ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
Le nozioni di devianza primaria e devianza secondaria in Edwin M. Lemert

Silvia Sbordoni, 1998

1. Edwin M. Lemert e la labelling theory

Edwin Lemert, nonostante la sua ritrosia a riconoscersi in un preciso orientamento sociologico, può esser considerato il precursore di quella corrente sociologica sviluppatasi negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni cinquanta e che è andata sotto i nomi, a seconda dei casi, di neo-chicagoans (1), di west coast school o labelling theory (2).

Qualunque sia la denominazione scelta tale indirizzo può considerarsi il frutto dell'insoddisfazione che i suoi esponenti, compreso Lemert, hanno manifestato nei confronti di precedenti concezioni sulla devianza, in particolare verso quella di impostazione positivistica e deterministica.

L'indirizzo neo-chicagoano, al fine di affermare un diverso approccio allo studio dei fenomeni devianti parte da una critica e da un rifiuto dei precedenti modi "correzionali" di studiare la devianza, responsabili di aver ridotto la ricerca sociale a ricerca intorno alle cause dei comportamenti devianti. Una simile impostazione, eziologica e correzionale ad un tempo, interferiva pesantemente infatti, secondo i neo-chicagoani, sulla capacità di comprensione dei fenomeni devianti.

I neo-chicagoani, pur nelle notevoli differenze di approccio che li caratterizzano, portano avanti una distinzione fondamentale, operata per la prima volta da Lemert, fra "devianza primaria" e "devianza secondaria". Essi - al contrario dei loro predecessori impegnati nell'individuazione delle cause di insorgenza del comportamento deviante indicate di volta in volta in fattori biologici, psicologici, culturali e sociologici, e/o nella costruzione di categorie e modelli teorici complessi - si concentrano sull'osservazione e sulla descrizione dettagliata del fenomeno deviante (3), dando rilievo preminente al processo che presiede al divenire deviante ed al contributo dato in tale processo dall'azione di quelle istituzioni deputate proprio alla prevenzione, controllo e repressione della devianza.

Lo studio dei sistemi e degli agenti del controllo sociale diviene dunque, nelle ricerche dei neochicagoans, centrale ai fini della comprensione della devianza. In tali ricerche compaiono concetti come stigma, degradazione, reazione sociale, mortificazione del sé. Tali nozioni dimostrano come le istituzioni del controllo sociale diano forma e significato alla devianza, giungendo a stabilizzarla come devianza secondaria, indicando con quest'ultima quindi la devianza che consegue alla reazione sociale, all'etichettamento di una persona come deviante realizzato dagli agenti del controllo sociale. Per questo, nella prospettiva neo-chicagoana viene operato uno spostamento dalle cause dell'iniziale atto deviante - atto quest'ultimo comune, privo o quasi di conseguenze nella vita dell'autore perché non inserito in un processo di definizione e di stigmatizzazione ufficiale - alla reazione sociale. Devianza primaria e devianza secondaria sono dunque due fenomeni diversi; non tutti i devianti primari (coloro cioè che compiono comunque un atto che costituisce un allontanamento da certi valori, norme o costumi dominanti nella società) sono definiti devianti dalle autorità.

Da ciò i neo-chicagoani trassero un'importante, quanto innovativa conclusione: le analisi sociologiche sulla devianza compiute sulla base delle statistiche ufficiali sono di dubbia validità, in quanto i tassi ufficiali sul volume e sulla distribuzione dei crimini, della delinquenza, delle malattie mentali e di altre forme devianti, possono benissimo non corrispondere al volume reale (primario) della devianza. Lo scopo principale della ricerca dovrebbe essere l'analisi della reazione sociale, del modo in cui le agenzie di controllo creano esse stesse la devianza attraverso la stigmatizzazione, l'esclusione e l'isolamento. Queste ultime innescano infatti un processo psicologico di riorganizzazione simbolica del sé del deviante al termine del quale egli giunge quasi inevitabilmente ad immedesimarsi nel ruolo attribuitogli.

Il labelling approach, salutato al suo inizio come indirizzo profondamente innovativo, si colloca in un preciso periodo storico, ovvero fra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta. Questi anni segnano per gli Stati Uniti una fase storica importante, di grande fermento culturale. La scuola neo-chicagoana partecipa di questo clima culturale nel quale la nuova sinistra americana "tenta il recupero di alternative culturali capaci di riempire di nuovi valori il vuoto lasciato dal venir meno della pregnanza - in una società orientata ormai decisamente verso un'economia di consumo - dei valori dell'etica protestante" (4).

Il mito dell'"americanismo", capace fino a quel momento di unificare la composita società americana, entra in crisi per vari motivi (non ultimo la guerra del Vietnam). Contemporaneamente, in questo clima di trasformazione, la "preponderante e massiccia intrusione delle organizzazioni burocratiche" nella vita degli individui, così come la definisce Lemert (5), determina una loro dipendenza per la soddisfazione dei propri bisogni, dalle suddette organizzazioni, e più specificamente dallo stato assistenziale. Le teorie sociologiche elaborate in questo periodo, avvertendo queste "interferenze" sottolineano l'importanza per i cittadini di riappropriarsi, contro la burocratizzazione, del momento politico-culturale e dirigono il loro interesse verso le attività di controllo sociale. Matura negli ambienti della sociologia americana un atteggiamento di sospetto nei confronti degli sforzi compiuti dalla società organizzata per risolvere il problema della devianza, sforzi che mal si conciliano con i diritti della persona soprattutto considerando "il grande potere che nella società moderna è assegnato o viene accaparrato dallo stato o dalle organizzazioni di dimensioni gigantesche" (6).

Contemporaneamente l'attenzione degli scienziati sociali si focalizza sugli individui, sull'interazione quotidiana e sulle regole che la guidano, andando in secondo piano ogni considerazione più vasta di natura macrosociale e nella speranza della ricostituzione di un tessuto sociale nel quale i rapporti fra gli individui siano liberi da ogni condizionamento. La nuova sociologia della devianza statunitense si concentra sugli stili di vita, sulla qualità della vita, sulle relazioni interpersonali, astraendosi dal contesto storico ed economico-sociale come se questo rappresentasse ormai una costante immodificabile. Il mutamento secondo questi sociologi deve avvenire ad un altro livello, meno elevato, grazie all'iniziativa autonoma e spontanea di gruppi sociali coagulati attorno agli interessi degli individui.

Gli studi precedenti vennero accusati di scivolare in un semplicistico determinismo in grado di negare ai soggetti ogni capacità di scelta e di valutazione in un determinato contesto di azioni e reazioni proprie ed altrui.

Riconoscere al soggetto una capacità critica non significava tuttavia affermare l'esistenza del libero arbitrio. Quest'ultimo infatti, secondo i neochicagoans, separava la volontà dal contesto, al contrario la volontà doveva interpretarsi come scelta da collocarsi in un determinato contesto (7). Per questo i sociologi dovevano impegnarsi a descrivere i modi in cui i soggetti avanzavano e si comportavano in tale contesto e specificatamente nel processo del divenire devianti.

I neochicagoans sostennero inoltre la necessità di avvicinarsi ai fenomeni devianti con atteggiamenti di rivalutazione e nell'ottica della diversità. Un simile atteggiamento analitico era in realtà strettamente connesso alla volontà di eliminare definitivamente dalla ricerca sociale il concetto di patologia sostituendo ad esso l'idea che nell'esistenza sociale vi è solo diversità (8).

Toccherà ancora una volta a Lemert anticipare quello che sarà poi uno dei temi fondamentali degli studi dei labelling theorists. In uno scritto che appare addirittura nel 1948 egli afferma la necessità di rompere decisamente

"con le tradizioni dei vecchi patologi sociali e di abbandonare una volta per tutte l'idea arcaica, e derivata dalla medicina, che gli esseri umani possono essere distinti in normali e patologici...i fenomeni sociopatici diventano semplicemente comportamento differenziato che, in un dato tempo e in un dato luogo, è socialmente disapprovato, mentre lo stesso comportamento può essere socialmente approvato in altri tempi e in altri luoghi." (9).

Dunque Lemert rifiuta l'idea di patologia. Essa, a suo parere, ha pesanti implicazioni moralistiche e nessun carattere scientifico; carattere scientifico attribuitole al contrario dall'approccio correzionale per il quale designare un fenomeno come patologico, uguagliare deviazione e patologia, costituivano operazioni compiute dall'analista scientifico, mentre per i neo-chicagoani rappresentavano nient'altro che operazioni sociali compiute da uomini comuni.

2. Il declino della labelling theory e il distacco di Lemert

Considerata agli inizi degli anni sessanta come una teoria profondamente innovativa, una diecina di anni dopo la labelling theory aveva già perduto parte della sua credibilità. La si accusava di cadere in quello stesso determinismo delle teorie sociologiche precedenti che essa aveva così duramente attaccato. La teoria dell'etichettamento, abbandonando prematuramente la ricerca sulle cause della devianza primaria e intravedendo nella reazione sociale la spiegazione automatica della devianza, si prestò ben presto a critiche di eccessivo relativismo, determinismo, semplicismo, ipercriticismo non costruttivo. La semplificazione e l'evoluzione cui andarono incontro le idee avanzate già negli anni cinquanta da Lemert, provocarono in quest'ultimo un allontanamento polemico dal labelling approach, una precisazione delle sue ipotesi e il tentativo di conquistare nella sociologia americana una posizione autonoma che sfuggisse ad ogni inquadramento sul piano teorico.

Scrive Lemert nel 1972:

"A quelle che nei miei scritti si ponevano come idee, avanzate a titolo di ipotesi e non strettamente collegate tra di loro, circa la devianza e la reazione sociale, subentrò l'esposizione, da parte di Becker, della teoria secondo la quale i gruppi sociali producono la devianza, ed è deviante quel comportamento che viene etichettato come tale ... Retrospettivamente, queste vanno considerate formulazioni arrischiate, ampiamente responsabili dell'indiscriminato impiego della labelling theory in una varietà di ricerche e di scritti sulla devianza. Sfortunatamente, l'impressione di rozzo determinismo sociologico lasciata dalle affermazioni di Becker ed Erikson è stata amplificata...dalla tendenza di essi ad insistere sulla arbitrarietà dell'azione pubblica, sulla stereotipia dei processi decisionali negli ambienti burocratici, sulla parzialità nella amministrazione della legge e sul generale carattere prevaricatorio dei controlli sociali nei riguardi dei devianti..", ed ancora: "L'accusa più consistente è di descrivere il controllo sociale come qualcosa di arbitrario...Nelle formulazioni più estreme della labelling theory, il processo attraverso il quale si diventa devianti appare ineluttabile; i devianti perdono la propria identità per divenire simili a 'organismi vuoti' che vengono 'a colpo sicuro' etichettati dagli altri" (10).

Ho voluto riportare integralmente il pensiero di Lemert in proposito perché appaia inequivocabilmente l'originalità e la progressiva distanza dei suoi studi rispetto a quelli dei "labellings". In sintesi potremmo dire che Lemert ha avuto l'incontestabile merito di elaborare un'ipotesi sul comportamento deviante profondamente innovativa, centrata per la prima volta sul ruolo decisivo che le istituzioni e i sistemi del controllo sociale possono avere, come variabile indipendente, nel processo del divenire devianti; che tale ipotesi è stata successivamente ripresa da una serie di studiosi che l'hanno prima sviluppata, poi estremizzata ed infine elevata al rango di vera e propria teoria sociologica (senza che ne avesse i requisiti, proponendosi piuttosto come un metodo di analisi volto a restituire l'autentica essenza del fenomeno osservato ed a "demistificare alcuni degli errori di precedenti teorie sociologiche della criminalità e della devianza di stampo positivistico" (11)). In questo modo è stata persa di vista la valida intuizione di Lemert che: "L'interazionismo non è assolutamente né una teoria né una spiegazione. Esso si limita a proporre un metodo di ricerca, affermando che questa analisi dinamica deve affiancare l'analisi strutturale" (12).

Col tempo la distanza fra Lemert e i "labellings" sembra farsi sempre più incolmabile. Nel corso degli anni egli non cederà mai ad un atteggiamento radicalmente critico verso la società, mantenendosi al contrario fedele al sistema e riconoscendosi sempre nei valori e nelle garanzie liberali.

Nei suoi lavori devianza primaria e devianza secondaria (ma soprattutto la devianza primaria) non risultano mai collocati entro il quadro di un'analisi globale della società. Ciò perché Lemert ritiene fondamentale indirizzare la sua ricerca verso l'analisi e la descrizione dei comportamenti devianti, attraverso un'esplorazione diretta del mondo deviante come metodo principale per giungere ad una sua comprensione. Il sociologo deve, a suo parere, limitarsi ad una rappresentazione fedele del fenomeno, senza perdersi in costruzioni teoriche astratte sulla struttura sociale quale causa del fenomeno stesso.

Tuttavia, soprattutto la sociologia radicale di ispirazione marxista dominante nel decennio successivo, attribuisce la mancanza di un'analisi strutturale della società (che si accompagni all'attenzione riservata da Lemert al complesso di azioni e reazioni entro cui colui che ha posto in essere un iniziale atto deviante si trova) al fatto che compiere questa avrebbe potuto portare alla luce, attraverso un'analisi più complessa dei modi in cui la devianza è modellata dalla struttura più vasta del potere, le ineguaglianze strutturali esistenti nella società americana. In ultima analisi ciò avrebbe implicato una critica radicale nei confronti di quest'ultima e delle istituzioni liberali, che Lemert accuratamente ha sempre evitato (13).

Queste osservazioni ci consentono di trarre alcune conclusioni che possono rivelarsi utili per la comprensione e per un'eventuale applicazione empirica (sottoponibile poi a quantificazione e verifica) del pensiero di Lemert: le sue ipotesi devono considerarsi, come egli stesso peraltro (ed a differenza dei "labellings") ha sempre ribadito, semplicemente tali, ovvero non una teoria univoca e formalizzata. In sostanza si tratterebbe di un'analisi, o meglio di una descrizione di aspetti della reazione sociale alla devianza prima sottovalutati; di una ricerca impegnata nello studio delle sequenze dei processi sociali da utilizzarsi come modello analitico paradigmatico e non come modello teorico generalizzabile. D'altra parte come lo stesso Lemert ha avuto modo di precisare:

"Nello studio della reazione sociale, un unico modello o teoria non è sufficiente; i modelli devono essere adeguati all'area che viene studiata, ai valori, alle norme e alle strutture identificabili nell'ambito di essa, e alle caratteristiche particolari delle persone e degli atti che vengono definiti devianti. Inoltre il fatto che l'analisi prenda le mosse dalla reazione sociale non annulla l'importanza di tali atti, ossia degli oggetti nei confronti dei quali la reazione sociale si manifesta" (14).

3. Lemert: la reazione sociale come variabile indipendente nello studio dei fenomeni devianti

Il concetto di devianza secondaria, e la distinzione fra devianza primaria e secondaria, rappresentano l'estensione logica di uno studio della devianza compiuto partendo dalla reazione sociale ad essa e ponendo al centro dell'osservazione, come importante fattore esplicativo e significativo, il controllo sociale.

Lo spostamento all'interno dell'analisi sociologica dalle origini del comportamento deviante alla reazione sociale ad esso è compiuto per la prima volta da Edwin Lemert nel 1951 attraverso l'osservazione che:

"Noi partiamo dall'idea che le persone e i gruppi siano differenziati in vari modi, alcuni dei quali producono sanzioni sociali, rifiuto e segregazione. Queste sanzioni e reazioni di esclusione da parte della società o della comunità sono fattori dinamici che aumentano, diminuiscono e condizionano la forma assunta dall'iniziale differenziazione e deviazione" (15).

In maniera più incisiva circa venti anni dopo riconoscerà il suo allontanamento rispetto alla sociologia tradizionale "che tendeva a rimanere ancorata all'idea che è la devianza a dar luogo al controllo sociale" arrivando addirittura a sostenere l'idea inversa "e cioè che è il controllo sociale a dar luogo alla devianza" (16).

La perentorietà di tale affermazione non deve tuttavia ingannarci. Lasciando per un attimo da parte l'intento provocatorio e polemico che la guida dobbiamo precisare che lo scopo di Lemert non è mai stato quello di dimostrare come la devianza sia niente più che una creazione artificiale risultato dell'azione dei sistemi di controllo sociale, quanto piuttosto quello di tenere conto, nello studio di essa, dei processi di definizione ed interazione che coinvolgono gli individui devianti e le istituzioni deputate al loro controllo. In particolare Lemert ritiene che l'interazione tra le reazioni sociali al comportamento deviante e il comportamento stesso sia il fatto che determina in certa misura se l'iniziale atto non conforme diverrà devianza sistematica o se invece non si ripeterà più. Concetti come stigmatizzazione, esclusione, degradazione, mortificazione del sé, utilizzati per indicare la sostanza o le conseguenze della reazione sociale alla devianza, compaiono nelle opere di Lemert per descrivere come "le agenzie e le istituzioni apparentemente organizzate in vista di compiti assistenziali, rieducativi, riabilitativi e terapeutici, diano forma e significato alla devianza e giungano a stabilizzarla come devianza secondaria" (17). Ciò a riprova di come la prospettiva di analisi dalla quale parte Lemert non sia quella eziologica (di spiegazione cioè delle cause della condotta deviante). Fin dall'inizio egli si chiede piuttosto se, come e quanto l'assegnazione a stereotipi di malattia o delinquenza, l'essere inseriti in un processo di disapprovazione, di degradazione e di isolamento, ma anche il divenire oggetto di assistenza, cure, progetti rieducativi ed esortazioni morali, diventi rilevante ai fini del rafforzamento e della recidività della primitiva devianza.

Considerazioni di questo tipo conducono Lemert a operare una distinzione tra devianza primaria e devianza secondaria basata proprio sull'assunto che il controllo sociale debba considerarsi una variabile indipendente nello studio delle azioni devianti. Devianza primaria e secondaria sono due fenomeni diversi. Infatti per devianza primaria si intende l'iniziale atto deviante collegabile a tutta una serie di fattori sociali, culturali, psicologici e fisiologici. Esso, anche se socialmente può risultare sgradito, in assenza di una reazione sociale significativa, presenterebbe implicazioni marginali per lo status e la struttura psichica della persona. La devianza secondaria invece è quella che consegue all'etichettamento di una persona come deviante compiuto da agenzie di controllo sociale. Specificatamene la deviazione secondaria consiste nel comportamento deviante posto in essere in risposta ai problemi di stigmatizzazione, degradazione, isolamento prodotti dalla reazione sociale.

La reazione sociale - ed in particolare il fatto che la deviazione diventi pubblica e sia ufficialmente biasimata - secondo Lemert, incide sulla concezione che l'autore dell'atto deviante ha di sé stesso e del proprio ruolo. Essa darà il via ad un processo psicologico attraverso il quale il soggetto provvederà ad una riorganizzazione della propria identità, giungendo alla fine ad immedesimarsi nel ruolo attribuitogli. A questo punto la condotta deviante diverrà mezzo di difesa, di attacco o di adattamento nei confronti dei problemi creati dalla reazione sociale stessa.

Da questa distinzione Lemert trae un'importante conclusione: l'interesse principale della ricerca è rappresentato dall'analisi della reazione sociale e dell'azione dei sistemi di controllo sociale.

Ad una simile conclusione Lemert giungerà più volte ed in contesti diversi. Nel 1964 egli richiama l'attenzione su due differenti tipi di problemi che la ricerca può affrontare:

"1) come si origina il comportamento deviante; 2) come gli atti vengono attribuiti simbolicamente alle persone, e quali sono le effettive conseguenze di tale attribuzione sulla susseguente deviazione da parte della persona.... In realtà le cause originarie della deviazione perdono di importanza e divengono centrali le reazioni di disapprovazione, degradazione e isolamento messe in atto dalla società...Inoltre... il secondo dei due problemi che la ricerca può affrontare è, da un punto di vista pragmatico, di maggiore pertinenza della sociologia rispetto al primo" (18).

Tre anni dopo addirittura giungerà alla drastica conclusione che: "La devianza viene stabilizzata entro ruoli sociali e perpetuata proprio dalle forze destinate ad eliminarla o a controllarla." (19).

Ancora nel 1981 l'attenzione è puntata sul controllo sociale, infatti:

"...moral evaluations and judgments... they are part and parcel of an informal and formal control that make up the societal reaction to the deviance. Whenever persons and their actions mutually differentiate through processes of stigmatization, rejection, isolation, segregation, punishment, treatment or rehabilitation, the persons, their actions and the processes are data for study of deviance" (20).

4. Devianza primaria e devianza secondaria

Dunque il concetto di devianza secondaria indica il passaggio a status degradati a seguito di una reazione sociale prima informale e poi estesa e formalizzata nelle azioni degli agenti del controllo sociale. Tale passaggio, sostiene Lemert, determina dei cambiamenti nella struttura psichica del soggetto. Progressivamente - e nel quadro di un processo continuo di interazione sociale - la devianza muta qualitativamente fino a stabilizzarsi entro ruoli sociali ben definiti. Prima di descrivere come e perché, secondo Lemert questo passaggio avviene, è opportuno premettere che l'importanza attribuita in una simile analisi sociologica ai processi di definizione ed interazione sociale deriva dall'applicazione e dallo sviluppo, operato da Lemert, di alcuni aspetti teorici fondamentali dell'interazionismo simbolico: corrente questa al tempo stesso psicologica, filosofica e sociologica.

Infatti proprio nell'ambito della distinzione fra devianza primaria e secondaria gli insegnamenti di George Herbert Mead (il maggiore esponente dell'interazionismo simbolico) hanno dato i loro maggiori frutti ed hanno trovato la loro massima utilizzazione e dimostrazione. Lemert per primo riteneva di dover spiegare la devianza in termini di processo sociale; per lui (ma anche per gli altri neochicagoans) l'essere definiti e etichettati come devianti costituiva una fase importante di un processo d'interazione sociale più generale teorizzato proprio dall'interazionismo simbolico.

Le premesse fondamentali dell'interazionismo simbolico possono essere così sintetizzate: a) la persona è il prodotto di un'interazione ed il sé è da vedersi come una costruzione sociale, il modo in cui agiamo e ci percepiamo come individui è in parte il risultato di come gli altri ci trattano. Dunque è probabile che se qualcuno ci vede diversi noi stessi siamo inclini a pensarci diversi ed a comportarci in modo effettivamente diverso; b) il comportamento umano non è predeterminato quanto costruito attraverso continui processi interattivi. Esso non è causato soltanto da forze interne (per esempio istinti, pulsioni o bisogni) o da forze esterne (ovvero sociali), ma da un qualcosa che sta a metà tra queste due forze: un'interpretazione cosciente e socialmente derivata di stimoli interni ed esterni.

L'ancoraggio a questa impostazione di natura psico-sociologica risulta evidente laddove Lemert sostiene che l'interesse principale del sociologo deve consistere nell'accertare attraverso quali procedimenti l'individuo, etichettato come deviante dalla collettività o da un'agenzia preposta all'esercizio del controllo sociale, arrivi a mutare la concezione del proprio sé e giunga a percepirsi come deviante, diventandolo progressivamente anche nei fatti.

Ma come e quando si realizza il passaggio dalla devianza primaria alla devianza secondaria? In un primo tempo (1951) Lemert propone una versione piuttosto rigida della sequenza delle interazioni che conducono allo stabilizzarsi della devianza, descrivendola quasi come un processo i cui stadi l'individuo si trova costretto a percorrere in una precisa successione. Questi stadi sono: 1) una devianza primaria, ossia un primo atto deviante; 2) sanzioni sociali; 3) un'ulteriore devianza, che Lemert definisce ancora primaria; 4) sanzioni sociali e rifiuti più forti; 5) un'ulteriore deviazione, accompagnata da crescente ostilità e risentimento indirizzati nei confronti di coloro che mettono in atto le sanzioni; 6) crisi del quoziente di tolleranza, espressa in un'azione formale di stigmatizzazione del deviante ad opera della comunità; 7) rafforzamento della condotta deviante in risposta alla stigmatizzazione ed alle punizioni sociali; 8) definitiva accettazione dello status sociale di deviante e tentativi di adattamento al ruolo relativo (21).

In maniera più o meno implicita nel 1967 Lemert abbandonerà l'idea di costruire un modello progressivo di comportamento deviante allorché sottoporrà a dura critica il concetto di carriera deviante elaborato da Howard Becker. Parlare di carriera, dirà Lemert, significa fare riferimento ad un iter, ad un corso che deve essere necessariamente seguito. Un simile concetto esprime il tentativo di delineare delle sequenze fisse di stadi attraverso le quali le persone si muoverebbero nel passaggio da devianze minori a devianze più gravi. Un tentativo, sostiene ancora Lemert, difficilmente conciliabile con una teoria interazionista della devianza e che caratterizza le formulazioni più estreme della labelling theory nelle quali "il processo attraverso il quale si diventa devianti appare ineluttabile" (22).

Al contrario Lemert ritiene che le azioni suscettibili di venire selezionate come devianti, ovvero quelle che "tendono persistentemente ad opporsi ad altre persone, a frustrarle o a complicare loro l'esistenza" e che perciò "pongono questioni di valutazione, di reciprocità, di conseguenze e di costi cumulativi per gli altri" (23), non necessariamente vengono definite come tali e fatte oggetto di controllo sociale. Possono essere invece compiuti degli "accomodamenti", grazie ai quali il comportamento viene ad essere in qualche modo contenuto, le sue conseguenze minimizzate ed i suoi costi resi sostenibili almeno per un certo tempo. Per cui, riportando gli esempi fatti da Lemert, una segretaria può "coprire" il principale dedito al bere, il marito può assumere una cameriera che assolva ai compiti della moglie schizofrenica. Il comportamento in questione diverrà un problema di controllo sociale soltanto quando la sua vistosità sociale aumenterà implicando un aumento dei costi relativi ed una corrispondente insufficienza delle risorse necessarie alla riaffermazione dei valori convenzionali fino a quel momento salvaguardati. In pratica quando il comportamento "irriderà in modo aperto e palese ai valori di coloro che occupano posizioni dominanti" (24). Soltanto a questo punto il problema diverrà appunto un problema di controllo sociale ed una soluzione ad esso sarà il definire categoricamente una persona come deviante.

Perciò, conclude Lemert, se un problema sociale verrà interpretato o meno come manifestazione di devianza, ed il tipo di devianza a cui sarà ricondotto, sono questioni che bisogna sempre affrontare sulla base delle dinamiche sociali, senza trascurare, aggiunge, il modo in cui la reazione sociale alla devianza vari a seconda (oltre che del contesto e delle sue conseguenze) di oggettive differenze di forma e di sostanza del comportamento. Come a dire: lo sforzo di convalidare una concezione della devianza come fenomeno essenzialmente legato ai processi di definizione sociale, non può annullare l'importanza dell'atto in se nei confronti del quale la reazione sociale si manifesta.

Lemert, attraverso tali affermazioni intende respingere il relativismo estremo di alcune formulazioni della labelling theory nelle quali si arriva ad ipotizzare che alle azioni umane possa essere assegnato qualsivoglia significato a prescindere dalle loro caratteristiche oggettive (25). Al contrario è indubbio che certe condotte siano considerate indesiderabili più di altre; praticamente tutte le società, nota infatti Lemert, in modo e in misura variabile, disapprovano il furto, l'omicidio, lo stupro, l'incesto, le sevizie compiute sui bambini.

Sennonché una disamina degli aspetti oggettivi della devianza, che prescinda dalla reazione e dalla definizione sociale, risulta particolarmente problematica allorché ci si trovi di fronte ad un'altra categoria di comportamenti devianti, come quelli legati alla balbuzie o a disturbi del comportamento, oppure di fronte alla delinquenza occulta. Gli studi su questi tipi di condotte infatti "mettono in risalto la similarità del comportamento di coloro che vengono formalmente definiti devianti e di coloro che non sono definiti come tali" (26), sottolineando così il carattere contingente che in tali casi la devianza assume. Non a caso nel corso degli anni Lemert arriverà più volte a sostenere come i disturbi del comportamento e la balbuzie siano da considerarsi le forme classiche di devianza secondaria (27), condotte cioè che più delle altre introducono il fondato sospetto che ciò che noi definiamo deviante (o comunque il consolidarsi di tale devianza) sia il frutto molte volte di attribuzioni sociali, di reazioni sociali implicanti stigmatizzazione ed esclusione.

Neanche in tali casi tuttavia Lemert, al contrario dei "labellings", vede il deviante come un soggetto intrappolato in una determinata sequenza che si tradurrebbe poi in una carriera deviante. La distinzione fra devianza primaria e devianza secondaria ha proprio lo scopo di differenziare (e mantenere una separazione fra) il comportamento deviante percepito come una normale variazione (un problema di vita quotidiana dunque facilmente gestibile e riassorbibile ed interpretabile in termini di motivazioni iniziali di varia natura indipendentemente dalla reazione della società), ed il comportamento deviante che al contrario, in risposta alla reazione sociale suscitata, conduce il soggetto ad organizzare la propria esistenza ed identità tutta intorno alla devianza, innescando un processo sociale di mutamento di status e di ruolo. Il problema che in quest'ultimo caso si pone Lemert è proprio quello di analizzare come la prolungata esecuzione di un ruolo possa produrre cambiamenti nell'identità e nel sé e contribuire ad una stabilizzazione della devianza (28).

Il compito del sociologo è a suo parere proprio quello di studiare tale processo prendendo in considerazione i modi e le circostanze attraverso le quali viene attribuito ad un atto deviante un significato negativo ufficioso ed ufficiale. Tale attribuzione prende le mosse da reazioni sociali informali di indignazione morale, rifiuto ed umiliazione, e si conclude nell'azione formale della comunità volta ad esercitare un controllo (implicante una limitazione di libertà, un isolamento ed una stigmatizzazione) sull'atto deviante.

In secondo luogo lo scienziato sociale dovrebbe soffermare la sua attenzione sul fatto che in seguito all'attribuzione di tale significato negativo venga assegnato al soggetto un particolare status sociale degradato. L'effetto di una simile attribuzione è quello di mutare l'ambiente simbolico ed interattivo circostante: quando gli altri decidono che una persona è indesiderata, pericolosa o moralmente inaffidabile, si comportano nei confronti di questa persona in modo spiacevole, o comunque diverso.

Inoltre, al di là e al di sopra di un simile atteggiamento assunto dalle persone "comuni" che entrano in contatto con il soggetto, vi è l'azione delle forze del controllo sociale che definiscono e classificano la persona e che, restringendo l'accesso alle ricompense ed alle gratificazioni, ponendo limiti all'interazione sociale, e collocando i devianti in ambienti segregati e particolari, determinano un'alterazione della struttura psichica del soggetto e danno luogo ad una nuova organizzazione dei ruoli sociali e degli atteggiamenti nei confronti del sé. Viene portato avanti dunque, ad un duplice livello, formale ed informale, un processo di stigmatizzazione, ovvero un processo che conduce a contrassegnare pubblicamente delle persone come moralmente inferiori mediante etichette negative, e che porterà alla costituzione di una "globale identità deviante" (29) al momento in cui si diffonderà ed eserciterà pubblicamente.

Lemert, nel corso degli anni, descriverà più volte ed in varie occasioni il suddetto processo, insistendo sull'interazione tra le reazioni sociali al comportamento deviante ed il comportamento stesso. Nei suoi studi tale interazione si presenta costantemente come un fattore dinamico in grado di condizionare la forma che l'iniziale devianza assumerà in seguito. Lemert nelle sue ricerche ritrae sempre una situazione ambientale in cui l'interazione con le persone intime perde le sue caratteristiche di sostegno o di normalizzazione e diviene antagonistica. In esse troviamo continuamente un individuo che, entrando in contatto con agenzie di controllo sociale (di pena, di correzione o terapeutico-assistenziali) che gli impongono un'anomala concezione di sé e del mondo, regole rigorose (il cui rispetto implica una limitazione di libertà ed un isolamento), nonché l'accettazione o quanto meno il rispetto dei valori dominanti e dell'ideologia morale rappresentata dall'agenzia stessa, giungerà ad una chiara percezione di sé come deviante. Egli acquisirà una particolare immagine di sé basata sull'immagine che gli viene rimandata da coloro con i quali si trova ad interagire in questo processo.

"A seguito di una ripetuta, costante deviazione o discriminazione negativa", scrive Lemert, "qualcosa cambia nella 'pelle' del deviante. È un qualcosa che si viene a produrre nella psiche o nel sistema nervoso come conseguenza delle sanzioni sociali, delle cerimonie di degradazione, degli interventi 'terapeutici' o 'riabilitativi'. La percezione, da parte dell'individuo, dei valori e dei mezzi, e la stima dei relativi costi si modificano in maniera tale che i simboli che hanno la funzione di condizionare le scelte della maggior parte delle persone finiscono per non sollecitare quasi più in lui determinate risposte, o anche per produrre risposte contrarie rispetto a quelle auspicate dagli altri" (30).

5. Il concetto di devianza secondaria applicato ai comportamenti devianti

Il concetto di deviazione secondaria viene utilizzato da Lemert in numerose ricerche per richiamare l'attenzione sull'importanza che "la reazione da parte della società assume circa l'eziologia della devianza, le forme in cui questa si manifesta e lo stabilizzarsi di essa in ruoli sociali devianti" (31). Le indagini più significative condotte da Lemert a questo proposito vertono sulle forme di devianza collegate ai disturbi mentali (compiute a partire dal 1946 fino agli anni sessanta), alla falsificazione di assegni (nel decennio 1950-1960), all'alcolismo (nel corso degli anni sessanta), alla balbuzie (iniziate negli anni cinquanta e riprese durante gli anni sessanta).

5.1. La falsificazione di assegni

Nel 1953 fu pubblicata nel The Journal of Criminal Law, Criminology and Police Science una ricerca condotta da Lemert sulla falsificazione improvvisata di assegni, ovvero riguardante le falsificazioni commesse da persone che non avevano alcun precedente criminale e che non avevano mai avuto precedenti contatti con criminali. In essa venivano indicate prima di tutto le caratteristiche principali del reato in questione (scarsa visibilità sociale e tendenza del pubblico giuridicamente inesperto a considerarlo una forma relativamente "benigna" di crimine). Lemert cercava poi di individuare i soggetti con maggiori probabilità di commettere una falsificazione. L'analisi compiuta a tale scopo rivelava una maggioranza di uomini, di razza bianca, sui trent'anni, con un buon livello di istruzione ed una professione dignitosa. Inoltre nei falsari emergevano prevalentemente queste "tendenze temperamentali e di personalità" (32): rifiuto dell'uso della violenza, disprezzo per le altre forme di crimine, impulsività, grandi capacità di persuasione e di affascinare gli altri.

Particolarmente significativi apparivano gli ultimi due campi di ricerca: la situazione sociale del falsario ed il processo sociopsicologico che, interagendo con una situazione sociale di isolamento frequentemente riscontrata nella vita di falsari, conduceva il soggetto alla commissione del reato. Come accennato Lemert attribuì grande rilievo alla situazione di isolamento sociale (professionale, familiare, etnico e fisico) che risultò dall'esame della documentazione relativa ai casi di falsificazione. A suo parere, circostanze come disoccupazione, conflitti familiari e coniugali, perdite al gioco, fallimenti, pur facendo tutte la loro comparsa nella vita dei falsari, non potevano di per se stesse considerarsi cause del reato, dato che molte persone aventi un background simile e poste di fronte a crisi di tale tipo non ricorrevano alla soluzione criminale della falsificazione. Ad assumere rilevanza era piuttosto l'isolamento sociale conseguenza di quegli eventi, che determinando un'interruzione e distorsione della comunicazione sociale ed un restringimento delle alternative di condotta avvertite dal falsario come disponibili, riduceva la sensibilità nei confronti dell'"altro generalizzato", sensibilità che avrebbe potuto creare un rifiuto o un'inibizione della scelta criminale.

Qualche anno dopo Lemert focalizzò la sua attenzione sul comportamento del falsario sistematico di assegni, in particolare su come la prolungata esecuzione di tale "ruolo" producesse cambiamenti nell'identità e nel sé del soggetto (33). L'ipotesi generale elaborata in questa occasione da Lemert è che il vivere per mezzo dello spaccio di assegni falsi (reato che, come sottolineato più volte da Lemert, si caratterizza per la scarsa evidenza sociale e per il fatto che il suo autore tende ad agire da solo evitando associazioni con altri criminali) obbliga l'individuo ad una serie di "adattamenti" per sfuggire all'arresto ed alla identificazione (in particolare la pseudonimia e la mobilità). Questi ultimi divengono il "problema" centrale della sua esistenza e provocano come conseguenza immediata e naturale un forte isolamento sociale:

"Il timore da parte del falsario di venir riconosciuto e individuato lo spinge ad astenersi da contatti non indispensabili con altre persone. Inoltre se non vuol essere arrestato, egli deve guardarsi anche da un coinvolgimento avanzato nelle relazioni sociali, perché, con uno scambio più intimo di esperienze, interviene anche il pericolo...di uno smascheramento da parte degli altri" (34).

In sostanza il falsario si trova a dover assumere nuove identità, ad impersonificare continuamente nuovi e falsi ruoli che non rivelino il suo comportamento precedente. Un simile modo di vivere determina un lento ma progressivo aumento di ansia. L'ansia inizia a distorcere e/o a interferire con la capacità del soggetto di valutare realisticamente le risposte degli altri alle proprie azioni, fino a quando il falsario, non riuscendo a stabilizzare la propria identità, raggiunge "un punto senza sbocchi", rispetto al quale l'unica soluzione possibile appare l'arresto. Questa resa risolve i suoi problemi di identità, l'arresto gli assegna infatti immediatamente un'identità che per quanto indesiderabile possa essere è pur sempre un'identità. "In effetti", spiega Lemert, "egli accetta o sceglie un'identità negativa che, nonostante le sue spiacevoli caratteristiche, è quella più disponibile e più reale per lui" (35).

5.2. La ricerca socioculturale sul consumo di alcolici

Negli anni sessanta Lemert condusse una ricerca sul consumo di alcolici che rivelò come le reazioni della società fossero elementi di primaria importanza per comprendere l'azione del bere e l'individuo bevitore. In essa Lemert affronta il problema dal punto di vista dell'interazionismo simbolico e della teoria del controllo sociale, ponendo l'accento sui processi socioculturali di definizione dell'azione di bere, sulle reazioni e controlli sociali causati da essa e sui problemi che tali reazioni possono creare ai bevitori. Solamente seguendo un simile approccio, ritiene Lemert, si abbandona il condizionamento di una concezione che considera il bere come un sintomo di disadattamento o di disturbi individuali (a seconda del punto di vista adottato dalle varie teorie sociologiche sul consumo di alcolici), ovvero come un indice dei problemi del soggetto. Tale concezione, secondo la quale non ha senso trattare i sintomi quanto piuttosto il disturbo che li origina, tende ad ignorare l'importanza del significato che l'azione del bere ha per l'individuo, le motivazioni e gli scopi diversi che possono indurlo ad essa.

Da questi presupposti Lemert giunge alla conclusione che nelle società altamente tolleranti nei riguardi di chi eccede nel bere, l'alcolismo ed i problemi sociali ad esso connessi saranno socialmente percepiti soltanto ad un livello avanzato della carriera del bevitore. Al contrario nelle società a bassa tolleranza verso l'azione del bere, i problemi relativi si avvertiranno presto e si riveleranno di difficile accettazione. In quest'ultimo caso avranno origine una serie di problematiche socio-psicologiche che coinvolgeranno il bevitore e la sua famiglia, che probabilmente sono più "un risultato del bere che una sua causa". Infatti, scrive Lemert,

"l'esistenza di categorie psichiatriche e di concetti di alcolismo, e il fatto che essi vengano reificati e invocati per giustificare il controllo sociale...può essere un fattore necessario, se non sufficiente, per spiegare le più complesse forme di problemi connessi all'alcolismo nelle culture a bassa tolleranza nei riguardi di questo comportamento" (36).

Un aspetto centrale dell'analisi di Lemert è rappresentato dal rilievo che egli riserva alle gratificazioni, ai premi, ed alle possibilità offerte dallo svolgimento di ruoli devianti. A suo parere, ad esempio, i valori annessi in tutto il mondo all'assunzione delle bevande alcoliche costituiscono fattori di cruciale importanza sia ai fini della spiegazione del comportamento deviante, sia per ciò che riguarda la determinazione delle linee d'intervento seguite dalla società per il controllo del bere (37).

Anche l'alcolismo dunque, come altre forme di devianza (soprattutto criminale), consente al soggetto di ottenere delle gratificazioni in grado di attenuare gli effetti negativi della stigmatizzazione e che rappresentano un aspetto centrale e critico del passaggio alla devianza secondaria.

5.3. La balbuzie e la malattia mentale come forme tipiche di devianza secondaria

Tuttavia vi sono altre condotte devianti nelle quali non è facile riscontrare un rapporto equilibrato tra punizioni e gratificazioni. Al contrario in esse molte azioni intraprese dall'individuo sono fonte di dolore, sofferenza, insuccesso e degradazione, e ciò a fronte di ben poche gratificazioni compensatorie. Lemert le definisce forme di "devianza autolesionistica"; le sue manifestazioni più evidenti sono rappresentate dalla balbuzie e dalle malattie mentali. Si tratta, precisa Lemert,

"di forme caratterizzate dalla mancanza quasi totale di gratificazioni durature per le persone interessate. Il loro è un destino di ansia logorante, di sofferenza, di infelicità e di disperazione...una catena ininterrotta di cause e di effetti, che inizia e termina con la devianza. Sotto questo aspetto esse possono essere considerate senza esitazione delle forme classiche di devianza secondaria" (38).

I risultati di una ricerca compiuta da Lemert nel 1952 riguardante il fenomeno della balbuzie presso le popolazioni indiane della costa settentrionale del Pacifico, evidenziarono come gli atteggiamenti tenuti verso i balbuzienti, sia dalle persone a più stretto contatto con il soggetto sia dagli altri appartenenti al gruppo, non si discostino molto da quelli assunti nei confronti del malato di mente. In particolare si va da un comportamento di compassione, scherno, satira ed umorismo ad uno più pesante di disapprovazione, derisione, vergogna. Le reazioni sociali che si accompagnano a simili atteggiamenti sono di chiaro segno punitivo e di emarginazione sociale. L'interiorizzazione di queste valutazioni negative da parte del balbuziente sviluppa in lui un'ansia crescente nei riguardi del proprio modo di parlare.

In ultima analisi, afferma Lemert, le reazioni degli altri ed il modo in cui essi valutano il suo linguaggio contribuiscono a creare quei forti blocchi del linguaggio comunemente definiti balbuzie. Lemert non nega l'ipotesi di una base biologica nella eziologia della balbuzie, semplicemente sottolinea l'importanza di un'analisi sociologica centrata sulla incidenza della struttura e dell'interazione sociale sulla balbuzie stessa. Ad una simile conclusione egli giunse sulla base di un'analisi comparativa del fenomeno compiuta nel 1962 su due società, quella giapponese e quella polinesiana. "La ricerca", scrive Lemert, "...indica che l'incidenza della balbuzie è bassa nella società polinesiana, alta in quella giapponese. Mentre fattori culturali e occasionali provocano i fenomeni della balbuzie in entrambe le società, le differenze fra le strutture sociali rinforzano e mantengono il comportamento balbuziente nei giapponesi, e non nei polinesiani" (39).

6. La malattia mentale: il ricovero coatto

Nel 1946 venne pubblicato nella rivista "Sociology and Social Research" un articolo di Lemert dal titolo "Ricovero coatto e controllo sociale". In esso venivano resi noti i risultati di una ricerca tesa a rilevare i principali fattori implicati nell'internamento in ospedale psichiatrico del malato di mente.

La tesi di Lemert, sulla quale convennero psichiatri, operatori sociali del settore e studiosi delle malattie mentali, era che la deviazione psicotica non costituisse in se stessa la determinante fondamentale dei ricoveri. Al contrario, notò Lemert, assumono un ruolo decisivo nel processo di internamento i differenti livelli di "vistosità" sociale delle psicosi, quest'ultima intesa come potenzialità della deviazione di generare tensione nell'organizzazione familiare e nel contesto sociale. Ad esempio il comportamento "esuberante e disgregante" (40) che generalmente tiene il maniaco nei confronti del gruppo risulta assai più vistoso di quello che caratterizza lo schizofrenico.

In secondo luogo una variabile non trascurabile nel processo di ricovero è rappresentata dal fatto che la tolleranza manifestata dal gruppo nei riguardi del soggetto psicotico varia in funzione di indicatori di status e di ruolo (ovverosia età, sesso, stato civile, professione, appartenenza etnica) ed anche in funzione del tempo e dello spazio. A dimostrazione di ciò Lemert cita vari esempi: uno psicotico apatico può sfuggire all'internamento se fa un lavoro di routine, ma non se chiamato a svolgere un ruolo che richiede elevata attenzione; una donna schizofrenica può essere tollerata ed accudita dal marito qualora non abbia figli, al contrario il doversi occupare dei bambini può generare forti tensioni nell'entourage familiare. Anche la dimensione temporale non può essere trascurata nell'analisi dei casi di internamento, nel senso che il quoziente di tolleranza deve essere posto in relazione con i vari cicli della vita familiare (nascita, infanzia, adolescenza, maggiore età, matrimonio, nascita dei figli, morte) e, più in generale, con i cambiamenti lineari e periodici che si registrano nella vita della collettività. Infine, riguardo al luogo di residenza, Lemert verificò una maggiore tolleranza nei confronti degli psicotici dimostrata nell'ambito delle comunità rurali: "Qui è senza dubbio coinvolto il maggior familismo della gente di campagna, e la tendenza delle piccole comunità ad affrontare i problemi senza ricorrere a vie formali" (41). Viceversa nelle aree urbane elementi come l'isolamento etnico, la scarsa comunicazione sociale e la povertà degli scambi interpersonali si rivelano decisivi nella spiegazione della bassa tolleranza manifestata generalmente verso i malati mentali. In proposito Lemert osservò fra l'altro come, nelle grandi comunità urbane, le famiglie da una parte e le agenzie sociali dall'altra, ricorressero al ricovero per ragioni diverse. Mentre infatti la polizia ed i servizi psichiatrici tendevano a prendere tale provvedimento principalmente in casi di violenze, aggressioni, turbolenza, le famiglie giungevano ad una simile iniziativa più frequentemente nei casi in cui si riscontravano deliri ed allucinazioni.

La conclusione alla quale giunse Lemert fu che i due principali fattori implicati nell'internamento fossero la famiglia e la comunità (intesa nei suoi aspetti collettivi più formali), e che l'internamento potesse essere indizio di una minor tolleranza nei confronti del deviante piuttosto che di un accentuarsi del suo comportamento psicotico.

Infine Lemert sottolineò come in determinati frangenti l'internamento potesse avvenire prima che fosse raggiunto un valore critico del quoziente di tolleranza. In tali casi i sintomi psichiatrici, anche gravi, non hanno grande rilievo (nel senso che non generano forti tensioni); piuttosto l'internamento rappresenterebbe un espediente al quale ricorrere nel quadro di un conflitto fra gruppi o interno ad un gruppo. In particolare: i contrasti fra fazioni di parenti che traggono origine da interessi di tipo materiale o da contese per la custodia dei figli; le valutazioni negative e le considerazioni di status ad opera di vicini, datori di lavoro, medici, avvocati, compagnie di assicurazione (che si vanno ad aggiungere a quelle dei servizi psichiatrici), rappresentano tutti elementi che da soli possono concorrere in misura rilevante al ricovero, dimostrando così la fondamentale importanza assunta nel processo di internamento dalle relazioni e dai processi comunicativi entro cui è preso il soggetto.

7. Il processo di esclusione del malato di mente

Agli inizi degli anni sessanta Lemert condusse un'indagine sulla paranoia e sul processo di esclusione del paranoide.

La particolarità della analisi è data dal fatto che, ciò che era ritenuto il processo patologico della paranoia, viene interpretato come un processo legato alle interazioni con il contesto sociale (42).

I sociologi, affermò Lemert, sono giunti con sufficiente certezza ad una generalizzazione circa i comportamenti psicotici, ovvero che essi sono il prodotto o l'espressione di un disordine nella comunicazione tra individuo e società. Specificatamente sono definiti paranoidi coloro che, a seguito di un apprendimento sociale inadeguato, sono condotti a reazioni sociali improprie; in particolare ad organizzare simbolicamente una pseudocomunità (priva di un'esistenza reale), percepita come focalizzata su di loro e minacciosa, in quanto non in grado di comprendere i loro atteggiamenti. La tensione che nel paranoico crea una simile riorganizzazione lo pone in conflitto con la comunità reale e lo conduce ad un isolamento da quest'ultima. Infatti arrivati ad un certo punto lo stato di ansietà del paranoico sfocerà in una serie di azioni difensive e di rappresaglia nei riguardi della società, questa a sua volta reagirà attraverso misure di controllo e di ritorsione volte ad estrometterlo dalla comunità.

Sennonché Lemert giunse ad un rovesciamento di tale ipotesi sociologica, chiedendosi (e preoccupandosi anche di verificarlo empiricamente attraverso indagini ed interviste elaborate nell'arco di un intero decennio) se "le caratteristiche minacciose della comunità nei riguardi della quale il paranoide reagisce siano davvero una costruzione immaginaria o simbolica" (43). Se è vero, notò Lemert, che il paranoide reagisce all'ambiente sociale circostante in modo divergente, è altrettanto vero che gli altri reagiscono in modo divergente, ambiguo e cospirativo nei suoi confronti. Tali reazioni, tra loro complementari, si intrecciano continuamente e reciprocamente in un processo di esclusione entro il quale è inserito il paranoide a seguito di una interruzione delle informazioni e della comunicazione con l'ambiente circostante. "In questo modo", precisò Lemert, "centrando l'analisi clinica non più sull'individuo ma su di un processo ed un rapporto, ci distacchiamo esplicitamente da una concezione della paranoia come malattia...e dall'idea che i dati di ordine individuale siano fondamentali e sufficienti per lo studio della paranoia" (44).

Lemert descrisse un processo di esclusione sociale, ed il modo in cui questo contribuisce allo sviluppo di modelli paranoidi di comportamento, partendo da un'indagine sui fattori che influiscono nella decisione delle famiglie o dell'ufficiale sanitario di ricoverare i disturbati mentali che presentano sintomi paranoidi. Egli intendeva stabilire l'ordine in cui si verificavano i deliri e l'esclusione. Il principale criterio attraverso il quale furono selezionati i casi era che non vi fossero dati anamnestici o prove di allucinazioni e deterioramento intellettuale. L'indagine fu estesa (attraverso interviste, l'analisi di documenti legali, pubblicazioni e cartelle cliniche) a parenti, colleghi di lavoro, datori di lavoro, polizia, medici, pubblici ufficiali e altri soggetti che avessero avuto un ruolo significativo nella vita dell'individuo.

L'idea, elaborata da Lemert in precedenza (45), che i sintomi psicotici di per se stessi non costituissero la determinante fondamentale del ricovero, venne confermata dallo studio relativo alla paranoia. È piuttosto il comportamento del soggetto, ribadì Lemert, che, generando tensione nei rapporti sociali, conduce a cambiamenti di status ovvero all'esclusione formale ed informale, alla diagnosi di malattia mentale ed infine al ricovero.

Arrivare a definire sotto quali aspetti questo disturbo suscita tensione sociale è dunque, nell'ottica di Lemert, indispensabile. A questo scopo Lemert (mantenendosi fedele alla prospettiva interazionista) ritenne necessario analizzare il processo di esclusione da un duplice punto di vista: da un lato il comportamento dell'individuo doveva essere visto nella prospettiva degli altri o del gruppo, dall'altro il comportamento degli altri doveva essere visto nella prospettiva dell'individuo (46).

Con queste premesse Lemert individuò innanzi tutto il punto di partenza del processo di esclusione. Osservò come, nella maggior parte dei casi, tutto avesse inizio da una avvenuta o temuta perdita di status, come ad esempio la morte di un familiare, la perdita del lavoro, una mancata promozione, cambiamenti fisiologici o di età nel ciclo della vita, mutilazioni, conflitti e cambiamenti nel rapporto coniugale. Si trattava comunque di perdite o di mutamenti di status che non lasciavano alcuna alternativa all'individuo e, generando una tensione sempre crescente, finivano per apparire ai suoi occhi intollerabili ed inaccettabili. In sostanza, in rapporto a tali eventi, si determinavano forti difficoltà interpersonali tra il soggetto e la famiglia, i colleghi di lavoro, i vicini e le altre persone appartenenti alla comunità in genere. Ciò perché, da una parte l'individuo iniziava a manifestare, anche se soltanto a tratti ed in situazioni di interazione legate allo status, un comportamento ostile. In particolare egli diveniva arrogante, offendeva, sfruttava le debolezze altrui. D'altra parte Lemert verificò anche che in simili circostanze la persona "si porta con sé i suoi fallimenti" (47), nel senso che in ogni nuovo gruppo in cui entra sarà sempre preceduta dalla fama di "persona difficile" e dunque nella posizione di un estraneo in prova costretto a fare i conti con persone che manifesteranno una tolleranza minima nei suoi confronti.

In realtà in un primo momento la tolleranza espressa dagli altri verso il comportamento aggressivo dell'individuo tenderà ad essere ampia; egli sarà considerato una persona "strana", "particolare", ma in definitiva normale. Sennonché ad un certo punto, nel susseguirsi delle interazioni, l'interazione stessa muta qualitativamente a causa di una nuova percezione del soggetto che matura negli altri. Egli diviene una persona di cui non ci si può fidare, pericolosa. Questo mutamento si collega normalmente a circostanze e fatti precisi, come l'acquisizione di informazioni biografiche o la percezione nel comportamento dell'individuo di una possibile minaccia ai propri valori (personali o di gruppo). Nel corso della sua ricerca Lemert ravvisò chiaramente tale riorganizzazione percettiva e tale cambiamento nell'interazione, durante un colloquio fra un direttore del dipartimento di musica di una università ed un tizio che da anni lavorava ad una teoria sulla composizione matematica della musica. "Quando chiese di essere incluso nello staff, in modo da poter usare i calcolatori elettronici dell'università", racconta il direttore riferendo il colloquio, "incominciai a vederlo sotto un profilo differente... quando feci una obiezione alla sua teoria egli si turbò, e così cambiai la mia reazione in un 'si e no'" (48).

Dall'esempio risulta palese un cambiamento improvviso nel rapporto fra i due soggetti. L'interazione, secondo il termine impiegato da Lemert, diviene "spuria", nel senso di artificiosa; artificiosamente condiscendente, artificiosamente evasiva, indirizzata su argomenti prestabiliti. Addirittura, due o più persone impegnate in una conversazione, in presenza del paranoide utilizzeranno segnali in codice per comunicare fra loro e per avvertirsi l'un l'altro dell'arrivo del paranoide (49). Le conseguenze dell'interazione spuria saranno drastiche: l'arresto del flusso di informazioni per l'individuo; una frattura tra ciò che viene espresso e ciò che viene simulato; il crearsi di una situazione ambigua e dominata dal sospetto reciproco.

A questo punto i canali di comunicazione fra l'individuo e gli altri si interromperanno e ciò produrrà essenzialmente due ordini di conseguenze. In primo luogo il soggetto per ricevere qualunque tipo di comunicazione significativa dagli altri, dovrà smuovere ed esprimere sentimenti di particolare intensità e violenza tali da creare una situazione dalla quale gli altri non possono "fuggire", ovvero che determina necessariamente un contatto ed un'interazione con l'esterno. In questo quadro trovano una spiegazione i comportamenti provocatori del paranoico, le sue accuse ed i suoi insulti. In secondo luogo l'interruzione della comunicazione impedirà all'individuo di cogliere fino in fondo le conseguenze dei suoi atti e di valutare realisticamente la forma e l'entità delle reazioni al suo comportamento.

Queste ultime tenderanno inevitabilmente ad estromettere, isolare o quanto meno a "contenere" il paranoide, e porranno le basi per lo sviluppo di una vera e propria congiura fra coloro che intendono opporsi al paranoide. Si formerà un gruppo "esclusionista" la cui azione accrescerà progressivamente l'evidenza sociale della condotta dell'individuo. Verrà portata avanti un'attività che Lemert non esita a definire cospirativa, ovvero consistente in una serie di azioni, atteggiamenti, valutazioni e giudizi indirizzati in maniera strategica (attraverso l'impiego di tecniche di manipolazione e travisamento) verso l'esclusione e l'isolamento della persona. Il soggetto, e le sue insolite quanto fastidiose condotte, costituiranno l'argomento principale di conversazione degli "esclusionisti", ogni azione sarà accuratamente calcolata, tutte le "mosse" dell'individuo attentamente osservate e giudicate, fino a quando (contemporaneamente all'accrescimento dell'evidenza sociale del paranoico) non si avranno distorsioni evidenti della sua immagine. "La sua taglia, forza fisica, astuzia", spiega Lemert, "e gli aneddoti sugli oltraggi da lui compiuti vengono esagerati, con una accentuazione ricorrente al fatto che si tratta di persona pericolosa. Alcuni individui danno motivo di crederlo, altri invece no" (50).

Riguardo alla pericolosità dei paranoidi Lemert sottolineò come, pur essendo continuamente asserita, non sia mai stata sistematicamente dimostrata. Inoltre essa, notò Lemert nel corso delle ricerche, più che derivare da timori sul piano fisico, si ricollega all'esigenza di giustificare l'azione collettiva esercitata verso il soggetto, divenendo un principio legittimante dell'intero processo di esclusione. Particolarmente significativo in questo senso è il fatto che i casi presi in esame da Lemert nel corso della sua indagine riguardavano persone che non avevano subito deterioramenti, le cui esperienze "non comprendevano sospettosità generalizzata nei luoghi pubblici o aggressioni non istigate contro estranei" (51).

Arrivati ad un certo punto la rappresentazione distorta assumerà dimensioni incontrollabili, divenendo il prodotto di una deliberata e manifesta manipolazione dei comportamenti e dell'immagine dell'individuo, a dimostrazione di come "l'idea comune che la persona paranoide costruisca simbolicamente la cospirazione contro di lui è... inesatta o incompleta" (52), piuttosto egli non riesce a valutare precisamente o realisticamente le dimensioni e la forma della coalizione schierata contro di lui, a causa della sopra accennata rottura dei canali di comunicazione.

Ad alimentare e consolidare i deliri ed i comportamenti aggressivi dell'individuo contribuirebbe inoltre in misura rilevante, come messo in risalto nell'analisi di Lemert, l'azione formale delle agenzie di controllo. In questo caso non è più possibile trattare dell'esclusione come di un processo informale, ovvero che si verifica senza che si modifichi lo status formale dell'individuo. L'esclusione a questo punto è istituzionalizzata, si realizza su di un piano ufficiale, ed implica una ridefinizione e riorganizzazione dello status dell'individuo. Al momento in cui il paranoide entra in contatto con agenzie di controllo sociale, di tutela della legge o della salute, prendono il via una serie di procedure (ufficialmente di protezione e cura) che finiranno per rinforzare e consolidare i deliri, sviluppando nel soggetto un profondo senso di ingiustizia.

Lemert osservò come i contatti che la persona delirante aveva con le organizzazioni formali, intese in senso ampio (53), mostrassero spesso gli stessi elementi di evasività, superficialità e diffidenza che già caratterizzato il processo generale ed informale di esclusione svoltosi nella all'interno della famiglia o di altri gruppi. Negli ospedali psichiatrici in particolare si crea un ambiente caratterizzato da incertezza ed ambiguità che non può che confermare, piuttosto che correggere, la sospettosità e i deliri del paranoide. Ciò perché la pratica dello staff di ignorare i significati immediati ed espliciti delle affermazioni ed azioni del soggetto, e di rispondere viceversa soltanto ai significati inferiti e presunti, determina una "patologia della comunicazione" destinata inevitabilmente a consolidare il delirio paranoico.

La conclusione alla quale giunse Lemert dopo quasi un decennio di ricerca, analisi, indagine ed osservazione sul campo, fu che i membri dei gruppi sociali, delle organizzazioni, ed in senso ampio della comunità, si uniscano in uno sforzo comune volto a isolare il paranoide "prima o indipendentemente da ogni suo comportamento violento o vendicativo. La comunità paranoide più che pseudo è reale, in quanto si compone di prodotti reciproci e di processi i cui prodotti specifici sono l'esclusione formale ed informale, e il ridursi della comunicazione" (54). In altre parole la "pseudocomunità" sarebbe una conseguenza piuttosto che una parte integrante della paranoia; un effetto del deterioramento e della frammentazione della personalità che si manifesterebbero nel soggetto soltanto dopo un lungo periodo di tensione.

8. L'influenza del concetto di devianza secondaria nella sociologia americana: due esempi

Negli studi di Lemert concernenti la malattia mentale viene mantenuto un punto di vista rigorosamente sociologico. Da una simile impostazione deriva che le valutazioni medico-psichiatriche compiute su di una persona acquistano rilevanza soltanto nel momento in cui queste assumono un significato sociale, ovvero laddove provochino una reazione sociale, di tipo formale e/od informale. Come già sottolineato, l'importanza che Lemert attribuisce nello studio e nella spiegazione della devianza alla reazione ed al controllo sociale, sta alla base della fondamentale distinzione fra devianza primaria e secondaria. Nel caso specifico della malattia mentale, ed in particolare per ciò che riguarda la reazione sociale di tipo formale (ufficiale) ad essa, l'attenzione viene focalizzata sul ricovero ospedaliero. Infatti, il momento in cui il malato di mente viene ad essere ufficialmente riconosciuto come tale, dopo che la sua condotta deviante ha già provocato a livello informale reazioni sociali negative non essendo più tollerata, corrisponde al momento in cui ha inizio la procedura di ospedalizzazione.

L'approccio di Lemert si è rivelato così innovativo e proficuo ai fini della comprensione dei fenomeni devianti, che fin dall'inizio ha influenzato una serie infinita di studi e ricerche sociologiche, soprattutto riguardanti la malattia mentale e il ricovero del malato mentale.

8.1. Erving Goffman

Nell'ambito di tali studi un ruolo particolarmente significativo è stato assunto dall'analisi di Goffman sui meccanismi di esclusione e di violenza perpetuati attraverso l'istituzionalizzazione dei devianti, specificatamente attraverso il ricovero dei malati di mente. Il legame fra Lemert e Goffman, come Goffman stesso ha sottolineato (55), può essere colto nella descrizione compiuta da Goffman del processo di graduale limitazione e restringimento del sé al quale è soggetto il malato di mente dal momento in cui è ufficialmente riconosciuto malato, quindi ospedalizzato.

La "categoria" dei malati mentali, come osserva Goffman nel suo saggio "La carriera morale del malato mentale" (56)

"è qui intesa in senso strettamente sociologico. In questa prospettiva la valutazione psichiatrica di una persona assume significato solo nel momento in cui essa ne alteri il destino sociale - alterazione che diventa fondamentale nella nostra società quando, e soltanto quando, la persona viene immessa nel processo di ospedalizzazione" (57).

Come Lemert anche Goffman sviluppa nell'ambito dello studio della malattia mentale un'impostazione volta a dare ai processi sociali un risalto maggiore di quanto non facciano le teorie psichiatriche. In questo modo i problemi che riguardano il decorso della malattia mentale divengono problemi di mobilità di status; diagnosi e cura divengono sociologicamente entrata ed uscita dallo status di paziente mentale. Inoltre le questioni relative alle condizioni e circostanze in cui l'internamento in ospedale psichiatrico ha inizio e termine assumono la veste di problemi di "contingenze di carriera", così come li definisce Goffman riprendendo la tesi di Lemert che le circostanze sociali, esterne al paziente, possano essere decisive ai fini della sua ospedalizzazione.

Goffman si serve del concetto di "carriera" (58) anche per individuare l'insieme di mutamenti che si realizzano nel sé, nell'identità e nel ruolo sociale del malato di mente che subisce un ricovero, a partire dal periodo precedente l'ospedalizzazione (fase del predegente), durante il periodo del ricovero (fase del degente), ed infine nel periodo successivo alla dimissione dall'ospedale (fase dell'ex degente).

I risultati ai quali Goffman arriva nella sua analisi della carriera del predegente sono gli stessi raggiunti da Lemert nei suoi studi sul ricovero coatto del malato di mente e sul processo di esclusione sociale del paranoide. La storia della maggior parte dei pazienti mentali, osserva infatti Goffman, comincia di solito con un'esperienza di abbandono e di amarezza e presenta casi di trasgressione alle norme del vivere sociale (in ambito familiare, nel luogo di lavoro, in aree semipubbliche come ad esempio un grande magazzino, o pubbliche come una strada). Soltanto in alcuni casi, legati appunto a ciò che Goffman chiama "contingenze di carriera" (intendendo riferirsi peraltro alle stesse situazioni descritte da Lemert, ad esempio la clamorosità della trasgressione, il livello di tolleranza manifestato da parenti, amici e vicini, le condizioni economiche familiari), tali trasgressioni daranno il via al processo di ospedalizzazione, e soltanto da questo momento il soggetto non potrà non considerarsi e non esser considerato dagli altri un malato di mente. Un ruolo fondamentale in questo senso è svolto da una figura, denominata da Goffman "l'accusatore", che non agisce in veste professionale ma come parente, vicino di casa, datore di lavoro, in pratica come cittadino comune. Egli non è altro che colui che riferisce e rende pubblica, la condotta anomala del soggetto, dando così l'avvio ad un ciclo che condurrà al ricovero. È qui, sottolinea Goffman, che ha inizio socialmente la carriera del paziente, a prescindere dal momento in cui si colloca l'inizio psicologico della sua malattia.

Ai fini dell'internamento tuttavia, più che l'incontro con l'accusatore, appare decisivo il contatto con un'altra figura, stavolta di tipo professionale: colui che Goffman chiama "il mediatore". Solo allora infatti il destino del malato sembra segnato. L'azione del mediatore, individuato fra quell'insieme di agenti ed enti al quale il malato viene segnalato e che lo segue nel suo procedere verso l'ospedale (polizia, medici, psichiatri, assistenti sociali, insegnanti, legali, ma soprattutto gli psichiatri, forti della loro preparazione psichiatrica), assume il significato di un giudizio irreversibile che definisce il soggetto "un soggetto malato di mente" bisognoso di trattamento psichiatrico. Dunque il mediatore parteciperà attivamente al passaggio del soggetto dallo status civile allo status di degente, passaggio implicante la perdita di ogni controllo sulla propria vita.

È importante rilevare come la distinzione operata da Goffman fra accusatore e mediatore sia la stessa che Lemert compie fra reazione sociale informale e reazione sociale formale, ovvero tra procedure di controllo sociale esercitate a livello informale da familiari, colleghi, amici e vicini, e procedure di controllo esercitate a livello ufficiale da agenzie statali di controllo sociale. Ciò conferma che entrambi i sociologi ritengono fondamentale ai fini della comprensione dei sintomi psichiatrici l'analisi del contesto della situazione familiare o di gruppo in cui si sono manifestati (59).

Goffman in Asylums analizza inoltre in maniera attenta e minuziosa la vita dell'internato nell'istituzione psichiatrica, cogliendo e soffermandosi sui processi di profanazione, di mortificazione e di degradazione ai quali viene sottoposto il sé del paziente. In particolare: le barriere che l'ospedale erige fra l'internato e l'esterno; l'"esposizione contaminante" alla quale vengono sottoposti, gli oggetti personali, il corpo ed i pensieri del paziente; i rapporti ed il contatto forzato con individui di età, provenienza sociale, etnica e culturale diversa; l'adeguarsi a ritmi di vita, regole ed orari imposti senza essere interpellati; infine l'essere costretti ad imparare che ogni parola, azione e reazione potrà essere interpretata come sintomo, rappresentano tutti elementi che, osserva Goffman, pongono il malato in una condizione umiliante di soggezione e di inferiorità destinata ad incidere profondamente sul concetto che egli ha di sé.

"Il degente", afferma Goffman, "si trova completamente spogliato di ogni convinzione, soddisfazione e difesa abituali, soggetto com'è ad una serie di esperienze mortificanti". Una simile condizione certo non agevola l'individuo che, una volta dimesso, si trova a dover affrontare un ulteriore processo di degradazione e mortificazione stavolta perpetuato all'esterno dell'ospedale. Sovente infatti l'esperienza di degente sembra lasciare un segno indelebile e visibile sulla persona, "uno stigma", come si esprime Goffman, precisando che "una volta risulti che egli [l'individuo] è stato in ospedale psichiatrico, la maggior parte del pubblico, sia formalmente - in termini di riduzione di impiego - che informalmente - in termini del trattamento quotidiano generale - lo considera una persona da respingere; gli mette addosso uno stigma" (60). Costretto a subire simili reazioni l'ex degente imparerà presto che difficilmente la sua posizione sociale nel mondo esterno potrà essere ancora quella che era prima del ricovero.

8.2. Thomas J. Scheff

Un altro sociologo americano alla fine degli anni sessanta aderirà pienamente, nell'ambito dello studio sociale della malattia mentale, al pensiero di Lemert: Thomas Scheff. Anch'egli dirigerà la propria attenzione sui meccanismi di controllo sociale, ponendo l'accento sull'importanza della reazione della società nella stabilizzazione della iniziale devianza. Premettendo come lo scopo delle sue ricerche non sia quello "di rifiutare le formulazioni psichiatriche e psicologiche nella loro totalità" (61), Scheff ne sottolinea tuttavia il limite maggiore: l'aver sottovalutato il legame esistente fra i modelli di comportamento individuali e quelli sociali, e, conseguentemente, l'influenza dei processi sociali sul decorso e la cura della malattia (più che sulle cause).

Il lavoro di Lemert suggerisce a Scheff (e secondo lo stesso Scheff anche a sociologi come Goffman ed Erikson, ed a psichiatri come Szasz, Laing ed Esterson) delle strade di ricerca attraverso le quali si arriva ad evidenziare come una parte dei malati mentali incorporino un ruolo sociale ben preciso, in particolare, come la reazione sociale rappresenti di solito il fattore determinante per l'ingresso e la stabilizzazione in tale ruolo.

In questo contesto la distinzione compiuta per la prima volta da Lemert fra semplici violazioni di norme sociali ed azioni devianti che ricevono pubblicamente ed ufficialmente il marchio di violazioni di norme, diviene centrale. Applicando la distinzione fra devianza primaria e secondaria al caso specifico della malattia mentale, osserva Scheff, è possibile classificare la maggior parte dei sintomi psichiatrici come esempi di devianza primaria. Soltanto una piccola quantità di questi infatti va incontro ad una reazione sociale, ovvero diviene oggetto di attenzione medica ed in particolare di trattamento ospedaliero. Qualora ciò si verifichi il comportamento deviante tenderà a stabilizzarsi, implicando, il suo riconoscimento pubblico, l'assunzione da parte dell'internato del ruolo sociale del malato di mente, ed una conseguente variazione di status e nella concezione che egli ha di sé.

Il concetto lemertiano di devianza primaria individua secondo Scheff quell'insieme elevato di comportamenti trasgressivi che non viene notato, o, anche se notato, arriva ad esser razionalizzato come "eccentrico", "bizzarro", o "strano". Ciò dimostra come la maggioranza delle persone che manifestano sintomi psichiatrici non venga sottoposta a trattamento:

"È provato che spesso violazioni grossolane di regole non vengono notate o, se lo sono, vengono razionalizzate come eccentricità. È palese che molte persone notevolmente ritirate in se stesse, o che fuggono la realtà per lunghi periodi di tempo, che immaginano eventi fantastici, oppure odono voci e hanno visioni, non vengono classificate come pazze né da loro stesse né dagli altri" (62).

Dunque, come gli stessi psichiatri riconoscono, nella maggior parte dei casi il comportamento trasgressivo non diviene stabile e non viene registrato pubblicamente come sintomo di malattia mentale. Pertanto occorre domandarsi, perché, o meglio, in quali condizioni si stabilizzerebbe tale manifestazione di devianza primaria? L'ipotesi di Scheff, come accennato, è che il più importante fattore singolo, (anche se non l'unico), nel determinare la durata e l'esito della trasgressione inizialmente non strutturata e transitoria, sia rappresentato dalla reazione sociale.

Proprio la constatazione che nella maggior parte dei casi l'iniziale devianza non conduce di per sé ad un suo riconoscimento come malattia mentale (e ad un conseguente intervento medico), attira l'attenzione sull'importanza centrale delle circostanze che influenzano la direzione e l'intensità della reazione della società ad essa.

Nell'identificare tali circostanze Scheff parte da una fondamentale considerazione: l'immagine del ruolo della pazzia è appresa precocemente nell'infanzia e riaffermata continuamente nell'interazione sociale, ricevendo un sostegno costante da parte dei mezzi di comunicazione di massa e nelle comuni conversazioni sociali. In una crisi, qualora la devianza diventi un affare pubblico, lo stereotipo tradizionale di malattia mentale diviene l'immagine che dirige l'azione, sia per coloro che reagiscono alla devianza, sia per il deviante stesso. Scheff intende evidenziare come il soggetto non potrà che essere suggestionato dalle indicazioni fornitegli da coloro che gli stanno attorno e che portano avanti un'azione collettiva nei suoi confronti sulla base dei suddetti stereotipi.

Inoltre, precisa Scheff, "quando gli agenti della società e le persone che sono attorno al deviante reagiscono verso di lui... secondo gli stereotipi tradizionali della pazzia, la sua trasgressione amorfa e astrutturata tende a cristalizzarsi in conformità alle attese... e a stabilizzarsi nel tempo" (63). Egli comincerà a pensare a se stesso nei termini del ruolo stereotipato del folle (64); il suo comportamento inizierà a seguire i modelli suggeritigli in tale contesto, ovvero sarà organizzato entro il quadro dei disordini mentali. Tutto questo entro un sistema dinamico di interrelazioni reciproche tra il comportamento del soggetto e la reazione sociale che si presenta come un vero e proprio circolo vizioso, (lo stesso descritto da Lemert nel processo di esclusione del paranoide): più l'individuo entra nel ruolo del malato di mente, più viene definito dagli altri come tale e più completamente entra nel ruolo. Ciò anche perché, nella misura in cui il ruolo deviante diviene parte della auto-concezione del deviante stesso, la capacità di quest'ultimo di controllare la propria condotta può esser menomata, dando luogo ad episodi di comportamento compulsivo.

Nell'analisi di Scheff un ruolo centrale si trova ad assumere la ricerca delle circostanze che determinano la reazione sociale. Ed è proprio nell'ambito di tale indagine che i riferimenti a Lemert, ed anche a Goffman, si fanno più espliciti. La gravità della reazione sociale, sostiene infatti Scheff, è funzione in primo luogo del grado, dell'entità e della visibilità della trasgressione, in secondo luogo del livello raggiunto dal quoziente di tolleranza della comunità (65). Il nesso con l'analisi di Lemert come è facile notare è incontestabile. Non meno evidente appare l'assonanza con Goffman laddove Scheff sottolinea l'importanza, nel determinare l'entità della reazione sociale, della distanza sociale che sussiste fra trasgressore e agenti del controllo sociale, ovvero fra malato e psichiatra. La posizione di preminenza assunta dallo psichiatra (in questo caso agente chiave del controllo sociale, in quanto in posizione di assumere decisioni sul destino del soggetto significative per determinare grado e direzione della reazione della società) si esprime, sia in Scheff che in Goffman, in termini finanziari, ideologici e politici (66).

Infine anche Scheff, come Lemert, rileva quanto, alla stabilizzazione nel ruolo deviante, contribuisca in maniera rilevante l'azione di stigmatizzazione, biasimo ed allontanamento esercitata dalla comunità una volta che si sia verificato il passaggio dallo status di persona sana a quello di malato di mente, e, specificatamente, una volta che il soggetto che ha subito il ricovero psichiatrico venga dimesso. L'ex paziente mentale, sebbene abbia urgenza e necessità di riabilitarsi nella comunità, infatti "abitualmente si trova discriminato quando cerca di tornare al suo vecchio status o cerca di trovarne uno nuovo nel campo dell'occupazione, del matrimonio, della società ecc." (67).

Scheff in particolare sottolinea come venire a conoscenza del fatto che la persona sofferente di disturbi psichici sia stata in ospedale psichiatrico, determinerà nei suoi confronti un rifiuto ed un isolamento assai più marcati rispetto a quelli normalmente manifestati verso gli psicopatici che non chiedono un intervento medico e non vengono perciò sottoposti alla misura drastica del ricovero.

In questo modo Scheff richiama l'attenzione su quella che definisce la seconda delle due fasi ufficiali in cui si articola la reazione sociale ai disturbi mentali, ovvero la decisione di dimettere il paziente ricoverato. Una teoria della malattia mentale fondata sulla reazione della società (per Scheff, come per Lemert, la variabile indipendente più importante nello studio della devianza in genere) non può prescindere, né dall'esame di una simile decisione, né dallo studio della valutazione legale e psichiatrica delle persone considerate malate (la prima fase della reazione sociale). Infatti, conclude Scheff, dopo che la devianza si è imposta all'attenzione della comunità, "nel caso dei disturbi psichiatrici, la diagnosi psichiatrica è uno dei gradini decisivi dell''organizzazione ed attivazione' della reazione della società, dato che lo stato ha legalmente il potere di segregare e isolare quelle persone che gli psichiatri ritengono che siano da internare per malattia mentale" (68).

Note

1. Tale denominazione le deriva dall'intreccio dei suoi studi con la tradizione della scuola di Chicago. La scuola di Chicago è una corrente sociologica sviluppatasi intorno alle ricerche che alcuni sociologi del dipartimento dell'università di Chicago condussero, a partire dagli anni trenta, nell'ambito della e sulla comunità urbana. La scuola di Chicago segnò una tappa importante del pensiero sociologico americano non tanto sul piano dei contenuti delle sue ricerche, quanto piuttosto su quello metodologico. Accanto ad uno studio sulle cause delle condotte devianti infatti per la prima volta si hanno dei ricercatori che si calano all'interno del fenomeno studiato, ne analizzano la complessità nel tentativo di comprendere il significato che esso ha per l'attore coinvolto. Mediante la tecnica dell'osservazione partecipante si arriva a riconoscere agli individui la dignità di interpreti consapevoli della realtà sociale. In sostanza il merito principale che anche i sociologi successivi, ed in particolare i "labellings", hanno riconosciuto ai chicagoans è stato quello di aver introdotto nella ricerca sociale un nuovo approccio metodologico: quello naturalistico. Proprio i sociologi dell'università di Chicago hanno assunto per primi quell'atteggiamento rivalutativo successivamente ripreso ed ampliato dai "labellings". I chicagoans scoprirono e sottolinearono nelle loro analisi come i mondi devianti avessero proprie peculiarità, soddisfazioni proprie, ruoli e regole specifiche; come risultassero guidati da una propria logica ed integrità. Ciò fu reso possibile da un'analisi del fenomeno deviante condotta per la prima volta dal "di dentro", che a sua volta rese difficile la conservazione e l'utilizzo delle categorie elaborate dall'esterno. Il metodo seguito fu quello partecipativo e descrittivo attraverso il quale si rinuncia ad utilizzare e verificare ogni teoria precostituita, oscillando, come si esprime Alessandro Salvini, fra un "estraniato stupore" ed una "identificazione simpatetica" rispetto al fenomeno. Vedi A. Salvini, Interazione e comportamento deviante: introduzione a Edwin Lemert, in E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Giuffrè, Milano, 1981, p. XVIII.

2. To label, in inglese, significa attribuire etichette. The label, significa l'etichetta.

3. Mantenendo in questo senso una continuità con la tradizione della Scuola di Chicago. Vedi nota n. 1.

4. Cfr. T. Pitch, La devianza, La Nuova Italia Editrice, Scandicci, 1986, p. 132.

5. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 22.

6. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 129.

7. Cfr. D. Matza, Come si diventa devianti, il Mulino, Bologna, 1976, p. 182.

8. Con il termine "patologie sociali" si indicano prevalentemente gli appartenenti ad orientamenti criminologici e sociologici volti a trasporre il concetto di malattia dal piano strettamente organico a quello della personalità e del gruppo sociale. Il sociale ed il giuridico vengono interpretati dai patologi sociali alla luce dei soli criteri di normalità e patologia. Attraverso tali criteri diviene possibile tradurre in malattia, (considerando la trasgressione un sintomo, un disturbo della condotta) ogni forma di reato, di dissenso e di disadattamento. In ultima analisi il paradigma dominante è ancora il determinismo ambientale: la degradazione del corpo sociale, la carenza di opportunità e di occasioni, ovvero la povertà e la disgregazione sociale sono alla radice di tutto. Esse determinano un disordine individuale che sfocia ineluttabilmente in condotte trasgressive. Queste ultime vengono eguagliate alla malattia, allo stesso modo in cui la moralità tende ad essere identificata con la salute.

9. D. Matza, Come si diventa devianti, cit., p. 102.

10. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., pp. 21-24.

11. I. Taylor, P. Walton, J. Young, Criminologia sotto accusa, Guaraldi, Rimini-Firenze, 1975, p. 262.

12. I. Taylor, P. Walton, J. Young, Criminologia sotto accusa, cit., p. 253.

13. Sia I. Taylor, P. Walton, J. Young che T. Pitch ritengono che una simile posizione si collochi a pieno titolo nella tradizione del pragmatismo americano, dal quale Lemert, non riesce a staccarsi. Il pragmatismo rifiuta ogni speculazione metafisica svincolata dall'analisi della prassi; d'altra parte questo empirismo è pagato con la mancanza di un'effettiva comprensione globale dei fenomeni studiati, e, pienamente saldato con l'ideologia liberale, ostacola il consolidarsi di una vera e propria opposizione al sistema politico facendo sì che l'intellettuale americano ne assuma acriticamente i suoi presupposti fondamentali. Cfr. I.Taylor, P. Walton, J. Young, Criminologia sotto accusa, cit., p. 248 e pp. 263-271; T. Pitch, La devianza, cit., pp. 9-10.

14. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 28.

15. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. XIX.

16. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 1.

17. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 20.

18. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., pp. 65-66. A sostegno della sua posizione nella stessa occasione, Lemert precisa inoltre come l'attribuzione di un significato deviante alle azioni ha luogo nell'ambito dell'interazione con le agenzie del controllo sociale e mediante il loro operato.

19. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 1.

20. E. Lemert, "Issues in the Study of Deviance", in The Sociological Quarterly 22 (Spring 1981), p. 289.

21. Cfr. T. Pitch, La devianza, cit., pp. 110-111; I. Taylor, P. Walton, J. Young, Criminologia sotto accusa, cit., p. 250.

22. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 23.

23. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 31.

24. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 32.

25. In particolare, come precisano Taylor, Walton e Young, tali formulazioni finiscono quasi con il sostenere che "là dove non esistono etichette, non esiste neppure la devianza", scadendo "in un idealismo di stampo relativistico". I. Taylor, P. Walton, J. Young, Criminologia sotto accusa, cit., p. 230.

26. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., pp. 28-29.

27. In proposito Lemert così si esprime nel 1981: "Physically handicapped persons, do not become deviant because of particular acts which break rules - a conclusion especially conspicuous in cases of persons who have cosmetic defects, such as scars, birthmarks, misshapen, features or uncoordinated bodily movements. Much the same is true of stuttering, which so far has defied research efforts to show that any particular kinds of speech precedes its social definition... Finally, although there is some fervid disagreement about the matter, it seems doubtful that any classifiable acts or symptoms can be identified consistently as mental disease.". In tali casi, conclude Lemert, è indubbio che "specific acts are not prerequisites of deviance and that the status of deviant can be purely ascribed". E. Lemert, "Issues in the Study of Deviance", in The Sociological Quarterly, cit., p. 290.

28. Nel suo saggio letto per la prima volta ad un convegno della California Psychological Association e pubblicato nel 1967 con il titolo "Rappresentazione di ruolo, sé e identità del falsario sitematico di assegni" Lemert, trattando delle conseguenze che il vivere per mezzo dello spaccio di assegni falsi ha per i ruoli sociali, il sé e l'identità, specifica il significato di questi concetti: "Quello di ruolo è un termine che riassume il modo o i modi in cui un individuo agisce in una situazione strutturata. Una situazione è strutturata nella misura in cui gli altri con cui l'individuo interagisce si aspettano che lui risponda in certi modi e nella misura in cui egli anticipa le loro aspettative e le incorpora nel suo comportamento. Il ruolo riflette queste aspettative, ma riflette anche le richieste relative ad altri ruoli e la valutazione che ne dà l'individuo, cosicché esso è sempre una combinazione unica di elementi comuni e diversi. L'identità è considerata qui come formata dagli aspetti delimitanti i termini della personalità nel tempo e nello spazio, come sono percepiti e simbolizzati (definiti), il "chi sono e chi non sono"...Il sé è l'identità con l'aggiunta della valutazione. È una coscienza che differenzia e valuta, e che nasce dall'interazione sociale.". E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 219.

29. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 91.

30. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 65.

31. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 87.

32. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 109.

33. Per i concetti di sé, ruolo, identità, vedi nota n. 28.

34. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 227.

35. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., pp. 243-245.

36. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 293.

37. I valori associati all'uso dell'alcol concernono in primo luogo le relazioni interpersonali. Lemert intende riferirsi specificatamente alla funzione di modificatore del comportamento attribuibile allo stato di ebbrezza, la quale a sua volta determina un generale rilassamento dalla fatica, dalla tensione, dall'apatia, diminuisce le distanze sociali e rafforza i legami di gruppo. In secondo luogo Lemert non trascura neanche i valori annessi al consumo di alcolici secondo una valutazione data dalle élites politiche ed amministrative, ovvero la riconosciuta facilità con cui le entrate dello stato possono essere aumentate tassando la produzione di alcolici, il fatto che la produzione e distribuzione di bevande alcoliche rappresentino un mezzo di sussistenza per molte persone. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 143.

38. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., pp. 119-120.

39. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 278.

40. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 132.

41. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 135.

42. F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro, La maggioranza deviante, Einaudi, Torino, 1971, p. 66.

43. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 336.

44. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 337.

45. Vedi § 6.

46. Dal punto di vista degli altri Lemert notò come l'individuo mostrasse: 1) "uno spregio dei valori e delle norme del gruppo primario, che si manifesta nel privilegiare valori verbalmente definibili rispetto a quelli impliciti, nel non contraccambiare lealmente la fiducia ricevuta, nell'infierire e nell'esercitare intimidazione nei confronti delle persone in posizione di debolezza"; 2) "Uno spregio della struttura implicita dei gruppi...in parole povere... agli occhi del gruppo, l'individuo appare come una figura ambigua, dal comportamento imprevedibile, sulla cui lealtà non si può contare. Insomma egli è una persona della quale non ci si può fidare, perché minaccia di mettere a nudo le strutture informali di potere. Questa, a nostro avviso, è la ragione essenziale per cui in genere si ritiene che il paranoide sia pericoloso". Viceversa ponendosi dal punto di vista dell'individuo divenivano pertinenti i seguenti aspetti del comportamento degli altri:

  1. "Il modo manifesto in cui gli altri lo evitano";
  2. "La sua esclusione strutturata dall'interazione".

E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 342.

47. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 344.

48. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 345.

49. Vedi E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit. p. 345 e p. 350.

50. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 352.

51. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 361.

52. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 360.

53. Lemert nella sua analisi include tra le organizzazioni formali non solo le agenzie del controllo sociale, ma anche le grandi società, le forze armate, le scuole e le università. In esse, una volta che si sia creata una situazione critica, il conflitto fra l'individuo ed i membri dell'organizzazione, condurrebbe ad un'azione diretta ad escluderlo su di un piano formale. Le modalità e la sostanza che tali azioni possono assumere sono, secondo Lemert, varie. Si va dal trasferimento dell'individuo da un reparto (o divisione) ad un altro dell'organizzazione, a ciò che Lemert chiama "l'incapsulamento" ossia una ridefinizione di status quale può essere quella conseguente ad un mutamento di mansioni o livello, fino ad arrivare alla misura drastica del licenziamento, delle dimissioni forzate, o alle forti pressioni esercitate per costringere il soggetto a sottoporsi a cure psichiatriche o al ricovero. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., pp. 347-350.

54. E. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 359.

55. E.Goffman, Asylums, Einaudi, Torino, 1974, p. 154.

56. Pubblicato per la prima volta nel 1959 su "Psychiatry: Journal for the Study of Interpersonal Processes", e ristampato in Asylums nel 1961.

57. E.Goffman, Asylums, cit., p. 154.

58. Il concetto di carriera suscita in Lemert non poche perplessità e, più volte, è stato da lui criticato. Vedi § 4.

59. Vedi T.J. Scheff, Per infermità mentale, Feltrinelli, Milano, 1974, cit., p. 170. In proposito Scheff coglie la maggiore attenzione riservata da Lemert, rispetto ad altri studiosi, ai grandi gruppi antagonistici che si trovano nelle aziende, nelle fabbriche, nelle scuole (definiti da Lemert "organizzazioni") piuttosto che al piccolo gruppo familiare. Tuttavia, osserva ancora Scheff, "la politica di gruppo, la percezione selettiva, e l'attenzione e l'interruzione delle comunicazioni tra l'individuo sospetto e il resto del gruppo, possono evidentemente manifestarsi nelle famiglie in modo simile a quello descritto da Lemert per le grandi organizzazioni".

60. E.Goffman, Asylums, cit., p. 370.

61. T.J. Scheff, Per infermità mentale, cit., p. 50.

62. T.J. Scheff, Per infermità mentale, cit., p. 69.

63. T.J. Scheff, Per infermità mentale, cit., p. 96.

64. Tale ruolo d'altra parte fa parte anche del suo repertorio di ruoli, dato che, come coloro che reagiscono nei suoi confronti, lo ha appreso nella prima infanzia. T.J. Scheff, Per infermità mentale, cit., p. 101.

65. Cfr. § 6 e § 7. Quoziente di tolleranza definito fra l'altro da Tamar Pitch (commentando Lemert) come "il rapporto quantitativo sotto forma di frazione tra il comportamento in termini oggettivi e la volontà della comunità di tollerarlo". T. Pitch, La devianza, cit., p. 120.

66. T.J. Scheff, Per infermità mentale, cit., p. 108; E. Goffman, Asylums, cit. p. 108 e p. 155.

67. T.J. Scheff, Per infermità mentale, cit., p. 100.

68. T.J. Scheff, Per infermità mentale, cit. p. 134.