ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Cap. III
Il tormentato cammino della riforma

Sarah Musio, 1999

Introduzione

Coloro che in passato si sono interessati ai progetti di riforma del Codice Rocco avranno probabilmente riscontrato una certa familiarità con il titolo scelto per questo capitolo. Una scelta, la nostra, affatto casuale che, al contrario, appare ad una analisi meno superficiale densa di significati.

Il tormentato cammino della riforma costituisce infatti il titolo di un intervento del Prof. Giuliano Vassalli ad un Convegno di studi svoltosi nel maggio del 1994, sul tema Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali. (1) In quell'occasione Vassalli ripercorreva le tappe fondamentali del processo riformatore non con gli occhi distaccati di chi si limita a fare un resoconto, un mero bilancio di quel processo, ma di chi ha vissuto in prima persona quei ricorrenti tentativi di passare ad un nuovo codice penale.

Vassalli è stato indiscusso protagonista e, in molti casi, artefice di alcuni progetti di riforma non solo nella veste di penalista e quindi di studioso, ma anche di uomo inserito nelle istituzioni, in quanto parlamentare o Ministro della Giustizia. (2)

La scelta di questo titolo ha in sé un altro significato: quello di sottolineare come, ancora nel 1994, si debba parlare di una riforma del codice penale. Il cammino è stato infatti così 'tormentato' che ancora oggi l'idea di una nuova codificazione penale è all'ordine del giorno nel dibattito tra penalisti così come in quello politico, sia pure, in quest'ultimo caso, a margine del più ampio confronto sul tema delle riforme istituzionali.

Se la necessità di una riforma è quindi da lungo tempo avvertita, non può certo dirsi che il Codice Rocco sia rimasto immutato fino ai nostri giorni. Nel corso del tempo sono intervenute delle modifiche che hanno inciso sull'impianto originario, modifiche non soltanto di diritto positivo, ma anche e soprattutto culturali, per il diverso modo che si è venuto via via acquisendo nel concepire e intendere il diritto penale.

L'arco di tempo in cui si delinea il "tormentato cammino delle riforme" è piuttosto ampio: inizia nel 1956, anno del primo progetto di modifica al codice e della prima sentenza della Corte costituzionale, fino ad arrivare alle modifiche costituzionali in materia penale avanzate dalla Commissione Bicamerale del 1998. Per ragioni di chiarezza espositiva si è ritenuto opportuno periodizzare quest'arco di tempo, tenendo conto non solo delle modifiche legislative fino ad oggi intervenute, ma anche dei mutamenti sociali e politico-istituzionali più significativi che hanno fatto da sfondo al processo riformatore.

Nella prima parte del presente capitolo (Gli anni dell''isolamento tecnico - giuridico') tratteremo del periodo che va dal 1956 al 1973; nella seconda parte (Gli anni della 'svolta') verranno affrontati gli anni che abbracciano il periodo dal 1974-75 ai primi anni '80. L'ultimo capitolo sarà incentrato sugli ultimi venti anni, dove i rari ma rilevanti progetti di riforma saranno contraddistinti da una nuova consapevolezza della dottrina penalistica circa le linee di riforma, sempre più influenzate dagli orientamenti accolti nei codici penali promulgati recentemente da alcuni paesi europei.

Per tutti e tre i suddetti periodi sono stati individuati i fattori 'trainanti' del processo di modifica, vale a dire i soggetti che direttamente e indirettamente hanno favorito od ostacolato il processo di riforma del Codice Rocco. Tra questi, naturalmente, il legislatore, la Corte costituzionale, la dottrina penalistica, ma anche un quarto fattore che solo riduttivamente può dirsi esterno. Ci si riferisce al contesto politico istituzionale e socio-culturale, variabili dalle quali difficilmente si potrebbe prescindere non solo per ragioni di completezza ma anche per una piena comprensione dei singoli progetti di legge, delle singole sentenze, dei singoli interventi della dottrina.

1. Gli anni dell''isolamento tecnico-giuridico'

1.1. I progetti di riforma e le modifiche al Codice Rocco

Archiviato il progetto del 1949-50 e le critiche che lo avevano accompagnato, il processo di riforma al codice penale conobbe un momento di stasi. Come si è visto, la dottrina aveva ritenuto opportuno attendere che il nuovo sistema politico-istituzionale entrasse pienamente a regime prima di intervenire su di un codice che tutto sommato, eliminati alcuni istituti marcatamente autoritari e confliggenti con lo spirito della nuova Costituzione, mostrava una coerenza interna difficilmente ripetibile. Era una dottrina poco convinta della effettiva necessità di una riforma, che riteneva sufficiente in cuor suo modificare singole disposizioni, mitigare alcuni istituti per rendere il Codice Rocco un codice in grado di poter ampiamente soddisfare le istanze di un sistema penale democratico.

Questo orientamento condizionerà e caratterizzerà i tentativi di riforma successivi, liquidati dalla dottrina più recente come privi di una linea politica criminale chiara e realmente alternativa rispetto a quella che aveva ispirato il Codice Rocco. (3) In realtà, non poteva aversi una politica criminale, una filosofia penalistica che fosse realmente alternativa se tra i penalisti non era ancora pienamente avvertita la necessità stessa del mutamento.

Se si guarda all'atteggiamento della dottrina nell'arco di tempo che va dal 1956 al 1973, la sensazione che se ne riceve è quella di una dottrina penalistica chiusa in se stessa, poco disposta a dialogare con i soggetti istituzionali, per nulla intenzionata ad uscire, per dirla con Neppi Modona dal suo "splendido isolamento tecnico-giuridico". (4) Diversamente da quanto avverrà negli anni settanta, fatta qualche eccezione, si può dire che i penalisti siano stati i grandi assenti del processo riformatore degli anni sessanta.

Non furono i soli. Altra illustre assente, come vedremo, è stata la Corte costituzionale. Istituita con un certo ritardo nel 1956, 'il giudice delle leggi' interverrà con pronunce di illegittimità costituzionale sul codice penale in casi marginali e solo sporadicamente. Un atteggiamento prudente quello della Corte, del tutto diverso da quello assunto nei riguardi del codice di procedura penale, dettato dalla volontà di non condizionare la sovranità del Parlamento.

Nel 1956, il guardasigilli Aldo Moro nominò una Commissione ministeriale con il compito di preparare un disegno di legge che introducesse le riforme al codice penale ritenute più urgenti, tenendo conto dei lavori conclusisi nel 1950 e delle altre proposte di riforma nel frattempo avanzate. Già dalle parole pronunciate in occasione della Relazione al progetto risultava evidente il limitato respiro riformatore che lo avrebbe contraddistinto:

La stessa complessità che presenta un'integrale riforma del codice penale richiede un penetrante lavoro di non breve durata, che mal si concilia con l'urgenza di arrecare al sistema vigente quelle modificazioni generalmente sentite per la necessità di rendere rispondente tale sistema all'attuale realtà storica. (5)

Proseguiva quindi quell'approccio 'transitorio e di assaggio (6)' alla riforma del codice penale, che avrebbe rinviato la 'Grande Riforma' a tempi migliori.

La Commissione era costituita dai magistrati De Luise, Giocoli, Fini, Scarpello, Gatta, Bianchi d'Espinosa, dai professori Petrocelli, Santoro, Pannain, Delitala, Vassalli. Già alla fine dello stesso anno fu presentato il "Progetto preliminare di modificazione del codice penale", ma tale progetto rimase allo studio del Ministero senza mai raggiungere le sedi parlamentari. (7)

Nel 1960 questo progetto fu fatto proprio dal guardasigilli del governo Segni, Guido Gonella, il quale lo presentò al Senato con qualche lieve modificazione. Nel disegno di legge n.1018, presentato in quel ramo del Parlamento il 24 febbraio 1960, le modifiche avanzate venivano giustificate con il fatto di voler adeguare il codice penale al precetto costituzionale. In tal senso, si provvedeva ad abrogare l'art. 8 (delitto politico commesso all'estero), gli artt. 273 e 274 (illecita costituzione di associazioni aventi carattere internazionale ed illecita partecipazione alle stesse) e l'art. 364 (omessa denuncia di reato da parte del cittadino).

Più numerose risultavano le modifiche apportate agli articoli del libro I, cioè alla parte generale del codice: oltre alla disciplina del delitto politico, l'istituto dell'estradizione, l'ultrattività delle leggi eccezionali e temporanee rispetto alle comuni leggi penali, la rivalutazione delle pene pecuniarie, la disciplina del concorso di cause, del delitto tentato, delle circostanze e del concorso di persone nel reato, nonché l'imputabilità nell'ipotesi di ubriachezza semipiena. Veniva inoltre proposta la modifica di alcuni istituti, i quali, pochi anni dopo, saranno oggetto di specifiche leggi da parte del Parlamento. Si tratta della sospensione condizionale, della liberazione condizionale e dell'esecuzione della pena detentiva nel caso di infermità sopravvenuta del condannato (8).

Per quanto attiene il libro II, nel disegno di legge veniva segnalato l'intento di realizzare un miglior coordinamento delle varie disposizioni con la norma abolitiva della pena di morte e, più in generale, con il nuovo ordinamento costituzionale. Si voleva ridurre il minimo edittale previsto per il reato di oltraggio non circostanziato a pubblico ufficiale, eliminare ogni principio ispirato a dottrine razziste in materia di delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe, ripristinare le lesioni preterintenzionali, limitare la pena dell'ergastolo a soli tre casi (omicidio aggravato per il concorso di talune circostanze indicate al n.2 dell'art. 61, omicidio in danno dell'ascendente o del discendente, omicidio cagionato nell'atto di commettere violenza carnale), aumentare a un anno il minimo edittale per l'omicidio colposo. L'iter legislativo si interruppe alla fase dell'esame in sede referente presso la Commissione Giustizia del Senato. (9)

Nel 1963 venne presentato dall'allora Ministro della Giustizia Giacinto Bosco un disegno di legge-delega di riforma di tutti i codici. Era la prima volta che ci si avvaleva della delega. Nel passato e negli anni immediatamente successivi al '63 si era sempre ricorsi a disegni di legge di iniziativa ministeriale. Il disegno di legge-delega presentava delle particolarità anche sotto il profilo sostanziale dal momento che, proponendosi di riformare oltre al codice penale anche quello di procedura, avanzava per la prima volta l'idea di un intervento modificatore globale. (10)

Questo progetto di riforma avrebbe dovuto ispirarsi, tra gli altri, ai seguenti principi e criteri direttivi: un migliore adeguamento delle sanzioni penali al principio della sicurezza sociale, dell'umanizzazione delle pene e della rieducazione del condannato, attribuendo al giudice penale un maggiore potere discrezionale nella determinazione della pena in concreto. Il progetto, complice anche la eccessiva genericità dei principi cui era improntato, non arrivò mai in Parlamento. (11)

Nel febbraio del 1968, il ministro Reale, anch'egli in qualità di guardasigilli, presentò alla Camera un disegno di pochi articoli tra le cui proposte di modifica figuravano (12): la concessione della estradizione subordinata alla previsione del fatto come reato tanto nella legislazione italiana che in quella straniera; le circostanze aggravanti avrebbero potuto essere valutate solo se conosciute dall'imputato; nel concorso di reati veniva accolto il principio del cumulo giuridico nelle ipotesi di concorso formale. Nel caso di ubriachezza volontaria era data facoltà al giudice di diminuire le pene; la recidiva non veniva applicata se tra la precedente condanna ed il nuovo reato era trascorso un periodo superiore a 10 anni. Il periodo di internamento in manicomio o casa di cura veniva detratto per i 2/3 dalla durata complessiva della pena; venivano previste le lesioni preterintenzionali, mentre le lesioni e l'omicidio "a causa d'onore" erano abrogati. In materia di furto aggravato veniva diminuito il rigore sanzionatorio laddove nel delitto di sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione le pene risultavano aumentate.

La fine della IV legislatura era però troppo vicina perché si potesse pensare di giungere in tempo ad una approvazione del progetto. Il disegno di legge rimase infatti fermo presso la Commissione Giustizia della Camera, in sede legislativa. (13)

In quegli stessi anni il Parlamento se si era sostanzialmente disinteressato di un disegno organico e generale di riforma del codice penale, viceversa, aveva dedicato diverse legislature alla riforma del codice di procedura penale e del sistema penitenziario, settori nei quali, come si è accennato, la stessa Corte costituzionale ebbe un rilevante ruolo di stimolo.

Pur non essendoci iniziative riformatrici di tipo strutturale nei confronti del codice penale, tuttavia, il legislatore non mancò di modificare singoli istituti o fattispecie. Lo stesso Vassalli ci ricorda come, nelle more dei lavori preparatori al progetto preliminare del 1956, la Commissione dovette stralciare in breve tempo un nuovo articolo 57 del codice penale. Questo articolo che, come è noto, riguardava i reati commessi a mezzo stampa, era una delle tante fattispecie previste dal codice che risultavano disciplinate secondo i canoni della responsabilità oggettiva. Come spiegò Enrico de Nicola alla Commissione, la Corte costituzionale nella prima sentenza emessa nel '56 aveva 'salvato' in un primo momento quell'articolo del Codice Rocco. Bisognava però intervenire con una modifica per evitare una eventuale, ma probabile pronuncia di illegittimità costituzionale.

Fu così che il ministro Moro presentò il disegno di legge nel novembre del 1956 (14), con l'intento di coordinare le disposizioni di quell'articolo con l'art. 27 della Costituzione che stabilisce che la responsabilità penale è personale. Il direttore o vice-direttore, ai sensi del rinnovato articolo 57, sono responsabili, a titolo di colpa, in caso di omesso controllo necessario ad evitare la commissione di reati a mezzo stampa. Oltre alla previsione di un art. 57 bis e all'abrogazione del II comma dell'articolo 58 (15), furono introdotti due nuovi articoli nella parte speciale: l'art. 596 bis, relativo al reato di diffamazione a mezzo stampa e il 663 bis, riguardante la divulgazione di stampa clandestina. (16)

Si segnalano altri due interventi del legislatore, emblematici di quell'indirizzo riformatore novellistico, di tipo indulgenziale, finalizzato più a smussare che ad eliminare il rigore penalistico di alcuni istituti del Codice Rocco. Ci si riferisce a due leggi, entrambi del 1962, con le quali si ebbe un primo allargamento dell'applicazione della sospensione condizionale della pena e l'ammissione dei condannati all'ergastolo alla liberazione condizionale.

Se, come sottolineato da Nuvolone, l'abolizione della responsabilità oggettiva del codice rientrava, insieme all'abolizione della pena di morte e alla modificazione di alcuni articoli in materia di delitti contro la personalità dello Stato, tra le novelle che miravano a soddisfare un adeguamento politico-costituzionale, le modifiche relative alla sospensione condizionale e alla liberazione condizionale avrebbero avuto invece quale ratio ispiratrice una certa 'umanizzazione' del codice fascista. (17)

1.1.1. Il secondo progetto Gonella

Il progetto di riforma presentato dal ministro della Giustizia Gonella nel novembre del 1968 merita di essere affrontato partitamente. Non tanto perché le proposte in esso contenute possano dirsi innovative, degne di un autonomo rilievo rispetto a quelle precedenti (si può anzi dire che il progetto del '68 si ponesse in sostanziale continuità con la ratio riformatrice precedente). Piuttosto, perché questo ennesimo tentativo di riforma del codice penale rappresenta il referente essenziale delle modifiche che vedranno la luce nel 1974. La piattaforma riformatrice del '68 costituì infatti la base dalla quale, pochi anni dopo, la prima importante riforma del Codice Rocco prenderà le mosse.

Tra il 1968 e il 1973, il Parlamento, abbandonando per un momento l'atteggiamento di disinteresse che fino a quel momento lo aveva portato ad impegnarsi maggiormente sulla riforma del codice di procedura penale e sulla riforma del sistema penitenziario, esaminerà a più riprese queste proposte di modifica.

Nell'estate del '68, l'allora Presidente del Consiglio Giovanni Leone incaricò Giuliano Vassalli di redigere un progetto preparatorio di riforma parziale, ma che comprendeva anche alcuni articoli della parte speciale.

Già nel discorso di insediamento, il Presidente Leone assicurò, nel quadro di una generale riforma di tutti i codici, l'impegno del governo nel portare a termine la riforma del codice penale e di procedura penale. Quanto al primo, risultava evidente la necessità di superarne le incongruenze, introducendo profili nuovi più rispondenti alle esigenze del paese e ai principi costituzionali. In quest'ottica, proseguiva Leone bisognava:

  1. ridurre il minimo edittale di molti reati e collateralmente aumentare l'ambito di applicazione di istituti come la sospensione condizionale e il perdono giudiziale, al fine di introdurre il principio che la repressione del reato non si identifica sempre con l'espiazione della pena detentiva;
  2. sfrondare l'eccessivo tecnicismo del codice vigente, concentrando le ipotesi di reato, semplificando la gamma delle circostanze, affinando una disciplina più congrua della recidiva e utilizzando istituti come il reato continuato per proporzionare la pena alla personalità del reo. (18)

Nell'illustrare il progetto, il ministro Gonella sottolineò come lo scopo della riforma fosse quello di realizzare un maggiore equilibrio tra le esigenze di difesa sociale e la funzione rieducativa della pena. Tra i principi informatori: la rielaborazione delle circostanze attenuanti, la facoltatività della recidiva, la facoltatività delle pene accessorie, il maggior riconoscimento del profilo soggettivo della responsabilità penale.

Numerose erano le modifiche suggerite a proposito del libro I del codice: abrogazione dell'articolo 8 relativo al delitto politico commesso all'estero; l'istituto dell'estradizione veniva adeguato alle convenzioni internazionali più recenti, vietandone la concessione nel caso di reato politico; veniva prevista una diminuzione delle pene nel caso che cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, ignorate o non previste dal reo, avessero avuto rilevanza nella produzione dell'evento. Le circostanze aggravanti potevano essere valutate a carico dell'agente solo se da lui conosciute, mentre quelle attenuanti sarebbero state in ogni caso valutate a favore del reo.

In materia di concorso di reati si prevedevano le distinte ipotesi di violazioni con una sola azione od omissione di diverse disposizioni normative e della pluralità di violazioni di diverse disposizioni di legge, disponendo che il giudice non possa infliggere in ogni caso una pena più grave di quella che sarebbe stata applicabile in base alle disposizioni sul concorso di pene. Riconosceva la facoltà al giudice di attenuare la pena in caso di ubriachezza volontaria o colposa ed eliminava la figura del delinquente per tendenza.

Per quanto attiene il concorso di persone nel reato prevedeva, quale circostanza aggravante, l'opera di suggestione nella cooperazione criminosa, diminuendo la pena per chi avesse subito l'influsso della suggestione altrui, temperando, inoltre, le pene per i reati diversi da quelli voluti da alcuni dei concorrenti. Nel caso di infermità psichica sopravvenuta al periodo di detenzione, si sarebbe considerato, come esecuzione della pena, il periodo di ricovero in manicomio. Venivano, inoltre, ampliati i termini entro i quali la sospensione condizionale della pena poteva essere ammessa.

Riguardo al libro II, nel Titolo I, relativo ai delitti contro la personalità dello Stato, si diminuivano le pene nel campo dei delitti di spionaggio o di rivelazione di notizie riservate. Inoltre, venivano abrogati gli articoli relativi all'illecita costituzione o partecipazione ad associazioni aventi carattere internazionale, sostituendo la pena dell'ergastolo con la reclusione non inferiore ad anni 21 per i delitti di insurrezione, strage, devastazione. Nel Titolo IV, relativo ai delitti contro il sentimento religioso, si prevedeva la stessa pena per i delitti di vilipendio della religione cattolica e di ogni altra confessione religiosa. Nel Titolo XII, si abrogava il reato di omicidio e lesione personale per causa d'onore, mentre veniva introdotto il delitto di lesioni preterintenzionali. (19)

Nel corso dell'esame del provvedimento, in sede redigente, la Commissione Giustizia del Senato decise, su proposta del relatore Leone, di scindere il progetto in due parti: una prima parte avrebbe costituito il disegno di legge 351 A, relativo alle modifiche del libro I e agli articoli 576 e 577 del codice penale; l'altra parte, il disegno di legge 351 bis, avrebbe riguardato la parte speciale del codice, con l'esclusione dell'omicidio aggravato. (20)

Il disegno di legge fu approvato dall'Assemblea del Senato il 2 luglio del 1971. Il senatore Leone in quell'occasione presentò una relazione nella quale sintetizzava le linee direttrici della riforma: (21)

  1. mantenere intatta l'intelaiatura sistematica del codice del 1930, in quanto, pure a distanza di molti anni, si presentava come opera tecnicamente valida e difficile da rielaborare (22);
  2. realizzare un maggiore equilibrio tra le esigenze di difesa sociale e la funzione rieducativa della pena.

A quest'ultimo proposito, nella relazione si proseguiva con la seguente considerazione: un codice di civile ispirazione avrebbe dovuto punire con estremo rigore quei reati la cui oggettività e il cui connesso allarme sociale si manifestano come una grande frattura per la convivenza sociale, mentre per i reati minori si sarebbe dovuto realizzare una sintesi tra la difesa sociale e il recupero sociale del reo. Il legislatore si sarebbe trovato di fronte ad una alternativa: o rivedere la pena edittale per tutti i reati (come era nelle iniziali intenzioni), oppure introdurre dei congegni di carattere generale che potessero realizzare la suddetta finalità. La prima strada, oltre a dare l'idea di un certo rilassamento del sistema punitivo, avrebbe comportato un lavoro lungo e complesso, mentre i congegni generali su cui maggiormente si era intervenuti (circostanze attenuanti e aggravanti, reato continuato, recidiva facoltativa ecc.) erano apparsi i più idonei ad una individualizzazione della responsabilità del reo. (23)

La Camera dei deputati non poté esaminare il progetto trasmesso il 6 luglio del '71 alla Commissione competente, a causa dello scioglimento anticipato delle Camere. Poté però assistere alla relazione tenuta in Commissione Giustizia dall'onorevole Vassalli il successivo 6 ottobre, nella quale venivano messe in luce le specificità di questa riforma rispetto ai progetti precedenti.

Questo progetto, pur non costituendo una riforma integrale della parte generale, rappresentava, nelle parole di Vassalli, il primo tentativo di revisione in profondità di istituti e principi, secondo orientamenti sconosciuti ai progetti precedenti. Di qui il rilevante e delicato ruolo della Camera dei deputati nell'approvazione della riforma. L'avvenuto stralcio della parte speciale appariva agli occhi di Vassalli opportuno, dal momento che, su alcune fattispecie, ci sarebbero potute essere controversie così notevoli da far rischiare un rinvio della riforma della parte generale anche in materie sulle quali maggiore era la concordanza tra gli studiosi e i pratici del diritto penale. (24)

La V legislatura, che aveva visto per la prima volta un progetto di riforma del codice penale ottenere l'approvazione di uno dei rami del Parlamento, si chiuse, invece, con il primo scioglimento anticipato delle Camere nella storia della Repubblica.

Nell'estate del 1972 il governo (25) presentò al Senato un nuovo disegno di legge (n.372), contenente la riforma parziale della parte generale con il testo che era stato approvato al Senato nella precedente legislatura. Grazie anche al nuovo Regolamento di cui si era dotato (26), il Senato, già nel gennaio del 1973, presentò il nuovo testo, il quale costituiva sostanzialmente la fusione tra il progetto approvato nella precedente legislatura e gli emendamenti presentati dallo stesso Vassalli alla Camera in occasione della sopracitata relazione.

Approvato dal Senato, il 2 febbraio 1973 il progetto passò alla Camera, la quale, in seguito a ricorrenti crisi ministeriali, non poté esaminarlo a causa della conclusione anticipata della legislatura.

1.2. Considerazioni generali sui progetti di riforma presentati fino al 1973

Nonostante il congruo numero di progetti avanzati fino al 1973 non può dirsi che nel settore del diritto penale sostanziale le istanze di modifica abbiano tenuto conto non solo del mutamento politico-istituzionale, ma anche economico, sociale e culturale che il paese stava da tempo attraversando. Nel campo penalistico il linguaggio riformatore degli anni '50 giunge immutato fino all'inizio degli anni '70 senza che si possa cogliere il segno di un cambiamento. I progetti governativi, frutto per lo più dell'impegno di alcuni penalisti con incarichi istituzionali, si susseguono nel tempo nel segno di una totale continuità.

Se nell'ambito costituzionalistico e civilistico si avvertiva in modo tangibile il mutamento che il passaggio dal centrismo al centro-sinistra aveva portato con sé, nel campo penalistico il linguaggio riformatore rimase, negli anni '70, ancorato a schemi e problematiche di venti anni prima. È un gioco di rimandi che lega un progetto all'altro. Ogni modifica avanzata tiene conto di quelle precedenti in una spirale che rende il processo riformatore avviluppato in se stesso.

La prassi che ha visto i progetti di riforma prendere forma nelle stanze ministeriali per approdare nelle commissioni parlamentari induce ad ulteriori riflessioni. Si ha l'impressione che le iniziative governative cerchino di fare breccia nella pressoché totale indifferenza di un Parlamento che alla stregua di uno scolaro diligente cerca di portare a termine, senza convinzione, i compiti assegnatigli.

Per il Parlamento, il cammino delle riforme non fu affatto tormentato, tale fu il suo disinteresse. Ma anche la dottrina penalistica e la Corte costituzionale non furono meno indifferenti al processo di riforma.

Si può notare come non si sia mai ricorsi al termine 'dibattito' che normalmente accompagna scelte di fondo come la riforma del codice penale. Si può dire, infatti, che dibattito non vi fu. Vi fu, piuttosto, quello che Vassalli ha definito, non senza accento polemico, il "silenzio dei penalisti" (27).

1.2.1 L'atteggiamento della dottrina, del Parlamento e della Corte costituzionale nei riguardi del processo riformatore

Dottrina, Parlamento e Corte costituzionale sono dunque rimasti, per ragioni diverse, ai margini dei tentativi di riforma di quegli anni. Quanto alla prima, non può tacersi che furono le stesse istituzioni governative e parlamentari a non avvalersi della collaborazione dei giuristi sotto forma di hearing. I contatti tra scienza penalistica e governo sono avvenuti in modo sporadico, privilegiando, quest'ultimo, la burocrazia ministeriale composta per lo più da magistrati. (28)

Da un altro punto di vista, ha rilevato Marinucci, il governo non aveva elaborato proposte che potessero suscitare dibattiti o progetti alternativi, sul modello dell'"Alternativ-Entwurt" tedesco. Dominava in dottrina un atteggiamento di chiusura nel quale sì si intravedeva una nuova consapevolezza del problema di un adeguamento del sistema penale alle disposizioni costituzionali, ma dove mancava una linea meditata di politica criminale che consentisse di parlare il linguaggio penalistico che negli anni sessanta già contraddistingueva il movimento internazionale di riforma. (29)

I progetti di riforma presentati fino al '73 erano contrassegnati da una impostazione riformatrice di tipo novellistico dettata dall'urgenza e dalla assenza dei presupposti politici e culturali essenziali per realizzare la 'Grande Riforma'. Per comprendere l'atteggiamento assunto dal Parlamento e dalla Corte costituzionale nei riguardi della riforma occorrerebbe non dimenticare il grado di conflittualità politico-ideologica che il nostro paese viveva, già alla fine degli anni sessanta, dentro e fuori le istituzioni.

Riformare il codice penale significava anche e soprattutto intervenire sulla parte speciale, vale a dire su quelle fattispecie criminali che erano espressione di una cultura, non solo penalistica, che non apparteneva più alla società italiana ormai alle porte degli anni '70. Significava quindi fare delle scelte di fondo, stabilire delle priorità, mutare le gerarchie statualistiche del Codice Rocco secondo orientamenti che solo un diffuso idem sentire avrebbe potuto consentire.

Il panorama politico italiano risultava invece quanto mai frammentato e contraddistinto da distanze ideologiche tra partiti tali da non ritenere seriamente possibile una politica riformatrice nel campo del diritto penale.

In un illuminante scritto di Nuvolone del 1964 era già matura la consapevolezza di queste difficoltà. Intervenire sulla parte speciale significava fare una scelta precisa per un certo ordine sociale, scelta sulla quale le diverse concezioni, liberale, marxista e cattolica certo non convergevano. (30)

Nuvolone era consapevole di altri fattori 'extra-giuridici' che avrebbero ostacolato il cammino della riforma. Oltre a quelli specificamente politici, vi erano fattori culturali.

Le notevoli differenze di mentalità tra le diverse aree del territorio e il loro diverso grado di sviluppo avrebbero costituito un ulteriore motivo di contrasto nel paese e tra le diverse forze politiche. Le disposizioni del Codice Rocco in materia di delitto d'onore o la concezione della donna quale emerge da buona parte dei suoi istituti erano, agli occhi di Nuvolone, espressione di un mondo arcaico, nel quale, tuttavia, una parte del paese ancora si riconosceva. (31)

A sostegno dell'opinione che una cosa è intervenire sulla procedura penale, altra sul diritto sostanziale, la Corte costituzionale negli anni '60 interviene in rari casi con pronunce di illegittimità sul Codice Rocco. Il suo è un atteggiamento prudente sul quale certamente incide il principio della riserva di legge e quindi l'idea per la quale solo il Parlamento può validamente intervenire nel settore penale. Le scelte riformatrici o i mancati interventi sulla parte speciale finiscono con il rappresentare una specifica opzione o una lacuna legislativa sulle quali la Corte ritiene di non intervenire se non quando la pronuncia di illegittimità della Corte "...corrisponde all'unica soluzione imposta dalla Costituzione". (32)

Emblematiche, sotto questo ultimo profilo, le pronunce della Corte in materia di propaganda e apologia sovversiva, di adulterio e di sciopero. Sull'articolo 272 (Propaganda e apologia sovversiva o antinazionale) la Corte interviene con la sentenza n.87 del 1966, dichiarando illegittimo il II comma che incriminava la propaganda "fatta per distruggere o deprimere il sentimento nazionale", per contrasto con la libera manifestazione del pensiero riconosciuta dall'art. 21 della Costituzione.

Riguardo alla normativa sul reato di adulterio e concubinato, la Corte, come è noto, è intervenuta con due sentenze di segno opposto: nella sentenza del novembre del '61 venne riconosciuta la legittimità costituzionale dell'art. 559 che puniva il solo adulterio della moglie. Nella seconda sentenza, la n.126 del 1968, la Corte riscontrò "alla stregua dell'attuale realtà sociale", una discriminazione che contrastava con il principio di eguaglianza dell'art. 3 della Costituzione e che appariva del tutto ingiustificabile, anche alla luce della salvaguardia del bene dell'unità della famiglia. (33)

In materia di sciopero, infine, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 502 del codice penale, relativo al reato di "serrata o sciopero per fini contrattuali", per contrasto con il diritto di sciopero riconosciuto dalla Costituzione all'art. 40. Sulle altre norme incriminatrici delle diverse manifestazioni di sciopero la Corte è intervenuta solo con sentenze interpretative. (34)

Non essendo ancora maturi i tempi per approntare una riforma del Codice Rocco che comprendesse anche la parte speciale, ci si limitava ad intervenire sugli istituti della parte generale per stemperare il rigore con il quale il codice disciplinava le fattispecie criminose nella parte speciale. Lo stesso Vassalli, che pure aveva dato alle proposte riformatrici avanzate tra il '68 e il '73 il proprio contributo, facendo delle riflessioni sull'ultimo progetto, asseriva:

Nonostante il distacco fortissimo che questo progetto presenta rispetto al Codice Rocco, si ha l'impressione che non si riesca a staccarsi dal binario della pena tradizionale, teoricamente rieducativa, ma sostanzialmente repressiva e intimidativa. Non si istituiscono nuovi tipi di pena; non si ha neppure il coraggio di rendere pene uniche e principali alcune pene accessorie oggi già conosciute; non si riesce ancora a istituire la probation. Non si trova di meglio che aprire sempre più larghe brecce nelle penalità diminuendo le pene, eliminando circostanze aggravanti, creando nuove circostanze attenuanti, allargando la sfera d'azione del perdono giudiziale e i presupposti per la concessione della sospensione condizionale della pena o per la liberazione condizionale. (35)

Se, tuttavia, per Vassalli questa riforma costituiva un passo in avanti, "un progresso, anche se zoppo, verso un diritto più civile e più umano" (36), di diverso parere furono giuristi come Neppi Modona, il quale, qualche anno dopo, respingerà con decisione, la prassi riformatrice 'surrogatrice' della parte speciale. (37) La riforma della parte generale, isolatamente da ogni revisione dei valori sanciti nella parte speciale, egli diceva, era la ragione per la quale i progetti di modifica avevano suscitato scarso interesse a livello politico, traducendosi in quelle che Modona aveva etichettato come "mere esercitazioni di astratta dogmatica giuridica". (38)

Una riforma limitata alla parte generale avrebbe finito inevitabilmente con lo svolgere un ruolo di semplice razionalizzazione delle scelte di valore presenti nella parte speciale del Codice Rocco, traducendosi, ancora una volta, in "un'operazione che, dietro l'apparenza dell'affinamento della scienza giuridica penale, cela la volontà di conservazione del sistema esistente". (39)

2. Gli anni della 'svolta': dalla riforma del 1974 alla depenalizzazione del 1981

2.1. La riforma del 1974

In una nota pubblicazione, il 1975 veniva indicato come "l'anno della svolta nella recente politica criminale italiana", per il diverso indirizzo allora inaugurato dal legislatore con alcune leggi speciali in materia di criminalità. (40) In una prospettiva più ampia potremmo estendere il significato di quell'affermazione al periodo che va dal 1974 al 1981, perché quanto è avvenuto in quegli anni può certamente considerarsi una svolta rispetto al torpore che aveva contraddistinto il passato.

Se il cambiamento poté registrarsi in modo evidente sul piano legislativo, con le modifiche intervenute non solo sul diritto penale sostanziale, ma anche in quello penitenziario e sanzionatorio, altri non meno rilevanti mutamenti si avvertivano a livello dottrinale. I penalisti cambiano in quegli anni il modo di guardare al diritto penale e al suo rapporto con la Costituzione; emergono, anche nel campo tradizionale della teoria del reato nuove riflessioni, si presta maggiore e consapevole attenzione ai problemi di politica criminale. La dottrina penalistica italiana, a partire dagli anni '70, non solo crea continue occasioni di confronto, di discussione sul tema delle riforme, ma quel che più rileva, si 'apre' al dibattito penalistico internazionale recependone le prospettive riformatrici.

Anche la Corte costituzionale, sia pure mantenendo un atteggiamento prudente per le ragioni già viste, interviene con maggiore frequenza e incisività sul Codice Rocco, con sentenze che in qualche occasione sono state definite "storiche" per l'ampio respiro costituzional-penalistico delle affermazioni in esse contenute.

A fronte di una instabilità politica che per ben due volte aveva interrotto l'accidentato cammino della riforma del Codice Rocco, nel 1974, il governo decise di intervenire con un decreto-legge, realizzando per questa via, quelle modifiche che le Camere fino ad allora non erano riuscite a varare.

Secondo Vassalli, per comprendere questa singolare e repentina iniziativa governativa, bisogna guardare per un momento a quanto avveniva nel campo della procedura penale. (41) Forti erano, in quegli anni, le critiche alla esasperante lentezza dei giudizi, cui si aggiunsero i preoccupanti effetti dovuti alla l. n.406 del 1970, la quale, in conseguenza di una pronuncia della Corte costituzionale, stabiliva termini massimi di carcerazione preventiva anche per la fase del giudizio. In conseguenza di quella legge, il 4 maggio 1974 numerosi condannati a pene gravissime sarebbero stati rimessi in libertà. Il governo ritenne opportuno, quindi, anche a causa dei riflessi negativi che quelle scarcerazioni avrebbero avuto sull'opinione pubblica, di evitarle con il decreto-legge dell'11 aprile 1974 n.99 (42). I primi due articoli del decreto riguardavano appunto l'art. 272 del codice di procedura penale, concernente i termini della carcerazione preventiva.

Si decise in quell'occasione di approfittare di questo decreto per inserirvi le riforme del codice penale fino ad allora maggiormente reclamate (43), anche per non dare l'idea che il governo ricorresse al decreto-legge solo quando si trattava di introdurre norme più severe.

Questa procedura fu da molti ritenuta illegittima, dal momento che buona parte delle riforme contenute in quel decreto erano ancora al vaglio del Parlamento.

Con la 'novella ' del 1974 furono riformate le disposizioni relative al concorso di circostanze, al concorso formale di reati, al reato continuato, alla recidiva, alla sospensione condizionale della pena.

Riguardo al concorso di circostanze eterogenee (art. 69 c.p.) veniva prevista l'estensione del giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti anche per le ipotesi in cui concorrano circostanze inerenti alla persona del colpevole (recidiva, semiimputabilità), oppure circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa (artt. 575 e 576 c.p.) o nei casi in cui la legge prevede l'aumento o la diminuizione di pena in modo indipendente dalla misura della pena ordinaria per il reato (ad es. l'art. 595 commi II e III). (44)

L'esclusione del giudizio di comparazione prevista fino ad allora dal Codice Rocco riguardava numerose ipotesi la cui severità di trattamento, se risultava perfettamente coerente con l'impianto originario del codice, appariva in molti casi intollerabile e anacronistica. (45)

L'introduzione del IV comma dell'articolo 69 costituisce quindi un rilevante avanzamento nel raggiungimento dell'obiettivo da tempo inseguito di attenuare il rigore del codice penale. A questa attenuazione è correlato un maggiore potere discrezionale del giudice, il quale, attraverso le attenuanti, anche solo generiche, può 'contrastare' la rilevanza delle circostanze aggravanti nel caso concreto, diminuendo fino ad un terzo la pena prevista dall'ipotesi base e non avendo più come riferimento la pena contemplata dall'aggravante 'ad effetto speciale'. (46)

Altra importante modifica riguardava il trattamento penale del concorso formale di reati, caratterizzato, diversamente dal concorso materiale, dall'aver commesso una pluralità di violazioni della legge penale con un 'unica azione od omissione. Il Codice Rocco negli artt. 71 e 80 realizzava il principio tot crimina tot poenae per il concorso materiale di reati in ogni sua forma. Nel I comma dell'articolo 81 prevedeva che lo stesso principio dovesse applicarsi sia al concorso formale eterogeneo (violazione con una sola azione od omissione di diverse disposizioni di legge) sia al concorso formale omogeneo (commissione con una sola azione od omissione di più violazioni della medesima disposizione di legge). I progetti di riforma fino a quel momento avanzati si erano posti il problema di eliminare il criterio del cumulo materiale, o almeno di ridurlo alla punizione del concorso materiale di reati. Come già previsto dal progetto del '68, il decreto-legge del '74, tenendo conto delle modificazioni che erano state introdotte al Senato, scelse una soluzione intermedia tra quella del Codice Rocco e quella del Codice Zanardelli (47). Si manteneva il cumulo materiale per il concorso materiale, mentre si ritornava al cumulo giuridico per il concorso formale in ogni sua forma. (48)

L'art. 81 prevede, oltre alla nuova disciplina sul concorso formale, quella sul reato continuato. Vassalli ha definito la nuova normativa sul reato continuato una "riforma sensazionale".

In conseguenza di questa riforma, nell'ipotesi del reato continuato, vale a dire l'ipotesi di più reati commessi da una stessa persona quando siano da considerarsi emanazione e attuazione di un "medesimo disegno criminoso", è prevista l'estensione anche ai reati in concorso eterogeneo. Si avrà quindi reato continuato, non solo in seguito alla violazione della stessa disposizione di legge, ma anche di disposizioni di legge diverse. Questa modifica risponderebbe ad esigenze diverse rispetto a quelle che avevano accompagnato l'introduzione del cumulo giuridico per il concorso formale. L'obbiettivo della nuova disciplina sul reato continuato non sarebbe stato quello di diminuire il rigore del trattamento penale, ma piuttosto quello di estendere i vantaggi della continuazione ad ipotesi che prima ne erano escluse. (49)

Alla importante modifica dell'art. 69, in base alla quale la recidiva è entrata a far parte delle circostanze aggravanti comparabili con le attenuanti ai fini di un giudizio di comparazione, si aggiungeva, con la riforma del '74, la integrale modifica dell'art. 99 c.p. L'aggravante della recidiva veniva trasformata da obbligatoria in facoltativa; era prevista una sensibile riduzione degli aumenti di pena sanciti per la recidiva aggravata e per la recidiva reiterata; veniva introdotto un limite in base al quale, ai sensi dell'ultimo comma "in nessun caso l'aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo reato."

I progetti di riforma in materia di recidiva erano stati, negli ultimi trent'anni, numerosi. In particolare, la discrezionalità riconosciuta al giudice nel considerare la recidiva come aggravante, era stata reclamata da tempo. Quella che nell'ottica del codice del'30 doveva essere uno strumento di difesa sociale, finalizzato a non perdere di vista i soggetti che ricadevano nel delitto, si era rilevato un sistema nel quale il giudice non poteva che agire meccanicamente sulla base di "un rigore aprioristico". (50)

L'ultima importante modifica riguarda l'istituto della sospensione condizionale della pena. Viene infatti elevato il limite di pena richiesto per la concedibilità del beneficio, da un anno a due anni. Questo più elevato limite di due anni (prima concesso solo a persona condannata che avesse commesso il reato dopo il settantesimo anno di età), era previsto in due anni e sei mesi per gli ultrasettantenni. La sospensione condizionale della pena poteva essere concessa a persona che avesse riportato condanna fino a due anni e sei mesi se il reato era stato commesso in una età compresa tra i diciotto e i ventuno anni. (51)

Veniva infine prevista la concedibilità del beneficio una seconda volta, sempre che la pena da sospendere, sommata a quella già sospesa, non superasse i due anni.

Con la riforma del 1974 si realizzava un disegno riformatore del codice penale incentrato da un lato su una netta attenuazione del rigore sanzionatorio di alcuni istituti della parte generale, dall'altro, nella prospettiva di una maggiore individualizzazione della pena, su un potere discrezionale molto più ampio riconosciuto al giudice.

Questo maggiore potere ben si giustificava in funzione della individualizzazione della pena e, in questo senso, la riforma del '74 avrebbe potuto costituire una svolta politico-criminale di un certo rilievo. Così però non è stato perché mancava nella legge una benché minima individuazione di criteri guida che potessero orientare il giudice nell'esercizio di quella discrezionalità e nell'applicazione degli istituti riformati. (52)

Al fondo di questa legge, 'figlia' dei tentativi di riforma passati, non si intravedevano scelte di politica criminale veramente innovative. (53) Restava il più modesto intento di attenuare il rigore sanzionatorio del Codice Rocco affidando "le chiavi della politica criminale al potere giudiziario". (54)

2.2. La riforma dell'ordinamento penitenziario

Con la legge 26 luglio 1975 n.354 il legislatore prosegue nell'opera di rinnovamento del sistema sanzionatorio, innovando l'esecuzione penitenziaria, introducendo misure alternative alla pena detentiva, avendo come punto di riferimento il finalismo rieducativo della pena sancito in Costituzione all'articolo 27 comma III.

Si tratta di una riforma extra-codicem che si pone in piena continuità con la riforma del '74, ma la cui rilevanza emana dalla indubbia portata innovatrice sia dell'ordinamento penitenziario che nel modo di intendere la funzione della pena. Si tratta del primo consistente atto di adeguamento ai principi costituzionali da parte del legislatore che consente, almeno nel settore dell'esecuzione penale, di avvicinarsi al linguaggio penalistico di altri sistemi europei. (55)

Due sono sostanzialmente le linee direttrici della riforma: tutelare la posizione del detenuto attraverso un accentuato garantismo, conferire alla pena una finalità preventivo-rieducativa.

Sotto il primo profilo, può inquadrarsi il ricorso alla fonte legislativa piuttosto che a quella regolamentare nella disciplina della materia, dando così attuazione al principio della riserva di legge in materia penale. Da un punto di vista sostanziale, le norme sull'ordinamento penitenziario prevedono una serie di disposizioni particolarmente orientate alla umanizzazione e democratizzazione della vita carceraria. (56)

La seconda linea direttrice è quella che suscita maggiore interesse. Nell'ottica del finalismo preventivo-rieducativo si aderisce "all'ideologia del trattamento penitenziario" e si introducono le "misure alternative".

Già all'art. 1 della legge si precisa il concetto di rieducazione previsto dalla Costituzione, sottolineando come il trattamento penitenziario debba tendere al reinserimento sociale del condannato. Tale trattamento si basa sull'osservazione scientifica della personalità e su strumenti come l'istruzione, il lavoro, la religione che consentono l'elasticità e l'individualizzazione del trattamento stesso. (57)

Le misure alternative alla detenzione, stante la loro portata innovatrice, sono quelle che destano maggiore interesse. L'affidamento in prova, ad esempio, consiste in una misura che può essere concessa in fase di esecuzione, dopo almeno tre mesi di osservazione della personalità, a chi debba scontare una pena non superiore a tre anni. Caratteristiche essenziali dell'istituto, le prescrizioni previste per la rieducazione del reo e il ruolo svolto dal servizio sociale, il quale svolge una funzione di controllo sulla condotta del soggetto. Considerata da taluno "il fiore all'occhiello" (58) della riforma penitenziaria del '75, l'affidamento in prova si traduce in una opportunità concessa al condannato definitivo di uscire del tutto dal carcere, impegnandosi in una attività che gli consenta di reinserirsi, senza scontare per intero la pena.

Altra misura alternativa prevista, la semilibertà. Essa consiste nel trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per prendere parte ad attività lavorative, istruttive, utili ai fini del reinserimento sociale.

Infine, la liberazione anticipata, che si sostanzia nella riduzione di venti giorni di pena per ciascun semestre di pena detentiva scontata dal condannato che abbia dimostrato di partecipare all'opera di rieducazione. (59)

2.3. Le "Modifiche al sistema penale" del 1981

Per ragioni sistematiche trattiamo qui di seguito di questa modifica legislativa, perché essa costituisce una riforma del sistema sanzionatorio, che viene ad incidere in misura rilevante sul codice penale. Diversamente da altre modifiche legislative ad essa coeve o precedenti, la legge n.689 del 1981 non appare frutto di una scelta emotiva, volta semplicemente al rafforzamento della prevenzione generale. Al contrario, essa rappresenta il risultato di una meditata riflessione di politica criminale che già da qualche tempo faceva parte del 'bagaglio' culturale penalistico della dottrina italiana.

In sintonia con le tendenze di politica criminale di paesi come la Germania, l'Austria e la Svizzera, il legislatore del 1981 realizza un sistema sanzionatorio in cui il ricorso alla pena detentiva risulta notevolmente ridotto e, attraverso la depenalizzazione, l'area dell'illecito penale circoscritta. (60)

La legge 689/1981, infatti, prevedeva: sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, una nuova disciplina della pena pecuniaria, modifiche in materia di pene accessorie, la estensione della perseguibilità a querela, la depenalizzazione ad illecito amministrativo di molti reati per i quali era prevista la pena della sola ammenda o multa.

Per quanto attiene le sanzioni sostitutive, la legge ha introdotto la figura della semidetenzione e della libertà controllata. La prima può essere applicata quando il giudice ritiene di dover irrogare una pena detentiva di durata non superiore a sei mesi. (61) Vi sono poi una serie di prescrizioni (es. sospensione della patente di guida) che sono comuni anche alla libertà controllata. Quest'ultima, sostituisce le pene detentive di durata non superiore a tre mesi. La durata viene calcolata considerando due giorni di libertà controllata per ogni giorno di detenzione.

La libertà controllata si sostanzia nelle seguenti prescrizioni: a) divieto di allontanarsi dal comune di residenza, salvo autorizzazione; b) obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso le autorità di polizia.

La semidetenzione e la libertà controllata non sarebbero quindi alternative alla detenzione, ma rimarrebbero comunque delle sanzioni sostituiscono le pene detentive, allo scopo precipuo di evitare gli effetti desocializzanti che spesso si accompagnano alla detenzione, anche breve. (62)

La legge interviene anche sulla pena pecuniaria, la quale può sostituire le pene detentive di durata non superiore ad un mese. In occasione di questa previsione, il legislatore del 1981 veniva colmando un vuoto aperto dalla Corte costituzionale con la sentenza n.131 del 1979 (63). In quella sentenza era stato dichiarato incostituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost, l'istituto della conversione delle pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del condannato. La legge del 1981 introdusse degli adeguamenti tariffari per adeguare la pena pecuniaria al livello dell'inflazione, ma soprattutto apportò delle innovazioni che miravano a limitare le difficoltà derivanti dal conciliare la disciplina della pena pecuniaria e il principio di eguaglianza di trattamento.

Si stabilì che l'ammontare della pena pecuniaria sostitutiva venisse determinato mediante criteri in parte fissi e in parte variabili. Per i primi è l'art. 135 che, oggi, prevede il rapporto di lire settantacinquemila per ogni giorno di detenzione. Per quanto attiene i criteri variabili, la legge prevede che il giudice, una volta determinata la pena pecuniaria secondo il criterio di ragguaglio visto sopra, la possa aumentare fino al triplo o diminuire fino ad un terzo quando, a causa delle condizioni economiche del reo la pena risulti inefficace o eccessivamente gravosa (art 133 bis).

Come accennato, la legge del 1981 ha introdotto delle modifiche anche al sistema delle pene accessorie con la finalità di rafforzare il sistema sanzionatorio nei confronti di talune forme di criminalità. Le pene accessorie che, in teoria, dovrebbero aggiungersi alla pena principale, in pratica, sarebbero chiamate a colmare il vuoto aperto dalla generalizzata concessione della sospensione condizionale, la quale sospende l'esecuzione della pena principale, ma non le pene accessorie. (64)

Di queste ultime sono previsti ben cinque nuovi tipi: l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione; il divieto di emettere assegni bancari o postali; la sospensione della patente di guida.

Oltre a modificare l'art. 165 c.p., relativo agli obblighi cui può essere subordinata la sospensione condizionale della pena (65), e a prevedere un'estensione della procedibilità a querela a numerose fattispecie delittuose, la legge del 1981 ha dato un notevole impulso al processo di depenalizzazione, trasformando alcuni illeciti penali in illeciti amministrativi. Ciò è avvenuto ricorrendo prevalentemente ad un criterio formale, fondato cioé sul tipo di sanzione comminata (i reati puniti con la sola pena pecuniaria), più che a criteri sostanziali. Questi ultimi presupponevano scelte di natura politico-criminale, una selezione delle fattispecie da penalizzare che solo in alcune eccezionali ipotesi il legislatore è riuscito ad effettuare. Il privilegio riconosciuto al criterio formale sarebbe stato una scelta conseguente alle ricorrenti difficoltà che, nelle sedi parlamentari, accompagnavano le proposte di modifica della tavola di valori racchiusa nelle fattispecie incriminatrici della parte speciale. (66)

Il legislatore del 1981, oltre alle contravvenzioni sanzionate con la sola ammenda, ha esteso la decriminalizzazione (67) ai delitti puniti con la sola pena della multa. Restano esclusi quasi tutti i reati previsti dal codice penale, alcuni reati previsti da alcune leggi speciali stante la loro particolare importanza sociale (aborto, sanità, armi, inquinamento, urbanistica, edilizia, prevenzione degli infortuni sul lavoro), e i delitti punibili a querela, vista, in quest'ultima ipotesi, l'importanza dell'interesse privato alla sanzione penale. Venivano invece incluse alcune contravvenzioni anche se punite con l'arresto. (68)

Queste esclusioni confermerebbero ancora una volta quanto il legislatore italiano, pur optando per la depenalizzazione dei reati minori, creda ancora fermamente nella sanzione penale. Che sia per la maggiore pericolosità reale del fatto o per la volontà di proteggere determinati interessi rimane ancorato alla 'reità' dell'offesa arrecata. Come è stato detto a proposito della legge 689 del 1981, "illecito e sanzione amministrativa avanzano, ma reato e sanzione penale mantengono il loro valore dominante". (69)

2.4. 'Legislazione dell'emergenza' e ipertrofia del diritto penale

Il legislatore degli anni '70, nell'intento di rispondere ai cambiamenti culturali e alle mutate condizioni di vita della società, aveva introdotto nell'ordinamento italiano importanti innovazioni legislative. Dallo Statuto dei lavoratori, alla riforma del diritto di famiglia, dalla legge sul divorzio, alla legge sull'equo canone.

Una proliferazione legislativa che investe vari settori ma che trasposta sul piano penalistico, diversamente da altri settori normativi, ha finito con il mettere in luce problematiche che involgono direttamente la natura stessa del diritto penale e i confini della rilevanza penale.

Gli orientamenti del legislatore e quelli della dottrina appaiono quanto mai contrastanti sotto questo profilo, perché il ricorso sempre più frequente del primo alla sanzione penale appare lontano dalle riflessioni maturate dalla seconda sulla natura e sulle finalità del diritto penale. Un diritto penale inteso sempre più come extrema ratio, che, in ossequio al principio di frammentarietà, tuteli non un qualsiasi bene da qualsiasi aggressione ma solo determinati beni dalle aggressioni meritevoli di tutela penale.

Riservandoci di esaminare successivamente gli orientamenti della dottrina sul Sollen del diritto penale, sul come il diritto penale dovrebbe essere alla luce delle acquisizioni più recenti, occorre soffermarci invece sul Sein del sistema penale, sul diritto penale positivo quale era nella seconda metà degli anni '70.

L'aspetto di maggiore evidenza di quegli anni è il ricorso sempre più massiccio del legislatore alla norma penale quale strumento di tutela di settori nuovi che trovano la loro sedes materiae fuori dal codice penale. Un fenomeno, questo, che porta ad una notevole proliferazione delle leggi speciali, e quindi ad una perdita di centralità del codice proponendo in termini ancora più urgenti il problema della riforma del Codice Rocco. Come si vedrà tra breve, quello della ipertrofia del diritto penale è un fenomeno che presenta specifiche matrici storiche e che riguarda in varia misura la gran parte dei paesi europei.

Il dibattito a livello internazionale aveva posto il problema all'ordine del giorno della cultura penalistica italiana, la quale, a differenza di altri paesi, doveva fare i conti con un sistema politico instabile, dove tanto più appariva lontana l'eventualità di una riforma del codice penale, tanto più vedeva spostarsi il baricentro del sistema penale al di là del codice, in un sistema normativo quanto mai disorganico.

2.4.1 Interventi del legislatore in materia di criminalità

L'incremento della criminalità comune, ma in particolare terroristica, induce il Parlamento, o per meglio dire il Governo, ad intervenire con una serie di disposizioni atte a contrastare fenomeni che, in misura sempre più ricorrente, minacciavano la sicurezza pubblica e l'ordinamento democratico.

Veniva così emergendo un quadro normativo che si poneva in netto contrasto con gli orientamenti indulgenziali delle riforme di pochi mesi precedenti, dando vita ad una legislazione che sembrava assumere, in molti casi, una natura solo simbolica con funzioni rassicuratrici della collettività. (70)

Oltre alla manifesta controtendenza che l'insieme di quelle leggi presentava rispetto all 'piccola riforma 'del '74, tre sono gli aspetti che sembra opportuno segnalare.

Il primo attiene al processo di riforma del Codice Rocco, il secondo alle modalità di produzione legislativa con cui si affrontò la criminalità non soltanto politica, il terzo all'impatto che ebbe quella legislazione sull'impianto autoritario del codice del '30. Tre aspetti che appaiono indissolubilmente legati l'uno all'altro.

La legislazione dell'emergenza ebbe il rilevante effetto di 'travolgere', bloccandolo, il processo di riforma che era stato avviato non solo nel diritto penale sostanziale, ma anche in quello procedurale. Le speranze di una rifondazione del sistema penale alla luce dei principi costituzionali si fecero più evanescenti: si creò, al contrario, un sistema di norme che per la indeterminatezza della fattispecie contrastavano con il principio di tassatività. Si assisteva ad una rivalutazione delle figure di attentato del tutto svincolata dai presupposti dell'art. 56 sul delitto tentato, si soggettivizzavano le fattispecie, specialmente di terrorismo, incentrando il disvalore su momenti soggettivi o addirittura su atteggiamenti interiori. Tipica, a questo proposito, la comparsa del dolo specifico della "finalità di terrorismo o di eversione".

In generale, si assisteva ad un arretramento anche rispetto alle stesse garanzie che il Codice Rocco poneva a tutela degli interessi e dei valori del regime. (71)

Alla luce delle norme che colpiscono la criminalità politica c'é anche un altro dato: le ipotesi incriminatrici della associazione, propaganda o apologia sovversiva che apparivano già da tempo incompatibili con la realtà storica, politica, e giuridica della Costituzione del 1948, conoscono, grazie alla criminalità eversiva e al terrorismo una sorta di revival. Quelli che apparivano ormai "fossili di un diritto penale ideologico da mettere fuori uso" sembrano ricevere invece nuova linfa attraverso una legislazione repressiva posta a tutela di un non meglio precisato 'ordine democratico'. (72)

Se quindi i 'terroristi' degli anni '70 soppiantano i 'sovversivi' dell'epoca fascista è possibile riscontrare una certa continuità tra il legislatore del '30 e quello a più recente. Come ha sottolineato Fiandaca, una delle concause degli orientamenti assunti dalla legislazione dell'emergenza è da individuarsi nel permanente ruolo di modello che, in mancanza di ipotesi alternative, il Codice Rocco ha finito con l'assumere. (73) Paradossalmente, anziché sbarazzarsi delle fattispecie più illiberali, lo Stato democratico ricorre ad un uso "simbolico" dello strumento penale creando fattispecie indeterminate e repressive che non hanno difficoltà ad affiancarsi a quelle già previste dal codice fascista in materia di diritto penale politico.

Prima di affrontare più da vicino la legislazione dell'emergenza, occorre soffermarsi brevemente sulle modalità legislative con le quali detta legislazione è stata introdotta. L'emergenza terroristica, ma anche quella comune, hanno avuto la particolarità di essere fronteggiate a colpi di decreti-legge, secondo una prassi che non ha mancato di essere criticata sotto il profilo della legittimità costituzionale, tanto più che il governo, in occasione del dibattito sulla conversione in legge del decreto, era solito porre la questione di fiducia.

La politica penale veniva così gestita esclusivamente dall'esecutivo, attraverso interventi disorganici e i cui presupposti di necessità e urgenza, quindi di eccezionalità, finivano sempre più con lo sfumare nell'ordinario. (74) In questa tendenza a ridurre la politica criminale in politica penale dell'ordine pubblico attraverso il ricorso a leggi speciali, c'é chi vi ha ravvisato una prassi atavica, endemica nel nostro ordinamento, dove il continuo ricorso alla legislazione eccezionale sarebbe una costante caratteristica della vita politico-istituzionale italiana. (75)

Tre sono stati i fronti sui quali il legislatore si è impegnato per porre un freno al crescente fenomeno criminale: il fronte della criminalità comune, dove, con la l.18 aprile 1975 n.110 veniva introdotta una nuova disciplina nella materia delle armi, alla quale si aggiunsero la nuova fattispecie di riciclaggio con l'art. 648 bis c.p. e le modifiche alle norme sul sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.).

Vi era poi il fronte cui sopra si è accennato della criminalità politica, vale a dire terrorismo e neo-fascismo. In questo ambito, le leggi 22 maggio 1975 n.152 e i d.l 21 marzo 1978 n.59 (convertito nella l. 18 maggio 1978 n.191) e 15 dicembre 1979 n.625 (convertito nella l.6 febbraio 1980 n.15), creavano, fra le altre, le fattispecie di "sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione" (art. 289 bis c.p.), di "attentato per finalità terroristiche o di eversione" (art. 280 c.p.) e di "associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico" (art. 270 bis c.p.).

Un terzo fronte sul quale lo Stato interverrà nei primi anni '80 è quello della criminalità mafiosa. Tra le disposizioni introdotte si segnalano la previsione dell'art. 416 bis c.p. ("associazione di tipo mafioso") e l'art. 513 bis c.p. ("illecita concorrenza con minaccia e violenza"). (76)

Questa legislazione appariva quanto mai priva di una linea di politica criminale coerente e organica, preoccupante sintomo di una 'schizofrenia legislativa' dettata più dall'emotività che da scelte legislative razionali. Attraverso il provvedimento normativo il legislatore lancia dei messaggi all'opinione pubblica, che hanno una funzione rassicuratrice e appagatrice del dilagante 'bisogno di pena'. (77) Da ciò deriverebbe il ricorso a formule suggestive, evocative, tendenzialmente indeterminate, dove il disvalore della fattispecie viene ad incentrarsi su momenti soggettivi o su atteggiamenti interiori.

Tanto la carenza di razionalità quanto l'emotività non sarebbero state caratteristiche esclusive della legislazione dell'emergenza. Questo modo 'propagandistico' di fare le leggi si sarebbe registrato anche in altri settori come quello degli stupefacenti, della repressione delle associazioni segrete, e dell'aborto. (78)

2.4.2 Legislazione speciale e decodificazione

Nella seconda metà degli anni '70, emerge in dottrina una nuova consapevolezza riguardo ad aspetti che con sempre maggiore evidenza venivano delineando la fisionomia del sistema penale italiano. Quest'ultimo, ormai da tempo, non risultava più esclusivamente incentrato sul codice penale, ma anche su una vasta congerie di leggi speciali dove il legislatore, attraverso la sanzione penale veniva tutelando interessi nuovi e rispondenti alle accelerate trasformazioni sociali.

Quello dell''ipertrofia del diritto penale' è un fenomeno che ha interessato e continua ad interessare molti paesi, non solo europei, e che appare strettamente legato all'evoluzione dello Stato sociale di diritto.

In realtà, tale formula era stata coniata, già nel secolo scorso, da un giurista tedesco, il quale, anticipando gli attuali orientamenti di depenalizzazione, criticava il frequente ricorso alla sanzione penale. La pena, andando avanti nel tempo, "...avrebbe perso parte del suo credito e della sua forza intimidatrice, perché il corpo sociale cessa di reagire nello stesso modo in cui l'organismo umano non risponde più ad un farmaco somministrato quotidianamente". (79)

Dai rilievi di Frank e di altri giuristi non solo tedeschi (80) si comprende come la crescita della legislazione penale abbia avuto inizio con il processo di giurisdi- zionalizzazione che aveva contraddistinto l'affermazione dello Stato di diritto. (81) Un processo che aveva visto estendere la giurisdizione penale alle infrazioni minori, contravvenzionali, punite in precedenza dagli organi dell'esecutivo.

L'inflazione delle leggi penali sarebbe dunque collegata a precisi mutamenti istituzionali, ma in particolare, alla progressiva trasformazione dello Stato di diritto di stampo liberale in Stato sociale assistenzialista. Quest'ultimo si contraddistingue da un lato, per il crescente intervento pubblico in settori prima riservati all'autonomia dei privati, dall'altro, per il marcato interventismo dello Stato nell'economia e nella cura dei bisogni essenziali dei cittadini, come il lavoro, l'istruzione, la salute, la previdenza ecc. (82)

La proliferazione di fattispecie incriminatrici ha dato vita ad una legislazione penale speciale che appare sempre più 'pulviscolare' (83) e che tende a dilatare a dismisura il c.d diritto penale accessorio, cioé il diritto dove la comminatoria penale è posta a presidio delle finalità perseguite dall'attività amministrativa (84). La via seguita nella legislazione speciale è quindi quella della "'penalizzazione a tappeto' del vasto arsenale di precetti amministrativi sui quali si regge lo Stato del benessere" cui si accompagna "..una sostanziale amministrativizzazione delle strutture e dei principi fondamentali di larga parte del diritto penale". (85)

Sarebbe il diritto economico-sociale a rappresentare il serbatoio delle bagatelle, ambito giuridico nel quale, il massiccio ricorso alla tutela penale non consente più di distinguere fra quei comportamenti che rappresentano una diretta aggressione dell'interesse protetto e le infinite microviolazioni che in nessun modo potrebbero essere assimilate a quelle condotte cui tradizionalmente è indirizzata la minaccia penale. (86)

Una legislazione speciale di questo tipo appare come un apparato penale imponente e farraginoso, ma sostanzialmente innocuo, dal momento che alla singola microviolazione corrisponde solitamente una sanzione di modesta entità e di irrisoria capacità intimidatrice.

Più in generale, emergerebbe un indebolimento della legislazione penale generale dovuta al fatto che la miriade di previsioni speciali finisce con il 'seppellire' norme destinate a colpire condotte di maggiore gravità. (87)

Se la legge penale costituisce dunque la via più rapida ed efficace per la soluzione dei problemi di controllo di una società complessa (88), ne deriva non solo uno svilimento della stessa sanzione penale, ma anche una non trascurabile difficoltà per i loro destinatari ad avere una effettiva conoscenza della legislazione penale. (89)

Il tradizionale rapporto tra codice penale e leggi speciali che vedeva il primo come principale punto di riferimento del sistema penale e il secondo come normativa accessoria, di complemento, sembrerebbe, ormai superato. La legislazione speciale, diversamente da quella novellistica, finisce con l'avere sul sistema penale influenze ed effetti innovatori che agiscono occultamente. Tra questi vi sarebbero, oltre alla polverizzazione dei precetti penali, il rischio di svuotamento del codice e l'allontanamento di una sua riforma. (90)

Su questi aspetti la dottrina si interroga ormai da tempo, tanto più che la proliferazione legislativa nel settore penale contrasta in modo sempre più marcato con gli orientamenti del movimento internazionale di riforma ormai ancorati ad una teoria del bene giuridico rinnovata e all'idea di un diritto penale con funzioni residuali, limitate alle offese ritenute veramente meritevoli di tutela.

Alla fine degli anni '70, la dottrina inizia a domandarsi se anche nel diritto penale non si stia assistendo ad un 'processo di decodificazione', così come, secondo taluno, stava avvenendo nel settore civilistico. (91)

Questo interrogativo non soltanto consente di mettere in luce i rapporti esistenti tra codice penale e legislazione speciale, ma anche di domandarsi quale possa essere il significato della codificazione oggi rispetto al modello ottocentesco.

Secondo Irti, nel campo civilistico si registrerebbe: una perdita del carattere 'costituzionale' del codice civile (92), una erosione della 'universalità' (tendenziale) della disciplina codicistica (93), una emarginazione del codice e un suo superamento come strumento di unificazione 'del soggetto giuridico borghese'. (94)

Da un punto di vista strutturale, si assisterebbe nel diritto civile ad una progressiva espansione di 'microsistemi' normativi completi "di ispirazione dommatica e politica peculiare, come tali ermeticamente 'chiusi' all'esterno, dei cui rapporti con la disciplina generale resterebbe depositario il solo congegno logico-strutturale della specialità" (95).

La dottrina criminalistica ha trasposto questi rilievi sul piano del sistema penale, cercando di comprendere se qualcosa di analogo stesse accadendo anche in questo settore.

Bricola, ad esempio, ha negato negli anni passati che il codice del '30 stesse subendo un processo di decodificazione, minimizzando la forza 'centrifuga' delle leggi speciali. Queste ultime avrebbero avuto una carica innovativa che in realtà sarebbe andata smorzandosi "..nelle solide, antiche e rigorose strutture del codice". (96)

Secondo altra dottrina, invece, il processo di decodificazione nella legislazione penale sarebbe venuto sviluppandosi analogamente al settore privatistico, rispetto al quale le differenze si porrebbero in termini quantitativi, ma non qualitativi.

Padovani, a questo proposito, riconosce che il fenomeno rispetto al codice penale non si è manifestato con la stessa ampiezza e intensità, ma non per questo il problema appare meno urgente. Materie che tradizionalmente appartenevano al codice penale sono ormai inserite in sedi extra-codicistiche. Stupefacenti, aborto, armi, salute pubblica non avrebbero solo subito una dislocazione topografica, ma sarebbero stati oggetto di una attività normativa ispirata ad una specializzazione della disciplina penale secondo linee sempre più derogatrici della parte generale. (97)

Secondo Stortoni, nel valutare se la decodificazione sia una patologia del sistema o un aspetto fisiologico di esso, bisognerebbe tenere conto delle specificità che il codice penale presenta rispetto a quello civile. La codificazione civilistica può aspirare ad assumere un carattere esaustivo in quanto le norme civili sono suscettibili di interpretazione analogica. Per il diritto penale, viceversa è essenziale che la norma preveda specificatamente come reato, singoli e determinati comportamenti, in ossequio al principio di tassatività e determinatezza. Da ciò ne consegue che la creazione di norme diventa conseguenziale all'impossibilità di soddisfare nuove esigenze di tutela attraverso inammissibili formule aperte o mediante l'ausilio dell'interpretazione analogica. (98)

La decodificazione, inoltre, interesserebbe diversamente la parte speciale e quella generale del codice. Di processo di decodificazione vero e proprio potrebbe parlarsi solo rispetto alla prima. Per quanto attiene alla seconda, la legge speciale a volte introduce espressamente eccezioni ad istituti della parte generale (come la speciale disciplina dell'errore di diritto introdotta in materia penal-fiscale dall'art. 8 della legge n.516 del 1982, oppure l'articolo 24 della legge Merli sugli inquinamenti, che deroga alla disciplina della sospensione condizionale della pena).

Queste deviazioni, però, sarebbero rimaste circoscritte, stante l'ampio e consolidato riconoscimento della nostra cultura giuridica al carattere fondante dei principi racchiusi nella parte generale.

Secondo Paliero, il codice penale non avrebbe perso il suo 'carattere costituzionale'. Esso continuerebbe a costituire la Magna Charta del reo grazie al ruolo fondamentale svolto dall'art. 16 del c.p., il quale, sancendo l'applicazione delle disposizioni del codice anche alle altre leggi penali (se non diversamente stabilito), ha fatto sì che la normativa speciale del diritto penale accessorio non abbia potuto sostituire quegli istituti che "connotano in senso garantista il volto dell'illecito penale". (99) A tale risultato avrebbe contribuito anche la notoria 'cecità' della parte generale riguardo ai beni giuridici.

Dubbi sulla conservazione del carattere 'costituzionale' deriverebbero semmai dalla legislazione d'emergenza, "zona franca dal diritto penale del fatto, dei beni giuridici e della colpevolezza" (100), espressione non dello sviluppo dello Stato sociale, ma piuttosto di un riflusso verso lo Stato di polizia.

La proliferazione di fattispecie accessorie, continua Paliero, soffoca i modelli di tutela racchiusi nella parte speciale del codice, diminuendone la 'funzione di richiamo': "una funzione pedagogica che vale come criterio topografico di richiamo dell'importanza delle norme che vi sono contenute" (101).

Sotto il profilo sostanziale, la legislazione speciale, determina i seguenti effetti: a volte si sovrappone alla disciplina codicistica rendendone problematica l'applicazione o neutralizzandone l'efficacia; altre volte tutela beni individuali o istituzionali diversi da quelli tradizionalmente inscritti nel sistema codicistico, attuando la Costituzione e i dettami dello Stato sociale (anche se il più delle volte il ricorso alla sanzione penale è apparso discutibile). Altre volte ancora, beni fondamentali tradizionali hanno trovato una più articolata disciplina attraverso normative settoriali. (102)

Da un punto di vista strutturale, infine, prosegue Paliero, il diritto penale vede perdere (almeno in parte) la propria autonomia come strumento di disciplina a causa di una sanzione penale che non si collega più a modalità qualificate di lesione del bene, ma che viene invece a coprire interamente l'impianto precettistico posto in essere dal legislatore in una determinata materia.

Paliero ha riconosciuto come, anche nel sistema penale, fosse in atto un processo di decodificazione, ma quest'ultimo presenterebbe delle particolarità in termini di dimensioni e contenuto. Se da un punto di vista quantitativo è possibile affermare che il codice penale ha assunto un ruolo meramente residuale rispetto alla numerosità di fattispecie previste extra-codicem, da un punto di vista qualitativo deve invece ritenersi che il codice penale, rispetto a quello civile, ha mantenuto intatta la sua centralità nel sistema delle fonti penalistiche. (103)

Vi sarebbe un quid pluris nel diritto penale, rappresentato dai principi e dagli istituti della parte generale, i quali consentono ancora di poter applicare il codice penale alla generalità delle ipotesi che non risultano derogate per 'appartenenza di settore' dalle leggi speciali. Diversamente dal diritto civile, il cui codice è rimasto a regolare i pochi casi rimasti al di fuori della disciplina speciale, la parte generale del codice avrebbe impedito nel settore penale la formazione di analoghi microsistemi 'chiusi' e 'completi' che erano stati all'origine della stessa teoria irtiana della decodificazione. (104)

La dottrina più recente riconosce con nettezza la perdita di centralità del codice penale la cui parte speciale parrebbe ormai distribuita tra codice e leggi speciali. (105)

La proliferazione di leggi penali speciali se, come si è potuto vedere, si inquadra in un fenomeno che investe in varia misura i sistemi penali di molti paesi, nel caso italiano, presenta delle specificità legate ai seguenti fattori:

  1. incapacità del Codice Rocco di rispondere adeguatamente alle nuove istanze di tutela tanto dei beni giuridici tradizionali quanto di quelli emergenti;
  2. tendenza da parte del legislatore a rispondere emotivamente alle c.d 'emergenze', attraverso una legislazione non ponderata e disorganica.
  3. presenza di materie emergenti caratterizzate da notevole tecnicismo (materia urbanistica, fiscale, ambientale ecc.) di fronte alle quali il legislatore è intervenuto con una normativa ad hoc, piuttosto minuziosa, collocata necessariamente extra-codicem. (106)

Il penalista Marconi ci ricorda che:

"nei cahiers della Rivoluzione francese l'idea di Codice si coniugava con l'idea di libertà: leggi conoscibili e controllabili, forma semplice e comprensibile, un breve corpo di norme come breviario di una rigorosa osservanza, un freno alle prevaricazioni dell'autorità attuate attraverso l'oscurità o la specialità del dettato normativo". (107)

In epoca attuale, invece, la cultura giuridica assiste ad una crisi del codice penale, che, come taluno ha detto, non si tradurrebbe semplicemente in un allontanamento dalla parte speciale del Codice Rocco, "...ma, piuttosto, in un commiato dall'idea stessa della codificazione penale". (108)

2.5. Le sentenze di illegittimità della Corte costituzionale negli anni '70

Diversamente dal passato, la Corte costituzionale è intervenuta, nel corso degli anni '70, con maggiore frequenza sul codice penale.

Tra le pronunce di maggiore rilevanza possono segnalarsi: quella che ha dichiarato parzialmente illegittimo l'art. 148 c.p., per il caso della infermità psichica sopravvenuta al condannato, introducendo in questa ipotesi una fungibilità tra la pena detentiva e il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario. (109) La Corte ha inoltre dichiarato parzialmente illegittimo l'art. 164 c.p., estendendo così la possibilità di concedere la sospensione condizionale della pena anche a coloro che avessero già riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, non sospesa. (110)

Per quanto riguarda la parte speciale, tra le sentenze di incostituzionalità parziale si segnalano quella sullo "sciopero e serrata per fini non contrattuali", dove la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale nella parte in cui l'art. 503 c.p. punisce anche quelle forme di sciopero che non sono dirette "a sovvertire l'ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare". (111)

Inoltre con una sentenza interpretativa di accoglimento, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della disposizione contenuta nell'art. 415 c.p. ("Istigazione a disobbedire alle leggi"), riguardante l'istigazione all'odio fra le classi sociali "nella parte in cui non specifica che tale istigazione deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità". (112)

Riguardo alla istigazione a delinquere e apologia di reato dell'art. 414 c.p., la Corte si è espressa con una sentenza interpretativa di rigetto, ravvisando in questa norma l'assenza di ogni illegittimo limite alla libertà di manifestazione del pensiero, in quanto l'apologia punibile, ai sensi dell'ultimo comma dell'articolo 414, è "...solo quella che, per le sue modalità, integra un comportamento idoneo a provocare la commissione di delitti". (113)

La sentenza che costituisce la più audace tra le declaratorie di illegittimità è la n.131 del 1979. Come si è accennato, proprio in conseguenza di questa sentenza, il legislatore modificherà, con la l.689 del 1981, la disciplina sulla pena pecuniaria. La Corte ha ritenuto in quell'occasione, costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 3 e 27 comma 1 Cost., l'art. 136 c.p., in base al quale la pena della multa e dell'ammenda, non eseguite per insolvibilità del condannato, si convertono nella reclusione per non oltre tre anni o nell'arresto per non oltre due.

La disciplina prevista dall'art. 136 comportava lesione del principio di eguaglianza, in quanto faceva derivare dalle condizioni economiche del condannato, diseguali conseguenze sanzionatorie. Il legislatore avrebbe quindi dovuto escogitare dei meccanismi di adeguamento alle concrete condizioni economiche dei condannati. "Libertà personale e patrimonio" - sottolineava la Corte - "non sono fungibili, attesa la posizione preminente assicurata dalla Costituzione alla libertà personale", mentre lo stato di insolvibilità costituisce manifestazione "di persistenti difficoltà economiche e sociali, al conseguimento dell'eguaglianza che, anziché essere superate, vengono assunte a causa esclusiva dell'aggravamento della sanzione penale.".

2.6. Il 'movimento internazionale di riforma' e gli orientamenti della dottrina

Se è solo alla fine di questo lungo capitolo che ci accingiamo a dare un quadro degli orientamenti riformatori della dottrina e delle influenze che su questi ha avuto il c.d 'movimento internazionale di riforma' non è perché si reputi questa tematica secondaria rispetto agli interventi legislativi più o meno coerenti e incisivi visti fin ora. Al contrario, è da ritenere che il diverso modo con il quale in quegli anni la dottrina guarda alla natura, all'essenza del diritto penale sostanziale, si inserisca a pieno titolo nel quadro di quella diversa sensibilità riformatrice che, a vari livelli, ha contraddistinto gli anni '70.

Forse, però, il fatto di considerare solamente in ultima analisi, le modifiche intervenute a livello dogmatico, contribuisce a dare il segno di un isolamento che, per molti versi, anche a fronte di un Parlamento più sollecito nel realizzare modifiche legislative di un certo rilievo, ha contraddistinto la dottrina penalistica italiana.

Fino a questo momento ci siamo prevalentemente soffermati sul percorso riformatore inaugurato dal legislatore, percorso, per un verso improntato al recepimento di istanze deflazionistiche del settore penale, per un altro, contraddistinto dall'incapacità di non ricorrere alla sanzione penale, la quale, lungi dal costituire l'extrema ratio del nuovo volto del diritto penale, ha finito col divenire la sola e unica ratio. (114) Un legislatore che con una mano tentava di attenuare il rigore autoritario di molti istituti della parte generale del codice, con l'altra, in nome della lotta alla criminalità, specialmente politica, interveniva con modifiche all'insegna della indeterminatezza, realizzando forme di tutela quanto mai anticipate rispetto alla stessa disciplina prevista per il delitto tentato dal Codice Rocco.

Si trattava, dunque, di un legislatore al quale giungevano solo gli echi del processo riformatore internazionale. Gli sforzi compiuti nella realizzazione di una prima, vera depenalizzazione, ad esempio, erano stati vanificati e contraddetti da quello stesso legislatore con la previsione di apposite ammende che criminalizzavano condotte della cui natura bagatellare è difficile opinare. (115)

Occorre chiarire il significato dell'isolamento della dottrina cui si accennava. Innanzitutto, si trattava di un isolamento che assumeva un diverso significato rispetto al passato. Se prima esso poteva avere matrici tecnico-giuridiche, in base alle quali la dottrina concepiva le ipotesi di riforma al Codice Rocco in termini decisamente riduttivi, riconoscendo poco spazio alla funzione propulsiva e promozionale della Costituzione, viceversa, i primi anni '70 registrano un mutamento di Weltanschauung in materia di riforma penale, cui non si accompagna però un costruttivo dialogo con il legislatore e con gli operatori del diritto.

All'isolamento tecnico-giuridico degli anni '60 non era corrisposto un periodo di feconde elaborazioni dogmatiche. La dottrina restava ancorata agli istituti e alle problematiche tradizionali. Gli stessi progetti governativi si erano limitati a proporre pedissequamente schemi di riforma 'ereditati' dal Ministro della Giustizia precedente. Certamente, questi progetti non avevano avuto un ruolo di stimolo nei confronti dei penalisti, come invece era accaduto in Germania, perché l'approccio novellistico alle riforme aveva come elemento distintivo quello di non sconvolgere troppo l'esistente né le certezze e le convinzioni dogmatiche che ad esso erano ancorate.

La mancanza di una diffusa e consapevole istanza riformatrice nei confronti del Codice Rocco non portò la dottrina ad avere, a sua volta, un ruolo propulsivo nei confronti dei soggetti istituzionali. Essa rimase silenziosa fino ai primi anni '70. A partire da quel momento, il torpore degli anni passati lascia il posto al dibattito, ad un fervore dottrinale che si incentra su principi innovatori e su tematiche che non tarderanno a divenire classiche. Si comincia a parlare un linguaggio penalistico la cui grammatica non può più prescindere da una teoria del bene giuridico rivisitata alla luce dei principi costituzionali, da un diverso modo di intendere il rapporto tra diritto penale e politica criminale, da una diversa concezione della pena, da una depenalizzazione ormai riconosciuta essenziale ad un diritto penale improntato al principio di frammentarietà.

Su questi temi, strettamente interrelati tra loro, numerosi saranno i convegni che, a partire dal 1974, e negli anni successivi, vedranno i penalisti discutere e confrontarsi. L'approccio tecnico-giuridico alle riforme finiva, travolto dalla propositiva vivacità intellettuale di nuovi penalisti.

2.6.1. Il contributo della dottrina tedesca al processo internazionale di riforma

Avveniva in Italia quello che almeno dieci anni prima era accaduto in Germania con il c.d. Alternativ-Entwurf. Con questo termine si suole riferirsi al "Progetto alternativo di un codice penale" presentato nel 1966 da un gruppo di penalisti tedeschi, in antitesi a quello governativo di pochi anni prima. Quest'ultimo costituiva il punto di approdo di un processo di riforma avviato negli anni cinquanta le cui linee-guida erano improntate ad una visione largamente conservatrice e moralizzatrice; nella Relazione che motivava la scelta di mantenere nel codice l'incriminazione dei comportamenti omosessuali si leggeva:

La tesi secondo cui la minaccia della pena è giustificata solo quando è in gioco la protezione di un determinato bene giuridico non è accolta unanimemente dalla dommatica penalistica, né è stata sinora la guida esclusiva della legislazione penale. È vero che le norme penali nella maggior parte dei casi servono a proteggere beni giuridici, tuttavia, ciò non esclude che si reprimano alcuni tipi di comportamento particolarmente riprovevoli da un punto di vista etico, e vergognosi secondo l'opinione generale, sebbene non ledano nessun bene giuridico. (116)

Questa impostazione riformatrice, questo modo di intendere la fattispecie penalistica erano in pieno contrasto con gli orientamenti raggiunti dal dibattito che in molti paesi europei, a partire dai primi anni del secondo dopoguerra, si era formato intorno al concetto di bene giuridico.

Il bene giuridico, considerato fondamento e limite alla potestà punitiva dello Stato nella disciplina dei reati, diventa, soprattutto negli anni sessanta, il riferimento essenziale dal quale partire per avviare qualunque processo di riforma in materia penale. (117) Caratteristico di quegli anni è il clima politico-culturale che pervade buona parte dell'Europa occidentale e che conduce a dare nuovo impulso a istanze di liberalizzazione, umanizzazione e delimitazione del potere statuale. Particolarmente in Germania e in Inghilterra era stato netto il rifiuto per una pena posta non a tutela di beni giuridici, ma a presidio di mere istanze morali.

Il progetto governativo presentato in Germania ebbe quindi l'effetto di provocare una reazione in quella parte della dottrina che riteneva quanto mai necessario un ripensamento globale del diritto penale alla luce di principi ispiratori che fossero in netta discontinuità rispetto al passato. Questi principi elaborati ed affermati dalla dottrina tedesca costituiscono gli assi portanti di quello che non è apparso esagerato denominare 'movimento internazionale di riforma'. (118)

Lo studioso Jescheck ha messo in luce quanto questo movimento fosse contraddistinto da un mutamento spirituale che ha investito il modo di intendere il diritto penale e la sua riforma. La riduzione della rilevanza penale a ciò che è assolutamente necessario alla tutela della società, la tendenza a ridurre il ricorso alla pena detentiva, la previsione di pene pecuniarie come efficaci sostitute alla reclusione, costituivano, già alla fine degli anni settanta, caratteristiche della politica criminale tedesca.

Secondo Jescheck, con il codice penale tedesco approvato nel 1975 si era compiuta una tale svolta nella storia del diritto di quel paese, da poter essere paragonata ai grandi mutamenti avvenuti due secoli prima sotto l'influsso di Cesare Beccaria che avevano portato alla abrogazione della pena di morte e delle pene corporali limitando la sanzione penale alla privazione della libertà. (119)

Roxin, uno dei più illustri fautori della riforma penale tedesca, sintetizzò così i principi-guida che sovraintendevano all'Alternativ-Entwurf:

  1. Un diritto penale non metafisico: ciò che legittima le sanzioni penali non è l'idea razionalmente indimostrabile di una compensazione retributiva della colpevolezza, bensì la necessità di una tutela della società non ottenibile con mezzi meno gravosi.
  2. Un diritto penale non moraleggiante: ciò che può motivare l'intervento penale non è l'immoralità di un comportamento, ma solo l'immediata turbativa della pacifica convivenza sociale.
  3. Un diritto penale liberale: i punti sopra enunciati conducono ad una restrizione del diritto penale; verso la liberalizzazione sospinge, anche e soprattutto l'idea che il reo (...) non può servire come mezzo per l'intimidazione di terzi, o come oggetto di un illimitato potere statuale, ma soggiace alla potestà punitiva dello stato solo nella misura corrispondente alla sua personale responsabilità.
  4. Un diritto penale umano: in quanto una risocializzazione sia necessaria e possibile, l'esecuzione della pena dovrà servire ad attuarla. (120)

Allo stesso Roxin si devono le stimolanti critiche ad una dogmatica penalistica chiusa al sociale e alla realtà, che si pone su di un piano distinto rispetto alla politica criminale. Secondo Roxin, invece, la dogmatica sarebbe dovuta divenire concretizzazione dei principi e delle esigenze della politica criminale, principi che derivano esplicitamente o implicitamente dalla stessa Costituzione. Si doveva porre fine a quell'atteggiamento che fino ad allora aveva visto la dommatica guardare alla politica criminale solamente come politica delle riforme, come momento di scelta dei mezzi più idonei per combattere la criminalità.

A fondamento di questa nuova impostazione, grande riconoscimento veniva attribuito ai principi costituzionali, veri "pilastri sui quali poggiare la ricostruzione dommatica. .., limiti garantistici di selezione fra le possibili scelte da percorrere nella strategia della lotta contro la criminalità". (121)

Al 'movimento internazionale di riforma penale' improntato ad una marginalizzazione del diritto penale corrispondeva un 'movimento internazionale di depenalizzazione'. Un fenomeno di politica legislativa, cui si è già fatto riferimento, che è caratterizzato dalla progressiva riduzione dell'area di tutela del sistema penale, non solo limitando la sanzione penale detentiva, ma anche ricorrendo a strumenti di controllo sociale. (122)

Anche nella amministrativizzazione della legislazione penale speciale la Germania si è rivelata precorritrice di successivi orientamenti, nonché capace di raggiungere risultati molto soddisfacenti sul piano tecnico-legislativo. Già alla fine degli anni '60 vedeva la luce l'Ordnungswidrigkeit (illecito amministrativo punito con la sola pena pecuniaria), che oltre ad essere compiutamente disciplinato sotto il profilo sostanziale e processuale, segnava l'uscita delle contravvenzioni dal sistema penale tedesco. (123)

2.6.2. Orientamenti riformatori della dottrina italiana

Come accennato, la dottrina italiana si dimostrò capace di recepire, verso la metà degli anni '70, gli indirizzi riformatori indicati dal processo internazionale di riforma e, segnatamente, dalla scienza penalistica tedesca. Si registra in quegli anni il crescente interesse dei penalisti per la politica criminale e per la prevenzione generale dei reati, portando la dottrina a soffermarsi sulla dimensione storica dei fenomeni relativi alla pena detentiva e al sistema penitenziario attraverso uno studio contrassegnato da una compenetrazione tra diritto positivo, storia del diritto e politica criminale. (124)

All'approccio interdisciplinare di giuristi come Mantovani, Pagliaro, Romano si aggiungeva la c.d. 'concezione realistica del reato' che aveva tra i suoi esponenti penalisti come Fiore, Bricola, Neppi Modona, Marcello Gallo. Secondo questa concezione, per la sussistenza del reato non sarebbe sufficiente la mera conformità del fatto alla fattispecie astratta, ma occorrerebbe l'effettiva lesione o messa in pericolo del bene o interesse tutelato dalla norma penale.

La tematica che più di tutte incontra l'interesse della dottrina è quella del bene giuridico, che, anche alla luce dei principi costituzionali, diventa l'imprescindibile punto di riferimento per l'elaborazione di ogni illecito penale. Diversamente da quanto avveniva in passato, non solo è ormai pacificamente avvertita dai penalisti la necessità di adeguamento del Codice Rocco ai principi costituzionali, ma la dottrina intravede chiaramente nella Carta fondamentale una capacità propositiva in grado di orientare la riforma del diritto penale.

Siamo lontani da quell'atteggiamento distaccato assunto dalla dottrina all'indomani della promulgazione della Costituzione, che aveva visto limitare i nessi interpretativi tra diritto penale e principi costituzionali a questioni di mera identità linguistico-formale. Nuvolone, anticipando una sensibilità costituzionale impensabile per quei tempi, già nel 1956 aveva rilevato come la legge penale, essendo quella che maggiormente viene ad incidere sull'esercizio della libertà, "..è naturalmente la più soggetta a subire i contraccolpi dei mutamenti costituzionali e a rivelare (...), nel suo seno, la verità del principio di unità e interdipendenza tra i vari rami dell'ordinamento giuridico". (125)

Sono temi questi, che troveranno, successivamente, ampi sviluppi in autori come Bricola. A partire dai primi anni settanta, può dirsi ormai pacificamente accolta l'idea che la Costituzione non ha più soltanto la tradizionale funzione di limite negativo all'intervento penale, ma una ben più rilevante funzione promozionale circa quelli che devono essere i beni oggetto di tutela. Struttura del reato, catalogo degli illeciti, funzione e tipologia delle sanzioni trovano nella Costituzione saldi punti d'appoggio. (126)

Scriveva Neppi Modona: "Si tratta di coinvolgere il diritto penale in quella fitta rete di funzioni promozionali che caratterizzano la nostra Costituzione (Bobbio) e che trovano il loro criterio unificatore nell'art. 3 comma 2" (127). La Costituzione viene quindi ad assumere rilevanza penalistica ben oltre quelli che sono i principi costituzionali in materia penale. Anche i principi fondamentali della Carta fondamentale, e la Prima parte relativa ai diritti ed doveri dei cittadini contribuiscono a costruire il 'nuovo volto' del diritto penale.

Ad usare questa espressione è Bricola nella "Teoria generale del reato", scritta nel 1973 per la collana Novissimo Digesto. Secondo questo autore, la normativa costituzionale esprimerebbe l'esigenza di un sistema positivo fondato su di un limitato numero di illeciti penali, incoraggiando essa stessa la tendenza alla depenalizzazione.

Bricola elabora la sua teoria partendo dall'assunto in base al quale, poiché la Costituzione attribuisce un valore preminente alla libertà personale, quest'ultima non potrebbe subire restrizioni per effetto della sanzione penale, se non come extrema ratio:

... oggi, può affermarsi, con una maggiore consapevolezza costituzionale, che la sanzione penale può essere adottata soltanto in presenza della violazione di un bene, il quale, se pure non di pari grado rispetto al valore (libertà personale) sacrificato, sia almeno dotato di rilievo costituzionale. Ossia: l'illecito penale può concretarsi esclusivamente in una significativa lesione di un valore costituzionalmente rilevante. (128)

La dottrina negli anni successivi si interrogherà su questo tema, domandandosi se il diritto penale possa tutelare o meno beni che non abbiano un rilievo costituzionale; se la Costituzione, da insieme di norme promozionali del diritto penale, non possa correre il rischio di rappresentare un limite invalicabile per il legislatore che si appresta ad individuare determinati beni da tutelare. Un rilevante numero di penalisti, pur individuando nella Costituzione importanti coordinate per la creazione della norma penale, non escludono che quest'ultima possa avere ad oggetto anche beni solo indirettamente di rilievo costituzionale o costituzionalmente non incompatibili. (129)

Come sottolineato da Vassalli, il rinnovato rapporto tra Costituzione e diritto penale viene ad avere una rilevanza che va oltre il semplice riferimento al bene giuridico, allargando l'interesse del penalista a tematiche sociologiche e politiche "...che, per questa via, rientrano nella scienza del diritto penale contribuendo, rispetto alle impostazioni prevalenti all'inizio del cinquantennio, a rinnovarne metodi ed indirizzi". (130)

Sempre a giudizio di Vassalli, superata 'l'eclisse costituzionale', le letture degli studiosi si fecero più penetranti e le loro opere si arricchirono di nuovi riferimenti. Da quel momento, "il travaglio dottrinale sul Codice Rocco non fece che aumentare". (131)

2.6.3. Il Codice Rocco nell'opinione dei penalisti alla fine degli anni '70

La rivista "La questione criminale", ha dedicato, nel 1981, un proprio numero al tema "Il Codice Rocco cinquant'anni dopo", invitando parte della dottrina a svolgere delle riflessioni sul ruolo avuto dal codice penale fascista nella società italiana, sulla 'fisionomia' da esso raggiunta in conseguenza delle modifiche intervenute negli anni settanta e sulle prospettive di una sua riforma.

A conclusione di questo capitolo, vorremmo dare un quadro delle posizioni assunte dalla dottrina su questi temi, perché ci sembra rilevante comprendere l'atteggiamento dei penalisti nei confronti del Codice Rocco in un periodo difficile e problematico come quello vissuto dal nostro paese a cavallo tra gli anni '70 e gli anni '80.

Le pagine di quella rivista sono attraversate da un certo pessimismo e in generale, da un atteggiamento negativo circa le modifiche apportate dal legislatore in quel decennio. Si ha la sensazione che la dottrina sia consapevole di aver raggiunto istanze riformistiche pienamente al passo con gli orientamenti di altri paesi, di aver saputo riscoprire le potenzialità innovatrici degli articoli costituzionali, di essere ormai giunta al punto di intravedere la strada che avrebbe condotto ad un sistema penale riformato.

La realtà pero era diversa. Il legislatore non si era rivelato capace non solo di accorgersi che la cultura giuridica europea stava cambiando, ma che la stessa dottrina italiana era ormai avviata verso nuove prospettive riformistiche, secondo le quali, il diritto penale, superata la tradizionale funzione protettiva e repressiva, veniva a far parte dei "fattori che concorrono alla formazione del nuovo modello di società postulato dalla Costituzione". (132)

A seguito delle abrogazioni, delle riforme e degli interventi legislativi realizzati dal Parlamento fino a quel momento, il Codice Rocco aveva perso la fisionomia e armonia originaria. Al suo posto, un codice penale nel quale i vizi antichi si sommavano a quelli recenti. Un codice caratterizzato da ambiguità, doppiezza, dove l'impostazione di insieme non risultava essere più né autoritaria, né liberale, ma soltanto arbitraria. (133)

Quelle che Bettiol ha liquidato come "riformette da caffè concerto" avevano avuto il difetto non solo di aver creato un sistema penale incoerente e disorganico, all'insegna di una politica criminale dettata dalle contingenze, ma di procrastinare oltremodo l'eventualità di una riforma globale del codice penale. Come egli aveva affermato, forse profeticamente, alcuni anni prima: "Se torniamo ancora con riforme parziali a questo codice, per altri quarant'anni avremo un codice penale che non corrisponde a quelle che sono le trasformazioni di carattere sociologico, strutturale, funzionale, ideologico, culturale che il mondo ha nel frattempo conosciuto". (134)

Nonostante fosse fortemente avvertita l'esigenza di una riforma del codice penale, di un suo adeguamento al dettato costituzionale e ai nuovi valori e interessi espressi dalla società, buona parte della dottrina riteneva che, ormai alle porte degli anni '80, le condizioni non fossero mature per avviare un processo di codificazione.

Nuvolone, in particolare, riteneva in quegli anni che, viste le incertezze e le tensioni del periodo, l'elaborazione di un codice, specie penale, fosse di là da venire. Meglio sarebbe stato "riparare e sostituire qualche pezzo, che scolpire una nuova statua coi piedi d'argilla, destinata a cadere al primo colpo di vento". (135)

Anche secondo Bricola, le speranze di una rifondazione del sistema penale positivo alla luce dei principi costituzionali, sembravano ormai tramontate. Si sarebbe potuto fare al più un'opera di contenimento degli effetti corrosivi legati alla legislazione più recente, specie dell'emergenza. La ripresa della riforma presupponeva, a suo giudizio, un superamento non solo delle tensioni economico-sociali, ma soprattutto, la risoluzione della crisi istituzionale allora in atto. Ciò significava recuperare la dialettica maggioranza-minoranza, ripensare al rapporto governo-Parlamento, ritrovare la strada della stabilità politica, attraverso un sistema politico-istituzionale più saldo ed efficiente.

Queste considerazioni non sono di poco momento perché rivelano un'importante consapevolezza che iniziava a farsi strada in quegli anni: la riforma del codice penale vede sempre più legato il suo destino alle riforme istituzionali. Per meglio dire, la difficoltà di realizzare una riforma degli equilibri tra gli organi costituzionali, la mancata riduzione della frammentazione partitica attraverso una seria modifica della legge elettorale, sono le principali cause, non solo delle disfunzioni del sistema politico nel suo complesso, ma anche degli ostacoli incontrati dai progetti di codificazione penale degli anni successivi.

Ritorneremo su questi temi nel capitolo successivo, dove si vedrà che, così come accadeva nel 1981, anno di insediamento della prima Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali, il problema di un nuovo codice penale e quello di un mutamento del sistema politico e di governo, risultano, negli anni '90, ancora iscritti all'ordine del giorno del dibattito parlamentare.

Note

1. Gli Atti del Convegno sono stati successivamente pubblicati in Aa.Vv, Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Giuffrè, Milano 1996.

2. Giuliano Vassalli aveva già fatto parte, come si è visto, della Commissione Tupini nel 1945. Nel 1988, in veste di Ministro della Giustizia, istituirà la Commissione presieduta dal Prof. Pagliaro che ha redatto l'ultimo organico Progetto di riforma del codice penale.

3. G. Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, "Democrazia e diritto", 1975, p. 61 e ss.

4. G. Neppi Modona, Tecnicismo e scelte politiche nella riforma del codice penale, cit., p. 884.

5. Cit. in P. Nuvolone, Alle soglie di una riforma, "Rivista di diritto e procedura penale", 1964, p. 368.

6. L'espressione è di G. Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, cit., p. 64.

7. G. Vassalli, Il tormentato cammino della riforma, in Prospettive di riforma del codice penale, cit., p. 6 e ss.

8. Per la modifica di questo istituto bisognerà attendere la sentenza della Corte costituzionale n.146 del 1975.

9. V. Resoconto Disegni di legge Camera dei Deputati, III legislatura, vol. I, p. 540.

10. V. G. Vassalli, Il tormentato cammino della riforma, cit., p. 12.

11. V. P. Nuvolone, Alle soglie di una riforma, cit., p. 371.; G. Vassalli, La riforma penale del 1974, Ed. Vallardi, Milano 1975, p. 41.

12. Si trattava del disegno di legge n.4849 presentato alla Camera dei deputati il 6 febbraio 1968.

13. V. Resoconto Disegni di legge, Camera dei deputati, IV legislatura, p. 934.

14. Il disegno di legge n.2518 divenne in seguito la L.4 marzo 1958 n.127.

15. L'art. 57 bis riguarda i reati commessi col mezzo della stampa non periodica, l'art. 58 la stampa clandestina.

16. G. Vassalli, Il tormentato cammino della riforma, cit., p.6; Resoconto Disegni di legge Camera dei deputati, II legislatura, p. 674.

17. P. Nuvolone, Alle soglie di una riforma, cit., p. 368.

18. Si veda La riforma del codice penale, "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1971, p.863.

19. Il progetto sanciva, inoltre, il principio di eguaglianza di trattamento della moglie e del marito in caso di adulterio, previsione singolare questa, alla luce dell'ultima sentenza della Corte costituzionale in materia (19 dicembre 1968, n.126). V. Resoconto Disegni di legge Camera dei deputati, V legislatura, p. 829 e ss.

20. In occasione di questa decisione, la Commissione dette mandato al senatore Leone di presentare in aula una relazione relativa agli articoli del libro I, e di illustrarne le modificazioni intervenute fino a quel momento (estate del 1969) rispetto all'originario progetto governativo. Tra queste: la definizione legislativa del tempus commissi delicti, la definizione del reato politico, la soppressione dell'ergastolo con la sostituzione della pena da 30 a 40 anni, la diversa disciplina delle pene accessorie, correlate con l'entità del reato e con la personalità del soggetto. Inoltre, una più esatta definizione dei reati commessi col mezzo della stampa periodica, l'eliminazione della circostanza aggravante di aver commesso il reato per eseguirne o occultarne un altro; l'ulteriore ampliamento del limite di pena per la sospensione condizionale, la rielaborazione delle misure di sicurezza sulla base della correlazione effettiva tra la applicazione della misura di sicurezza e l'accertamento della pericolosità, con la previsione che il giudice possa disporre, previo accertamento della cessazione della pericolosità la revoca o la commutazione delle misure di sicurezza anche prima del decorso del tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge. V. Resoconto Disegni di legge Camera dei deputati, V legislatura, p. 834.

21. Come lo stesso Leone ebbe a rilevare, egli si trovava nella singolare situazione di relatore di un progetto di legge che, due anni prima, il suo stesso governo aveva presentato al Senato. V. La riforma del codice penale, cit., p. 863.

22. Lo stesso Leone sottolineò, in quell'occasione, come la rielaborazione avrebbe potuto al massimo portare a taluni spostamenti di sede delle norme e a talune innovazioni meramente terminologiche che la Commissione aveva preferito evitare perché causa di pregiudizi interpretativi. Così testualmente, in La riforma del codice penale, cit., p. 864.

23. Ibid.

24. V. Disegni e progetti di legge, "Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1971, p. 199 e ss.

25. Si trattava del II Governo Andreotti, il primo governo del 'dopo centro-sinistra', costituito da DC, PSDI, PLI, e con l'appoggio esterno del PRI.

26. Il riferimento va all'articolo 81 del Regolamento del Senato il quale prevede per i disegni di legge già approvati o esaminati nella precedente legislatura una procedura abbreviata su richiesta del governo o di venti senatori.

27. G. Vassalli, Il tormentato cammino della riforma, cit., p. 8.

28. V.G. Marinucci, Problemi della riforma del diritto penale in Italia, in G. Marinucci, E. Dolcini (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Giuffrè, Milano 1985, p. 362.; G. Vassalli, La riforma penale del 1974, cit., p. 46.

29. Sulle linee guida di questo movimento v.H.H. Jescheck, Linee direttive del movimento internazionale di riforma, "L'indice penale", 1979, p. 181 e ss. Su questi temi vedi più approfonditamente infra, p. 125.

30. P. Nuvolone, Alle soglie di una riforma, cit., p. 382.

31. Ivi, p. 388.

32. V. R. Minna, Il controllo della criminalità, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 76. F.C. Palazzo, Legge penale, in Digesto discipline penalistiche, Utet, Torino 1993, p. 349.

33. V. G. Flora, Manuale per lo studio della parte speciale del diritto penale, Cedam, Padova 1998, p. 98.

34. Ivi, p. 96.

35. G. Vassalli, La riforma del codice penale italiano del 1930, cit., p. 532.

36. Ibid.

37. L'espressione è di G. Flora, Manuale per lo studio della parte speciale del diritto penale, cit., p. 71.

38. G.N. Modona, Tecnicismo e scelte politiche nella riforma del codice penale, cit., p. 683.

39. G.N. Modona, Legislazione penale, cit., p. 604.

40. V. F. Palazzo, La recente legislazione penale, Cedam, Padova 1985, p. 16.

41. G. Vassalli, La riforma penale del 1974, cit., p. 50.

42. Tale decreto fu convertito nella l.7 giugno 1974 n.220.

43. Si trattava di quelle modifiche che erano state invocate anche dai detenuti in occasione delle ricorrenti proteste carcerarie. G. Vassalli, op. cit., p. 50.

44. F. Palazzo, op. cit., p. 24.

45. Nel caso, ad esempio dei furti di minore entità o di episodi di violenza nel corso di manifestazioni collettive o nell'ipotesi di recidiva il trattamento appariva eccessivo, sia per le alte pene previste che per gli effetti procedurali conseguenti. V. G. Vassalli, op. cit., p. 52.

46. Si veda anche G. Flora, Manuale per lo studio della parte speciale del diritto penale, cit., p. 73.

47. Quest'ultimo prevedeva il cumulo giuridico per il concorso materiale e per il concorso formale omogeneo e l'assorbimento per il concorso formale eterogeneo.

48. G. Vassalli, op. cit., p. 59.

49. Così Vassalli, op. cit., p. 60.

50. Ivi, p. 64.

51. Trovava così riconoscimento la categoria dei "giovani adulti" sulla quale gli orientamenti criminologici più moderni da tempo richiamavano l'attenzione dei giudici, dei legislatori e degli amministratori penitenziari. Per i minori degli anni diciotto, invece, il limite di concedibilità della sospensione condizionale di condanna saliva a tre anni.

52. V. F. Palazzo, La recente legislazione penale, cit., p. 96.

53. Nella stessa Relazione del Governo che accompagnava il testo di legge si specificava che le scelte in esso contenute consentono di superare le previsioni della parte speciale del codice senza modificarle direttamente. Cfr. R. Minna, Il controllo della criminalità, cit., p. 123.

54. G. Flora, op. cit., p. 75.

55. F. Palazzo, op. cit., p. 42.

56. Tali sono le norme sulla dignità del detenuto, sulle caratteristiche tecniche degli edifici penitenziari, sul vestiario e l'alimentazione, sul diritto di reclamo, sul diritto alla salute, sul diritto alla libertà di corrispondenza e informazione. A queste norme garantiste si aggiungono alcuni istituti, che per soddisfare esigenze di ordine e di sicurezza, attribuiscono agli organi amministrativi un potere discrezionale sottratto ad ogni successivo controllo giurisdizionale. Si pensi alle perquisizioni e ai trasferimenti. Cfr. F. Palazzo, op. cit., p. 43.

57. Ivi, p. 45.

58. Così F. Bricola, L'affidamento in prova al servizio sociale: fiore all'occhiello della riforma penitenziaria, in "La questione criminale", 1976, p. 370, cit., in R. Minna, op. cit., p. 125.

59. Ulteriori modifiche sono intervenute, successivamente, con la legge 10 ottobre 1986 n.663.

60. F. Palazzo, op. cit., p. 99.

61. La durata della semidetenzione è determinata calcolando un giorno di semidetenzione per ogni giorno di detenzione. Elemento comune con la semilibertà è dato dall'obbligo per il condannato di trascorrere una parte del giorno nell'istituzione carceraria. La semidetenzione si differenzia però dalla semilibertà in quanto è previsto il periodo minimo da trascorrere in carcere e perché manca una regolamentazione della parte del giorno trascorsa in libertà.

62. V. F. Palazzo, op. cit., p. 64.

63. Per più importanti rilievi su questa sentenza v. infra.

64. Così Palazzo, op. cit., p. 86.

65. In particolare, rispetto a quanto previsto dalla l.220 del 1974, è stato aggiunto l'obbligo di eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato secondo le modalità indicate dal giudice.

66. F. Palazzo, op. cit., p. 103.

67. Come ha sottolineato Paliero, il processo deflattivo in atto non ha ancora ricevuto un nome juris unitario. I termini decriminalizzazione e depenalizzazione spesso vengono usati in dottrina con significato opposto. Secondo un'interpretazione più aderente all'etimo dei due termini, la decriminalizzazione dovrebbe indicare la perdita della sola natura criminale del fatto, restringendosi l'illiceità al solo profilo amministrativo, civile o disciplinare. La depenalizzazione rappresenterebbe un intervento più radicale, in quanto il fatto diventa irrilevante sotto ogni profilo con conseguente liceizzazione della condotta. La legge dell''81 (V. Capo I, Sezione III) usa il termine depenalizzazione per indicare la sostituzione legislativa della pena criminale con la sanzione pecuniaria amministrativa, ipotecando, secondo Paliero lo stesso termine e il processo cui si riferisce. Cfr. C.E. Paliero, Depenalizzazione, Digesto discipline penalistiche, 1989, vol.III, p. 431.

68. F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova 1992, p. 978.

69. V. G. Vassali, La depenalizzazione in Italia, in Il codice penale e la sua riforma, Scritti giuridici, vol. IV, Giuffrè, Milano 1997, p. 133.

70. G. Marinucci, Problemi della riforma del diritto penale in Italia, cit., p. 351; R. Minna, Il controllo della criminalità, cit., p.85; G. Insolera, N. Mazzacuva, M. Pavarini, M. Zanotti (a cura di), Introduzione al sistema penale, Cedam, Padova 1997, p. 35.

71. F. Palazzo, op. cit., p. 343; F. Bricola, Considerazioni introduttive, in AA.VV, Il Codice Rocco cinquant'anni dopo, cit., p.23.

72. Su questi rilievi, G. Fiandaca, Il Codice Rocco e la continuità istituzionale in materia penale, cit., p. 83 e ss.

73. Ivi, p. 85.

74. G. Riccio, Politica penale dell'emergenza e Costituzione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1982, p. 59 e ss.

75. Ivi, p. 65.

76. Oltre alla creazione di nuove fattispecie criminose, si assisteva, in funzione general-preventiva, all'inasprimento sanzionatorio di certi reati mediante la semplice elevazione delle pene edittali o l'aggiunta di nuove pene a quelle originarie o ancora ad una riduzione della discrezionalità del giudice attraverso il ricorso a pene fisse, in particolare all'ergastolo. F. Palazzo, op. cit., p.239.

77. Su questi rilievi, F. Palazzo, ivi, p. 365.

78. La legge sugli stupefacenti e quella sull'interruzione volontaria della gravidanza, oltre a disciplinare materie di notevole rilevanza sociale, costituiscono una tangibile manifestazione di un mutamento culturale nei confronti di questi fenomeni, disciplinati dal legislatore in funzione adeguatrice. F. Palazzo, op. cit., p. 297 e ss.

79. Frank, Die Uberspannung der staatlichen Strafgewalt, in ZStW, 1898, cit. in C.E.Paliero, Minima non curat praetor, cit., pag.4.

80. Si pensi alla "nomorrea penale" di Carrara, alle istanze decriminalizzatrici del socialismo giuridico, alle previsioni di Zanobini circa "l'invadenza della sanzione penalistica", cfr. C.E. Paliero, op. cit., p. 8 e ss.

81. C.E. Paliero, op. cit., p. 13.

82. Si veda lo studio di Noll, cit. in C.E. Paliero, Minima non curat praetor, cit., p. 24.

83. L'espressione è di Paliero, op. cit., p. 25.

84. Le leggi speciali pare siano più di diecimila, esse vanno dal settore economico, (reati concorsuali, reati societari, reati fiscali), alla materia delle armi, della droga, dell'ambiente, dell'inquinamento, dell'urbanistica.

85. Così C.E. Paliero, Depenalizzazione, cit., p. 427.

86. C. Fiore, Prospettive della riforma penale, "Democrazia e diritto", 1977, p. 685 e ss.

87. Tipico esempio, la legislazione in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, dove le contravvenzioni contenute nelle leggi speciali hanno finito per sostituire quasi del tutto le disposizioni degli art. 437 e 451 del c.p., indebolendo, così, la tutela della sicurezza del lavoro. V. C. Fiore, op. cit., p. 686.

88. C.E. Paliero, Minima non curat praetor, cit. p. 70.

89. Sono noti gli effetti che derivano dalla previsione di miriadi di contravvenzioni. Esse infatti si articolano: a) su "rinvii a catena", per cui un precetto trova integrazione in un'altra disposizione, che magari, a sua volta, deve essere integrata in una norma precedente; b) su criteri equivoci di individuazione dei destinatari del comando, c) su 'clausole sanzionatorie finali' che puniscono genericamente condotte altrove non meglio individuate e descritte. Così R. Minna, Il controllo della criminalità, cit., p. 102.

90. F.C. Palazzo, La recente legislazione penale, cit., p. 12.

91. Fu un saggio di Irti, pubblicato nel 1979, dal titolo "L'età della decodificazione" a stimolare il dibattito fra i penalisti.

92. Nel carattere 'costituzionale' del codice civile certa dottrina ha individuato la funzione di garanzia e di tutela che al codice veniva riconosciuta tradizionalmente nei confronti delle ingerenze del potere politico, funzione che con l'avvento dello Stato interventista avrebbe ormai perso significato. Cfr Irti, L'età della decodificazione, cit., p. 8, cit. in C.E. Paliero, Minima non curat praetor, cit., p. 84.

93. Alla unità e alla concentrazione proprie del modello di fonti codicistico succedeva il proliferare di leggi particolari, prima eccezionali, poi speciali tout court. Cfr. Paliero, op. cit., p. 84.

94. Questi due aspetti sarebbero legati, per quanto attiene alla emarginazione, alle spinte centrifughe presenti nei moderni sistemi normativi, che rendono il codice civile, da fonte esclusiva dei rapporti privati, disciplina meramente residuale dei soli casi non regolati da norme particolari. Sotto il secondo profilo, il codice civile non sarebbe più strumento di unificazione in conseguenza della linea di individualizzazione e di contingenza seguita dalla legislazione contemporanea. Su questi punti v. Irti, cit. in Paliero, op. cit., p. 87.

95. V. Irti, cit. in Paliero, op. cit., p.87.

96. F. Bricola, Considerazioni introduttive, in Il codice Rocco cinquant'anni dopo, cit., p. 16.

97. T. Padovani, La sopravvivenza del Codice Rocco nell''età della decodificazione', in Il Codice Rocco cinquant'anni dopo, cit., p. 96.

98. L. Stortoni, in Diritto penale e fattispecie criminose, cit., p. 26 e ss.

99. C.E. Paliero, Minima non curat praetor, cit., p. 89 e ss.

100. Ivi, p. 91.

101. Ivi, p. 92.

102. Paliero, op. cit., p. 93.

103. Ivi, p. 106.

104. Ivi, p. 113.

105. Così G. Flora, Manuale per lo studio della parte speciale del diritto penale, cit., p. 52.

106. Su questi punti, G. Flora, op. cit., p. 54.

107. P. Marconi, Codice penale e regime autoritario, in Il Codice Rocco cinquant'anni dopo, cit., p. 137.

108. E. Dolcini, Codice penale, cit., p. 286.

109. Sentenza 19 giugno 1975, n.146.

110. Sentenza 28 aprile 1976, n.95; Si veda A. Pagliaro, Situazione e progetti preliminari nel procedimento di riforma del diritto penale italiano, cit., p. 485.

111. Sentenza 27 dicembre 1974, n. 290; G. Flora, op. cit., p. 101.

112. Sentenza 23 aprile 1974, n. 108.

113. Sentenza 4 maggio 1970, n. 65; Si veda G. Flora, op. cit., p. 102-103.

114. G. Flora, Manuale per lo studio della parte speciale del diritto penale, cit., p.54.

115. Ci si riferisce alle ammende previste, ad es., per l'introduzione di bestiame incustodito nella sede ferroviaria o per la 'riffa' del parroco. Cfr. C.E. Paliero, Minima non curat praetor, cit., p. 34; R. Minna, Il controllo della criminalità, cit., p. 120.

116. Cit. in E. Dolcini, G. Marinucci, Corso di diritto penale, Giuffrè, Milano 1995, p. 65.

117. Ivi, p. 66.

118. H.H.Jescheck, Linee direttive del movimento internazionale di riforma penale, "L'indice penale", 1979, p. 183 e ss.

119. Ivi, p. 196.

120. Roxin, Strafzweck und Strafrechtsreform, cit. in E. Dolcini, G. Marinucci, op. cit., p. 68.

121. F. Bricola, Rapporti tra dommatica e politica criminale, cit., p. 16.

122. C.E. Paliero, Depenalizzazione, cit., p. 426.

123. I reati venivano divisi in Verbrechen (crimini) e Vergehen (delitti). i primi sanzionati con una pena detentiva non inferiore ad un anno, i secondi con una detenzione inferiore ad un anno o con la pena pecuniaria. R. Minna, op. cit., p. 68; C.E. Paliero, Depenalizzazione, cit., p. 433.

124. G. Vassalli, L'esperienza scientifica nel diritto penale, in Il codice penale e la sua riforma, Scritti giuridici, vol. IV, Giuffrè, Milano 1997, p. 95.

125. P. Nuvolone, Norme penali e principi costituzionali, cit., p. 678 e ss.

126. G. Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, "Democrazia e diritto", 1975, p. 84; G.N. Modona, Legislazione penale, cit., p. 605.

127. G.N. Modona, op. cit., p. 605.

128. F. Bricola, Teoria generale del reato, Novissimo Digesto Italiano, vol.XIX, Utet, Torino 1973, p. 15 e ss.

129. Per tutti, F. Mantovani, Diritto penale, cit., p.35 e ss.

130. G. Vassalli, L'esperienza scientifica nel diritto penale, cit., p. 100.

131. Ibid.

132. E. Gallo, Una politica per la riforma del codice penale, in Il Codice Rocco cinquant'anni dopo, cit., p. 61.

133. Così T. Padovani, La sopravvivenza del Codice Rocco nella "età della decodificazione", in Il Codice Rocco cinquant'anni dopo, cit., p. 95.

134. G. Bettiol, cit. in G. Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, cit., p. 62.

135. P. Nuvolone, La parte generale del Codice Rocco dopo cinquant'anni, in Il codice Rocco cinquant'anni dopo, cit., p. 48.