ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Cap IV
Verso un nuovo codice penale

Sarah Musio, 1999

1. Introduzione

Nel corso degli anni '80, le tematiche che avevano assunto centralità nel dibattito dottrinale del decennio precedente, sono state oggetto di numerosi convegni, nei quali i penalisti si sono confrontati non solo sul più generale problema della riforma del codice penale, ma anche su temi più specifici come quelli del bene giuridico, del principio di colpevolezza e della finalità della pena (1).

La necessità di una riforma del diritto penale sostanziale si fa ancora più urgente a seguito dell'avvenuta approvazione, nel 1988, del nuovo codice di procedura penale. Si può dire che, ai fini del nostro discorso, il 1988 rappresenti un anno cruciale nel processo riformatore del codice penale. In quell'anno, non solo vedeva la luce il nuovo codice di rito, ma veniva istituita una Commissione presieduta dal Prof. Pagliaro incaricata, dall'allora Ministro della Giustizia Vassalli, di redigere uno schema di legge-delega da sottoporre successivamente al Parlamento. Lo schema preparato da quella Commissione costituisce il punto di approdo delle principali posizioni assunte dalla dottrina, a cavallo tra gli anni '80 e '90, sulla riforma del codice penale.

Il 'progetto Pagliaro' oltre a rappresentare la piattaforma dogmatica in cui si riconosceva la dottrina prevalente, costituisce il più importante tentativo di riforma globale del Codice Rocco in grado di muoversi secondo coordinate improntate ai principi costituzionali e agli orientamenti dei principali sistemi penali europei. Naturalmente, non sono mancate le critiche ai lavori di quella Commissione; di queste sarà importante darne conto attraverso gli interventi degli studiosi nel corso di alcuni convegni tenutisi negli anni '90.

L'entrata in vigore del codice di rito ha avuto un ruolo di stimolo nei confronti del processo di riforma del Codice Rocco, ponendo il problema della compatibilità tra i due codici.

A questo fattore 'interno', si sono aggiunti altri fattori che hanno reso più serrato il dibattito sulla riforma. Ci si riferisce alla approvazione, dopo lunga gestazione, dei nuovi codici penali francese e spagnolo, cui i penalisti italiani hanno guardato con molta attenzione. Sullo sfondo, ma neanche troppo, le influenze dell'Unione Europea sul diritto interno e la prospettiva di un diritto penale comune europeo.

Il 1988 è stato anche l'anno di una 'storica' sentenza della Corte costituzionale, la quale, sancendo l'illegittimità parziale dell'art. 5 del c.p., non solo avrebbe abbandonato la tradizionale prudenza con la quale si è solitamente avvicinata al diritto penale sostanziale, ma avrebbe anche manifestato un netto favore per un diritto penale improntato al principio di frammentarietà.

Oltre a quanto si è accennato, non si mancherà di dare conto, naturalmente, dei più importanti interventi di riforma realizzati dal legislatore che, tra una legislatura e l'altra, ha proseguito, non senza difficoltà, nell'opera di adeguamento della tavola di valori racchiusi nella parte speciale del codice.

2. Le modifiche del legislatore

Nel 1981, il legislatore abroga con la l. n. 442 i delitti commessi per "causa d'onore". Come accennato nel terzo capitolo, si trattava di fattispecie che, per l'elemento costitutivo "dell'offesa all'onore proprio o della famiglia", costituivano ipotesi delittuose 'minori', come tali sanzionate con pene ridotte. Tra queste fattispecie figuravano: l'"omicidio per causa d'onore" (art. 587 c.p.), l'"infanticidio per causa d'onore" (art. 578 c.p.), l'"abbandono di neonato per causa d'onore" (art. 592 c.p.). La causa d'onore era inoltre prevista come circostanza attenuante delle lesioni personali e dell'omicidio preterintenzionale dall'art. 587 c.p., 3º comma e come esimente del delitto di percosse.

Il Parlamento interveniva, tardivamente, su queste disposizioni che non rispondevano più agli orientamenti culturali della gran parte del paese e che, oltretutto, in molte ipotesi, aveva consentito di lasciare impuniti omicidi dolosi premeditati, sapientemente fatti passare per omicidi per causa d'onore. (2) Al posto dell'infanticidio e del feticidio per causa d'onore è stata introdotta la fattispecie di "infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale" (art. 578 c.p.), la quale è incentrata sulle particolari condizioni psichiche e materiali nelle quali versa la madre nei momenti successivi al parto.

Nel 1990, il legislatore interviene con due modifiche: con la l. 7 febbraio 1990, n.19 inserisce nell'art. 59 c.p. ("Circostanze non conosciute o erroneamente supposte") due commi che sembrerebbero rappresentare un adeguamento rispetto alle indicazioni espresse dalla Corte costituzionale, con la sentenza n.364 del 1988, in tema di colpevolezza. (3) Con il primo comma, le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute o erroneamente ritenute esistenti. Con il secondo, le circostanze aggravanti sono valutate a carico dell'agente solo se da lui conosciute o ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.

L'altra modifica attiene ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (l. 26 aprile 1990, n. 86). L'intervento del legislatore risponderebbe qui a due finalità: quella di adeguare la materia ai valori costituzionali del buon andamento e dell'imparzialità della P.A, rispetto alla tutela del 'prestigio' che contraddistingueva le precedenti disposizioni; quella di limitare il controllo della magistratura penale sulla pubblica amministrazione. (4)

Si provvede a riformulare le definizioni di "pubblico ufficiale" (art. 357 c.p.) e di "incaricato di pubblico servizio" (art. 358 c.p.); vengono eliminate quelle fattispecie dove maggiore era il rischio di controlli della magistratura sull'attività dei pubblici amministratori. (5) Le fattispecie di "istigazione alla corruzione" (art. 322 c.p.), "abuso d'ufficio" (art. 323 c.p.) e "omissione d'atti d'ufficio" (art. 328 c.p.) vengono riformulate. Il reato di "abuso d'ufficio" sarà poi oggetto di un ulteriore modifica nel 1997, consistente in delle precisazioni circa la condotta e il dolo di questa figura delittuosa.

Si segnalano, tra le altre, le nuove figure di reato previste dagli artt. 316 bis e 319 ter, rispettivamente: "malversazione a danno dello Stato" e "corruzione in atti giudiziari".

Nel 1992, tra i reati contro l'amministrazione della giustizia, viene inserito l'art. 371 bis, "false informazioni al pubblico ministero" (poi rivisitato dalla l. 8 agosto 1995, n. 332), con l'intento non solo di adeguare la materia al nuovo sistema processuale e alla figura di PM che ne derivava, ma anche di garantire una maggiore tutela alle indagini contro la criminalità organizzata.

Con la l. n.66 del 1996 si poneva invece fine al pluriennale dibattito parlamentare sulla violenza sessuale, collocando questa fattispecie non più, come era previsto dal Codice Rocco tra i "delitti contro la moralità pubblica e il buon costume", ma nell'ambito dei delitti contro la persona e, in particolare, tra quelli contro la libertà personale (6). Tra gli elementi di novità della normativa: la unificazione delle due fattispecie di violenza carnale e atti di libidine violenti, nella figura di violenza sessuale; la previsione della configurabilità del reato nei confronti di persone in stato di inferiorità psichica o fisica solo se l'agente abusa di tali condizioni; la introduzione della nuova fattispecie di "violenza sessuale di gruppo".

Diversamente da quanto era stato previsto nel 'progetto Pagliaro', in base al quale per la sussistenza del reato di violenza carnale era sufficiente il compimento dell'atto "contro la volontà" della persona offesa, con la nuova normativa si richiede, invece, tra i requisiti della fattispecie, la violenza o minaccia. Una scelta questa, che, sebbene abbia suscitato delle perplessità (se si pensa che per la configurazione del reato di violazione di domicilio è sufficiente il mero dissenso del dominus) (7), induce a ritenere che, alla luce del complessivo impianto normativo, violenza e minaccia "vadano intese nel senso che sia sufficiente un approfittamento di circostanze tali da impedire alla vittima di potersi efficacemente opporre". (8)

Di poco successiva è la legge che ha radicalmente modificato la disciplina repressiva dell'usura. La l. 7 marzo 1996 n. 108 interviene in una materia più volte oggetto di modifiche, superando il requisito dello "stato di bisogno" della vittima e quindi il riferimento alle condizioni soggettive dell'usurato e stabilendo criteri di determinazione del tasso di interesse usuraio legati ai parametri stabiliti dal ministero del tesoro.

Di un certo interesse sono alcune fattispecie introdotte dal legislatore nella prospettiva di un adeguamento all'evoluzione tecnologica della società. Ci si riferisce agli artt. 615 quater, 617 quater e quinquies c.p., previsti dalla l. n.547 del 1993, dedicati alla tutela della riservatezza informatica o telematica, e agli artt. 617 sexies, 635 bis c.p. posti a presidio del patrimonio informatico o telematico. (9)

3. Le sentenze della Corte costituzionale

Trattiamo qui di seguito alcune delle sentenze più significative pronunciate dalla Corte costituzionale negli anni '80 e '90. Alcune di queste sentenze possono dirsi 'storiche' vuoi per la rilevante portata interpretativa e quindi per l'incisività con la quale la Corte ha manifestato il suo pensiero, vuoi per il diverso orientamento assunto nei confronti di determinate fattispecie. Un atteggiamento sempre meno prudente, maggiormente incline ad intervenire con sentenze di tipo abrogativo.

Si tratta comunque di un numero esiguo di sentenze, a dimostrazione del fatto che, al di là della loro specifica significatività, il cauto atteggiamento della Corte nei confronti del codice penale continua ad essere dominante.

La sentenza n.96 del 1981 rappresenta un importante segnale di 'discontinuità' rispetto al passato. Si tratta infatti della pronuncia con la quale la Corte ha dichiarato incostituzionale l'art. 603 c.p. sul reato di plagio, comportandone l'abrogazione. La disposizione in questione risultava in contrasto con l'art. 25 comma 2 Cost. che sancisce il principio di tassatività-determinatezza. Secondo la Corte: "La compiuta descrizione di una fattispecie penale non è sufficiente ai fini della legittimità costituzionale della relativa norma che, data la struttura o l'astratta formulazione, non consenta una razionale applicazione concreta". Varie e contrastanti interpretazioni della dottrina e della giurisprudenza avrebbero confermato la indeterminatezza della fattispecie e l'impossibilità di poterle attribuire un contenuto oggettivo. Ne conseguiva, quindi, "l'assoluta arbitrarietà della sua concreta applicazione, astrattamente riferibile a qualsiasi fatto che implichi dipendenza psichica di un essere umano da altro essere umano".

Nel 1988, la Corte costituzionale superando il precedente orientamento negativo, ha emesso un'importante sentenza con la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale, l'ignoranza inevitabile. L'illegittimità costituzionale derivava dal contrasto con gli art. 2, 3, 25 secondo comma, 27 primo e terzo comma e 73 terzo comma della Costituzione. Secondo i giudici costituzionali la norma in questione violava:

lo spirito dell'intera Carta fondamentale ed i suoi essenziali principi ispiratori: far sorgere l'obbligo giuridico di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell'agente; considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell'illiceità del fatto; sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indifferenza all'ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico offre al cittadino, strumentalizzando la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa, e deve occupare, nella scala dei valori costituzionali.

Oltre al tema della evitabilità dell'errore, la Corte costituzionale, con questa sentenza, attraverso il riferimento congiunto ai commi 1 e 3 dell'art. 27 Cost., identifica la responsabilità penale personale con la responsabilità colpevole, legando la funzione rieducativa della pena alla sussistenza, al momento della commissione del fatto, di un nesso psichico che almeno a titolo di colpa, si aggiunga al mero nesso di causalità materiale.

Secondo la Corte, l'art. 5, nell'originaria interpretazione, "escludeva ogni possibilità di valutazione della 'causa' della mancata coscienza (della sola punibilità o dell''intera antiprecettività' del fatto), trattando allo stesso modo errore scusabile, inevitabile ed errore inescusabile, evitabile". La violazione dell'articolo 3 Cost. sarebbe derivata dal fatto che, chi commette un reato ignorando la legge penale per impossibilità di prenderne conoscenza riceve pari trattamento rispetto a chi agisce con la coscienza dell'illiceità.

Dalle considerazioni della Corte, attraverso il dichiarato contrasto dell'art. 5 con gli art. 2, 25 comma 2 e 73 comma 3 Cost., emergeva come non solo lo Stato fosse venuto meno al proprio dovere di porre l'agente nell'effettiva condizione di conoscere le leggi penali, ma veniva sottolineata la necessità che il diritto penale rappresentasse "la extrema ratio di tutela della società", e che fosse costituito "da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di 'rilievo costituzionale'.."

L'art. 3 della Costituzione ha rappresentato per la Corte il parametro di riferimento per la pronuncia di illegittimità costituzionale di molte sentenze, ogni qual volta si profilava una irragionevole disparità di trattamento da parte del legislatore. Il medesimo articolo avrebbe consentito anche un controllo sulla ragionevolezza intrinseca della norma penale (10). Nella sentenza 341 del 1994, ad esempio, la Corte ha ritenuto illegittimo l'art. 341 comma 1 c.p. ("oltraggio a pubblico ufficiale"), per contrasto con gli artt. 3 e 27 comma 3 della Costituzione, nella parte in cui prevedeva come minimo edittale la reclusione per mesi sei. Questa sanzione appariva manifestamente eccessiva rispetto al trattamento sanzionatorio riservato al reato di ingiuria: una disparità che "appare il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini" tipica dell'ideologia di cui il Codice Rocco era espressione. Una concezione che appariva, ormai, del tutto estranea al sistema di valori e di principi racchiusi nel dettato costituzionale, in base al quale, il rapporto tra amministrazione e società non può tradursi in un rapporto di imperio, ma in un rapporto che ha come principale finalità la cura degli interessi dei cittadini.

La Corte ricordava, in quell'occasione: "la finalità rieducativa della pena non è limitata alla sola fase dell'esecuzione, ma costituisce 'una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico'...". Una finalità che implica "un costante 'principio di proporzione' tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa dall'altra".

Sempre alla luce dell'art. 3 Cost. la Corte, attraverso il principio di ragionevolezza sancito al comma 1, ha dichiarato illegittimo l'art. 670 comma 1 c.p. (sent. 28 dicembre 1995 n.519). Tale articolo si riferiva al reato di mendicità 'non invasiva', rispetto al quale la Consulta ha ritenuto ingiustificato il ricorso alla sanzione penale, in quanto lo stato di bisogno non può essere ricondotto ad un comportamento pericoloso o colpevole del soggetto senza contrastare con il principio di umana solidarietà. Inoltre, i beni giuridici della tranquillità pubblica e dell'ordine pubblico non potrebbero seriamente essere messi in pericolo dalla semplice richiesta di aiuto in cui si sostanzia la mendicità.

4. I progetti di riforma

4.1 I lavori della Commissione Pagliaro

Nel febbraio del 1988, il Ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, nominò una ristretta Commissione di studiosi perché preparasse uno schema di legge-delega per un nuovo codice penale. Tale Commissione era presieduta dal penalista Antonio Pagliaro, e composta dai professori Bricola, Mantovani, Padovani, Fiorella e Latagliata. Verso la fine del 1991, i lavori giunsero al termine; solo nel 1993, dopo che per più di un anno lo schema di legge-delega era rimasto negli archivi del Ministero della Giustizia, il Guardasigilli del governo Ciampi, Giovanni Conso, decise di inviarlo per osservazioni e pareri alle facoltà giuridiche, ai consigli giudiziari e agli ordini forensi. Organismi questi che, a giudizio di Vassalli, non dimostrarono quell'attenzione e quell'interesse che, le ripetute sollecitazioni del passato circa la riforma del codice penale, avrebbero potuto far pensare. (11)

Il 'progetto Pagliaro' suscitò l'interesse della dottrina, la quale, in alcuni convegni ne discusse, a volte criticamente, gli aspetti caratterizzanti e le scelte di fondo. Tra questi convegni merita una certa attenzione quello organizzato dal Centro Studi Giuridici e Sociali "Cesare Terranova", svoltosi a Palermo nel '91 (quando i lavori della commissione volgevano al termine), dal titolo "Verso un nuovo codice penale. Itinerari, problemi, prospettive." Tra i penalisti intervenuti, Fiandaca, Stile, Paliero, Dolcini, Marinucci e lo stesso Pagliaro, incaricato di svolgere la relazione di sintesi del convegno.

Una delle prime critiche mosse al progetto non riguardava tanto il merito, ma piuttosto il metodo, vale a dire il sistema della delega scelto dal Ministro Vassalli. Una scelta dettata dalla lentezza dei lavori parlamentari e dallo stato in cui versava, in generale, l'attività legislativa delle Camere che non avrebbe reso possibile una approvazione in tempi ragionevoli di un testo così lungo e complesso. Particolarmente Fiandaca, Marinucci e Pulitanò sono stati i più critici nei confronti di questa scelta, ritenendo che la legge delega, poiché consente solo l'enunciazione di principi e criteri direttivi, avrebbe di fatto espropriato il Parlamento "del ruolo di protagonista della politica criminale, proprio nel momento in cui vara la legge fondamentale del sistema penale del nostro Paese". (12)

Pagliaro, convinto della inidoneità del procedimento legislativo ordinario in questa ipotesi, ha giustificato la scelta della legge delega sotto il profilo tecnico-giuridico. Sarebbe la nostra Costituzione a fare della legge delega una scelta obbligata: l'art. 72 comma I prevede, infatti, per ogni tipo di legge, l'approvazione "articolo per articolo e con approvazione finale"; una procedura che, specialmente nel caso di approvazione di codici, comporta un dispendio di tempo incompatibile con le funzioni delle Camere e delle Commissioni. Con il procedimento ordinario vi sarebbe stato, inoltre, l'inconveniente che qualche singolo articolo potesse non essere approvato, o esserlo in una stesura non in armonia con le altre disposizioni del codice; le minoranze, infine, con la legge-delega, sarebbero state più tutelate attraverso l'art. 16 delle disposizioni transitorie dello schema di disegno di legge, il quale prevedeva il parere di una Commissione composta da venti deputati e venti senatori (13). Anche nell'ipotesi di assegnare i lavori ad una Commissione in sede redigente (dove è sempre possibile richiedere la rimessione in aula), il progetto avrebbe dovuto comunque passare il vaglio delle Camere con le modalità previste dal sopra citato articolo della Costituzione. (14)

Il prof. Vassalli aveva indicato con chiarezza gli obiettivi da perseguire: la legge-delega avrebbe dovuto riguardare le materie di interesse penalistico collocate fuori dal codice penale, come i reati fallimentari o il possesso e spaccio di droga. In realtà, lo schema di disegno di legge avrebbe potuto essere predisposto anche da funzionari dell'ufficio legislativo del ministero, ma il Ministro della Giustizia aveva preferito fosse una Commissione di professori ordinari di diritto penale ad elaborarla: così, il disegno governativo avrebbe avuto maggiore autorevolezza davanti al Parlamento. Si era inoltre optato per una Commissione composta da un ristretto numero di professori per garantire maggiore snellezza ai lavori in quella fase; successivamente, una volta approvata la legge delega dalle Camere, le disposizioni del nuovo codice sarebbero state affidate ai lavori di una Commissione più vasta, non solo per il maggior numero dei professori universitari presenti, ma anche per l'allargamento previsto a favore di altri operatori del diritto. (15)

Sin dalle prime sedute, la Commissione stabilì di attenersi alle indicazioni della Costituzione in materia penale e di avanzare soluzioni che potessero considerarsi in linea con la politica criminale moderna. A tal fine, si era avvertita l'esigenza di analizzare le legislazioni di paesi più affini sotto il profilo storico e socio-culturale, cercando di limitare il numero delle incriminazioni.

La Commissione non trascurò alcuni temi che in passato erano stati discussi approfonditamente dalla dottrina. Tra gli altri: se la Costituzione dovesse considerarsi un catalogo di beni costituzionalmente rilevanti e se al legislatore fosse quindi vietato tutelare con la legge penale beni in esso non compresi; se dovesse prevedersi il principio in base al quale non vi è reato se la condotta non comporta offesa all'interesse protetto dalla legge; come adeguare le sanzioni alla gravità dei fatti e come realizzare un sistema razionale di livelli edittali delle sanzioni; quale estensione riconoscere alla depenalizzazione; se talune pene alternative potessero essere previste in sostituzione di pene detentive brevi; se si dovesse abolire il c.d "doppio binario" e quindi evitare il cumulo di pena e misura di sicurezza sullo stesso soggetto; se si potesse abolire del tutto la responsabilità oggettiva e se fosse prevedibile una responsabilità penale delle persone giuridiche. Inoltre, se e come delimitare il potere discrezionale del giudice; come organizzare la parte speciale; come dare rilievo alla ignoranza della legge penale; come ridare centralità al codice e intervenire sulla legislazione speciale. (16)

Lo schema di disegno di legge-delega, spiegava Pagliaro nella sua relazione, doveva avere un giusto livello di determinatezza, differenziato a seconda della materia trattata. Per la parte generale, che contiene i principi e criteri direttivi della legislazione penale, la legge-delega sarebbe stata formulata in modo più analitico; per la parte speciale si sarebbe deciso caso per caso, a seconda che le soluzioni prospettate apparissero più o meno differenziate rispetto alla normativa vigente.

L'articolo 2 dello schema individuava i principi di codificazione:

  1. il codice avrebbe dovuto conformarsi alla Costituzione e al diritto internazionale;
  2. si indicava, quale unico obbiettivo della legislazione penale, la tutela dei beni giuridici e si specificava che le funzioni della sanzione penale avrebbero dovuto tenere conto di importanti limiti, non solo strettamente giuridici, ma anche morali;
  3. si stabiliva l'obiettivo di fare del codice il centro del sistema penale e di ridurre correlativamente il peso della legislazione speciale;
  4. venivano proposte tecniche normative che assicurassero una maggiore certezza del diritto, attraverso norme definitorie e la messa al bando dei rinvii e del sistema casistico. (17)

Tra i principi della Costituzione cui il nuovo codice penale avrebbe dovuto adeguarsi figuravano: il principio di legalità, di proporzionalità, di colpevolezza e di rieducazione.

In base al principio di legalità le norme del futuro codice penale avrebbero dovuto essere ben determinate, prive di ambiguità e incertezze. Al soddisfacimento di questa esigenza si può ascrivere l'istanza di riequilibrare il rapporto tra codice e legislazione speciale, vista la presenza di troppe leggi che rendeva difficilmente conoscibili i precetti penali. In questo senso, si prevedeva l'applicazione delle disposizioni della parte generale del codice anche alle materie regolate da altre leggi penali, salvo deroga espressa (art. 4.3). L'art. 4.4 stabiliva, inoltre, l'applicabilità delle altre disposizioni del codice anche alle materie regolate da altre leggi penali: così facendo, i principi giuridici contenuti nel codice penale avrebbero potuto estendere la loro portata anche alla legislazione speciale, preesistente e futura.

Di un certo rilievo era il disposto dell'art. 13 delle Disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie. Per assicurare la centralità al codice penale, nelle ipotesi in cui il fatto fosse previsto come reato dal codice e da leggi speciali preesistenti, queste ultime non sarebbero state applicabili, a meno che, non fossero state confermate con leggi delegate da emanare entro un periodo indicato per l'entrata in vigore del codice. Lo stesso Pagliaro ha sottolineato la portata innovativa di questa previsione: l'art. 13 non avrebbe fatto che invertire il brocardo lex posterior generalis non derogat praeviae legi speciali. Così, tutte le volte che uno stesso fatto concreto ricadeva sotto una incriminazione contenuta in una legge speciale preesistente rispetto al codice e sotto una incriminazione in esso contenuta, si sarebbe dovuta applicare esclusivamente quest'ultima. (18)

Al principio della centralità del codice è da ricondurre la previsione di alcuni dei reati disciplinati oggi dalla legislazione speciale: reati fallimentari, reati d'impresa, reati contro il patrimonio culturale, ambientale, artistico. Non sono invece stati inseriti nel progetto di codice penale i reati in materia di armi, commercio e uso di sostanze stupefacenti e reati di natura mafiosa, perché questi tipi di illeciti non erano apparsi idonei a trovare stabile riconoscimento nel codice, in quanto estremamente legati al contingente.

In base al principio di proporzionalità, sebbene non ci sia una espressa disposizione in merito, si ritiene conforme alla Costituzione solo il trattamento penale che non sia sproporzionato rispetto alla gravità dell'illecito commesso. La tutela penale deve quindi essere prevista come extrema ratio: soltanto i beni che meritino protezione penale potranno essere oggetto di tutela. Ai sensi dell'art. 4.1 del progetto, la legge penale doveva essere interpretata in modo da limitare la punibilità ai fatti offensivi del bene giuridico: (19) vi sarebbe stata proporzione tra illecito e sanzione non solo dal punto di vista formale ma anche sostanziale, sorgendo l'illecito solo in presenza di un'offesa al bene giuridico che la norma vuole tutelare.

Nella prospettiva di realizzare una proporzione tra tutela e bene giuridico si inquadrava anche l'art. 54, il quale obbligava il legislatore delegato a "descrivere...le singole fattispecie delittuose in modo tale che la loro realizzazione assuma una dimensione di concreta lesività o di concreto pericolo per il bene giuridico". Nell'applicazione di ogni norma penale doveva quindi esistere una concreta ragione che giustificasse l'inflizione della pena. (20)

La proporzione tra illecito e sanzione avrebbe dovuto trovare riscontro anche nel rapporto tra ciascun reato e la pena edittale prevista. A questo fine, erano sono stati considerati due tipi di relazione: una orizzontale, che assicurava la parità di trattamento tra reati che, pur presentando diversità per struttura e bene giuridico offeso, abbiano un disvalore penale simile; l'altra verticale, che individua per ogni reato la pena edittale più appropriata.

Il Codice Rocco trascura del tutto la prima prospettiva, prevedendo per ciascun reato un minimo e un massimo edittale senza tenere conto dei criteri che, rispetto ad altri reati, simili per disvalore, hanno indotto a determinare un diverso minimo e un diverso massimo. Ne è derivato un sistema del tutto irrazionale che ha indotto la Commissione a stabilire fasce predeterminate di livelli sanzionatori: in ognuna di esse il tipo di pena doveva essere identico e fissato una volta per tutte il minimo e il massimo edittali. Il legislatore delegato avrebbe avuto poi il compito di collocare ciascun reato entro una di queste fasce di pena, in modo che tutti i reati posti nella medesima fascia fossero della stessa gravità, rendendo così più facile valutare se la misura della pena prescelta fosse proporzionata alla gravità dell'illecito in rapporto alle scelte legislative effettuate per gli altri reati. (21)

La legge-delega intendeva porre le premesse per dare piena realizzazione al principio di colpevolezza, principio che trova il suo fondamento nell'art. 27 della Costituzione, il quale sancisce che "la responsabilità penale è personale". Ciò significa che non solo viene esclusa la possibilità di applicare la sanzione a soggetti diversi da quelli cui l'illecito è attribuito, ma anche di vietare che possa configurarsi un illecito penale "..nel quale le componenti del fatto che accentrano in sé l'aspetto offensivo dei beni protetti non siano dominate o dominabili dal soggetto attraverso un suo attivarsi finalistico", comprendendo, come precisato nella sentenza 364 del 1988 della Corte costituzionale, anche il divieto di attribuire un illecito penale nelle ipotesi di ignoranza inevitabile rispetto alla norma penale. (22)

Il principio di colpevolezza, oltre a questi requisiti, richiede che il soggetto che ha commesso l'illecito sia un soggetto imputabile, cioè capace di intendere e di volere.

Alla luce di questi elementi, il progetto, sotto il profilo del dolo, non riteneva più sufficiente che il soggetto perché sia in dolo abbia voluto il fatto naturalistico di reato. Quest'ultimo, pur continuando ad essere richiesto, non costituisce come tale un indice preciso del significato umano e sociale della condotta. Il progetto aveva così previsto che la definizione di dolo dovesse esprimere "la necessità che il soggetto sia consapevole del significato del fatto" (art. 12.1). (23)

In tema di errore, che si collega strettamente a quello del dolo, lo schema stabiliva di sostituire la tradizionale distinzione tra errore di diritto ed errore di fatto, con una diversa contrapposizione tra "errore sul fatto" (che comprendeva tanto l'errore di fatto, quanto l'errore sulla legge extra-penale che abbia determinato un errore sul significato umano e sociale del fatto), e l'errore sul precetto (che riguardava soltanto l'errore sulla legge penale e quei pochi casi di errore su legge diversa dalla legge penale che danno luogo a un errore sulla liceità o illiceità penale del fatto, ma non sul suo significato umano e sociale).

Per la colpa veniva stabilito che la imputazione si fondasse "su un criterio strettamente personale", prevedendo due diverse figure di colpa: la colpa tradizionale, relativa alla violazione di regole cautelari nell'ambito di un'attività-base lecita, e una nuova figura di colpa sostitutiva delle ipotesi di responsabilità obiettiva. Nell'ambito dei reati colposi era prevista una distinzione in due categorie: maggiore gravità veniva riconosciuta ai reati colposi da rischio totalmente illecito, rispetto agli altri reati colposi nei quali il rischio base è lecito.

Scompariva anche la figura del delitto preterintenzionale che viene assorbita in quella del delitto colposo da rischio totalmente illecito. Inoltre, per dare maggiore attuazione al principio di colpevolezza anche rispetto ai reati commessi in stato di ubriachezza volontaria, il progetto aveva preferito sostituire la disciplina attuale dando piena attuazione al criterio actio libera in causa. In base all'art. 35, il soggetto avrebbe risposto a titolo di dolo del reato commesso in stato di ubriachezza o sotto l'azione di sostanze stupefacenti, se, nel momento in cui si era posto in stato di incapacità, avesse agito almeno con dolo eventuale oppure per colpa, se il fatto era da lui in quel momento prevedibile come conseguenza di tale stato. (24)

Molte delle norme contenute nella legge delega cercano di dare attuazione al principio costituzionale in base al quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Grande importanza viene quindi riconosciuta, nella prospettiva di un nuovo codice penale, alle sanzioni sostitutive, mentre la sospensione condizionale della pena viene totalmente ridisegnata secondo una 'modulazione gradualistica' delle sue forme che l'avrebbe resa più rispondente alle esigenze rieducative del condannato.

Riguardo alla pena pecuniaria, si prevedeva la tecnica dei tassi giornalieri, la quale avrebbe consentito di adeguare la misura della sanzione alle condizioni economiche del reo, soddisfacendo esigenze di prevenzione speciale e generale.

Allo scopo di limitare il ricorso alla pena detentiva, la pena dell'arresto prevista fino ad oggi per le contravvenzioni, veniva sostituita dalla semidetenzione. (art. 37.1). Di un certo rilievo era anche la previsione dell'art. 37.4, il quale introduceva una vicarietà tra pena principale e pena accessoria. Il giudice poteva infatti, escludere l'applicazione della pena accessoria quando questa, in aggiunta a quella principale risultasse in concreto sproporzionata alla gravità del reato e inutile dal punta di vista special-preventivo. Poteva invece escludere l'applicazione della pena principale, quando la pena accessoria fosse risultata da sola adeguata alla gravità del reato e in grado di impedire la commissione di reati da parte del condannato. (25)

In tema di misure di sicurezza, il progetto, riconoscendo che il cumulo di pena e misura di sicurezza sullo stesso soggetto non portava altro che ad una frustrazione della finalità di almeno una delle due sanzioni, aveva deciso di limitare le dichiarazioni di pericolosità sociale ai soli soggetti totalmente non imputabili. Di conseguenza, le misure di sicurezza non erano previste per i soggetti capaci di intendere e di volere. Adeguate misure di prevenzione sarebbero state introdotte per quei soggetti che avevano atteggiamenti antisociali di rilievo e che vi avessero persistito durante l'esecuzione della pena.

L'importanza riconosciuta alla rieducazione e l'esigenza di adeguare la misura complessiva delle pene da scontare alla personalità del soggetto avevano indotto a scegliere, per il concorso dei reati, il regime del cumulo giuridico delle pene secondo una nuova versione, in base alla quale era consentito il cumulo di pene di specie diverse, facendo in modo che ognuna conservasse le proprie caratteristiche. (26)

Nel catalogo delle pene risulta ancora presente l'ergastolo. Ciò, spiega Pagliaro, perché per i delitti più atroci i cittadini ritengono che questa, ancora oggi, sia la pena più adeguata, la più giusta, la cui previsione consente di raggiungere i maggiori risultati sotto il profilo della prevenzione generale e speciale. (27)

Anche la parte speciale è stata oggetto di importanti modifiche. Una prima, importante modifica è di tipo strutturale: l'elenco delle fattispecie criminose si apre, infatti, con i delitti contro la persona a conferma che il punto di riferimento della tutela penale è la persona e non più lo Stato come era nella filosofia del codice penale del '30. In luogo della c.d 'progressione discendente', tipica del Codice Rocco, secondo la quale ci si muove dai delitti contro la personalità dello Stato per giungere solo in ultima ipotesi ai delitti contro la persona, si realizza la c.d 'progressione ascendente', dove essenziale punto di riferimento è la persona umana, sia come singolo che nelle formazioni sociali dove svolge la sua personalità. (28)

Trova così riconoscimento nel sistema penale il principio personalistico che emana dai principi fondamentali della Costituzione, in particolare da quell'art. 2, "chiave di volta dell'intero sistema costituzionale", come disse Crisafulli, che vede nella persona e nei suoi valori il fine cui deve tendere l'organizzazione della società civile.

Nella parte speciale, spiega Pagliaro, è stato dato un ruolo prevalente, quale criterio di classificazione, al bene giuridico, in modo da rendere evidente per ogni reato, quale fosse l'interesse che il legislatore aveva inteso tutelare. Il Libro I concerne i reati contro la persona, tra i quali, i reati contro la vita e l'incolumità individuale, i reati contro la libertà, contro la riservatezza e i reati contro il patrimonio individuale, dove il patrimonio viene qui considerato come una proiezione della persona nel mondo esterno. Il Libro II tutela la persona nelle relazioni sociali. Vi si trovano i reati contro il rapporto di lavoro, contro la libertà religiosa, contro la famiglia e i reati contro la fede pubblica. Il Libro III, ha lo scopo di tutelare la persona umana "nel momento in cui si proietta in una comunità di soggetti", comprendendo i reati contro le genti, i reati ambientali, i reati contro l'economia (tra i quali rientrano i reati contro l'economia imprenditoriale e i reati fallimentari). (29) Infine, nel libro IV la tutela della persona ha come riferimento l'organizzazione formale della collettività, figurandovi i reati contro l'ordine costituzionale, quelli contro la giurisdizione e i reati contro la pubblica amministrazione.

Come si può notare, lo schema parla di reati e non di delitti perché, diversamente dal codice vigente, si era ritenuto di non dedicare uno specifico titolo alle contravvenzioni, ma di distribuirle, riducendone il numero, negli stessi libri che contengono i delitti.

Tra le incriminazioni che presentano degli elementi di novità, si segnalano i reati contro la gestazione (tra i quali l'embrionicidio, la produzione di embrioni umani o utilizzazione di quelli viventi per fini diversi dalla procreazione, l'inseminazione artificiale non consensuale); i reati contro l'identità genetica (selezione genetica per fini non terapeutici, ibridazione, clonazione); reati contro la dignità della maternità (gestazione extra-materna, gestazione umana di embrione animale, contrattazione per fini procreativi); la reintroduzione del delitto di plagio; la modifica al delitto di violenza carnale (denominato "stupro" e imperniato non più sulla costrizione con violenza o minaccia, ma semplicemente sull'essere il fatto compiuto "contro la volontà" della persona offesa), previsione dello stupro di gruppo e della molestia sessuale.

Tra i reati contro la solidarietà familiare erano previsti, tra gli altri: il delitto di violazione degli obblighi di assistenza economica e di violazione dell'obbligo di istruzione. Infine, i delitti "contro le genti": genocidio, deportazione collettiva, discriminazione, cattura di ostaggi, dirottamento. (30)

Nella sopra citata relazione di sintesi al convegno intitolato "Verso un nuovo codice penale", Pagliaro rispondendo alle osservazioni e ai rilievi mossigli dai penalisti nei loro interventi, concludeva:

..sarà necessario ritrovare, intorno a questo disegno di nuovo codice penale, quella convergenza di vedute, quella tranquillità di spirito, che sole possono consentire di ottenere risultati davvero fruttuosi. Termino, quindi, con un appello alla solidarietà di tutti, perché non si lasci immutata la situazione attuale ma ci si avvii davvero verso una riforma. (31)

4.1.1 Le reazioni della dottrina

Come era stato accolto lo schema di legge delega dalla dottrina? Sebbene il progetto contenesse molte delle riforme che i penalisti da tempo auspicavano, non mancarono le critiche di una parte della dottrina, la quale, più che sollevare rilievi che riguardavano le scelte di merito del progetto, poneva in discussione, in molte ipotesi, opzioni e temi ormai divenuti classici, principi 'fondanti' del diritto penale. Per fare qualche esempio, c'era chi si chiedeva se avesse ancora una qualche utilità una parte generale del codice, chi tendeva a ridimensionare le potenzialità del concetto di bene giuridico costituzionalmente orientato, chi, addirittura, metteva in discussione l'idea stessa di codificazione. Altre critiche attenevano più al merito, alla inclusione o mancata previsione di determinate fattispecie, ma i rilievi cui si è fatto riferimento, non solo consentono di capire meglio le specificità del progetto, ponendolo in controluce, ma anche di comprendere gli 'umori' di parte della dottrina nei confronti degli attuali orientamenti di codificazione.

Marinucci e Dolcini oltre a criticare, come si è potuto vedere, la scelta della legge-delega, avanzarono, nel convegno sopra citato, ulteriori rilievi di ordine metodologico. A loro giudizio, guardando anche all'esperienza di altri paesi, sarebbe stato indispensabile far precedere la codificazione da ricerche comparatistiche, da indagini criminologiche e rilevazioni sulla prassi giurisprudenziale. (32) Questi rilievi, però, hanno trovato un tiepido accoglimento in Pagliaro, il quale limitava la necessità di quel tipo di ricerche più al soddisfacimento di esigenze scientifiche che non a quelle di politica legislativa. (33)

Di un certo interesse sono le considerazioni svolte da Fiandaca, il quale nella sua relazione introduttiva al convegno ha cercato di fare un quadro d'insieme della legislazione penale, sottolineando come i partiti si fossero disinteressati del permanere del Codice Rocco nell'ordinamento giuridico, in quanto il tema della riforma penale era estraneo ai loro più immediati e vitali interessi e poco redditizio in termini di consenso elettorale. Il legislatore avrebbe fatto il più delle volte un uso strumentale ed opportunistico, in una parola 'simbolico' della legge, con grave pregiudizio per il sistema penale. Per restituire a quest'ultimo coerenza e organicità, Fiandaca non ritiene sufficienti i criteri direttivi generali, le operazioni logico-sistematiche, ma occorreva disporre di un ricco corredo di conoscenze empiriche relative sia alle esigenze derivanti dalla prassi giurisprudenziale, sia alle caratteristiche delle forme di criminalità da fronteggiare, sia ai presupposti che ex ante fanno apparire necessario ed efficace il ricorso alla tutela penale. (34)

Il divario esistente tra una matura elaborazione teorica e un insufficiente sviluppo del sapere empirico, secondo Fiandaca, porterebbe con sé il rischio che l'attività di ricodificazione rimanga un mero sforzo intellettuale, sia pure raffinato e di un certo livello. Il diritto penale risulterebbe esposto ad una "trappola epistemica": da un lato, esso si vede costretto a produrre categorie autonome, dall'altro non può non confrontarsi con il linguaggio delle scienze sociali e con quello scientifico. Diversamente, concludeva Fiandaca, "il diritto penale degraderebbe a mondo chiuso e isolato, non comunicante con le altre sfere della realtà sociale "potendo, così, difficilmente aspirare a raggiungere un minimo di effettività". (35)

L'approccio empirico all'attività di codificazione, aggiungeva Fiandaca, appariva ancora più ineludibile tanto più si condivideva "l'esigenza di porre con i piedi per terra la stessa teoria costituzionale dei beni giuridici". Non che la teoria, così brillantemente affermatasi negli anni '70, fosse da liquidare in toto. Piuttosto si sarebbe trattato di coglierne meglio portata e limiti. Vi sarebbero, secondo il penalista siciliano, due diverse accezioni di quella teoria, una forte e una debole: la prima deriverebbe da una visione della Costituzione come sistema chiuso e autosufficiente di valori, l'altra come sistema fluido e aperto, in rapporto scambievole con il sistema sociale. Il secondo approccio alla tematica dei beni giuridici non degraderebbe la Costituzione "a libro aperto composto solo di pagine bianche", come diceva Santi Romano, ma piuttosto, consentirebbe di prendere coscienza del fatto che il bene giuridico "è un concetto orientato secondo l'inevitabile tensione dialettica tra testo costituzionale, politica criminale (se non politica tout court) e sistema sociale dei valori". Di conseguenza, la manifesta rilevanza costituzionale di un determinato bene avrebbe soltanto una funzione indiziante della sua meritevolezza penale, da integrare alla luce degli altri principi costituzionali di politica criminale, come quello di sussidiarietà, di proporzionalità, frammentarietà, ed effettività. (36)

Nel convegno svoltosi a Firenze nel novembre del 1993, dal titolo "Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto", i temi affrontati due anni prima risultano essere ancor più approfonditi, non solo perché lo schema di legge-delega era ormai giunto a compimento, ma perché, nel frattempo, paesi come Francia e Spagna si apprestavano a concludere i rispettivi processi di codificazione, riuscendo, così, nel compimento di quell'opera che in Italia sarebbe rimasta alla fase embrionale.

A differenza degli altri convegni, in questo si respira un'aria europea, si avverte l'esigenza che il diritto penale non possa continuare ad essere concepito secondo coordinate eminentemente nazionali, restando ancorato a problematiche interne al singolo Stato, ma deve aprirsi ad una nuova prospettiva, ponendo le premesse per un diritto penale europeo.

Ancora una volta Fiandaca, nella sua relazione introduttiva svolge delle considerazioni provocatoriamente stimolanti. Tra queste, colpiscono le sue riflessioni sul significato oggi assunto dall'idea stessa di codificazione. La forma codicistica, egli si chiede, è ancora un modello normativo adeguato ai tempi? Nell'ottocento, la codificazione mirava a soddisfare esigenze di certezza e stabilità; oggi queste esigenze continuano a mantenere un rango prioritario, ma devono fare i conti con una legislazione penale ipertrofica, alluvionale e in continua espansione che conduce seriamente a far dubitare che il codice possa e debba mantenere la sua centralità. Dal complesso della normativa penale attuale deriverebbe che la forma codicistica non appare più in grado di garantire stabilità e certezza né di adempiere ad una funzione di orientamento culturale dei cittadini. (37)

Tuttavia, nei paesi europei si registra la tendenza a (ri)codificare il settore penale dando luogo a questo paradosso: da un lato si prende atto del processo di ridimensionamento del codice penale (38), dall'altro ci si affida ad esso al fine di adeguare il sistema penale alle nuove forme di criminalità. Questa esigenza di aggiornamento non sarebbe che una conseguenza di quella tradizionale concezione che guarda al codice penale come specchio in cui si riflettono i valori fondamentali di una società. Fiandaca si chiede, però, se nelle società attuali il codice penale possa ancora continuare a riflettere il sistema di valori in esse presenti. Le recenti codificazioni penali, in realtà, non avrebbero dato il segno di un grande rinnovamento rispetto a valori consolidati e già noti. (39)

Nello stesso schema di legge-delega, continua Fiandaca, il principio personalistico avrebbe condotto soltanto a modificare la gerarchia dei beni protetti secondo la c.d progressione ascendente mentre, in tema di funzione della pena, il progetto italiano rispetto a quello spagnolo e a quello francese, sembra contraddistinto da una estrema semplificazione che non consente di individuare tipologie sanzionatorie che non siano la pena pecuniaria e quella detentiva. (40)

Auspica la neocodificazione e il recupero della centralità del codice penale, Mantovani, nel suo intervento dal significativo titolo "Sulla perenne esigenza della codificazione", nel quale, oltre a sottolineare le imperiture ragioni che stanno al fondo di ogni codificazione, difende le scelte della Commissione di cui egli stesso aveva fatto parte. Dopo aver individuato i principi essenziali che sovraintendono ad un codice penale personalistico non solo della libertà, ma anche con funzioni di limite alla libertà, Mantovani sottolinea come "il ritorno all'ordine e alla sicurezza giuridica, se e quando avverrà, non potrà non passare attraverso il ritorno alla codificazione e la fine dell'età della legislazione speciale". (41)

Perseguono, invece, un intento dichiaratamente critico e provocatorio le riflessioni di Paliero, il quale, diversamente da Mantovani, crede sia ormai necessario rassegnarsi all'idea di far convivere qualsiasi opera codicistica del futuro con la legislazione speciale. Ricollegandosi alle posizioni fi Fiandaca e di Musco, Paliero ritiene che si stia assistendo ad una crisi e ad una perdita di legittimazione del diritto penale, resa ancora più evidente da un approccio riformatore che insegue modelli di stampo illuministico liberale che non rispondono alle esigenze di un diritto penale moderno.

Guardando ai progetti di riforma, e in particolare a quello italiano, verrebbe confermata la seguente considerazione: "...un codice moderno non è più in grado di attirare al suo interno, con un immane processo di semplificazione, tutte le figure delittuose che già stanno fuori e che continueranno a prodursi fuori dal codice". (42) Si sarebbe di fronte ad un processo di modernizzazione del diritto penale che sta sostituendo o che ha già sostituito la concezione classica di diritto penale: tema questo, che sta suscitando l'interesse di studiosi, specialmente stranieri. (43)

Se il diritto penale 'classico' si incentra sulla tutela di libertà già acquisite, vede il suo fulcro d'azione "nella lesione di oggetti materializzati della tutela", è imperniato sulla "separazione antitetica fra autore e vittima" e su regole processuali rigorosamente ancorate al principio di legalità, molto diverso è il diritto penale 'moderno' quale emerge scorrendo la legislazione penale e la prassi odierna. Questo diritto persegue come finalità principale la prevenzione generalizzata, "ponendosi non come mezzo di risoluzione (preventiva) dei conflitti sociali, bensì come sistema di prevenzione (generalizzata) della conflittualità sociale. Il suo fulcro d'azione si colloca non nel danno o nel pericolo, ma nel rischio; il diritto penale 'moderno' imposta "la dinamica del conflitto non più sulla separazione antitetica fra due 'mondi' diversi, ma sul patteggiamento fra autore e vittima..." (44)

Il diritto penale oggi si vede sempre più attribuire una funzione moralizzatrice facendone uno strumento di pedagogia politico-sociale. Paliero, a questo proposito, fa riferimento alla vicenda di "Tangentopoli", emblematica di un diritto penale che si fa carico di una funzione moralizzatrice che punta, attraverso una antropomorfizzazione dei giudici, alla palingenesi sociale.

Aggiunge Paliero: "Le tendenze in atto, tese ad accollare oneri di moralizzazione al sistema penale vigente, si traducono, anche de lege ferenda, in nuove proposte di criminalizzazione del vicious behaviour nella sua accezione più lata, sino ad includervi la contrarietà a valori esistenziali di natura confessionale". (45) In particolare, nello schema di legge-delega Paliero individua, in un complesso normativo sostanzialmente legato a forme classiche, come unico elemento di novità, una serie di fattispecie che in modo più o meno diretto si pongono come obiettivo la tutela della moralità, o la riaffermazione di valori, il cui fondamento è solo etico, per non dire etico-confessionale. (46)

In realtà, conclude Paliero, se il fondamento della codificazione era stato quello di separare il diritto dall'etica, "proprio il modello codicistico in sé mal sembra prestarsi a veicolare questa funzione (neo)moralizzatrice che al diritto penale la società moderna innegabilmente mira ad imputare". (47)

Paliero concludeva la su relazione con quella che lui stesso ha definito una forte provocazione: a suo giudizio la parte generale del diritto penale, pur avendo oggi raggiunto un alto grado di raffinatezza, finisce con essere sostanzialmente inutile se non mutano i termini di riferimento da cui essa ha da sempre tratto la propria linfa vitale. La parte generale, essendosi sviluppata su di un modello classico di reato, rischia oggi di non essere capace di riflettere la realtà dell'attuale sistema penale, sempre che quest'ultimo, aggiunge Paliero, "lo si consideri non come una collezione di fossili normativi, ma come il frutto di un costante monitoraggio, criminalpoliticamente orientato, delle dinamiche psicosociali in atto". (48)

Non manca, forse, tra i penalisti italiani intervenuti al convegno di Firenze, una certa frustrazione che deriva dal constatare come gli altri paesi, a differenza del nostro, oltre a discutere e a parlare di riforme, riescano anche a portarle a compimento. La dottrina italiana finisce così, dopo anni di dibattiti e di vane speranze di riforma, con l'assumere, paradossalmente, la posizione di chi dal percorso riformatore francese e spagnolo ha tutto da apprendere.

Il codice penale francese viene illustrato, nel medesimo convegno, dalla Prof. Mireille Delmas-Marthy, la cui relazione, intitolata "Le nouveau code pénal français: les textes et les contextes" ha suscitato un certo interesse tra i penalisti italiani. (49) Sebbene in Francia i lavori della Commissione incaricata di redigere il nuovo codice si fossero svolti all'insegna della massima apertura e collaborazione con centri di ricerca e organismi statali e internazionali, la penalista francese non ha mancato di sollevare alcune critiche al nuovo codice. Il progetto preliminare era stato, per volontà stessa della Commissione, diffuso negli ambienti universitari e forensi per evitare che i lavori si svolgessero interamente nel chiuso di una commissione, realizzando, da un punto di vista metodologico interessanti risultati. Tuttavia, secondo Delmas-Marthy, mancherebbe a questo codice la capacità di anticipazione, soprattutto nella parte generale, contraddistinta da un atteggiamento prudente, in sostanziale continuità rispetto al passato. Un codice "troppo inscritto nel presente per assurgere a vero atto fondatore di un diritto penale dell'avvenire".

Nella parte speciale, la stessa importante novità della responsabilità delle persone giuridiche non sarebbe stata disciplinata in modo soddisfacente. A questi rilievi, oltre al problema dell'accessibilità intellettuale e materiale ai testi ostacolata dalla tecnica di rinvio e dalla dispersione di gran parte delle norme nelle leggi speciali, si sarebbe aggiunta una sottovalutazione dell'importanza del "contesto", che implica una prospettiva del diritto penale non più esclusivamente 'nazionale', ma che tenga conto delle istanze armonizzatrici dettate dal Trattato di Maastricht, in vista di un codice comune europeo.

Il codice spagnolo, illustrato dal Prof. Francisco Munoz Conde, inquadrandosi nella prospettiva di rifondazione democratica, segna una rottura politico-culturale rispetto al passato. La Costituzione democratica del '78 ha costituito il punto di riferimento essenziale del nuovo impianto penalistico, da cui deriverebbe il pieno riconoscimento accordato alla teoria costituzionale dei beni giuridici. Il progetto di codice spagnolo (entrato in vigore nel maggio del 1996) recepisce i principi fondamentali comuni alla maggior parte dei codici penali moderni, anche se non sempre, a giudizio di Munoz Conde, le scelte sono state coerenti. Una certa preoccupazione deriverebbe da un largo impiego di concetti vaghi e di clausole generali, nonché dal ricorso a fattispecie di pericolo astratto. Netto è invece il mutamento sul piano sanzionatorio, attraverso l'introduzione dell'arresto di fine settimana e la scomparsa della pena detentiva inferiore ai sei mesi. (50)

Il convegno si era svolto alla presenza dell'allora Ministro della giustizia Conso, il quale, oltre a sottolineare come un'opera di codificazione penale non possa prescindere dal tenere conto del codice di procedura penale e dell'ordinamento penitenziario né fare a meno di considerare le scelte effettuate da altri paesi europei, segnalava con rammarico come invano avesse richiesto, per ben due volte, pareri alla magistratura, all'avvocatura e alle Università. (51)

4.2 Il progetto Riz

La conclusione dei lavori della Commissione Pagliaro coincise con la profonda crisi politico-istituzionale del 1992, la quale non consentì allo schema di legge-delega di avviare l'iter parlamentare previsto dalla Costituzione. Alla cronica e ormai consueta instabilità governativa si era aggiunta una forte delegittimazione della classe politica a seguito dei fenomeni di corruzione venuti alla luce nella ben nota vicenda di 'Tangentopoli'.

Nel dicembre del 1994, nel corso della XII legislatura, fu istituito presso la Commissione giustizia del Senato, un comitato per la riforma del codice penale, il quale presentò un disegno di legge che ebbe come primo firmatario il senatore Riz. Il progetto tiene in massimo conto dei lavori della Commissione Pagliaro che, come si legge nella Relazione dello stesso Riz, costituiscono "l'ossatura base sulla quale si potrà instaurare il dialogo parlamentare". (52) Ritornano in questo progetto i temi affrontati e risolti con lo schema di legge-delega del '92: la rilevanza costituzionale dei beni giuridici, i limiti entro i quali codificare la legislazione speciale, la riduzione del diritto penale all'extrema ratio, l'opportunità o meno di distinguere tra delitti e contravvenzioni, l'eliminazione di ogni ipotesi di responsabilità oggettiva. Ampio spazio dedicava la relazione alla disciplina delle scriminanti, con particolare riguardo al tema del consenso nelle contese sportive e nei trattamenti medici, e alla disciplina delle circostanze.

L'ultima parte della Relazione si soffermava sui problemi tra diritto penale e diritto comunitario resi ancor più urgenti a seguito delle scelte operate con il Trattato di Maastricht in tema di cooperazione tra gli Stati membri in settori di comune interesse (lotta contro la tossicodipendenza e la frode su scala internazionale) nonché dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Lo schema Pagliaro, a giudizio di Riz, era stato troppo generico sul problema della preminenza delle norme comunitarie sul diritto penale, limitandosi ad affermare che, agli effetti della tutela penale bisognava assimilare gli interessi della Comunità europea a quelli propri dello Stato. Questa 'assimilazione' di tutti gli interessi della CE nell'ambito del diritto penale italiano appariva, agli occhi di Riz, piuttosto ardua e di non facile realizzazione. (53)

Al di là degli aspetti sostanziali, ciò che colpisce del progetto Riz è il metodo. Un metodo tradizionale, già noto per la sua incapacità di compiere scelte di ampio respiro che conducano ad un sistema riformato che sia logico e coerente. Trattando della sola parte generale del codice, veniva meno l'approccio sistemico alle riforme, ripetendo così l'errore dei progetti di riforma passati che si erano illusi di poter modificare la sola parte generale (l'unica dove i margini di accordo erano più ampi), per riformare la parte speciale in un secondo momento; come se i principi generali racchiusi nel libro I possano davvero essere modificati o creati ex novo senza sapere rispetto a quali fattispecie criminose dovranno poi trovare applicazione.

Il progetto è stato giudicato disorganico, rivolto, per le ragioni viste, metodologicamente al passato. (54) Lo schema di legge-delega del ' 92 sembrerebbe, quindi, costituire la base di partenza dalla quale riprendere il cammino della riforma non appena le condizioni politiche lo consentiranno.

4.3 'Il diritto penale minimo' nel progetto di riforma costituzionale della Commissione bicamerale

Mentre il processo di riforma del codice penale conosce un momento di stallo, la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali inaugurata nel gennaio del 1997 inserisce nella propria agenda non solo le riforme relative alla forma di governo e alla forma di Stato, ma dedica ampio spazio ai problemi della giustizia, prestando particolare attenzione alla funzione giurisdizionale e alla questione della 'separazione delle carriere' tra magistratura requirente e giudicante. Si può dire che proprio quest'ultimo tema sia stato quello che ha maggiormente diviso le forze politiche, guadagnandosi la quotidiana attenzione dei mass-media.

È forse per questa ragione che altre proposte di modifica costituzionale che riguardano direttamente il diritto penale sostanziale sono passate quasi sotto silenzio. Il 4 novembre 1997, la Commissione approvava l'art. 129 del progetto di legge costituzionale, il quale apriva la Sezione II dedicata alle "Norme sulla giurisdizione":

art. 129

Le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale.

Non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività.

Le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico o estensivo. Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l'intera materia cui si riferiscono.

Questo articolo e il successivo, che racchiude i principi del 'giusto processo', sono stati definiti dall'onorevole Marco Boato "i punti più qualificanti della complessiva riforma della giustizia... in grado di favorire quel processo di avvicinamento tra i cittadini ed il sistema giudiziario.." (55)

Nel primo e nel secondo comma dell'art. 129 vengono costituzionalizzati due principi, intimamente legati tra loro, che da tempo erano stati oggetto di dibattito da parte della dottrina. Dopo anni di discussioni che lo avevano in una certa misura ridimensionato, il principio del bene giuridico costituzionalmente rilevante campeggia addirittura nell'articolo di apertura della Sezione costituzionale dedicata alla giurisdizione. L'altro principio è quello di offensività che, insieme al primo, sottolinea Boato, costituiscono gli assi portanti del 'diritto penale minimo', secondo un'importante linea di pensiero della dottrina penalistica che risale alla filosofia illuministica di Beccaria, Condorcet, Pufendorf e Bentham. Perché la sanzione penale sia irrogata come extrema ratio, afferma Boato, occorre definire un parametro, in modo che il legislatore possa non soltanto adeguare l'entità della sanzione, ma "individuare le caratteristiche del bene da sottoporre a tutela, al fine della valutazione del disvalore da attribuire all'atto lesivo e di apprestare un adeguato bilanciamento degli interessi da regolare". Il comitato che ha redatto l'articolo ha ritenuto di dover connettere la nozione di bene giuridico ai valori consacrati dalla Costituzione, la quale, "regolando la convivenza sociale, ... fornisce al legislatore un preciso punto di riferimento, ad un tempo assai chiaro e sufficientemente dinamico per individuare i valori la cui offesa deve essere punita con la sanzione penale". (56)

Il principio del secondo comma sarebbe invece rivolto alla giurisdizione, in modo che comportamenti astrattamente puniti come reato, ma dai quali non deriva un evento dannoso o di pericolo, non possano essere oggetto di sanzione penale.

Il divieto di interpretazione analogica e estensiva non era stato fino ad oggi espressamente previsto dalla Costituzione, anche se la dottrina prevalente ha sempre ritenuto che fosse compreso nel principio di legalità sancito dall'art. 25. L'espressa previsione al terzo comma dell'art. 129 soddisferebbe l'esigenza di fornire maggiori garanzie all'individuo, conferendo maggiore chiarezza ai rapporti tra cittadino e magistratura.

Il quarto comma introduce il principio della 'riserva di codice'. Prevedendo che nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale oppure se sono contenute in leggi che disciplinano organicamente un'intera materia, si è voluto arginare l'inflazione legislativa in materia penale: il legislatore trova quindi un vincolo costituzionale alla sua attività, rendendo più agevole la conoscibilità delle disposizioni penali da parte del cittadino e migliore l'applicazione della legge penale. (57)

Queste disposizioni, oggetto di critiche e commenti su alcune riviste, appartengono ormai ad un recente passato, andando ad aggiungersi al repertorio dei progetti di riforma del codice penale fin qui seguiti. La Commissione bicamerale del '98 che sembrava essersi fatta carico della 'palingenesi politico-istituzionale' del paese è naufragata in seguito ai numerosi contrasti che, specialmente sulla forma di governo, sempre più contraddistinguevano i lavori, travolgendo anche i pochi margini d'accordo esistenti. L'art. 129 non pare sia stato oggetto di particolari controversie, ma la sua 'aproblematica' introduzione nel progetto di riforma costituzionale appare in qualche misura emblematica dell'humus nel quale e dal quale dovrebbe prendere forma il nuovo codice penale.

5. Conclusioni

Dopo anni di sostanziale indifferenza del Parlamento nei confronti della riforma del codice penale, quasi a sorpresa, vengono proposte delle disposizioni relative al diritto penale sostanziale niente meno che a livello costituzionale. Probabilmente più di un penalista leggendo il primo comma dell'art. 129 avrà avuto un sussulto vedendovi 'consacrata' la teoria del bene giuridico elaborata da Bricola nel 1973. L'introduzione di questa disposizione pare più di ogni altra indicativa del livello di incomunicabilità che è esistito e che continua ad esistere tra dottrina e legislatore.

Dal 1973 ad oggi, quella teoria è stata oggetto di critiche e di ridimensionamenti che, senza metterne in discussione la validità di fondo, hanno indotto a guardare alla Carta fondamentale come ad un quadro normativo nel quale non è sempre facile scorgere chiaramente l'indicazione di determinati beni giuridici. La stessa 'vagueness' tipica del linguaggio costituzionale non consente un ancoraggio sicuro ai fini dell'individuazione di interessi emergenti e mutevoli nel tempo meritevoli di tutela penale.

L'orientamento della dottrina si è dunque fatto più prudente su questo tema, ammettendo la possibilità di estendere la tutela penale anche a beni che nella Costituzione trovano un riconoscimento soltanto implicito o con essa non incompatibile.

Il legislatore pare invece non aver seguito le evoluzioni della dottrina, non sembra essersi curato dei numerosi convegni svoltisi, non solo su questo tema, negli ultimi venti anni; non ha tenuto conto, non solo dei lavori della Commissione Pagliaro, che costituisce il punto di confluenza delle posizioni assunte dalla dottrina prevalente in questi ultimi anni, ma neanche delle modalità con le quali in altri paesi le riforme al codice penale sono state approntate. Si assiste, nuovamente, ad un legislatore che fa un uso simbolico del diritto penale per dare all'opinione pubblica la rassicurante sensazione di un mutamento. Si fanno delle rifiniture che solo in parte e solo momentaneamente possono rendere il sistema penale meno pericolante e fatiscente.

Quando si parla di incomunicabilità questa solitamente non può essere imputata ad un solo soggetto: anche la dottrina ha avuto indubbiamente le sue responsabilità nel non aver favorito il dialogo con le istituzioni. In Italia, secondo alcuni, sarebbero mancati gli Alternativen Professoren. (58) Ciò può ritenersi vero fino ai primi anni'70, quando la dottrina era ancora chiusa nel suo 'silenzio tecnico-giuridico'; successivamente, alla vivacità dogmatica degli anni successivi, non è seguito uno scambio fecondo con il legislatore. Quest'ultimo era troppo impegnato nell'affrontare 'l'emergenza' e più interessato alla riforma del codice di procedura penale, settore che per la sua maggiore 'visibilità' rispetto al diritto penale sostanziale appariva più redditizio in termini di rendita elettorale. (59)

Secondo alcuni, a questa incomunicabilità con il legislatore si sarebbe aggiunta l'assenza di dialogo tra dottrina e giurisprudenza. "Autonomia dei giudizi e solitudine della dottrina" aveva rilevato Bettiol (60); la scienza non avrebbe dato il giusto peso al fatto concreto, non avrebbe prestato la dovuta attenzione alle politiche criminali e ai governi che le realizzano. Come è stato detto: "Professori, giudici ed avvocati, cioè, non formano uno o più blocchi magari rivali tra loro che producano linee di politica criminale con le quali andare all'attenzione, o anche allo scontro con le idee in merito del potere politico". (61)

Sembriamo dunque lontani dalla possibilità di avviare una codificazione penale secondo le modalità che hanno contraddistinto la nascita del nuovo codice penale francese. (62) Non è solo il dialogo fra i politici, gli studiosi, gli operatori del diritto a mancare. Mancano, in primo luogo, le condizioni politiche e istituzionali: l'instabilità governativa e la conflittualità tra i numerosi partiti hanno, fino all'ultima Commissione bicamerale, puntualmente affossato ogni possibilità di riforma, nel settore penale, ma ancor più in quello istituzionale.

La riforma del Codice Rocco sembrerebbe dipendere, oggi più che mai, dalle concrete possibilità che il nostro paese ha di ritrovare la funzionalità e la stabilità politica degli altri paesi europei, realizzando quel mutamento istituzionale che consenta di intravedere, non solo a parole, il miraggio della cosiddetta "Seconda Repubblica".

Note

1. Tra i convegni che hanno avuto maggior richiamo, quelli organizzati dal Cnr, dall'Isisc di Siracusa e dal Crs: Metodologia e problemi fondamentali della riforma del codice penale, del 1981, Bene giuridico e riforma della parte speciale, del 1985, Beni e tecniche della tutela penale, del 1987.

2. G. Flora, Manuale per lo studio della parte speciale del diritto penale, cit., p. 78.

3. G. Insolera, Progetti di riforma del codice Rocco: il volto attuale del sistema penale, in G.Insolera, N.Mazzacuva, M.Pavarini, M.Zanotti (a cura di), Introduzione al sistema penale, Cedam, Padova 1997, p.36.

4. Su questi punti, G. Flora, op. cit., p. 84.

5. Tra le fattispecie abrogate: "peculato per distrazione" (art. 314 c.p.), "interesse privato in atti d'ufficio" (art. 324 c.p); "malversazione a danno di privati" (art. 315 c.p.). G. Flora, op. cit., p. 85.

6. Con la medesima legge venivano abrogati, oltre all'art. 519 (" violenza carnale"), gli altri rimanenti articoli relativi ai delitti contro la libertà sessuale come il "ratto a fine di matrimonio" (art. 522 c.p.), il "ratto a fine di libidine (art. 523 c.p.), "seduzione con promessa di matrimonio commessa da persona coniugata" (art. 526 c.p.).

7. P.Pisa, La nuova legge sulla violenza sessuale, "Diritto penale e processo", 1996, (1), p. 5.

8. G. Flora, op. cit., p. 83.

9. G. Flora, op. cit., p. 93; F. Mantovani, Diritto penale, parte speciale, Delitti contro la persona, Cedam, Padova, 1995, p. 416 e ss.

10. G. Flora, op. cit., p. 98.

11. G. Vassalli, Necessità di un nuovo codice penale, "Diritto penale e processo", (1), 1995, p. 7.

12. G. Marinucci, Note sul metodo della codificazione penale, in Verso un nuovo codice penale. Itinerari, problemi, prospettive, Giuffrè, Milano 1993, p. 74.

13. A. Pagliaro, Relazione di sintesi, in Verso un nuovo codice penale. Itinerari, problemi, prospettive, cit., p. 503.

14. In Germania e in Austria, non esisterebbe l'obbligo costituzionale dell'approvazione articolo per articolo. Gli stessi regolamenti parlamentari, forse proprio per consentire la riforma del codice penale tedesco, sono stati modificati: quello del Bundestag, ad esempio, consente un'approvazione in blocco di disegni di legge di particolare complessità. A. Pagliaro, Lo schema di legge delega per un nuovo codice penale; metodo di lavoro e principi ispiratori, "L'indice penale", 1994, p. 244 e ss.

15. Ivi, p. 247.

16. Ivi, p. 248.

17. V. La riforma del codice penale, "L'indice penale", 1992, p. 579 e ss.

18. Su questi punti, v. A. Pagliaro, Lo schema di legge delega per un nuovo codice penale, cit., p. 252 e ss.

19. A. Pagliaro, Per un nuovo codice penale, "Diritto penale e processo", (5), 1995, p. 544.

20. A. Pagliaro, Lo schema di legge delega per un nuovo codice penale, cit., p. 256.

21. Ivi, p. 258.

22. Così Pagliaro, Lo schema di legge delega per un nuovo codice penale, cit., p 259.

23. A. Pagliaro, Per un nuovo codice penale, cit. p. 545.

24. Ibid.

25. Il progetto ha introdotto altre due innovazioni: la prima, consiste nello stabilire che il giudice possa astenersi dall'infliggere la pena, nell'ipotesi in cui il reo abbia subito una poena naturalis, tale da ritenere ingiustificata la sanzione sia in rapporto alla colpevo -lezza che rispetto alle esigenze di prevenzione speciale (art. 40). La seconda innovazione riguarda la pena detentiva di durata inferiore a sei mesi che viene di regola sostituita o sospesa (art. 39.4). Cfr. A. Pagliaro, Per un nuovo codice penale, cit., p. 546.

26. Ibid.

27. Ibid.

28. T. Padovani, L. Stortoni, Diritto penale e fattispecie criminose, cit., p. 61 e ss.

29. A. Pagliaro, Schema di legge delega per un nuovo codice penale, cit., p. 273.

30. Ivi, p. 275 e ss.

31. A. Pagliaro, Relazione di sintesi, cit, p. 520.

32. E. Dolcini, G. Marinucci, Note sul metodo della codificazione penale, cit., p. 65.

33. A. Pagliaro, Relazione di sintesi, cit., p. 509.

34. Così G. Fiandaca, Relazione introduttiva, in Verso un nuovo codice penale. Itinerari, problemi, prospettive, cit., p.16 e ss.

35. Ivi, p. 17.

36. Ivi, p. 18 e ss.

37. G. Fiandaca, Relazione introduttiva, in Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiane, spagnola e francese a confronto, Cedam, Padova 1995, p. 19 e ss.

38. Per il "diritto penale minimo" v. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari 1989, cit., in G. Fiandaca, Concezioni e modelli di diritto penale tra legislazione, prassi, giudiziaria e dottrina, "Questione giustizia", (1), 1991, p. 15 e ss.

39. Si veda anche G. Fiandaca, E. Musco, Perdita di legittimazione del diritto penale?, "Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1994, p. 23 e ss.

40. G. Fiandaca, Relazione introduttiva, cit., p. 27.

41. F. Mantovani, Sulla perenne esigenza della codificazione, in Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, cit., p. 327 e ss.

42. Così C.E. Paliero, Tecniche di tutela e riforma del codice penale, in Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, cit., p. 137. Questa relazione è stata successivamente pubblicata nel 1994, dalla rivista italiana di diritto e procedura penale con il titolo "L'autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?".

43. V. Zaffaroni, En Busca de las Penas Perdidas, Buenos Aires, 1989, M..Delmas-Marthy, Le flou du droit, Paris, 1986 (trad. it. Dal codice penale ai diritti dell'uomo, Giuffré, Milano, 1992, cit. in C.E. Paliero, Tecniche di tutela e riforma del codice penale, cit., p. 143.

44. Ivi, p. 147 e ss.

45. C.E. Paliero, op. cit., p. 155.

46. Paliero si riferisce alla criminalizzazione della pornografia (art. 73), a quel "catechismo bioetico" degli artt. 62, 64, 65 (inseminazione artificiale, contrattazione per fini procreativi, gestazione extra-materna ecc.) che il progetto "intende evangelizzare", sino alla restaurazione del delitto di plagio. C.E. Paliero, op. cit., p. 156.

47. Ibid.

48. C.E. Paliero, Tecniche di tutela e riforma del codice penale, cit., p. 152.

49. Il codice penale francese è entrato in vigore nel 1994, dopo circa venti anni di lavori che hanno visto impegnata una Commissione composta da professori universitari, affiancata da tre servizi esterni: il Servizio di studi penali e criminologici della Cancelleria, il Centro di ricerche di politica criminale e l'Istituto di criminologia di Parigi. In particolare, il Servizio di studi penali e criminologici fu incaricato dalla Commissione di svolgere uno studio sociologico sul funzionamento e sulla percezione sociale del sistema penale. Il Centro di ricerche svolse invece delle indagini di diritto comparato sulla struttura del reato e sul sistema sanzionatorio. Numerose furono le audizioni di magistrati, funzionari e personalità esterne agli apparati giudiziari e ministeriali, che hanno potuto fornire contributi e informazioni su temi specifici. Inoltre, la Commissione chiese ed ottenne dal Ministero una larga diffusione del progetto preliminare, soprattutto presso i tribunali e le corti, la scuola nazionale della magistratura, le organizzazioni rappresentative delle professioni forensi, le università, gli organismi internazionali. E. Dolcini, G. Marinucci, Note sul metodo della codificazione penale, cit., p. 63 e ss.

50. V. E. Antonini, Valore e principi della codificazione penale, "L'indice penale", 1994, p. 207.

51. G. Conso, Conclusioni, in Valore e principi della codificazione penale, cit., p. 299.

52. R. Riz, Per un nuovo codice penale: problemi e itinerari, "L'indice penale", 1995, p. 3 e ss.

53. Ivi, p. 48 e ss.

54. G. Insolera, Progetti di riforma del codice Rocco: il volto attuale del sistema penale, cit., p. 42.

55. V. Artt. 129-133 e relativa relazione on. Marco Boato, in Le prospettive penalistiche della bicamerale, "L'indice penale", agosto 1998, p. 303.

56. Ivi, p. 306.

57. Ivi, p. 308.

58. R. Minna, Il controllo della criminalità, cit., p. 121.

59. G. Fiandaca, Perdita di legittimazione del diritto penale?, cit., p. 31 e ss.

60. G. Bettiol, Verso un nuovo romanticismo giuridico, Cedam, Padova 1980, cit. in R. Minna, op. cit., p. 121.

61. R. Minna, op. cit., p. 122.

62. Si veda supra la nota n.49.