ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Vieri Lenzi, 1999

La scelta di avvicinare i tossicodipendenti è derivata dalla necessità che ho avvertito di rispondere ad un malessere quotidiano che ho visto da vicino e che mi compare sotto gli occhi con sempre maggior frequenza.

L'esistenza di una subcultura dell'eroina mi fa pensare di poter trovare nelle vicende dei singoli soggetti, o in quelle di gruppo, delle risposte ai tanti controsensi, della relazione tra il deviante, in questo caso il tossicodipendente e una società conformata su diritti, principi e doveri come quella fiorentina, toscana, italiana, ma anche europea e occidentale.

Le società molto vaste e articolate si basano su principi che spesso non sono sufficientemente aggiornati di fronte alle problematiche e pericoli che esse stesse comportano. Il problema dell'emarginazione e dell'alienazione si sta trasformando in un fenomeno di massa; ogni giorno eserciti di disadattati richiedono di essere soddisfatti e aiutati a migliorare le loro condizioni di vita.

Fino ad ora questi problemi sono stati affrontati in studi che per lo più hanno analizzato il fenomeno della tossicodipendenza da un punto di vista legislativo oppure terapeutico. Questi approcci che spesso ricorrono a metodologie statistiche di indagine non si soffermano a sufficienza sulla vita quotidiana dei tossicodipendenti.

L'etnografia può colmare le lacune tra la teoria sociologica e la realtà viva di tutti i giorni.

Uno studio etnografico sul fenomeno della tossicodipendenza permette di studiare tale realtà nel momento e nel luogo dove essa si svolge. In sociologia l'analisi delle collettività tende a cercare sistemi logici di comportamento e comunicazione che riguardano i gruppi quasi in una loro predefinizione, facendo troppo spesso generalizzazioni totalizzanti.

Studiare il fenomeno dell'eroina come subcultura e nei suoi rapporti di scambio e comunicazione con altre subculture, mi ha messo di fronte a un gruppo di esseri umani più o meno giovani che condividono una realtà quotidiana di solidarietà e conoscenza reciproca. Ognuno di loro ha alle spalle esperienze di vita diverse e uno sviluppo della personalità il più delle volte problematico. Sopravvivere con una dipendenza come quella da eroina è molto faticoso, e un soggetto solo, abbandonato, non può vincere la sofferenza e tutte le difficoltà che gli si presentano nella quotidianità. Ecco perché per convivere con una dipendenza di questo tipo si formano spontaneamente relazioni che nel tempo si stabilizzano, generando principi e valori che rendono questi uomini membri attivi di una subcultura.

La solidificazione delle relazioni e il conseguente scambio d'informazioni permette a molti eroinomani di drogarsi evitando alcuni rischi e spesso la morte.

In questa tesi ho cercato di esporre in forma etnografica e diaristica, il mondo che orbita attorno all'eroina. Non tutti i soggetti che ho intervistato fanno parte del gruppo di eroinomani 'storici' che frequentano la piazza dove ho intrapreso l'osservazione.

Ciò che accomuna un tossico all'altro è la consapevolezza che prima di qualsiasi cosa esiste l'eroina, seguita a lunga distanza dagli affetti e dagli aspetti pratici e di responsabilità dell'esistenza che spesso occupano uno spazio minimo: nella maggioranza dei casi questi aspetti finiscono quasi per scomparire, almeno a livello razionale.

Il 'bucarsi' diventa un principio assoluto a cui si subordina ogni comportamento. Ma come in tutte le società anche in quella legata alla dipendenza, specificatamente da eroina, sono necessarie delle regole che assicurino la sopravvivenza. L'antropologia culturale offre strumenti interpretativi articolati per analizzare questi processi ed una metodologia flessibile che permette di descrivere la complessità della vita con l'eroina. Il difficile lavoro di selezione degli argomenti e degli eventi da trascrivere è parte di ogni ricerca etnografica. Nel mio caso questa selezione è stata particolarmente ardua perché non mi sono confrontato con una cultura totalmente altra. Infatti parte dei tratti che compongono la cultura della tossicodipendenza a Firenze non si distinguono dalla più generale cultura fiorentina e italiana.

All'interno di migliaia di informazioni ho dovuto 'distinguere', guidato più dall'intuizione che da un vero e proprio atteggiamento analitico, quegli elementi che caratterizzano la cultura della tossicodipendenza e che permettono di distinguerla come un fenomeno specifico senza, allo stesso tempo, presentare quest'ultima come una cultura completamente scissa dalla realtà circostante. Infatti nel quotidiano e in frangenti specifici i modelli di comportamento dei tossicodipendenti risultavano abbastanza omogenei rispetto a tutto il resto dei comportamenti delle persone circostanti a quelle da me studiate. È vero che la condizione di tossicodipendenza prolungata si riverbera sul comportamento e sullo stato fisico del soggetto, cosicchè, il deterioramento e lo stato di assuefazione rappresentano dei nitidi segnali di riconoscimento per gli altri. E i modi di dire o di reagire ad una situazione condivisa da altri esseri umani, i metodi di valutazione di un problema, sono sicuramente condizionati dalla subcultura di appartenenza. Ma è anche vero che lo sono solo superficialmente. Parlare di qualsiasi argomento con un eroinomane dipendente da almeno cinque anni può essere un'esperienza difficile, ma, nonostante la sua condizione, egli esprime considerazioni e pensieri quasi del tutto aderenti al senso comune della cultura di appartenenza. Solo ad un secondo livello di analisi riusciamo ad osservare ed a distinguere le alterazioni del comportamento e del pensiero, prodotte dalla condizione di eroinomane. Queste emergono soprattutto quando si prendono in considerazione le problematiche della tossicità e della dipendenza che sono i tratti cruciali della sub-cultura dell'eroina.

L'eroina è un surrogato della vita, perché regala delle emozioni fortissime e a detta di chi ne fa uso tali emozioni sono sufficienti a compensare tutti i possibili dolori di un'esistenza: "è come comparare la luce di un neon a quella del sole" mi disse un giovane tossicodipendente.

Si può dire, quindi, che il tossicodipendente appartiene a due realtà di fatto a una cultura ed a una sotto-cultura. La prima, quella di appartenenza, è definita dalla provenienza sociale, dal tipo di educazione ricevuta e dall'ambiente di sviluppo, l'altra è data dalla dipendenza.

Il mondo che un tossico frequenta è negazione di tutti o quasi i valori della cultura di provenienza. L'eroina diventa l'unica finalità, e il desiderio di assunzione mette la persona di fronte a scelte continue che provocano l'abbandono di valori e convinzioni ricevuti per educazione o attraverso precedenti socializzazioni.

La tossicodipendenza ed in special modo quella da eroina è una delle esperienze che più trasforma l'individuo, nel corpo e nella mente.

Tutto quello che compone un'esistenza normale trova spazio minimo nel microcosmo del tossicomane. Convivere con una dipendenza come quella da eroina vuole dire esistere solo per quello. Tutto il resto assume un valore sottostante all'azione principale che è "bucarsi", anche se non svaniscono del tutto l'amore, la solidarietà amicale e gli interessi personali. Ognuno di questi fattori si ritaglia uno spazio minimo nella mente del dipendente.

Ciò che ho visto chiaramente, era che avevo a che fare con un gruppo di soggetti che all'interno di una vasta gamma di relazioni e situazioni sociali, legate allo spazio della città (al perimetro che avevo stabilito ove raccogliere le informazioni, dal quale fisicamente non sarei uscito), mantenevano delle predeterminate caratteristiche comportamentali che li rendeva legati tra loro, alla dipendenza, e conseguentemente alla vita di piazza, con le sue regole e principi.

Questi atteggiamenti di comunanza si esprimono in una serie di relazioni d'interesse generico come mangiare, bere e fumarsi uno spinello insieme, ma più che altro sono subordinati al bisogno di garantirsi il reperimento della 'dose', di soldi, oppure di informazioni di quotidiana amministrazione.

Stigmatizzato, differente o deviante, è qui che inizia la via crucis di un dipendente da eroina che contravvenendo alle leggi si procura illecitamente una sostanza stupefacente, contraffatta con additivi che spesso rasentano la velenosità. In un solo colpo questo atto innesca un meccanismo triplice: fa sì che un essere proceda a una sorta di autoavvelenamento, infranga la legge ed alimenti il mercato della malavita. Poiché la collettività esprime un giudizio morale negativo nei confronti di questi devianti, è automatico che una persona in una situazione del genere venga esclusa definitivamente dalla vita sociale e culturale.

Dalle statistiche e dalla stessa vita di tutti i giorni sappiamo che sono i giovani i più soggetti al rischio di dipendenza.

Una realtà che diventa sempre più complessa e ingarbugliata, un mondo che si avvia alla 'globalizzazione' rischia di mescolare le 'carte' in maniera inesorabile.

Queste immense collettività sono spessissimo fucine di alienati e di disadattati proprio per la sempre maggiore assenza di spazi educativi e rappresentativi sufficientemente seri, cioè protetti.

Il fatto che le società contemporanee siano terreno fertile per questo male, penso dovrebbe spingere gli uomini che 'studiano' a porsi dei quesiti su come migliorare le cose preservando una sfera educativa dove ogni giovane individuo possa gradualmente entrare a conoscenza della propria cultura di appartenenza.

Il recupero e la cura, specie per le tossicodipendenze, sono le uniche soluzioni che la nostra società, è riuscita ad elaborare per fare fronte a questo problema. Forse per la costante ottica 'consumistica' non si pone quasi più sul piano del prevenire, ma si preferisce eludere il problema finche' non vi si è immersi.

Ho la sensazione che tematiche come quella della tossicodipendenza non vengano prese in considerazione con il dovuto interesse da materie che potrebbero avere particolari strumenti d'indagine come appunto l'antropologia culturale, avvalendosi dell'etnografia.

Bisogna che quello 'sguardo' che fino adesso ha mirato lontano, verso mondi e culture diverse, si rivolga con attenzione su sé stesso.

Per esempio, i sociologi di Chicago degli anni 30 e 40 hanno intrapreso studi di questo tipo tentando di descrivere le collettività complesse che si formano all'interno delle grandi zone urbanizzate. Il metodo etnografico ha dato spunti per l'analisi delle subculture che fino ad allora hanno proliferato nei grandi centri e che ancora continuano.

Un'etnografia come quella che ho cercato di condurre ha come oggetto d'indagine un gruppo esistente, 'materia viva' nella sua irripetibilità. Ecco che l'antropologia, attraverso l'etnografia, si avvale di uno strumento che le è naturalmente congeniale e che le consente di avvicinarsi a questo gruppo sociale.

Ho annotato liberamente tutto quello che mi accadeva intorno, preoccupandomi solo di capire quali erano le persone che mi avrebbero aiutato a capire meglio la cultura che stavo esplorando. Via via che mi relazionavo in questo ambiente, sono riuscito sempre meglio a distinguere quali fossero i soggetti che potevano interessarmi diaristicamente, da quelli che mi avrebbero soltanto portato fuori strada o dato 'false informazioni'.

Rispetto ad un atteggiamento etnografico, antropologico tradizionale, ciò che dovevo tenere presente erano altri fattori, piuttosto distanti dal 'normale' approccio etnografico che comprende l'analisi di una cultura nella sua globalità.

Quello che questa tesi si è proposta, è di descrivere un microcosmo come tanti altri, con la particolarità che gli elementi che lo compongono sono legati alla "dea eroina" e i relativi rapporti di relazione, amicali, di solidarietà o di amore che siano, sottostanno alle regole della dipendenza.

Misurarsi con una realtà geo-sociale, alla quale io per primo appartengo, da un lato mi ha messo di fronte ad una difficoltà, poiché le informazioni che m'interessavano erano nascoste da uno 'sciamare' di migliaia di altre voci, dall'altro mi ha aperto un varco: "devo ascoltare e scrivere solo quello che mi colpisce, devo affidarmi alla mia capacità di intuire, e trascrivere solo ciò che mi 'differenzia' radicalmente da coloro che osservo, quello che mi somiglia troppo o troppo poco può indurmi a smarrire il significato di una ricerca nella quale sono immerso per metà".

L'intenzione iniziale alla base del presente studio era quella di riportare integralmente, nella loro consequenzialità temporale, tutti gli avvenimenti cui ho assistito, dalla primavera del 1997 a ora: per prima cosa ho definito alcune parti della città, dove si svolgevano le esistenze dei soggetti da me presi in considerazione, un gruppetto di tossicomani, piuttosto affiatato. In un secondo momento mi sono reso conto che le relazioni tra loro non si limitavano ai membri del 'gruppo' (1), vi erano diversi altri soggetti 'esterni' che condividevano un genere di relazione legato preminentemente all'informazione e a una blanda solidarietà, costantemente subordinate all'esigenza di eroina. Un terzo momento è stato quando mi sono reso conto che tali relazioni si esplicano solo in determinati spazi della città dove loro è consentito. La piazza di Santissima Annunziata, l'archetto di San Pierino, e la zona limitrofa; ci sarebbero altre zone della città di un certo interesse ma non mi sarebbe stato possibile condurre una osservazione sufficientemente costante comprendendole tutte. Le persone con cui ho avuto a che fare sono molto sfuggenti ma per il bisogno della droga e altri motivi che qui descrivo sono legate ai luoghi e per osservarle bisognava stare là.

La forma diaristica quotidiana mi era sembrata la maniera più spontanea per procedere nella descrizione di queste relazioni, ma successivamente, rendendomi conto della quantità del materiale che stavo accumulando, ho rinunciato ad esporre per esteso, e ho, quindi, cercato di estrapolare le parti più significative. Anche perché in diversi periodi dell'anno non accadeva niente di significativamente descrivibile a mio avviso.

La differenza tra la mia condizione e quella di un 'campo' inteso tradizionalmente, sta nell'idea che il circoscrivere uno spazio d'indagine agevoli il discernimento delle informazioni. Proprio perché la gran parte delle informazioni da me raccolte non riguardano i fatti che si svolgevano nel mio perimetro d'azione. Tuttavia, non ho considerato la vita dei tossicomani fuori dalla piazza o dall'ambito delle relazioni 'esterne'.

In alcune occasioni ho ampliato il perimetro del mio campo d'indagine, sul presupposto che circoscrivere il 'campo' sia il modo per iniziare fisicamente la costruzione di uno spazio astratto ed esclusivamente relazionale, in cui condurre un etnografia.

Il limite di una concezione dei luoghi non legati fisicamente tra di loro è una conferma del fatto che il 'campo' è anch'esso un spazio ideale, concettuale, che, però, ha bisogno di un perimetro per esprimersi, e di procedure sperimentali per essere indagato.

Esistono, evidentemente, molti modi per avvicinarsi alle persone di piazza; anche escogitando dei semplici stratagemmi non sarebbe difficile instaurare un piano di comunicazione. Ritengo però più corretto mantenere una certa distanza piuttosto che lasciarsi completamente coinvolgere, dal momento che, anche se facciamo parte della stessa società, molti comportamenti sembrano facilmente comprensibili, ma lo sono solo apparentemente. Inizialmente, ai miei occhi molti atteggiamenti sembravano estremamente naturali, ma in realtà quello a cui stavo assistendo era molto più complesso e artificioso di quanto non sospettassi.

Mi sono reso conto che il mio approccio in questo ambiente è stato più fortunato di quanto non avessi capito in un primo momento. Inizialmente, stringere rapporti di conoscenza è stato semplice: li mantenevo per qualche giorno, per il tempo necessario a che la curiosità personale o di 'conoscenza reciproca' non si fosse esaurita; dopodiché, cercavo di dimenticare, nei limiti del possibile, la persona o i soggetti che avevo conosciuto, in precedenza. Questo per aprire nuovamente il mio sguardo sulla piazza dall'alto, da un angolazione il più distaccata possibile.

È importante che l'interesse dell'etnografo di fronte ai soggetti e agli avvenimenti trovi un 'punto' di mediazione, che gli permetta di fruire delle informazioni e per comprendere le dinamiche degli eventi; ma è anche essenziale non rimanerne umanamente coinvolti, perché ciò lo distoglierebbe da una visione d'insieme.

Il ruolo/atteggiamento, dell'osservatore, dell'etnografo non deve essere né di complicità né di sorveglianza, ma di "negoziazione di significati". Nel corso dei tre anni di ricerca mi sono costruito nella piazza un ruolo che mi ha consentito da un lato di instaurare dialoghi significativi con i miei interlocutori e dall'altro di mantenere in ogni caso una posizione non troppo invadente rispetto alla realtà della piazza. Saranno gli stessi 'attori' a gestire in larga misura le proprie azioni, nonostante la presenza dell'etnografo. Alle persone con cui ho finora lavorato, generalmente non disturba, salvo certe eccezioni, essere 'materia' di studio; ciò a cui ho dovuto fare attenzione in questo caso è stato di non strumentalizzare le vicende personali, a meno che non si fosse trovato un accordo precedente col soggetto in causa.

Muoversi 'eticamente' crea quelle condizioni 'naturali' di fiducia che permettono l'osservazione indisturbata degli eventi. In quegli ambienti dove la pratica illegale coincide con la sua clandestinità e amoralità, come nel racket della prostituzione, o della criminalità organizzata in genere, l'osservazione non può trovare questo suo spazio neutrale.

Una delle caratteristiche personali necessarie per portare avanti una buona osservazione è quella che consente di non approfondire inutilmente certi scambi, di non essere curiosi 'al presente': la curiosità dell'osservatore deve essere soddisfatta dalla successione degli eventi e non dalla compartecipazione a situazioni dove un coinvolgimento emotivo sarebbe naturalmente inevitabile.

La presenza dell'osservatore deve essere prevista dagli 'attori' e quando si creano le condizioni, sarà anche ricercata. Un coinvolgimento diverso da parte dell'osservatore può mettere fine all'indagine, a meno che non possa essere utilizzato come spunto per tracciare un nuovo percorso di ricerca, più vicina alla sfera umana dei singoli soggetti.

Note

1. Il termine gruppo qui ha una accezione particolare; i tossici a cui mi riferisco non condividono nulla. Hanno solo relazioni basate sull'informazione reciproca e sulla solidarietà affettiva, ma solo quando il bisogno dell'eroina è appagato, si potrebbe dire 'ognun per sé e Dio per tutti'. Il definirli come gruppo viene quasi spontaneo, visto che sono emarginati dalla società nella medesima ma anziché chiudersi totalmente nella propria individualità hanno elaborato questo sistema di relazione che gli consente di 'convivere' da diversi anni con questo problema o vizio, l'eroina.