dalla sua istituzione, quindi, il Tribunale per i minorenni si occupò sia della devianza penale dei giovani (competenza penale), sia del disadattamento (competenza amministrativa).

Circa la competenza penale, decisamente rilevante, fu il fatto che, per la prima volta, vennero garantiti ai minori il diritto ad un giudice specializzato ed a forme particolari di procedimento. Dall'art. 11 traspaiono chiaramente le influenze della Scuola Positiva e dell'approccio multifattoriale: si stabilì che "Nei procedimenti a carico dei minorenni, speciali ricerche devono essere rivolte ad accertare i precedenti personali e familiari dell'imputato sotto l'aspetto fisico, psichico, morale ed ambientale" e ciò, raccogliendo pareri ed informazioni "senza alcuna formalità di procedimento quando si tratta di determinare la personalità del minore e le cause della sua irregolare condotta".

Il garantismo penale della Scuola Classica, invece fu alla base delle previsioni degli articoli 12 e 16. Il primo, di fatto eluso per molto tempo, sostenne la necessità che la difesa fosse tenuta solo da professionisti iscritti all'albo; il secondo stabilì che l'udienza si doveva tenere a porte chiuse. Fu previsto che l'esito del giudizio finale potesse consistere nel perdono giudiziale, - concesso sulla base di un giudizio di opportunità da parte del giudice e a condizione che la pena detentiva irrogata in concreto non fosse superiore a due anni (art 19) - o anche, nella sospensione condizionale nel caso di pena concretamente applicabile non superiore a tre anni (art. 20). Divenne possibile, poi, secondo la previsione dell'art. 21, che durante l'esecuzione, fosse ordinata la liberazione condizionale del minore in qualunque momento e qualsiasi fosse la misura della pena.

La competenza civile del Tribunale per i minorenni riguardò essenzialmente il settore dei provvedimenti limitativi della 'patria potestà'.

Maggior rilievo rivestì, invece, la competenza amministrativa rivolta al soggetto, minore di 18 anni che "per abitudini contratte dava prova di traviamento ed appariva bisognoso di correzione morale" (art. 25). Si trattava chiaramente di una forma di vero e proprio controllo sociale: il giudice poteva ordinare, dopo aver assunto le necessarie informazioni, l'internamento del minore in un istituto per corrigendi (art. 27). La misura era, oltretutto, totalmente slegata dal principio di legalità. Il trattamento non aveva una durata prestabilita: terminava solo quando il soggetto non appariva più "bisognevole di correzione", oppure al compimento della maggiore età (art. 29). In conseguenza di ciò, molti giovani in condizioni di disadattamento sociale, o giudicati tali, furono sottoposti a interventi 'rieducativi' coatti e spesso anche violenti, con la conseguenza che, quasi sempre, il disadattamento diveniva patologico, trasformandosi in pericolosità sociale o delinquenza, legittimando il passaggio a misure di contenimento più gravi, anche di tipo penale.

La tendenza del R.D. n.1404 al coordinamento e all'unificazione, non riguardò solo la sistematica legislativa, ma si rispecchiò anche nella dislocazione dei diversi istituti, previsti dalla nuova legge e destinati ad accogliere condannati o corrigendi. L'art. 1 stabilì, infatti, accanto al Tribunale, l'istituzione di un Centro di rieducazione, comprendente una vasta gamma di istituzioni e servizi (che, col tempo si sono ridotti e modificati):

  1. case di rieducazione;
  2. "focolari" di semilibertà e pensionati giovanili;
  3. gabinetti psico-medico-pedagogici
  4. uffici di servizio sociale per minorenni;
  5. istituti di osservazione;
  6. scuole laboratori e ricercatori speciali;
  7. riformatori giudiziari;
  8. prigioni scuola.

Le scuole ed i laboratori ed i ricercatori speciali non furono mai attivati; "del resto, come strutture speciali della giustizia, avrebbero contribuito ad aumentare la mistificazione, la stigmatizzazione e la manipolazione in questo campo" (64).

Gli istituti che andarono a formare il Centro rieducazione per minorenni furono i seguenti:

1) Case di rieducazione:

erano le strutture dove veniva svolta l'opera di recupero dei minori irregolari nella condotta o nel carattere quando il tribunale riteneva opportuno che la rieducazione dovesse avvenire in internamento (art. 25).

Nelle case di rieducazione potevano anche essere collocati i minori entrati nel circuito penale, che fossero o meno sottoposti a carcerazione preventiva, oppure minori prosciolti per incapacità di intendere e di volere senza che fosse stata loro applicata una misura di sicurezza detentiva o prosciolti per concessione del perdono giudiziale o sottoposti a pena ma con sospensione condizionale della stessa (65).

2) Focolari di semilibertà e pensionati giovanili:

i primi erano piccoli istituti dove un gruppo ristretto di adolescenti viveva in comunità sotto la guida di un educatore o di un assistente sociale. Al loro interno si tentava di assicurare ai minori, in un clima di libertà, ma anche di sostegno da parte dell'operatore, un'adeguata socializzazione, facendo loro svolgere un tipo di vita simile a quello familiare.

I pensionati giovanili, invece, erano istituti specializzati in cui erano accolti i minori che, dopo il ricovero in casa di rieducazione, potevano essere considerati rieducati ma che non potevano rientrare in famiglia o non erano ancora in grado di affrontare la vita, senza un adeguato sostegno (66).

3) Gabinetti medico-psico-pedagogici:

costituirono l'organizzazione unitaria, amministrativa e tecnica ad un tempo, di tutti i servizi sanitari e psicologici presenti nel Centro. Erano formalmente composti da uno psichiatra, un educatore ed un assistente sociale, che operavano singolarmente, ed in équipe. Dopo una relativa fortuna fino ai primi anni sessanta, essi furono svuotati di ogni significato, e progressivamente soppressi. Gli psicologi e gli psichiatri, principali 'agenti' di questo sevizio, continuarono, comunque ad operare inseriti direttamente nelle altre istituzioni.

4) Istituiti di osservazione:

il processo rieducativo presupponeva necessariamente un'adeguata conoscenza della personalità del minore e delle sue particolari problematiche. Elementi indicativi della sua personalità potevano emergere dall'inchiesta del Servizio sociale, ma alcune volte, poteva apparire necessaria una più approfondita valutazione sulla base di una serie di esami specialistici che venivano attuati in questo istituto, nel quale il minore poteva soggiornare per un periodo di tempo che, normalmente, era di sessanta giorni.

5) Prigioni scuola:

erano gli istituti destinati all'espiazione delle pene inflitte ai minori. Il termine tende a sottolineare il fine rieducativo della misura penale. All'interno di questi istituti vi erano delle scuole e dei laboratori per una migliore socializzazione del minore.

6) Riformatorio giudiziario:

era la misura di sicurezza prevista per i minori che risultavano socialmente pericolosi. Il regime dei riformatori era molto simile a quello delle Prigioni scuola.

7) Uffici di servizio sociale per i minorenni:

all'interno di essi operavano, come adesso, gli assistenti sociali, che attualmente si occupano solo dei casi penali, prevalentemente effettuando inchieste su ragazzi fino a diciotto anni detenuti o denunciati a piede libero. (67)

Nel tempo questi istituti subirono un'involuzione, a testimonianza del fatto che l'ordinamento italiano si preoccupò, più che altro, di tutelare la comunità nazionale e, solo secondariamente, cercò di promuovere l'effettiva risocializzazione del minore deviante. Nonostante il proclamato carattere educativo di questi istituti, le loro caratteristiche erano in palese contrasto con lo scopo che avrebbero dovuto perseguire. erano, infatti in tutto simili a carceri comuni: il minore viveva in totale isolamento dal resto della comunità. In essi si realizzò lo scopo, non dichiarato, di contenere e controllare i giovani devianti, ma non quello essenziale, di educarli; al contrario la permanenza dei giovani all'interno di queste strutture, rese più profonda la spaccatura, già esistente, tra essi e la società.

Si è già detto che la legge istituiva del Tribunale per minorenni rappresentò la prima disciplina sistematica del settore e fu varata in piena era fascista, sullo sfondo del Codice Rocco. Nel periodo che andò dall'entrata in vigore di questo codice penale fino agli anni quaranta si accesero numerosi dibattiti sociali e politici, oltre che legislativi, sul tema della devianza minorile, "nel quadro del pressante e ben noto interesse delle istituzioni fasciste per tutti gli aspetti della vita e della socializzazione irregimentata dei giovani" (68). Negli anni che precedettero la guerra, il regime, mentre alimentava il mito della 'giovinezza', intraprese, anche, una politica di massificazione e di inquadramento organizzato di fanciulli e adolescenti. Nell'ambito delle istituzioni come la scuola o la famiglia gli atteggiamenti prevalenti furono sicuramente quelli pedagogici, rigidi e perentori, mentre i genitori, gli insegnanti o i tutori conservarono il loro prepotente autoritarismo.

Nei confronti della criminalità e della delinquenza l'atteggiamento del regime fascista fu di assoluta negazione, nel senso che si ebbe l'assoluta convinzione che l'organizzazione della vita e delle attività dei giovani, potessero debellare e far scomparire ogni forma di devianza. A maggior ragione questo atteggiamento doveva valere nei confronti della criminalità minorile: il regime non poteva ammettere fallimenti in questo settore, così fortemente controllato e programmato. Tutto ciò rafforzò la tendenza a spiegare la devianza in termini di malattia o di abbandono sociale, familiare ecc..., secondo una visione sicuramente positivistica, ma in "contrapposizione alla filosofia allora dominante in Italia, che esprimeva invece una sorta di misticismo della volontà contro ogni atteggiamento deterministico" (69). I comportamenti del minore, in particolare quelli devianti, non erano considerati il risultato della sua volontà. Né, d'altra parte, questo fu solo l'atteggiamento della società civile, visto che già il Codice Rocco aveva collocato i minori devianti nell'area dei soggetti per i quali la capacità di intendere e di volere non esisteva o era da dimostrare caso per caso. L'attenzione della società fu tutta diretta alla necessità di impedire che il minore venisse traviato, 'contagiato', moralmente o socialmente da adulti o minori devianti, poiché, il minore era un soggetto immaturo, incapace di orientarsi e, quindi, più facilmente soggetto all'influenza negativa altrui. Per questo l'atteggiamento prevalente della società civile nei confronti di minori devianti o delinquenti fu quello di negare e rimuovere l'idea del minore volontariamente e autonomamente deviante. I rimedi istituzionali alla devianza si sostanziarono, invece, nell'allontanare il minore dall'ambiente e dalla famiglia malsani, inadeguati, travianti; separare il minore dagli influssi negativi delle istituzione per maggiorenni; differenziare i minori tra loro secondo criteri di pericolosità. Tutto ciò sicuramente promosse una potente pressione sociale all'istituzionalizzazione dei minori devianti, anche al di là delle premesse della stessa legge minorile, sortendo l'effetto negativo di emarginare tutti quei minori etichettati come delinquenti e per i quali, la pena, utilizzata in funzione di una terapia per il delinquente 'malato', non ebbe mai il fine del recupero sociale del condannato.

1.3. La Legge 25 luglio 1956, n. 888 e il trattamento individualizzato

Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e fino a tutti gli anni cinquanta non si delineò nessuna chiara politica per i giovani. L'entrata in vigore della Costituzione ed il passaggio da un regime autoritario come quello fascista ad uno stato democratico, tuttavia, amplificarono e favorirono un'ideologia di tipo rieducativo la quale guardava alla trasgressione come ad un sintomo di patologia individuale e, per la quale, furono programmati presidi di tipo assistenziale e rieducativo.

Nel campo specifico della devianza minorile il sistema iniziò a dare segni di crisi e si registrò una tendenza del tutto opposta a quella del periodo precedente; ad un atteggiamento di negazione se ne sostituì uno di apertura ad interventi istituzionali anche differenziati per categorie di soggetti e specializzati per forme di devianza. La personalità del minore divenne l'oggetto privilegiato dell'intervento, con l'obbiettivo di risolvere i conflitti e i problemi sottesi al comportamento deviante. Dai convegni, dalle riviste e dalle prese di posizione a tutti i livelli (70) risultò un immagine spostata sensibilmente rispetto ai termini reali del problema: la pena e il controllo sociale dei giovani vennero negati o posti in secondo piano; al centro fu posta la funzione rieducativa e risocializzante del minore deviante.

Lo sviluppo degli interventi rieducativi, con un forte incremento di istituzionalizzazioni coatte anche per devianze non penali, rese opportuna l'introduzione della figura dell'assistente sociale che avrebbe dovuto facilitare il processo di rieducazione. Alla fine del 1954 gli uffici del servizio sociale erano già tredici ed occupavano circa cinquanta assistenti sociali; tuttavia per il loro riconoscimento furono necessari due provvedimenti: il D.P.R. 28 giugno 1955 n. 153 e la legge n. 888 del 1956.

Il primo, che attuò un vasto decentramento dell'attività dell'amministrazione penitenziaria, elencava gli uffici del servizio sociale tra gli istituti facenti parte del centro rieducazione per minorenni. La legge n. 888/56 introdusse tra le misure rieducative l'affidamento al sevizio sociale, assegnando a tutti gli uffici del sevizio sociale compiti di controllo e di sostegno del minore e facoltà di creare rapporti con la famiglia, sottolineando, inoltre, la correlazione tra cause di disadattamento e carenze familiari (71).

Questi provvedimenti legislativi recarono, dunque, profonde innovazioni alla struttura dei Centri rieducazione e vennero creati nuovi istituti e servizi (72). Si trattò, senza dubbio, di una pluralità di istituzioni e di organismi rieducativi per minori disadattati che consentirono un trattamento più adeguato alla singola personalità e più idoneo alle cause della condotta trasgressiva del minore.

Le indagini sulla personalità del minore, che si svolgevano presso gli Istituti di osservazione avevano lo scopo di rilevare la personalità del soggetto e le sue problematiche, al fine di personalizzarne le misure ed il trattamento (73).

Con la nuova legge, presso l'Istituto di osservazione, furono introdotte sezioni di custodia preventiva, la cui previsione costituì un ulteriore progresso rispetto alla normativa del R.D.L.1404 del '34. Quest'ultimo aveva già escluso la possibilità di trattenere i minori in carcerazione preventiva presso le prigioni ordinarie per gli evidenti pericoli conseguenti alla promiscuità di adulti e minori; la legge n. 888 dispose la sottrazione del minore in attesa di giudizio anche al carcere per i minorenni, sostituendolo con l'Istituto di osservazione. La Circolare 721/3196 del 7 febbraio 1957, emanata dal Guardasigilli, rilevò che questa modificazione doveva essere ricondotta al principio per il quale "non si può presumere l'imputabilità del minore prima che sia stata accertata in sede diagnostica e giudiziaria." Era "pertanto esigenza di rispetto della sua personalità e, ad un tempo, condizione tecnica per una buona diagnosi, il non aggravare, al di là delle necessità concrete di sicurezza, le tensioni emotive in corso, ma al contrario scaricarle attraverso quelle condizioni ambientali e quel trattamento che un'intelligente pedagogia suggerisce" (74).

In questa fase, comunque, il settore di gran lunga più utilizzato fu quello amministrativo. Le misure non penali di controllo applicabili ai minori erano costituite da: 1) affidamento del minore al Servizio sociale minorile; 2) collocamento in una Casa di rieducazione od in un Istituto psico-medico-pedagogico (art. 25). Venne previsto che tali misure potessero essere applicate al "minore irregolare nella condotta e nel carattere", definizione, questa, che si sostituì a quella di "minore traviato". L'innovazione terminologica non fu certo di poco conto: lasciò intendere un cambiamento dell'ottica con la quale si guardava ai minori devianti. Il concetto di 'minore traviato', ossia moralmente corrotto presupponeva un'idea sminuita della personalità del minore, "esprimendo, di fatto, un giudizio moralistico di condanna" e "un'ideologia dell'intervento concepito unicamente come correzione". (75) La definizione di "minore irregolare nella condotta e nel carattere", ebbe al suo centro una concezione del soggetto come 'disadattato', e propose una lettura del problema in termini di 'disagio' o, più semplicemente, in termini di 'disadattamento'. In questo periodo gli strumenti operativi più usati furono gli 'istituti di osservazione' ed i 'gabinetti e gli istituti psico-medico-pedagogici'; si cominciò a sperimentare il trattamento scientifico e, negli istituti, alla figura del 'precettore' si sostituì quella del 'terapeuta'; ci si avvalse, per la prima volta, degli apporti qualificati di medici, psicologi e psichiatri.

Il nuovo Centro di rieducazione assunse una struttura orizzontale e decentrata che gli permise di attuare le sue attività di prevenzione e di rieducazione in modo autonomo e non più dipendente dall'amministrazione centrale, coordinando meglio le proprie forze con le altre istituzioni operanti nel territorio.

Il campo istituzionale continuò, comunque, ad essere segnato dalla logica della separazione e della differenziazione anche se si tese a sottolineare meno lo scopo della difesa sociale, enfatizzando invece maggiormente la rieducazione. "La società italiana credeva ancora saldamente nell'istituzione totale, anche per i minori, e appoggiò l'incremento di questa forma di risposta, anche se non la intese più come un espediente di risanamento morale, ma come una misura transitoria finalizzata alla rieducazione" (76).

Questo trattamento correzionale fu legato a finalità di riabilitazione e di reinserimento sociale del delinquente, in funzione dei quali si dispose l'individualizzazione della sentenza e l'utilizzazione di professionisti capaci di stabilire la pericolosità dei soggetti e di decidere l'entità e la durata della misure riabilitative.

1.3.1. Il fallimento del trattamento scientifico della personalità

A causa dei risultati riscontrati nella pratica, ma anche per una serie di considerazioni critiche che furono sviluppate dal punto di vista etico ed ideologico, il trattamento individualizzato e 'scientifico' della devianza minorile entrò in crisi.

Gli istituti creati con la legge del 1956, ebbero uno scarso successo; la differenziazione degli istituiti fu resa nulla dall'uso indifferente della stessa misura in situazioni soggettive diverse che avrebbero richiesto, invece, misure, e quindi trattamenti, diversi. A questo si aggiunse la sostanziale identità tra interventi normativamente legittimati in funzione della loro diversità.

Negli anni cinquanta e sessanta, per esempio, le Case di rieducazione crebbero notevolmente di numero, anche a causa del fatto che esse non si limitarono più soltanto ad accogliere l'utenza che gli era attribuita normativamente ex art. 25 della legge n. 888/56; la richiesta di internamento di uno dei figli da parte dei genitori, che questa norma prevedeva, spesso nascondeva una situazione di indigenza che, in questo modo, si cercava di alleviare. Spesso la presa in carico dei minori da parte delle istituzioni rieducative non fu motivata da devianze conclamate o da sintomi evidenti di irregolarità nella condotta o nel carattere, ma da gravi carenze o dalla totale mancanza di risposte assistenziali primarie, quali quelle della famiglia o della scuola (77).

Ancora alla fine degli anni sessanta in Italia, soprattutto nel Meridione, il sistema rieducativo, suppliva o copriva, in buona parte, esigenze di carattere assistenziale, con una sostanziale demistificazione delle istituzioni rieducative, dimostrando che l'affermata finalità riabilitativa mascherava, in realtà, un'azione di contenimento dell'emarginazione che colpiva un gran numero di giovani appartenenti alle classi più sfavorite (78).

Il sistema rieducativo penale italiano non riuscì, dunque, ad incidere sulle condizioni di abbandono dei minori, non fu in grado di produrre nessuna azione preventiva della delinquenza minorile, né di svolgere un'azione di rieducazione dei 'minori delinquenti'.

Una ricca ed accreditata letteratura (79) sostiene e verifica le tesi del fallimento del trattamento rieducativo. Secondo una ricostruzione di De Leo tutte le analisi sull'argomento hanno finito per individuare essenzialmente due tipi di "carenze minimali" individuate "nell'insufficienza numerica e nell'impreparazione del personale" (80).. Le richieste che derivarono da queste prese di posizione furono prevalentemente di ordine quantitativo: aumentare il numero dei giudici minorili, dei tecnici specializzati ecc; le richieste qualitative si riferirono in termini più vaghi ad una maggiore preparazione, formazione, aggiornamento degli operatori.

A questa valutazione (81) se ne poteva sommare un'altra, più generale, che investiva tutto il settore minorile "nelle sue interconnessioni e nelle sue funzioni" (82). Ma anche questa seconda analisi coglieva molto più facilmente le carenze negative che non gli aspetti positivi. Venne denunciata la totale mancanza di tutti, o quasi, gli strumenti previsti dalla, seppur recente, legge del 1956 sulla rieducazione e fu osservato come non vi era, di norma, la possibilità di un adeguato e continuativo intervento assistenziale sulla famiglia, che vi erano scarsi mezzi ad essa surrogabili e una limitata e precaria possibilità di intervento attraverso istituti - non esistendo gli altri istituti previsti dalla legge del '56 - anche per le misure di sicurezza.

Una tale situazione di carenza si rifletteva direttamente sul processo penale, sul suo svolgimento, sulla sua definizione e sulla sua efficacia:

In primo luogo più ardua è la ricerca di mezzi idonei a fronteggiare le necessità educative del minore: di riflesso più ardua la comparazione del significato della pena e di quello degli incerti e gracili interventi diversamente prospettabili; più arduo, quindi lo stesso giudizio penale, specie in casi di recidiva. Su un piano più generale si deve osservare che la complessa materia che diviene oggetto di esame del processo penale avrebbe dovuto costituire, prima, in larga parte, oggetto di interventi di diversa competenza, amministrativa, civile, anche da parte del T.M.
Avviene, invece, che l'assenza di idonee strutture faccia si che il disturbo di personalità del minore non sia rilevato antecedentemente in situazione ugualmente critica di sofferenza del minore stesso, ma sia rilevato, invece, solo nel momento in cui tale sofferenza si esteriorizza, si trasferisce sulla società, disturbandola: al momento cioè della commissione di un fatto qualificabile come reato. Allora interviene l'organo statuale, con l'inizio del procedimento penale (83).

Queste indicazioni sembrano indicative del disagio e del senso di impotenza di molti magistrati minorili anche avanzati e democratici.

A tutto ciò si aggiunsero i cambiamenti che riguardarono il funzionamento dei tribunali in conseguenza, soprattutto dell'introduzione della legge sull'adozione speciale del 1967. (84) Negli anni successivi alcuni presidenti di tribunale per minorenni, proprio in ragione delle nuove competenze, cominciarono a modificare il loro atteggiamento a la stessa organizzazione dei loro uffici.

Paolo Vercellone, presidente del Tribunale dei minorenni di Torino dal 1970 al 1985, racconta di quegli anni:

C'erano Battistacci a Perugia, Cividali a Bologna, Meucci a Firenze, Moro a Roma... Questo nostro gruppo di Presidenti di tribunale era composto da persone tutte piuttosto autoritarie. Cercavamo di creare e di diffondere una diversa cultura e, parallelamente, gli operatori dei servizi sociali, gli educatori cominciavano, anch'essi, a riflettere sul loro ruolo. Si facevano incontri ovunque, si battevano i pugni sui tavoli... Fu l'inizio della fine delle case di rieducazione. Più si svelava la realtà di queste istituzioni chiuse più le stesse amministrazioni radicalizzavano la loro scelta di soppressione di questi istituti (85).

1.4. La protesta degli anni settanta: il periodo anti-istituzionale

La fine dell'ideologia del trattamento individualizzato fu determinata soprattutto dalla diffusione di nuove teorie che posero l'attenzione sugli effetti negativi dei processi istituzionali.

Sul finire degli anni sessanta gli strumenti amministrativi iniziarono a perdere d'importanza. Alcuni istituti, previsti dalla riforma del 1956, come si è visto, non erano stati neanche mai realizzati ma, in quel momento, questa mancanza apparve molto opportuna dato che si reputò più utile avvalersi delle normali strutture di comunità - aperte a tutti i ragazzi - che utilizzare servizi specializzati, esclusivamente riservati a minori disadattati, e quindi, fortemente emarginanti. (86) Anche gli istituti 'scientifici' persero la loro attualità dato che l'osservazione e il trattamento erano considerati falsati se effettuati in un ambiente chiuso e riferiti a soggetti sottoposti a coazione.

A cavallo tra gli anni sessanta e settanta vi fu un periodo cruciale, in cui si condensarono e si approfondirono i fermenti culturali emersi fino ad allora. La società civile venne investita da un radicale processo di politicizzazione che influenzò in modo decisamente diverso tutti i livelli di vita e di esperienza.

Fu in questo periodo che si affermarono le interpretazioni in chiave politica anche del fenomeno della devianza. Vennero chiamate in campo le strategie del controllo sociale, le risposte segregative, le contestazioni anti-istituzionali e le proposte di de-istituzionalizzazione di larghe fasce di devianti; si iniziò a studiare la politica criminale, indirizzata in termini differenziali, alle diverse classi sociali, ai diversi percorsi delle carriere criminali, prendendo in considerazione il ruolo del conflitto sociale e la carica di contestazione insita in ogni atto deviante.

La criminologia spostò gradualmente il proprio asse di interesse; da paradigma eziologico, centrato sulle ragioni per le quali un soggetto compie un atto antigiuridico ed un altro se ne astiene, passò ad analizzare i motivi ed i modi della definizione sociale della criminalità. Nuove istanze critiche misero in risalto gli aspetti collegati con la questione criminale. La criminologia critica, contestò la stessa nozione di crimine, negandone il valore ontologico e naturalistico. Vennero evidenziati gli aspetti discriminanti della reazione sociale e del sistema della giustizia nella sua concreta operatività e ci si soffermò sulla estrema diffusione dei reati e della devianza in generale, al di là del più limitato fenomeno della delinquenza ufficialmente individuata ed abitualmente oggetto di analisi da parte dei criminologi tradizionali. In particolare "assunto il concetto di devianza quale oggetto privilegiato di analisi, le nuove teorie cercarono sempre più di sottolineare l'importanza della 'reazione sociale' come momento determinante nella genesi dei processi mediante i quali alcuni individui vengono ad essere considerati marginali" (87).

Le teorie interazionistiche (88) considerarono come elemento cruciale del processo di progressivo coinvolgimento nella devianza, l'azione di etichettamento e di stigmatizzazione operata dalla società nei confronti di individui che, in tal modo, progredivano da un comportamento deviante occasionale ad una devianza sistematica. L'atto deviante non fu più interpretato come "un atto compiuto da una persona, ma piuttosto, come la conseguenza dell'applicazione di norme e sanzioni da parte di alcuni nei confronti di altri" (89).

In questa dibattito un ruolo importante fu svolto dall'antipsichiatria e dalla sua avversione alle istituzioni totali. Essa rivendicò la necessità per il malato di mente di avere rapporti sociali con l'ambiente e propugnò riforme centrate sull'idea della 'deistituzionalizzazione' e della creazione di strutture aperte. Anche in Italia la nuova criminologia di impronta sociologica, cominciò ad affermarsi e concentrò la sua attenzione sugli aspetti e i processi istituzionali, nonché sulle conseguenze di questi processi nella produzione sociale della malattia mentale e della criminalità, accomunate dalle stesse modalità di adattamento all'istituzione totale. Le caratteristiche di esclusione e segregazione delle istituzioni totali vennero efficacemente sottolineate da Basaglia, il cui lavoro fu fondamentale per la definizione del trattamento dei malati di mente (90).

Sulla base dei risultati di una ricerca condotta in un ospedale psichiatrico, Goffman, concluse che l'ingresso in una istituzione totale comportava un processo di degenerazione e di destrutturazione dei ruoli e delle immagini di sé, precedentemente vissuti ed agiti. Contemporaneamente, secondo il sociologo canadese, veniva a generarsi un processo complementare, di adattamento alle condizioni, alle aspettative e ai ruoli istituzionali, con profonde conseguenze soggettive e psicologiche (91).

Immergere l'adolescente in un'istituzione totale, durante un periodo cruciale per l'acquisizione di una propria identità personale, significava impedirgli esperienze vitali ed indispensabili per il futuro e, nel contempo, costringerlo in un meccanismo che poteva facilmente condurlo all'assunzione di una identità negativa.

Anche altri, come Erikson, sostennero la tesi che l'istituzionalizzazione prolungata è causa della formazione di una identità negativa, di immagini di sé e di ruoli sociali degradanti. L'ingresso in un istituto, per i minori, era spesso causa di una vera e propria crisi di identità, risolta dall'istituto con l'attribuzione al ragazzo di una identità ben precisa, che corrispondeva, però, a quella di un individuo diverso dagli altri, incapace di avere successo e destinato al fallimento sociale (92). La devianza assunse i connotati precisi di un processo interattivo in cui le agenzie educative, il controllo sociale formale o informale, gli interventi di recupero, giocavano un ruolo essenziale nella conferma della immagine di sé che il soggetto aveva elaborato. L'istituzionalizzazione e l'isolamento dal resto della società, confermavano ai giovani l'idea di essere così diversi dagli altri da dover essere estromessi dal contesto sociale; l'internamento in istituto, così organizzato, rigido e monotono, produceva solo inattività, riducendo gli internati ad un grado sempre maggiore di inattività e convincendoli di non potere mai più strutturare una vita normale.

L'analisi sociologica dell'istituzione carceraria mise in evidenza che essa esprimeva funzioni tra loro diverse - custodia, pena, riabilitazione, auto-conservazione, ordine interno - le quali provocavano, però, i medesimi meccanismi di condizionamento carcerario, con l'effetto di ridurre il detenuto ad uno stadio di dipendenza pressoché infantile; ad un grado maggiore di adattamento alla vita nell'istituzione, sembrava corrispondere un maggiore disadattamento alla vita della società esterna. Si era convinti, come scrisse Chapman, che "la prigione crea il criminale", producendo l'adattamento dei detenuti "alla vita di una società chiusa" e quindi, provocando nevrosi istituzionale, desocializzazione e deterioramento della personalità (93).

1.4.1. Il dibattito tra gli operatori

L'idea di ripristinare la socialità negata attraverso un trattamento individualizzato del soggetto, legato ai modi e agli spazi della struttura carceraria, era entrata in crisi quando erano stati posti in discussione i principi sui quali si fondava tale politica. Furono gli stessi operatori del sistema della giustizia minorile che, in parte, si schierarono in posizione critica nei confronti delle evidenti e macroscopiche carenze di strutture negli istituti e avanzarono decise richieste di rinnovamento. Una nuova generazione di magistrati minorili prospettò la volontà, e la possibilità, di giungere ad una completa depenalizzazione delle norme sanzionatorie, anche attraverso l'utilizzo della dichiarazione di immaturità. Nello stesso tempo, un analogo movimento degli operatori sociali del Ministero di Grazia e Giustizia, operante sia a livello decentrato sia a Roma, individuava come fondamentale l'intervento sul sociale, ossia nel contesto territoriale, auspicando il trapasso dei poteri dallo Stato alle competenze regionali.

Le nuove istanze raggiunsero, in breve tempo, una egemonia culturale che sembrò produrre una relativa apertura degli istituti rieducativi. La minore repressività delle istituzioni fu, però, soltanto apparente, dato che, spesso, gli effetti delle innovazioni vennero neutralizzati da provvedimenti punitivi e repressivi degli organi giudiziari. In effetti anche la posizione degli intellettuali e degli operatori nell'ambito della devianza minorile non fu affatto univoca, semmai si articolò e si sfumò in relazione anche alle scelte ideologiche e politiche. La maggioranza di coloro che si raccoglievano nell'area democratica e di sinistra, prospettò ed enfatizzò l'alternativa alla risposta penale, puntando decisamente sull'idea rieducativa e riabilitativa (94). L'orientamento politico più conservatore manifestò una reattività di tipo tradizionale, accettò acriticamente una vaga e generica responsabilità sociale ma non negò la responsabilità individuale, anche del minore; adottò una linea che, pur continuando a definirsi 'rieducativa', garantiva il criterio della difesa sociale e un controllo in istituzioni chiuse. (95); per alcuni il carcere divenne la principale istituzione 'operativa' nell'erronea convinzione che solo esso potesse porre un freno alla devianza minorile.

Il sistema giudiziario minorile divenne, quindi, più tollerante solo nelle affermazioni dei suoi rappresentanti, mentre, in realtà, reagì alla relativa apertura delle case di rieducazione con un incremento di ricoveri in istituti più chiusi e ancora più stigmatizzanti; il settore 'rieducativo', così com'era impostato, non ebbe la capacità di ridurre la criminalizzazione dei giovani, ebbe, semmai, la funzione di primo filtro istituzionale, selettivo, discriminante, in termini di classe sociale, dei processi di criminalizzazione della devianza giovanile.

La tabella che segue mette in evidenza come, ogni anno, nel decennio tra il 1969 ed il 1979, più di diecimila ragazzi entrarono nelle istituzioni totali della giustizia minorile; ed, anzi, quello che si nota maggiormente è un forte aumento degli ingressi nei carceri minorili, soprattutto per custodie preventive, parallela a quella che nello stesso periodo caratterizzò le carceri per adulti. Ci fu, invece, una forte flessione degli internamenti nelle case di rieducazione, misura che ebbe la sua massima applicazione negli anni cinquanta e sessanta. Infine, le detenzioni nelle prigioni scuola e in riformatorio giudiziario, si mantennero su livelli relativamente contenuti, pur subendo sicuramente un incremento.

Tabella 1.4.1. Minori detenuti ed internati per il periodo dal 1969 al 1975.
Fonte: Ministero di grazia e giustizia, Ufficio minorenni (96)
ANNO In attesa di giudizio Definitivi Totale
a) In custodia preventiva b) Nelle carceri per adulti c) In prigione-scuola e riformatorio giudiziario d) In casa di rieducazione
1969 4036 502 126 1782 6446
1971 7035 1771 205 1465 10476
1973 8077 2521 501 1044 12143
1975 5250 1916 308 703 8177
1979 7081 1438 - - 8519

L'inasprimento delle misure applicate ai minori fu oggetto di accesi dibattiti sulla funzione del carcere minorile.

Nel corso del XXVIII Convegno giovanile della Pro Civitate Christiana tenutosi ad Assisi nel 1973 (97), si confrontarono i "movimenti politici e sociali più avanzati d'Italia" (98) intorno alla questione carceraria. In questo dibattito venne messo in discussione, da un lato il significato di quei comportamenti devianti, cioè violatori delle norme, contro i quali erano state erette, a difesa della società, le istituzioni totali; dall'altro il significato delle istituzioni stesse. Il dibattito politico andò ad investire, cioè, "il significato dell'ospedale psichiatrico e del carcere, e il porsi di queste istituzioni e degli stessi criteri di normalità, come ovvi e come finalizzati al bene di tutti". Seppilli (99) sostenne, nel suo intervento al convegno, che i sistemi normativi sono relativi, essendo essi predisposti in funzione della conservazione del potere dei "gruppi dominanti" di una determinata società. In questa prospettiva, la devianza - intesa come violazione delle norme dominanti - non può che consistere in un comportamento che è solo catalogato come disfunzionale alla logica del sistema. Il centro del discorso di Seppilli riguardò il problema delle istituzioni totali:

Noi chiamiamo istituzioni totali tutte le istituzioni nelle quali i singoli individui, in quanto hanno deviato sul terreno psico-comportamentale dalle norme di funzionamento del sistema vengono isolati dal resto della società, reclusi, internati, fatti vivere all'interno di un campo isolato, sottoposti ad un insieme di strutture e di gruppi delegati - dalla società - a gestire questi individui in modo autoritario, e tale che, il loro margine di libertà ne viene fortissimamente ridotto (100).

L'autore sostenne che ciò che era stato demistificato, non era tanto il carattere ovvio delle istituzioni totali, quanto i loro effetti; le funzioni del carcere come la pena, la funzione deterrente, la rieducazione o la prevenzione speciale, erano stati messi in dubbio dai risultati di ricerche che ne avevano messo in luce gli effetti depersonalizzanti, "di forzato adattamento alle condizioni di subalternità, di soggezione e di massificazione, cioè di standardizzazione degli individui sottoposti alle regole." (101). Nello stesso intervento venne evidenziata la necessità che il superamento della logica istituzionale dovesse passare attraverso un collegamento sinergico tra tutte le forze sociali, tese verso una logica di trasformazione complessiva del sistema, nonché, attraverso una presa di coscienza, da parte degli operatori, ma soprattutto, da parte degli internati, degli effetti perversi delle istituzioni totali e della necessità di trasformazione delle stesse.

Nella sua analisi della questione, Carlo Brutti, psichiatra dell'età evolutiva presso il Centro Igiene Mentale di Perugia, affermò che il problema della devianza giovanile non poteva essere delegato all'azione della giustizia, anche quando essa fosse stata intesa come intervento preventivo o pedagogico, né all'azione della scuola e, tanto meno, poteva essere appannaggio delle "cosiddette èquipes psicopedagogiche" (102).

L'allora presidente del Tribunale dei minori di Firenze, Gian Paolo Meucci, concordò con questa posizione, considerando l'indicazione di Brutti una importante presa di coscienza. La devianza, non poteva essere oggetto di una delega, che la società, invece, operava a strutture o istituti particolari; la risposta ai fenomeni di devianza doveva provenire dalla comunità: il diritto ad essere uomo poteva essere tutelato unicamente dalla collettività. Solo nel momento in cui questa tutela fosse stata avocata dal gruppo sociale - e insieme dal magistrato - avrebbe finito di assumere i connotati del mero controllo repressivo, solo dannoso per l'individuo.

L'Assemblea dei partecipanti al congresso approvò, alla conclusione dei lavori, un documento che voleva rappresentare una piattaforma comune di analisi e valutazione e, allo stesso tempo conteneva vere e proprie proposte operative. Si identificarono i seguenti obbiettivi: 1) realizzare delle riforme e dei servizi scolastici, abitativi, sociali e sanitari, con la conseguente istituzione delle unità locali dei servizi medesimi in modo tale da realizzare una distribuzione di questi servizi che coprisse tutto il territorio; 2) depenalizzazione dei reati compiuti dai minori fino al diciottesimo anno e soppressione delle misure di sicurezza; 3) trasferimento alle Regioni e alle unità locali dei servizi delle competenze in materia di rieducazione. Per preparare ed accelerare tale processo di riforma, occorreva: 1) non procedere alla costruzione di nuovi carceri minorili, di nuovi riformatori e di nuove case di rieducazione; 2) promuovere interventi alternativi mediante la realizzazione dei servizi aperti, che consentano la permanenza del minore nel suo ambiente di origine e che mobilitino le risorse delle comunità locali: affidi familiari, focolari, comunità, trattamenti in libertà... 3) realizzare iniziative per la formazione del nuovo personale e della riqualificazione di quello in servizio (103).

Le discussioni, le proposte e le pressioni esercitate sul tema della giustizia minorile provennero, essenzialmente da tecnici, operatori, magistrati del settore minorile della giustizia; solo di rado il dibattito andò al di là dei confini settoriali.

Una delle poche eccezioni fu rappresentata dal Convegno di Abano, tenutosi nel gennaio del 1975, con la partecipazione di amministratori regionali, operatori sociali, giudici minorili ma anche rappresentanti dell'opinione pubblica come giornalisti e rappresentanti istituzionali non direttamente coinvolti nel settore della giustizia minorile (104). Nel Convegno vennero presi in considerazione i temi della de-istituzionalizzazione e della de-settorializzazione degli interventi sui minori. Si fece appello alla Costituzione ed ai nuovi indirizzi legislativi e culturali per sostenere la necessità di investire la comunità locale del compito di rispondere ai bisogni del minore non più in termini di istituzionalizzazione. Vennero, soprattutto, chiamati in causa i ruoli delle Regioni e degli enti locali, ai quali venne richiesta una maggiore incisività nelle azioni a tutela dei minori. Venne prospettato un modello di aperta e profonda collaborazione tra le varie istituzioni locali ed il Tribunale, il quale apparve, per molti aspetti, in una nuova immagine, moderna e dinamica, con una rivalutazione delle funzioni di tutela dei diritti dei minori.

Non mancarono, comunque, anche spunti e voci più critici.

De Leo (105), affrontò nel suo intervento il problema delle custodie preventive, divenute, allora, "una sorta di serbatoio poliedrico e polivalente in cui paradossalmente e assurdamente si è tentato di rispondere ai bisogni e ai diritti del minore, e che rappresenta attualmente l'espressione più evidente della vasta e profonda crisi che ha investito il settore della giustizia minorile... In questi grandi serbatoi umani, oggi i ragazzi rimangono molto più di quanto la legge stessa richieda, e vi rimangono in genere per ragioni assistenziali, educative, penali, che non hanno niente a che fare con la funzione istituzionale della custodia preventiva... Non è difficile vedere che questo è un processo che va in senso diametralmente opposto a quello che qui si tenta di affermare: cioè i servizi sociali vengono ancora spostati nelle istituzioni totali, invece che essere integrati a livello locale e comunitario".

Fondamentale fu, anche l'intervento di Battistacci (106), che pose l'attenzione sulle difficoltà ad operare dei già pochi servizi sociali esistenti nel sud d'Italia.

Uno degli interventi più critici fu quello dello psichiatra Hrayr Terzian; egli ricordò come gli stessi magistrati avevano messo in evidenza le degenerazioni applicative succedutesi nei quaranta anni dalla approvazione della legge istitutiva del tribunale per i minori, per le quali, avevano soprattutto sofferto le classi più svantaggiate (107). Per Terzian c'era un'unica soluzione: bisognava lottare per l'abrogazione della legge del 1934, "dimostratasi nei fatti anticostituzionale e fascista nella sostanza.". La posizione di molti giudici, anche democratici, appariva contraddittoria se, come risultava, da una parte essi, denunciavano la natura e gli effetti della legge, mentre in prospettiva sostenevano che essa, integrata e corretta dalle leggi del '56 o del '67, consentiva ancora di difendere, proteggere, tutelare, garantire i diritti del minore. Terzian sostenne come unica strada percorribile l'abolizione del tribunale per i minorenni. Questo organismo, in attesa della sua scomparsa, avrebbe avuto un'unica possibilità di riconvertire le sue funzioni: quella di segnalare attraverso la sentenze e altri provvedimenti di denuncia, l'incostituzionalità della maggior parte degli istituti minorili, in quanto ostacolo e limite alla libertà e alla uguaglianza di molti cittadini, impedimento concreto allo sviluppo della loro personalità e alla loro possibilità di effettiva partecipazione sociale.

1.5. La legge sull'Ordinamento penitenziario e il D.P.R. n. 616 del 1977

Accanto a queste prese di posizione, che trovarono la loro origine in più vasti fenomeni politici e culturali, si ebbero anche importanti innovazioni legislative che incisero sull'azione dei magistrati minorili.

Gli anni sessanta furono gli anni del fermento istituzionale intorno alla riforma penitenziaria; un periodo caratterizzato dal montare della criminalità nell'intera area sociale ed una situazione politica e normativa in cui, la tendenza ad una maggiore tutela dell'individuo ed ad aperture liberalizzanti in ambito carcerario, si contrapponevano, in modo stridente, col carattere repressivo delle contemporanee leggi sull'ordine pubblico (108).

Tra il 1974 e il 1975, l'iter parlamentare del disegno di legge sull'Ordinamento penitenziario, venne improvvisamente accelerato. L'originario progetto di riforma, presentato nel 1960 dal Ministro Gonnella e includente la materia minorile, era stato, successivamente, ripartito in due testi diversi, al fine di distinguere la materia minorile dalla disciplina per gli adulti; rispetto a quest'ultima, le norme sui minori apparivano troppo poco omogenee, orientate com'erano nel senso della prevenzione (109). Al momento della definitiva approvazione del nuovo Ordinamento Penitenziario (110), il testo relativo al carcere minorile era ancora lontano dall'essere completato; ciò indusse il legislatore ad inserire nel provvedimento legislativo una disposizione, con la quale, ci si limitò ad estendere ai minorenni l'applicazione della nuova disciplina carceraria.

L'art. 79 dell'ordinamento, tuttora in vigore, dispone: "Le norme della presente legge si applicano anche nei confronti dei minori degli anni diciotto sottoposti a misure penali, fino a quando non sarà provveduto con apposita legge" (111). Questa disposizione rappresentò una dichiarazione esplicita di inadeguatezza della norma rispetto allo specifico del penitenziario minorile, per il quale esitavano notevoli aspettative, sia a livello di opinione pubblica, sia a livello di operatori del settore (112).

La legge di riforma penitenziaria costituì, almeno normativamente, la prima apertura del carcere alla comunità esterna, mentre l'introduzione di misure alternative alla detenzione e la conseguente valorizzazione degli interventi del Servizio sociale, apportarono elementi nuovi e diversi nel mondo penitenziario.

Appare chiaro come la riforma penitenziaria del 1975 non abbia dimostrato molta attenzione e interesse per lo 'specifico' minorile, che venne accantonato in posizione di attesa. Ma la portata delle trasformazioni introdotte dal legislatore fu, comunque, tale da condizionare pesantemente anche il proseguo del dibattito sul carcere per i minori.

In generale, questa nuova normativa non fornì alcun contributo allo scioglimento del nodo relativo alla compatibilità tra azione rieducativa e situazione di reclusione su cui si era bloccato il dibattito sul carcere 'diverso'. La riforma, infatti, da un lato cercò di sfuggire alle insidie della ambiguità rieducativa, proponendo un modello di trattamento tutto fondato sui più 'normali' strumenti di socializzazione (il lavoro l'istruzione, religione e tempo libero); dall'altro lato, però, essa subordinò l'applicazione di tale modello "all'osservazione scientifica della personalità" e attribuì alla "individualizzazione" della risposta (caso per caso) il metodo da seguire nella attuazione degli interventi risocializzativi. L'origine clinica di questi criteri li rese inadatti per la messa in atto di un'azione trattamentale di tipo sociale, così come era definita dagli obiettivi della legge.

La riforma non sortì, su questo piano, nessun apporto in termini di chiarezza; introdusse, però altre novità che, una volta venute a contatto con la realtà penitenziaria minorile, funzionarono come importanti stimoli per la definizione concettuale del carcere e come estremo rimedio per l'attuazione della politica di de-carcerizzazione. Queste innovazioni, infatti, furono in grado di andare oltre le tradizionali discussioni centrate sulla ricerca del migliore dei carceri possibili, permettendo, in concreto, l'emergere del 'non carcere' come la ottimale realizzazione del momento sanzionatorio. Queste misure aprirono la strada all'opera di de-penalizzazione del reato minorile a cui le riforme successive dettero riconoscimento formale.

Un'altra via verso la de-carcerizzazione minorile si realizzò attraverso il successivo intervento legislativo, fondamentale per questo settore d'interesse, rappresentato dal D.P.R. n. 616 del 1977.

La legge di riforma del 1956, con l'introduzione del Servizio sociale per i minori, aveva previsto per la prima volta la partecipazione di attori esterni sulle decisioni del Tribunale, anche se si trattava di un influenza limitata, in considerazione della dipendenza di entrambi i soggetti dal Ministero di Grazia e Giustizia.

La dialettica tra l'apparato giudiziario e le strutture esterne a tale apparato, mutò decisamente con il decreto del 1977, con il quale venne avviato il processo di decentramento già sancito, più in generale, dalla legge n. 382 del 1975. Con tale decreto si trasformò radicalmente l'organizzazione delle misure 'amministrative', la cui competenza fu trasferita dal Ministero di Grazia e Giustizia, ai Comuni.

L'art. 23 lett. c) del D.P.R. 616, dispose il trasferimento agli Enti Locali delle attività relative agli interventi in favore dei minorenni, soggetti ai provvedimenti dell'Autorità Giudiziaria minorile nell'ambito delle competenze civile ed amministrativa, la cui titolarità spettava agli uffici del Servizio Sociale del Ministero di Grazia e Giustizia. Contestualmente si dispose il trasferimento agli Enti Locali, alle Regioni, ecc., di alcuni assistenti sociali del Ministero, affinché fosse garantita una certa continuità esperenziale al nuovo assetto che si andava strutturando.

Con il D.P.R. n. 616 il sistema rieducativo venne completamente rivoluzionato: le Case di rieducazione, già in fase avanzata di decadimento, vennero completamente abolite, mentre gli Enti Locali si dovettero confrontare con una situazione fallimentare, di difficile gestione. Con queste nuove disposizioni il problema della conciliazione di punizione e terapia, di controllo e socializzazione si pose i maniera particolarmente acuta, in quanto la definitiva chiusura degli istituti rieducativi statali obbligò gli Enti Locali ad affrontare il difficile compito della gestione della devianza giovanile.

Molti Comuni si trovarono impreparati di fronte ai nuovi compiti e non riuscirono ad intraprendere alcun intervento soddisfacente; altri iniziarono la programmazione di interventi alternativi al tradizionale sistema rieducativo e, faticosamente, avviarono alcuni progetti.

Dopo la promulgazione del decreto, comunque, il dibattito interessò con più continuità gli operatori e gli amministratori delle Regioni e degli Enti Locali, ma le forze politiche e sociali e, in generale, l'opinione pubblica, continuarono a rimanerne ai margini o ad un livello molto più superficiale. Questa fu, probabilmente, una conseguenza della 'settorializzazione' del sistema penale minorile: per molto tempo il problema della delinquenza giovanile era stato delegato ad un settore istituzionale ben delimitato e centralizzato, e ciò aveva prodotto un progressivo impoverimento anche del dibattito sociale. Anche questo livello di elaborazione era stato monopolizzato dagli operatori del settore. Al momento della restituzione di una parte di questa delega, le nuove istituzioni coinvolte, ed anche le forze politiche e sociali, manifestarono una carenza di elaborazione culturale e pratica. Per questo non sorprende che, in questa latitanza istituzionale, la posizione di maggior peso culturale e pratico venne elaborata congiuntamente, pochi mesi dopo la promulgazione del decreto 616, da tre organismi di tecnici che avevano avuto una crescente influenza nella politica della giustizia minorile: il Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, il Censis e l'Associazione dei magistrati minorili. Nel documento (113) che raccolse questa posizione si sottolineò che il problema dell'intervento in campo minorile era tra i più scottanti da trattare per il "carattere essenzialmente conflittuale dell'attuale periodo evolutivo" della società italiana (1977).

Il conflitto era da attribuirsi ad una serie di concause, tra le quali, la più significativa, era rappresentata dalla "drastica de-istituzionalizzazione con una progressiva crisi degli istituti e degli strumenti tecnici di intervento", cui aveva fatto riscontro "una ancor troppo confusa ed esigenziale richiesta di restituire alla società locale nel suo complesso... compiti di prevenzione, rieducazione crescentemente complessi e difficili.... con la conseguenza di una progressiva caduta di sedi, organi, procedure di azione concretamente operative ... e quindi di trasmettere oggi agli enti locali un settore così delicato, ma singolarmente sprovvisto di consolidati strumenti di intervento" (114).

Il documento mise in luce le conseguenze più dirette del nuovo decreto, evidenziando come esso lasciasse ai "magistrati il potere-onere di essere gli unici soggetti chiamati a coprire tutti i bisogni minorili (penali, penitenziari, rieducativi)". I compiti di gestione e di organizzazione dei servizi e degli interventi relativi alle materie civili ed amministrative vennero attribuiti agli enti locali, mentre al Ministero di Grazia e Giustizia rimase la gestione delle risposte penali (custodie preventive, prigioni scuola, riformatori giudiziari, servizio sociale penitenziario). La tendenza al decentramento, con la relativa distribuzione di competenze, venne giudicata come una frattura troppo drastica ed improvvisata, tale da provocare la dispersione di una cultura operativa ed organizzativa, accumulatasi nel corso di decenni di esperienze (115). Ciò avrebbe potuto provocare una destrutturazione di risposte ormai collaudate senza che a ciò potesse far riscontro, in tempi brevi, una struttura efficiente di nuovi programmi di intervento (116).

Il documento propose la creazione a livello regionale di un "polo di aggregazione unitaria delle responsabilità politiche ed operative in materia minorile", che fosse capace di dialogare con la magistratura minorile e di rispondere ai bisogni dei minori. Il polo avrebbe dovuto essere, anche, in grado di stimolare, sostenere e coordinare le responsabilità degli enti locali e sviluppare la cultura tecnica e professionale.

Si passò, quindi, ad una specificazione delle attività che gli Enti Locali avrebbero dovuto svolgere in base alla nuove norme del decreto. In relazione al settore rieducativo, in particolare, il documento effettuò una elaborata interpretazione della normativa. Si trattò di un'analisi a tratti, anche complessa ed interessante, ma che, al di là di impostazioni di carattere generale, ripropose modelli operativi e schemi non dissimili da quelli che avevano caratterizzato la giustizia minorile fino a quel momento.

Nel commentare questo documento, De Leo sostenne che l'ambivalenza da cui esso era caratterizzato, derivava dalla mancata comprensione di chi fossero i veri utenti della giustizia minorile e di quali bisogni essi fossero realmente portatori. Infatti dal documento emergeva l'immagine di un minore deviante che aveva un determinato retroterra culturale, determinate carenze di personalità, con caratteristiche simili gli uni agli altri. Nel documento si poteva leggere: "Si tratta spesso delle stesse persone che manifestano indifferentemente il fallimento di un adeguato processo educativo o con comportamenti genericamente irregolari o con comportamenti penalmente sanzionati". Secondo De Leo, la figura del giovane delinquente che veniva ricostruita riproponeva "un'esemplare espressione dello stereotipo del minore deviante" (117), ciò era molto grave tenuto conto che il documento era l'espressione dei tre maggiori organismi tecnici del settore, che si proponevano, invece, con un'ideologia avanzata e riformatrice. I processi di selezione e di creazione della delinquenza minorile si servivano di questo stereotipo, mentre la natura classista di tali processi, contemporaneamente, era servita a tutelare e proteggere i giovani dei ceti più garantiti ed integrati. "Il rigido determinismo e la staticità di questo approccio culturale - sostenne De Leo - è oggi uno degli ostacoli più consistenti ad una politica di cambiamento della giustizia minorile" (118). Anche nelle conclusioni il documento ripropose la profonda scissione tra esigenze di trasformazione e ripetizione di vecchie posizioni. In realtà esso non mise mai realmente in discussione la 'specialità', nel senso della settorialità, dell'intervento della giustizia minorile; presentò esigenze di grande riforma e di cambiamento che comprendevano aspetti culturali e tecnici che, in sostanza, erano quelli appartenuti a tutta la storia della giustizia minorile: rappresentò, quindi, "proprio la negazione pratica, il sabotaggio sistematico di quella possibilità di riforma" (119).

1.6. La depenalizzazione di fatto attraverso il perdono giudiziale e il proscioglimento per immaturità

Al fermento culturale ed al movimento anti-istituzionale degli anni settanta si contrappose una risposta penale fortemente contenitiva della devianza minorile (120). Tuttavia, la maggiore severità nella risposta alla criminalità dei minori fu accompagnata dall'applicazione in senso 'depenalizzante' sia dell'art. 98 del Codice Penale, sia dell'istituto del perdono giudiziale.

Tra le formule definitorie del procedimento penale minorile, l'incapacità di intendere e di volere è quella che ha registrato, nel tempo, il massimo tasso di oscillazione (121).

La nozione di capacità di intendere e di volere richiesta dall'art. 98 C.P. per l'imputabilità del minore non è la stessa richiesta dall'art. 85 C.P. per l'imputabilità dell'adulto, malgrado il Codice usi l'identica espressione.

La capacità di intendere e di volere di cui all'art. 98 è anche qualcosa di più e di diverso dalla mancanza di infermità mentale o altre croniche situazioni di incapacità (122). Il minore tra 14 e 18 anni, anche se non presenta nessuna menomazione patologica della sfera intellettiva e volitiva, secondo il legislatore può non avere avuto la capacità di comprendere la portata della sua azione e di averla voluta.

Nella Relazione al vigente Codice Penale, in considerazione della specificità della condizione adolescenziale, venne evidenziato come non sia sufficiente lo sviluppo dell'intelligenza in quanto "occorre soprattutto che sia compiuto o almeno progredito il processo di formazione etica dell'individuo" e "che la persona abbia raggiunto un'età nella quale è in grado non solo di intendere ciò che fa, ma altresì di valutare adeguatamente i motivi della volontà, il carattere morale (se non ancora quello giuridico) e le conseguenze dei fatti".

La capacità di intendere e di volere per gli infradiciottenni viene a sussistere nei confronti del ragazzo sano di mente, psicologicamente equilibrato, che ha acquistato un complesso di valori idonei a determinare socialmente il suo comportamento, sa interiorizzare e far proprio il senso di un ordine o di un divieto, è capace di autocontrollo in relazione ad una determinata situazione come se fosse già diciottenne (123).

Nel corso degli anni gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza si sono modificati fino a giungere alla definizione del concetto di 'maturità' in sostituzione di quello statico di 'imputabilità'. Il termine 'immaturità', infatti non compare nelle disposizioni legislative e risulta prodotto dell'elaborazione giurisprudenziale.

Nella sentenza del 15 marzo 1976 la Corte di Cassazione sostenne che "il giudice, nel compiere l'esame previsto dall'art. 98 c.p. per stabilire l'imputabilità o meno dell'imputato minore tra 14 e 18 anni, deve procedere ad una valutazione complessiva della personalità di questo ed indicare i motivi prevalenti che lo convincano dell'esistenza della mancanza in lui della capacità di intendere e di quella di volere, non procedendo ad una arbitraria ed artificiosa distinzione" (124).

In seguito, tuttavia, con una sentenza del 1979, la Corte affermò che per l'accertamento della capacità di intendere e di volere fosse necessario fare riferimento allo specifico reato commesso perché "per taluni delitti è sufficiente un grado di maturità minore di quello occorrente per altre condotte penalmente sanzionate, la cui contrarietà alle fondamentali esigenze della vita di relazione è meno appariscente e richiede perciò un grado di consapevolezza più evoluto" (125).

La sentenza 19 gennaio 1982 inoltre, precisò che l'accertamento della capacità del minore costituisce un "giudizio psicologico nel quale va tenuto conto non solo dello sviluppo intellettuale, ma anche di quello morale, che è necessariamente connesso con le condizioni di vita familiare e sociale del soggetto" (126).

Su che cosa si debba intendere per maturità la giurisprudenza è ricchissima e relativamente concorde. Salvo poche sentenze dove al concetto di maturità viene data una interpretazione restrittiva, la maggior parte della giurisprudenza è andata identificando, in modo omogeneo e piuttosto ampio, varie definizioni e molti indici includendovi, tra gli altri: armonico sviluppo della personalità, sviluppo intellettivo adeguato all'età, capacità di valutare adeguatamente motivi e gli stimoli a delinquere, comprensione del valore morale della propria condotta, capacità di soppesare la conseguenze dannose del proprio operato, comprensione di certi valori etici e così via.

Nella elaborazione dottrinale del concetto di maturità il contributo della letteratura scientifica (giuridica, medico-legale, psicologica, psicopedagogica) è molto vasto e, in parte, sovrapponibile a quello dell'elaborazione giurisprudenziale. Orientamenti più restrittivi cercano di ancorare il giudizio a criteri che si avvicinano a quelli della patologia quali le lievi insufficienze o i ritardi dello sviluppo intellettivo. Nel tempo si è sviluppata una nozione più ampia di maturità, per la determinazione della quale si è fatto riferimento a criteri più sfumati, meno definiti, quali l'immaturità affettiva, l'immaturità emotiva, le inibizioni o le conflittualità di origine affettiva, le pseudo insufficienze mentali. Sempre più amplificando il concetto, vengono fatte rientrare nell'immaturità le ipoevoluzioni globali della personalità, l'immaturità del sentimento sociale, ecc. Si utilizzano poi sempre più i contributi della psicologia evolutiva, le tematiche adolescenziali, le dinamiche conflittuali intrafamiliari; il giudizio va sempre più inglobando il piano sociale (127). Più di recente si è affermata una concezione ancora più estensiva di immaturità, che corrisponde ad una situazione di disagio e di privazione sociale che trova la proprie cause nelle situazioni di disgregazione familiare, nelle disagiate condizioni economiche, nella disoccupazione o nella immigrazione (128).

Questa dilatazione del concetto di immaturità non è stata recepita e utilizzata da tutti gli operatori del settore, ma è interessante osservare come in tempi più vicini alla sua definizione, la dichiarazione di immaturità era effettuata secondo criteri più restrittivi. Il processo di amplificazione del concetto e, conseguentemente, la sua più ampia applicazione si è andata manifestando in maniera disomogenea a seconda dei differenti orientamenti delle singole sedi di Tribunale (129).

È vero, infatti, che la possibilità di valutare l'immaturità in modo così diverso è una diretta conseguenza dei parametri stessi con i quali si è tentato di definirla; tuttavia sono soprattutto le scelte di politica giudiziaria a pesare su questa diversità di applicazione.

Esse emersero nel dibattito tra chi voleva addirittura abolire la categoria della non imputabilità dei minori, salvo casi del tutto eccezionali previsti in maniera sufficientemente precisa (130), chi invece lamentava che non fosse stata approfondita la portata dell'art. 98 C.P. in una sua rinnovata lettura e si continuasse a condannare in situazioni di disadattamento, (131) chi propose l'estensione dell'immaturità come strumento di chiusura dei casi (diverso dal più ambiguo perdono giudiziale) consentendo di fatto un'ampia depenalizzazione (132).

Il condividere l'una o l'altra di queste impostazioni comportava conseguenze del tutto diverse dal punto di vista della prassi giudiziaria con decisioni sull'imputabilità del minore che potevano essere diametralmente opposte da giudice a giudice (133). Il proscioglimento per immaturità è stato, infatti, lo strumento del quale si sono serviti i giudici minorili per l'attuazione di determinati fini di politica criminale, in particolare nel senso della sostanziale depenalizzazione e dell'uso residuale della pena detentiva (134).

Questa considerazione è confermata da uno studio di Lanza (135) secondo il quale, per l'anno 1979, su 23601 minori giudicati in camera di consiglio e in dibattimento, emerge il seguente prospetto di applicazione dell'art. 98 c.p., ordinato secondo valori decrescenti, in percentuale sul totale dei minori giudicati:

Milano21,714%
Brescia17,289%
Torino13,582%
Genova12,068%
Venezia3,351%
Napoli1,965%

Dalla constatazione di tali oscillazioni si deduce la funzione depenalizzate di tale istituto laddove è stato maggiormente applicato, mentre il suo uso minimale si è ispirato ad un principio di esemplarità in contrapposizione alla funzione indulgenziale.

Va riconosciuto, perciò, come il concetto di incapacità di intendere e di volere ha evitato la pena detentiva a molti minori, risparmiando loro il contatto, spesso controproducente, con le istituzioni carcerarie. Tuttavia è giusto ricordare come in tal modo si siano dilatate notevolmente ingiustizie e discriminazioni (136).

Anche in merito all'applicazione dell'istituto del perdono giudiziale (137) le differenze interpretative dei magistrati minorili appaiono assai ampie essendo legate alle diverse concezioni di politica criminale e degli interventi della Corte Costituzionale (138) e delle interpretazioni estensive dei giudici di merito (139).

Dal citato studio di Lanza, per l'anno 1979 sugli stessi 23601 minori giudicati risulta il seguente prospetto di applicazione con valori decrescenti (140):

Brescia38,672%
Venezia31,499%
Napoli36,861%
Torino28,728%
Genova8,114%
Milano1,122%

Il raffronto immediato tra la posizione di Brescia e quella di Milano (rapporto 38 a 1) evidenzia una divaricazione applicativa che conferma la tesi secondo la quale sia l'istituto del perdono giudiziale che quello previsto dall'art. 98 c.p., siano istituti ai quali non può essere attribuita una rilevanza scientifica, ma siano stati utilizzati dai magistrati minorili per conseguire una vera e propria depenalizzazione di fatto.

1.7. La scelta della de-carcerizzazione

Tra la metà degli anni settanta e la metà degli anni ottanta, i dati sull'andamento della criminalità minorile, in Italia, evidenziarono una flessione sia del numero di minori detenuti in carcere, sia di quelli denunciati. Ovviamente si tratta dei dati ufficiali sul fenomeno, che, come è noto, non sono un indice attendibile delle dimensioni reali dello stesso. Essi rappresentano, invece, le coordinate della risposte sociali alla devianza minorile ed è proprio ciò che, in questa sede, è importante documentare.

Soprattutto per le detenzioni, i dati dimostrano che la flessione più chiara e marcata si ebbe dopo il 1975, anno in cui la criminalizzazione dei minori raggiunse le sue punte massime. Da una elaborazione Censis su dati Istat, risulta che, in quell'anno, i minori entrati in carcere in attesa di giudizio furono, in Italia, 9046, passarono a 8635 nel '76, a 7946 nel '77, poi a 7765 nel '78 e a 6927 nel '79 e questa tendenza proseguì negli anni successivi. Nello stesso decennio, il numero dei minori detenuti in carcere diminuì del 36% e una flessione registrò anche il numero dei minori denunciati per delitto, nei confronti dei quali era stato avviato un procedimento penale. Essi passarono dalle 23954 unità del 1975, alle 20126 del 1985, con una diminuzione del 16%. Un dato controcorrente fu rappresentato, invece dalle condanne: nel 1976 i minori condannati rappresentarono il 16% dei minori giudicati, divennero il 24% nel 1983 e nel 1985 furono pari al 19,5%.

In realtà, la situazione complessiva circa la trasgressione giovanile e le relative risposte di controllo, si presentava articolata in modo differenziato sul piano regionale. Dall'esame dei dati relativi a denunce, condanne e detenzioni sono rilevabili alcune diversità; in particolare, le regioni meridionali registrarono, in questi anni, una percentuale più alta sia di condannati (69% del Sud contro il 31% del Cento-Nord), sia di detenuti (58% del Sud contro il 42% del Centro Nord) ed una percentuale lievemente più bassa di denunciati (46% contro 54%).

Il numero dei minori entrati in carcere, fu comunque, in diminuzione durante questo decennio: i minori presenti in istituto passarono da 819 nel 1980 a 593 nel 1985, con un decremento del 27%.

Queste cifre (141), e se ne potrebbero citare molte ancora, sono significative di un cambiamento che si verificò nella politica di intervento penale, ed indicano una situazione nuova, di inversione di tendenza in senso de-criminalizzante.

In Italia, in questi anni, l'area dei comportamenti e dei soggetti che rientravano nelle categorie della giustizia minorile e, soprattutto, della delinquenza minorile, non solo smise di aumentare, ma iniziò visibilmente a ridursi.

In questo quadro il dato 'anomalo' della tendenza all'aumento delle condanne introduce un elemento di contraddizione, ma tutto sommato ciò che appare è l'immagine di una giustizia minorile orientata verso una sostanziale depenalizzazione, seppure entro definiti limiti.

I termini reali ed i motivi di questo cambiamento furono molti; negli stessi anni il numero oscuro della criminalità minorile non subì alcun calo ed è evidente, quindi, che il significato di questa inversione di tendenza va letto sia in chiave di politica criminale (ma nello stesso periodo le carceri per adulti erano sovraffollate) e di controllo dei minori, sia tenendo conto di altri fattori.

Il Tribunale per i minorenni, in questo periodo, non rappresentò più un'istituzione in espansione, la popolazione nelle carceri minorili si ridusse, l'opinione pubblica fu sempre meno attenta a questi problemi e nella scala delle questioni allarmanti la delinquenza minorile in quanto tale scese di vari gradini ed assieme ad essa scese anche il prestigio sociale degli operatori impegnati in questo settore.

1.7.1. La delegittimazione della giustizia minorile e il dibattito poco prima della riforma carceraria

Nel tentativo di spiegare l'attenuazione delle risposte sociali alla delinquenza giovanile, De Leo e Cuomo, hanno esaminato l'importanza che alcuni fattori avrebbero esercitato sul processo di decarcerizzazione (142). Allargando la loro indagine sulla criminalità minorile anche al rapporto tra politica criminale, politica di controllo sociale e le altre politiche sociali rivolte ai giovani, i due autori hanno sostenuto che un primo importante aspetto da considerare fosse quello della perdita di legittimazione della giustizia minorile. Per tutti gli anni settanta, la giustizia minorile e la delinquenza minorile avevano subito una crescente e profonda crisi di credibilità e di legittimazione, non solo a livello di studiosi e operatori ma, anche tra i politici, i giornalisti, e, in generale nell'opinione pubblica. L'immagine della giustizia minorile si era definita sempre di più sull'istituzionalizzazione e la criminalizzazione, mentre la 'rieducazione' aveva mostrato con crescente evidenza il suo significato di obiettivo ideologico, a cui facevano riscontro esiti pratici in senso opposto. Il risultato fu un progressivo indebolimento della giustizia minorile rispetto a qualsiasi tipo di finalizzazione, tanto che non era difficile cogliere una qualche linea chiara di politica criminale, in cui reali politiche di controllo sociale erano sempre confuse e mascherate. Del resto, anche le aspettative sociali erano più ridotte e meno convinte e sempre meno numerosi erano quelli che ancora credevano che questa istituzione potesse produrre delle funzioni utili in qualsiasi direzione.

Quando la perdita di credibilità e di legittimazione della giustizia minorile era già diffusa, si manifestarono altre due questioni relative alla politica criminale ed al controllo sociale, che sicuramente ebbero la loro influenza sul processo di de-criminalizzazione: il terrorismo e la tossicodipendenza.

Senza soffermarsi troppo su queste complesse problematiche, si può, in generale, affermare, che i tassi di criminalizzazione dipendono in larga parte dalla quantità di attenzione attiva che le agenzie di controllo sociale investono in una certa direzione. Il fatto che dalla metà degli anni settanta la maggior parte delle energie delle forze dell'ordine e della magistratura si fossero concentrate sul terrorismo, sortì l'effetto di spostare l'attenzione su questo problema, innalzando, nello stesso tempo, la soglia dei processi di criminalizzazione.

Secondo la tesi sostenuta da De Leo e Cuomo, la tossicodipendenza produsse uno spostamento dell'elaborazione sociale delle devianze giovanili dalla criminalizzazione verso altre, più complesse e moderne forme di controllo. Si trattò di uno spostamento orizzontale che comportò un allargamento enorme dell'area dei comportamenti e dei soggetti interessati dalle nuove forme di intervento istituzionale (143).

Entrambi questi fattori ridimensionarono la rilevanza sociale della delinquenza minorile e legittimarono, in qualche modo, l'idea che si potesse procedere verso orientamenti de-penalizzanti, in considerazione del fatto che nella coscienza sociale, ma anche tra gli operatori, emerse la consapevolezza di non essere di fronte ad un problema così grave, che poteva, quindi essere affrontato con strumenti diversi rispetto a quello penale.

Un'altro aspetto di carattere più generale riguardò la portata e il significato della condizione adolescenziale. Nel convegno di Trento-Merano del 1987 (144), venne messo in evidenza come l'allungarsi dello stato adolescenziale, a causa di numerosi fattori sociali, culturali ed economici, avesse dei riflessi anche nel settore delinquenziale. Scatolero, nel suo intervento dal significativo titolo "Il carcere negato. Considerazioni sulla decarcerazione in ambito minorile", sostenne che il diciottesimo anno di età non costituisce più limite reale per il passaggio allo stato adulto tanto che il picco statistico della criminalità minorile doveva esser collocato tra i 18 e i 20 anni e non più tra i 16 e i 20, come si riteneva tradizionalmente. In abito penitenziario si riscontrava, infatti che alla diminuzione delle carcerazioni minorili, corrispondeva un aumento di quella degli ultradiciottenni.

In generale il convegno dell''87 (145) e i tre incontri svolti a Torino nel giugno 1988, costituiscono una testimonianza di quella che fu la discussione fra i giudici minorili, tra gli operatori e tra i criminologi sul significato e il modo di essere delle istituzioni chiuse destinate ai minori.

Dal dibattito emersero, nelle sostanza, due posizioni. La prima, prevalente fino a qualche anno prima, che si preoccupava di cambiare le istituzioni proponendo dei modelli nuovi; si trattò, soprattutto della proposizione di molteplici esperienze tenute in diversi carceri minorili.

Apparve dominante, però, una diversa linea di riflessione che, negando radicalmente ogni reale possibilità in istituzioni chiuse e coattive, aveva come esito il loro rifiuto. Tale posizione rappresentò l'esito di una linea di de-istituzionalizzazione ormai di lunga durata che nel tempo aveva maturato l'idea dell'inefficacia delle soluzioni segregative. Da questa maturazione di pensiero era derivata la scelta compiuta da molti giudici minorili di mandare meno, e comunque per meno tempo, i minori in carcere. Lo strumento principale fu la dilatazione estrema delle soluzioni indulgenziali, per cui la sanzione, conseguenza della violazione del precetto penale, veniva solo minacciata con il processo, ma non attuata. Già da molti anni la pena, per la assoluta maggioranza dei minori che commettevano reati non era il carcere, ma la minaccia del carcere stesso; in sostanza la pena era rappresentata dal processo.

Questo movimento di de-carcerizzazione, riguardò, in parte anche gli adulti, anche se esso fu sicuramente più attuato nel penale minorile, che aveva a disposizione più strumenti indulgenziali tipici, suscettibili di larga e discrezionale utilizzazione. In particolare essa fu resa possibile da una più larga applicazione del perdono giudiziale; più spesso si ricorse al proscioglimento per non imputabilità basato su acquisizioni che derivavano dall'ingresso nella cultura giudiziaria delle scienze umane. Si passò da una concezione sanitaria della non imputabilità ad una concezione psicologica e, soprattutto, ad una concezione sociale (146).

Nei vari contributi che furono raccolti durante i dibattiti apparve poco approfondito il tema della necessità della riforma del carcere minorile, poiché prevalsero posizioni di diniego alla istituzionalizzazione minorile espresse in termini radicali. Venne addirittura criticato ogni impegno riformatore del carcere, sostenendo che con ciò si rischiava di riproporre ideologie consolatorie, mentre gli istituti rimanevano in piedi con la loro fissità a riprodurre devianza e disagio.

1.7.2. La decarcerizzazione e le teorie 'abolizionistiche'

Con decarcerazione si intendere quella politica volta a proporre strategie di controllo sociale al di fuori di pratiche di sequestro all'interno delle istituzioni totali.

Da ciò che abbiamo detto, appare chiaro come la cultura della giustizia minorile, abbia sempre rappresentato il settore di diffusione non solo di politiche decarcerizzanti, ma anche delle teorie c.d.' abolizionistiche' (147). Esse, diffusesi in Italia soprattutto attraverso la rivista "Dei delitti e delle pene" sostennero, con forza, l'assoluta inutilità del sistema di contenimento e di punizione di tipo penale. La giustizia non risultava applicata in modo uguale nei confronti di tutti e ciò comportava la produzione di situazioni di ulteriore disuguaglianza, di disgregazione sociale e di emarginazione; da cui la necessità di abbattere il sistema penale. Gli abolizionisti proposero l'uso di mezzi disciplinari di tipo assistenziale, in alternativa alle risposte di tipo penale, ritenendo, comunque che fosse, anche in questo caso, necessario limitare l'intervento a quelle condotte assolutamente necessarie di essere controllate.

Le posizioni più radicali delle istanze di de-carcerizzazione, tese a negare comunque e sempre l'opportunità di operare attraverso l'internamento, poterono trovare soddisfazione anche all'interno di più vasti progetti abolizionisti.

Le posizioni più moderate, invece, che intesero la risposta segregativa come ultima ratio, mantennero una portata più limitata, di opposizione alla scelta custodiale.

La politica di de-carcerizzazione si presentò, però, più ambigua e di difficile decodificazione rispetto a quella tesa alla totale abolizione del carcere. Nel settore della giustizia minorile, tale politica portò a sostenere l'assoluta e, quindi definitiva, chiusura di tutte le diverse istituzioni. La tendenza anti-istituzionale derivò, come si è visto, dalla critica dell'inidoneità della scelta custodiale nei confronti di un progetto che voleva ispirarsi a ragioni di recupero sociale. Alcune volte, infatti, ci si limitò ad indicare, dove possibile, ogni altra misura o pena alternativa alla privazione della libertà, convinti che le pratiche meramente custodiali dovessero riservarsi ai casi nei quali non era possibile fare diversamente.

Fu anche possibile invocare le posizioni di una più intransigente avversione ad ogni pratica segregativa, per ragioni strumentali, in quanto considerazioni economiche e fiscali consigliavano di chiudere con una pratica così 'costosa'; infine si chiese la liquidazione delle istituzioni chiuse come momento intermedio di una strategia di tipo abolizionista.

Note

1. Si veda a questo proposito: L. Maggiore, Diritto penale, vol. I, tomo 2, Zanichelli, Bologna 1951, pp. 675 e ss.; M. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè, Milano 1974; F. Mantovani, Diritto penale, parte generale, Cedam, Padova 1980, pp. 662 e ss.

2. G. L. Ponti, Compendio di criminologia, Cortina, Milano 1980, p.108.

3. L. Milani, Devianza minorile. Interazione tra giustizia e problematiche educative, cit., p. 47.

4. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Feltrinelli, Milano 1993.

5. G. De Leo (a cura di), L'interazione deviante. Per un orientamento psicologico al problema norma-devianza e criminologia, Giuffrè, Milano 1981, p.10.

6. T. Pitch, La devianza, La Nuova Italia, Firenze 1975, p.22.

7. G. De Leo, La giustizia dei minori, Einaudi, Torino 1981, p. 4.

8. Sulla nascita e lo sviluppo della cultura sull'infanzia vedi L. De Mause, (a cura di), Evoluzione dell'infanzia, Storia dell'infanzia, Emme Edizioni, Milano 1983 e P. Aries, Padri e figli nell'Europa medievale e moderna, Laterza, Bari 1981.

9. L. Milani, Devianza minorile. Interazione tra giustizia e problematiche educative, cit., p. 143.

10. Ivi, p. 144.

11. V. Nuti, Discoli e derelitti. L'infanzia povera dopo l'unità, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 121.

12. Si veda J. P. Guitton, La società e i poveri, Mondadori, Milano 1977.

13. Cfr. A.M. Platt, L'invenzione della delinquenza, Guaraldi, Firenze 1975.

14. B. Ballarate, L'adolescenza nella storia, in AA. VV., La condizione giovanile, Cooperativa centro di documentazione, Pistoia 1939, p. 124.

15. V. Nuti, Discoli e derelitti. L'infanzia povera dopo l'unità, cit., p.99.

16. Ivi, p.100.

17. Cfr. D. Izzo, Da Filippo Franci alla riforma Doria, in Rassegna di studi penitenziari, Tipografia delle Mantellate, Roma maggio-giugno 1956, pp. 292 e ss.

18. V. Nuti, Discoli e derelitti. L'infanzia povera dopo l'unità, cit., p.121.

19. Il testo integrale del Motu Proprio è riportato in Rivista di diritto penitenziario, 1934, p.786, nota I.

20. Cfr. V. Paglia, La pietà dei carcerati. Confraternite e società a Roma nei secoli XVI-XVIII, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1980, p. 38.

21. Cfr. G. De Leo, La giustizia dei minori, La delinquenza minorile e le sue istituzioni, Einaudi, Torino 1981.

22. Una legislazione così avanzata e progressista rappresentò, senza dubbio, un'eccezione se si pensa che, ancora nel 1833, la Corte Centrale Criminale di Londra condannò un minore di nove anni ad essere "appeso al collo fino alla morte" perché con un bastone aveva rotto una vetrina.

23. Cfr. D. Izzo, Da Filippo Franci alla riforma Doria, cit., pp. 300 e ss.

24. S. Poggi, Introduzione al positivismo, Laterza, Bari 1987.

25. M. Di Cara, Riforma penitenziaria e intervento sociale, NIS, Roma 1990.

26. R. Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell'antropologia criminale, F. Angeli, Milano 1985, p.38.

27. Cfr. L. Milani, Devianza minorile. Interazione tra giustizia e problematiche educative, cit., p. 59.

28. G. De Leo, (a cura di), L'interazione deviante. Per un orientamento psicologico al problema norma-devianza e criminalità, cit. p. 4.

29. M. Beltrani-Scalia, La riforma penitenziaria in Italia, cit., pp. 328 e ss.

30. Questo movimento per la salvezza e l'educazione dei minori in condizioni di disagio, è stato oggetto di numerose critiche da parte di Antony Platt, cfr. A. Platt, L'invenzione della delinquenza, cit.

31. L. Milani, Devianza minorile. Interazione tra giustizia e problematiche educative, cit., p. 154.

32. Cfr. J. Wright, R. James, Trattamento e prevenzione della devianza minorile. Un approccio comportamentale, Giuffrè, Milano 1982, pp. 78 e ss.

33. F. Dalmazzo, La tutela sociale dei fanciulli abbandonati o traviati, F.lli Bocca, Milano-Torino-Roma 1910, pp. 97-101.

34. Codice penale per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna colle modificazioni portate de sei R.D. per adattarlo al Regno d'Italia e coll'aggiunta della Legge e Regolamento sulla pubblica sicurezza, Stamperia Reale, Paravia, Torino 1871.

35. Beltrani-Scalia fece a suo tempo notare che gli stabilimenti pubblici di lavoro non furono mai realizzate che, accanto alle Case di custodia, furono creati, per i casi meno gravi, gli "Istituti pii di ricovero forzato o Riformatori"; cfr. M. Beltrani-Scalia, La riforma penitenziaria in Italia, Giunti-Martello, op. cit., pp. 328-329.

36. Codice Civile del Regno d'Italia, Marzorati, Torino 1865.

37. Il Codice sardo del 1859 fu via via esteso alle nuove province annesse, ma non alla Toscana in cui restò in vigore il Codice penale toscano del 20 giugno 1853, modificato con successivi decreti, in particolare quello del 20 aprile 1859 del Governo provvisorio della Toscana che aboliva la pena di morte e mitigava le pene; Codice penale per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna colle modificazioni portate da sei R. D. per adattarlo al Regno d'Italia e coll'aggiunta della Legge e Regolamento sulla pubblica sicurezza, Stamperia Reale, Paravia, Torino, 1871; cfr. anche G. Vassalli, voce 'Codice penale', in Enciclopedia del diritto, vol. VII, Giuffrè, Varese 1960, p. 263.

38. L. Milani, Devianza minorile. Interazione tra giustizia e problematiche educative, cit., p.156.

39. Il Codice toscano prevedeva però l'assoluta non imputabilità per i fanciulli minori di 12 anni: "Art. 36. Le loro azioni contrarie alla legge penale appartengono alla disciplina domestica, e, nei casi più gravi, richiamano le autorità di polizia amministrativa a prendere un provvedimento adatto alle circostanze"; Codice penale toscano, Cammelli, Firenze 1875.

40. Codice penale del Regno d'Italia, Barbera, Firenze 1890.

41. Cfr. M. Pisani, Il Tribunale per i minorenni in Italia. Genesi e sviluppi normativi, in L'indice penale, 1972, p. 231.

42. Legge sulla pubblica sicurezza del 30 giugno 1889, Regi Decreti 8 novembre 1889, 19 novembre 1889, 12 gennaio 1890, ed. Pietrocola, Napoli 1908.

43. Dal 1862 era, però, in vigore un comune regolamento per le Case di custodia penali, come erano chiamati gli istituti di correzione governativi, a cui dovevano, in una certa misura, adeguarsi anche gli istituti privati; cfr. V. Nuti, Discoli e derelitti. L'infanzia povera dopo l'Unità, cit., pp. 147 e ss.

44. L. Milani, Devianza minorile. Interazione tra giustizia e problematiche educative, cit., p.157.

45. Cfr. G. De Leo, La giustizia dei minori. La delinquenza minorile e le sue istituzioni, cit., pp. 42- 45.

46. Cfr. O. Quarta, L'incremento e il trattamento della delinquenza dei minorenni, in La scuola positiva, 1908, pp. 5-7.

47. Dal testo della circolare Orlando, in Rivista di diritto penitenziario, 1934, p. 802.

48. Ivi, p.803.

49. M. Pisani, Il Tribunale per i minorenni in Italia, cit., p. 124.

50. Cfr. I. Baviera, Diritto minorile, cit., pp. 173 -176.

51. L. Milani, Devianza minorile, cit., p. 100. A questo proposito si veda anche la posizione critica di Meucci nei confronti delle motivazioni che accompagnarono la costituzione del giudice dei minori, G.P. Meucci, Il ruolo del giudice dei minori, in Atti del Congresso internazionale, CISF, Milano 1977.

52. Cfr. V. Nuti, Discoli e derelitti. L'infanzia povera dopo l'Unità, cit., pp. 132-138.

53. Relazione al Progetto Ferri, in Rivista di diritto penitenziario, 1934, p.808; cfr., anche, G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 50, dove l'autore sostiene che che sia da attribuire al Progetto ferri la nascita della categoria giuridico-penale della pericolosità sociale.

54. Vedi supra.

55. Lo spostamento del limite di età, si fondò su una scelta inevitabilmente arbitraria, che diede luogo a vivaci dibattiti in seno alla sottocommissione incaricata di esaminare il testo degli articoli relativi all'imputabilità. Cfr. Relazione ai lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale. Atti della commissione parlamentare, vol. VI, p.151.

56. La liberazione condizionale, già prevista dal codice Zanardelli, ha rappresentato la prima misura individuata per consentire l'uscita dal carcere prima della scadenza della pena. Nelle intenzioni del legislatore del 1889 era considerata quale strumento utile alla gestione degli stabilimenti penitenziari, specie sotto il profilo disciplinare. Cfr. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, Milano 1997.

57. Per gli adulti il beneficio è condizionato dalla quantità di pena espiata, mentre per i minori l'istituto è applicabile in qualsiasi momento dell'esecuzione, secondo quanto è stata successivamente disposto dall'art. 21 del D.L. 20 luglio 1934, n. 1404, istitutivo del Tribunale per i minorenni.

58. Poi modificato dall'articolo 19 R.D.L. n. 1404 del 1934.

59. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 841.

60. I. Mastropasqua, I minori e la giustizia. Operatori e servizi dell'area penale, Liguori Editore, Napoli 1997, p.65.

61. L. Milani, Devianza minorile. Interazione tra giustizia e problematiche educative, cit., p.162; per il profilo storico del Tribunale per i minorenni si veda I. Baviera, Diritto minorile, cit., vol. I; C.A. Moro, voce, "Tribunale per i minorenni", in Enciclopedia del diritto, 1976, p. 570.

62. Non era ancora prevista, invece, la presenza dello psicologo.

63. Watson fece notare che nel tribunale per i minorenni era importante che almeno uno dei giudici fosse una donna, per osservare le analogie col fatto che sono necessari entrambi i genitori di ambo i sessi per crescere un figlio; cfr. J. Watson, Il fanciullo e il magistrato, Garzanti, Milano 1950, p. 20.

64. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p.57.

65. Le Case di rieducazione passarono dal Ministero di Grazia e Giustizia ai Comuni con l'emanazione del D.P.R. 616 del 1977.

66. Anche i "Focolari" ed i Pensionati giovanili, come le Case di rieducazione, passarono ai Comuni con l'emanazione del D.P.R. 616 del 1977.

67. Anche tali servizi sono stati ridimensionati con il passaggio delle competenze amministrative e civili agli Enti Locali.

68. G. De Leo, M.P. Cuomo, La delinquenza minorile come rappresentazione sociale. Ipotesi interpretative e di ricerca, Marsilio, Napoli 1986, p.64.

69. Ivi, p. 65.

70. La rivista 'Esperienze di rieducazione", a cura della Scuola per la formazione del personale per la rieducazione dei minorenni di Roma, fu il luogo privilegiato di tale dibattito. Molto significativo fu, anche, il convegno sulla delinquenza minorile, organizzato a Roma nel Dicembre 1950 dal Ministero di Grazia e Giustizia, dall'AAI e dall'ONU, le cui relazioni sono raccolte in AA.VV., Ciclo di studi comparati sulla delinquenza minorile, Tipografia delle Mantellate, Roma 1952.

71. Il riconoscimento definitivo degli uffici di sevizio sociale si ebbe, però, soltanto con la legge n. 1085 del 16 luglio 1962, che ne disciplinò l'ordinamento ed istituì i relativi ruoli del personale sia direttivo che di concetto.

72. Per le caratteristiche degli istituti che fanno parte del 'nuovo' Centro di rieducazione, a seguito dei due provvedimenti di riforma, vedi A.C. Moro, Centro di rieducazione dei Minorenni, in Enciclopedia del diritto, vol. XXVI, Giuffrè, Milano 1976, pp. 558-567.

73. Tali indagini, con la riforma, passarono dalla competenza del P.M., a quella di una componente specialistica del Tribunale per i minorenni.

74. Cfr. Circolare 7 febbraio 1957 n. 721/3196.

75. L. Milani, Devianza minorile, Interazione tra giustizia e problematiche educative, cit., p.182; cfr, anche, T. Pitch, Responsabilità limitate, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 122-123.

76. G. De Leo, M.P. Cuomo, La delinquenza minorile come rappresentazione sociale, cit., p. 67-68.

77. La crisi del modello rieducativo è ben fotografata da Senzani che, con una serie di lunghe interviste ai ragazzi istituzionalizzati, ma anche ai giudici e ai vari operatori dei 118 istituti minorili esistenti, denuncia, coraggiosamente, l'effetto delinquenziale e stigmatizzante di tale situazione rieducativa; cfr. G. Senzani, L'esclusione anticipata. Rapporto da 118 case di rieducazione per minorenni, Jaca book, Milano 1974.

78. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., pp. 9 e ss.

79. Si veda a proposito la sintesi del "fallimento della rieducazione in Italia" che ne fanno Bandini e Gatti, in La delinquenza giovanile, Giuffrè, Milano 1979.

80. Cfr. G. De Leo, cit., pp. 63 e ss.

81. A proposito di questa posizione De Leo sostenne che si sarebbe trattato di una critica parziale e ciò sarebbe risultato dalle conseguenze e dalle richieste che essa avrebbe prodotto, limitandosi queste ultime a consistere in "più tecnici e meno militari nelle istituzioni della giustizia" oppure "eliminazione dei militari da quelle istituzioni" o anche "smilitarizzazione professionale degli agenti di custodia". Sempre secondo l'autore, soprattutto queste due ultime proposte avrebbero avuto certamente un contenuto di riforma, tuttavia non sarebbero riuscite, di per sé, a modificare la funzione istituzionale di base, soprattutto non sarebbero riuscite a far esprimere a queste strutture la funzione rieducativa e risocializzante imposta dalla legislazione in materia; G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 65.

82. Ivi, p. 67.

83. Questa la denuncia delle disfunzionalità del sistema rieducativo nelle parole di G. Barbarito, Il processo penale nei confronti del minore e il coordinamento con gli altri interventi, in Esperienze di rieducazione, 2, 1974, pp. 24-25.

84. Questa legge, oltre a costituire un passaggio fondamentale di civiltà per i bambini abbandonati che potevano finalmente aspirare ad una famiglia adottiva, attribuì ai giudici minorili la competenza ad accertare lo stato di abbandono dei minori ed ad individuare la famiglia adottiva nella quale inserirli come figli legittimi.

85. Cfr. M. Bouchard, (a cura di), Una giustizia minore. Trent'anni di giustizia minorile nell'esperienza di Paolo Vercellone, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1997, pp. 37-38.

86. Cfr. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., pp. 57-60; T. Bandini, U. Gatti, Delinquenza giovanile. Analisi di un processo di stigmatizzazione e di esclusione, Giuffrè, Milano 1987.

87. A. Ceretti, I. Merzagora, Alcune soluzioni straniere di politica penale minorile: tra espansionismo e minimalismo, in L. Ponti, (a cura di), Giovani, responsabilità e giustizia, Giuffrè, Milano 1983, p. 110.

88. Cfr. E. M. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Giuffrè, Milano 1981. H. S. Becker, Outsiders: Saggi di sociologia della devianza, Gruppo Abele, Torino 1991. D. Chapman, Lo stereotipo del criminale, Einaudi, Torino 1971.

89. H.S. Becker, Outsiders, cit., p. 9.

90. Cfr. Basaglia, L'istituzione negata, Einaudi, Torino 1968; F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro, La maggioranza deviante, Einaudi, Torino 1971.

91. Cfr. E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali, Einaudi, Torino 1968; E. Goffman, Stigma. L'identità negata, cit.

92. Cfr., E. K. Erikson, Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma 1974; N. Mallioux, Delinquenza e ripetizione compulsiva, Vita e pensiero, Milano 1984; Le prospettive di Erikson e di Mailloux, si avvicinano molto a quelle dell'interazionismo simbolico i cui principali esponenti sono E.M. Lemert, H.S. Becker e E. Goffman. Si tratta di prospettive nate all'interno della psicologia sociale i cui contributi hanno avuto un notevole influsso sull'interpretazione sociologica della devianza.

93. Cfr. D. Chapman, Lo stereotipo del criminale, cit.

94. Cfr. M. Dogliotti, E. Giacone, A. Sansa, I diritti del minore e la realtà dell'emarginazione, Zanichelli, Roma 1977, p. 83.

95. Cfr.G. De Leo, M.P. Cuomo, La delinquenza minorile come rappresentazione sociale, cit., p.71.

96. Per il 1979 i dati relativi alla custodia preventiva e alle carceri per adulti sono comprensivi dei minori in esecuzione di pena e in misura di sicurezza. I dati relativi alla Casa di rieducazione non compaiono più in quanto queste istituzioni vennero trasferite agli enti locali.

97. Gli atti di questo importante convegno sono raccolti in Minori in tutto. Un'indagine sul carcere minorile in Italia, a cura di Brutti, Battistacci, Cancrini, Coppola, Franzoni, Meucci, Santanera, Seppilli, Emme Edizioni, Milano 1974.

98. T. Seppilli, Devianza e controllo sociale, in Minori in tutto, cit., p. 13.

99. Tullio Seppilli era, allora, direttore dell'Istituto d'etnologia e antropologia culturale all'Università di Perugia e fu autore del citato intervento dal titolo Devianza e controllo sociale, cit., pp. 13 e ss.

100. Ivi, p.15.

101. Ivi, p. 23.

102. C. Brutti, Mito e realtà del ragazzo deviante, in Minori in tutto, cit., pp; 29-30.

103. Ivi, p.174-175.

104. AA.VV., Per una politica regionale dei servizi sociali a tutela dei minori. Atti del Convegno di Abano, a cura del servizio per l'informazione della Giunta regionale del Veneto, Venezia 1975.

105. Gaetano De Leo ha lavorato per anni come psicologo nelle carceri minorili. Attualmente insegna psicologia giuridica all'Università di Roma "La Sapienza" e Psicologia sociale presso l'Università de L'Aquila e si occupa anche di formazione degli operatori sociali.

106. È stato per anni giudice minorile e presidente dell'Associazione Magistrati Minorili.

107. Secondo una stima dello stesso Terzian, partendo da una base di duecentomila minori istituzionalizzati ogni anno, e tenendo conto del ricambio generazionale ogni cinque anni, in quaranta anni, le istituzioni minorili avrebbero devastato non meno di un milione e mezzo di ragazzi e ragazze, gran parte dei quali sarebbero andati a popolare, in seguito, le istituzioni totali.

108. Tra queste si ricorda la Legge Reale. Per un quadro più esaustivo sulla riforma penitenziaria, si veda: AA.VV., Il carcere dopo le riforme, Feltrinelli, Milano 1979.

109. Il disegno di legge sulla "Protezione dei minorenni. Prevenzione e trattamento della delinquenza minorile" (n. 284, comunicato alla Presidenza del Senato il 28 ottobre 1968), può leggersi in Esperienze di rieducazione, IX-X, 1968, pp. 70 e seg.

110. Si tratta della legge n. 354 del 26 luglio 1975, successivamente modificata dalla c. d. Legge Gozzini del 1986, n.663 e, più recentemente, anche dalla legge n. 165 del 27 maggio 1998 (nota come legge Simeone). Le specifiche disposizioni dell'Ordinamento penitenziario, nella loro attuale configurazione, saranno prese in esame nel terzo capitolo ed è, quindi, a questo che si rimanda.

111. Il Tribunale Minorile di Genova ha sollevato, a proposito, questione di legittimità costituzionale per supposta violazione dell'art. 3 della Costituzione, da parte dell'art. 79 che parifica la condizione penitenziaria dei minori e maggiori d'età. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 125 del 1992 ha dichiarato inammissibile la questione. Il motivo è chiaramente intuibile; in caso di accoglimento, infatti, avrebbe dovuto pronunciare una sentenza additiva o interamente caducatoria della norma, con un vuoto legislativo dannoso per i minori. La Corte ha riconosciuto, però, che la mancata introduzione degli adattamenti e dei correttivi richiesti dalla specificità della condizione minorile non era in armonia con i principi costituzionali. Cfr. Corte Costituzionale 25 marzo 1992 n. 125, in Giurisprudenza Costituzionale, 1992, p.1073.

112. Attualmente, per far fronte agli aspetti della carcerazione dei minori, in attesa della norma apposita, si fa riferimento ad una circolare dell'Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, ad integrazione della norma per gli adulti"; si tratta della Circolare 19 gennaio, 1995, n. 60080.

113. Si tratta de I problemi di intervento a livello locale nel settore minorile aperti dall'applicazione della legge 382, Roma, 16 dicembre 1977.

114. Ivi, pp.1-2.

115. Cfr. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p 103.

116. Cfr. I problemi di intervento a livello locale nel settore minorile aperti dall'applicazione della legge 382, cit., p. 3-4.

117. Ivi, p. 10.

118. Cfr. G. De Leo., La giustizia dei minori, cit., pp.105-106.

119. Ibid.

120. Come risulta dal paragrafo seguente, il 1975 rappresenta l'anno in cui si ebbero le punte massime di carcerazioni minorili.

121. Per un'ampia analisi storica e dogmatica in merito all'applicazione dell'art. 98 si veda il saggio di Dosi che propone il passaggio dal concetto di 'persona' imputabile a quello di 'azione' imputabile, G. Dosi, Azione imputabile e responsabilità minorile, in Esperienze di giustizia minorile, 1985, 1.

122. Infatti la legge le tiene accuratamente distinte; cfr. Cass. 29 ottobre 1981 n.9516, in Cassazione penale 1982, p. 859.

123. Cfr. A. Barsotti, G. Calcagno, C. Losana, P. Vercellone, Sull'imputabilità dei minori tra 14 e 18 anni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1975, pp. 1232 e ss.

124. In Cassazione penale, 1978, p. 37.

125. Cassazione, Sez. I, 24 gennaio 1979, Orsini, in Cassazione penale, 1980, p.1547.

126. Cfr. Cassazione, Sez. I, 19 Gennaio 1982, Mariggio, in Giustizia penale, 1983, II, p. 369.

127. G.L. Ponti, P. Gallina Fiorentini, Responsabilità e imputabilità dei minori, in G. Ponti (a cura di), in Giovani, responsabilità e giustizia, Giuffrè, Milano 1985.

128. Cfr. P. Pazé, L'imputabilità minorile, in G. Barbarito (a cura di), Risposte giudiziarie alla criminalità minorile, in Quaderni dell'Associazione Italiana dei giudici per i minori, Unicopli, Milano 1982.

129. Cfr. T. Bandini, U. Gatti, Delinquenza giovanile, cit.

130. G. De Leo, Devianza, personalità e risposta sociale: una proposta di riconcettualizzazione, Padova - Roma 1981, (ciclostilato); cfr., anche G. De Leo, La giustizia dei minori, cit.

131. G.P. Meucci, Usi e abusi delle categorie psicologiche nella valutazione dei comportamenti devianti nell'adolescenza, Roma 1981, (ciclostilato).

132. G Battistacci, Relazione al Seminario su Nuove prospettive psicologiche, sociali e giuridiche sulla devianza minorile, Roma 1981, (ciclostilato).

133. T. Bandini, U. Gatti, Delinquenza giovanile, cit.

134. G Scardaccione, Nuove alternative alla pena detentiva per il minore, in M. Cuomo, G. La Greca, L. Viggiani (a cura di), Giudici psicologi e riforma penale minorile, Giuffrè, Milano 1990, p.48.

135. L. Lanza, La risposta giudiziaria dei Tribunali per i minorenni alla devianza penale minorile, in G. Barbarito (a cura di), Risposte giudiziarie alla criminalità minorile, cit.

136. Contro l'estensione dell'area della non imputabilità con effetti sostanziali di depenalizzazione si veda P.C. Pazé, L'imputabilità minorile, cit., pp.81 e ss.

137. Per l'istituto del perdono giudiziale, si veda supra.

138. Corte Cost. 5 luglio 1973 n. 108 sull'estensibilità del perdono giudiziale ad altri reati legati con vincolo della continuazione a quelli per i quali è già stato concesso; Corte Cost. 7 luglio 1976 n. 154 sulla possibilità di concedere un nuovo perdono giudiziale in caso di reati commessi anteriormente alla prima sentenza di perdono.

139. Ad esempio Trib. min. di Torino, 23 marzo 1979 e 11 aprile 1979 sul fatto che costituisca divieto alla concessione del perdono giudiziale solo la condanna precedente alla commissione del fatto reato per cui si giudica e non la condanna intervenuta dopo la commissione di tale reato nelle more del processo; cfr. I minorenni e la giustizia, in Magistratura democratica, Book Store, Torino, gennaio-aprile 1980, pp. 37 e ss.

140. La percentuale è calcolata sul totale dei minori giudicati.

141. Per i dati statistici, cfr. F. Faccioli, Devianza e controllo istituzionale, in CESPES (coordinato da G. Stadera, I minori in Italia. Prima relazione del Cnm. Rapporto sulla condizione dei minori in Italia, F. Angeli, Milano, 1988; cfr., anche, G. De Leo, M.P. Cuomo, La delinquenza minorile come rappresentazione sociale, cit., pp. 84-85.

142. Cfr. G. De Leo, M.P. Cuomo, La delinquenza minorile come rappresentazione sociale, pp. 86 e ss.

143. Cfr. Ivi, p. 88; ma anche G. De Leo, Tramonto o eclisse della delinquenza minorile, in Rassegna di criminologia, 1, 1983; T. Bandini, U. Gatti, Delinquenza giovanile, cit., p. 457.

144. P. Pazé (a cura di), I minori e il carcere, Atti del Convegno di Trento-Merano (19-22 marzo 1987) e degli Incontri di studio di Torino (2,9,16 giugno 1988), Unicopli, Milano, 1989.

145. Lo scritto di apertura di Pazé, riporta la relazione di sintesi svolta dall'autore al Convegno di Trento e Merano nel Marzo 1987.

146. Cfr. P. Pazé, L'imputabilità minorile, in AA.VV., Risposte giudiziarie alla criminalità minorile, Unicopli, Milano 1982, pp. 67-85.

147. Cfr. T Mathiesen, The Politics of Abolition. Essay in Political Action Theory, M. Robertson, Oxford 1974; N. Christie, Abolire le pene?, Il paradosso del sistema penale, Gruppo Abele, Torino 1985; L. Hulsman, Peines perdues, Le Centurion, Parigi 1982; L. Hulsman, Abolire il sistema penale?, in Dei delitti e delle pene, 1, 1983, pp.71-89. Su posizioni più moderate, cfr., A. Baratta, Criminologia critica e critica del diritto penale, Il Mulino, Bologna 1982; M. Pavrini, La crisi della prevenzione speciale tra istanze garantiste e ideologie neoliberiste, in G. Cotturri, M. Ramat, Quali garanzie?, De Donato, Bari 1983.