ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Silvia Ubaldi, 1997

Il fenomeno del suicidio e del tentato suicidio in carcere ha assunto proprio negli ultimi anni un'importanza ed una risonanza assai rilevante, soprattutto in relazione ad alcuni suicidi "eccellenti" ed ai risvolti politici, sociali e culturali che hanno avuto. Il solo fatto che a partire dal 1986 (con modifiche nel 1987 e nel 1988) sia stata emanata una specifica circolare ministeriale, la circolare Amato, dimostra che al problema sono state riconosciute dimensioni importanti e allarmanti. Lo studio che segue è lontano da un approccio giornalistico al problema, perché lo analizza sotto il profilo sociologico, giuridico e psichico. Semmai questo studio si sofferma su quella massa di casi meno eclatanti dal punto di vista giornalistico, ma sicuramente più rilevanti da quello scientifico e pratico di vita carceraria.

Il primo problema che pone uno studio sul suicidio in carcere è quello di reperire opere in letteratura a cui poter fare riferimento. Esistono molti studi sul fenomeno del suicidio in generale, ma lo specifico argomento del suicidio in carcere, raramente è stato affrontato in maniera diretta, specie in Italia.

Il tema più generico delle "morti" in carcere ha cominciato a destare l'interesse degli studiosi intorno alla metà del 19º secolo, fase in cui "la morte" ha iniziato ad essere percepita come un "fenomeno di disagio sociale". Da allora è stato sempre messo in evidenza unicamente l'aspetto patologico del problema, trascurandone l'aspetto sociale.

Fino ad oggi i rari studi su questo tema sono stati condotti prevalentemente secondo una prospettiva medica. Attualmente si potrebbe semplificare dicendo che il panorama letterario che riguarda questo argomento si divide in studi di tipo medico, prevalenti nei paesi di civil law (Francia e Italia) e in studi di tipo sociologico (specialmente di tipo epidemiologico) diffusi soprattutto nei paesi di common law.

Storicamente le ricerche condotte in ambiente carcerario hanno avuto per oggetto il problema delle "morti in carcere" e non quello del suicidio in carcere. Quindi prima di procedere ad una valutazione di questi lavori e delle possibili prospettive di studio, mi è sembrato opportuno dare un'approssimazione alla definizione del concetto di suicidio per delimitare l'estensione dell'argomento e dunque circoscrivere il tema della ricerca. Secondo una definizione del tutto formale e lessicale in generale per suicidio si intende la morte di un soggetto conseguente ad una sua azione od omissione indirizzata a questo specifico fine. In realtà è assai più complesso definire il "suicidio". Secondo Diekstra, per esempio, non è possibile dare una definizione esaustiva di un tema che ha un così alto grado di complessità. In uno studio che si ripromette questo scopo, infatti, non basta guardare al problema della morte come evento esternamente osservabile, ma è necessario cercare di studiare il "comportamento suicidario" e cioè quell'insieme dei comportamenti connessi al suicidio e che lo precedono, nei quali interagiscono diversi fattori: fattori esogeni, fattori endogeni e la loro interazione.

A seconda che nello studio del comportamento suicidario si metta in primo piano l'influenza dei fattori endogeni o quella dei fattori esogeni, si perviene a diversi indirizzi epistemologici intorno al suicidio carcerario: secondo la tradizione sociologica si mettono in evidenza gli aspetti ambientali (e quindi esogeni), quali fattori maggiormente predisponenti al suicidio. In questo caso il suicidio sarebbe da addebitare alle pessime condizioni ambientali della vita in carcere. In questa prospettiva sociologica, indipendentemente dalla natura dell'individuo (dalle sue capacità cognitive e dalle sue abilità di adattamento) le condizioni sono tali di per sé da provocare l'autosoppressione. Questa è la prospettiva classica per cui si dice che la condotta suicidaria è determinata da fattori esogeni perché esterni all'individuo.

Secondo gli studi medici, invece, si valorizza la prospettiva patologica del fenomeno suicidario, cosicché il suicidio è inteso come la conseguenza di una patologia individuale indipendentemente dalle condizioni ambientali del carcere. In questo caso allora il suicidio dipende prevalentemente da fattori endogeni e cioè legati esclusivamente alla natura dell'individuo. Secondo questo punto di vista colui che presenta tali caratteristiche endogene è inevitabilmente destinato al suicidio indipendentemente dall'ambiente in cui vive.

Schematizzando, si confrontano perciò due opposte prospettive sullo stesso problema.

Fino ad oggi in Italia sembra che l'approccio prevalente nello studio del suicidio carcerario sia stato quello medico. La maggior parte delle teorie sul suicidio carcerario, infatti, ha una impostazione medica e in particolare prevalgono le teorie di indirizzo psichiatrico. Hanno invece una importanza marginale (e fino ad ora non sono state capaci di fornire specifiche teorie sul suicidio carcerario) le teorie psicoanalitiche, cognitive e comportamentali.

La prospettiva medica è sempre stata quella prevalente anche perché sono i medici che per motivi di servizio si sono trovati a dover risolvere questo problema, e così inevitabilmente, soprattutto in Italia, la letteratura specifica è costituita da articoli raccolti nelle riviste di medicina penitenziaria. Dunque volendo fare una rassegna degli studi sul suicidio in carcere condotti in Italia si perviene ad una vera e propria tassonomia nosografica di patologie che secondo il punto di vista medico sono alla base del comportamento suicida in carcere. Relativamente a questo modo forse un po' unilaterale di trattare l'argomento si è parlato di "medicalizzazione" del problema proprio perché veniva dato eccessivo rilievo all'aspetto patologico trascurando l'influenza degli aspetti sociali in relazione al suicidio.

Le ricerche condotte secondo una prospettiva sociologica sul tema del suicidio carcerario tendono al contrario a mettere in evidenza l'influenza dell'ambiente in relazione al suicidio del detenuto. Il primo lavoro sociologico sul suicidio è stato quello di Durkheim i successivi studi sociologici hanno preso spunto da questo autore e sono un approfondimento del lavoro del sociologo francese.

Nell'ambito di questi lavori si possono distinguere le ricerche empiriche dalle ricostruzioni teoriche. Le ricerche empiriche, a loro volta, si distinguono in indagini epidemiologiche, di tipo statistico, e indagini di tipo intensivo, che si basano su interviste e colloqui a diretto contatto con i detenuti o con le persone più vicine al detenuto.

Si tratta di due tipi diversi di indagine empirica, perché cambia la prospettiva: nella ricerca statistica si procede ad uno studio quantitativo del fenomeno del suicidio, nella ricerca di tipo intensivo ci si propone un esame qualitativo del fenomeno suicidario.

Raramente invece ci si è posti degli interrogativi più generali sul suicidio in carcere. Gli studi di impostazione durkheimiana che si sono occupati di approfondire la riflessione teorica sono gli studi ambientali.

Gli studi medici e gli studi sociologici valorizzano i due diversi profili dello stesso problema. Come è stato osservato da Taylor (1) solo recentemente la distanza tra i due approcci sta diminuendo, perché da una parte le indagini epidemiologiche vengono svolte prendendo sempre in maggiore considerazione i fattori endogeni: nella valutazione dinamica del gesto si tiene conto della storia personale del soggetto dando particolare rilievo al parere degli psichiatri quali maggiori informatori dello stato psicologico del detenuto. D'altro canto i medici che hanno condotto le ricerche nell'ambiente del penitenziario si stanno avvicinando ad una visione di tipo sociologico; infatti nelle loro relazioni assume sempre maggiore importanza la considerazione dei fattori esogeni.

Negli studi sociologici più recenti si rivolge particolare attenzione alla interazione dei fattori endogeni ed esogeni osservando con grande interesse il modo in cui l'individuo metabolizza l'ambiente esterno. Gli studi comunicativi, per esempio, assumono un punto di vista microstrutturale mettendo in primo piano l'importanza del singolo caso. Un'indagine di questo tipo potrà risultare forse meno globale, ma, sicuramente più precisa e attenta ad un fenomeno che è, prima che sociale, comportamentale.

L'elemento che avvicina le due diverse prospettive teoriche e cioè quella medica e quella sociologica sta, in ultima analisi, nella volontà di comprendere il significato di questo comportamento. Pur partendo da prospettive antitetiche il comune denominatore sta nell'interrogativo finale sul gesto: - che senso ha questo suicidio?-. Ponendoci in questo atteggiamento si scopre che esiste sempre un senso tutte le volte che lo si voglia ricercare.

L'obiettivo della ricerca da me condotta è quello di tentare di ricostruire il significato del singolo comportamento di suicidio. Con questa prospettiva ho raccolto ed elaborato una casistica di suicidi e di tentati suicidi in alcune carceri con il proposito di analizzare i casi di suicidio e tentato suicidio nelle carceri di Prato, di Pistoia e di Sollicciano nel periodo di tempo che va dal 1992 al 1996. Tale proposito si è rivelato, nella pratica assai ambizioso, relativamente alle reali possibilità di indagine: si dimostra molto difficile ottenere tutte le informazioni sugli episodi di suicidio in primo luogo perché si tratta di notizie coperte dal segreto di ufficio. Non è agevole avere accesso ad un carcere né è facile investigare sulla vita dei detenuti. In secondo luogo anche dal punto di vista dei criteri di documentazione i così detti "atti anticonservativi" (per usare la terminologia burocratica) non hanno una classificazione autonoma; esistono dei rapporti disciplinari che vengono redatti dalle guardie di sorveglianza per dovere di informazione alle autorità, attraverso i quali si registrano tutte le "irregolarità" che "turbano" l'ordine delle istituzioni. Queste "irregolarità possono essere indifferentemente uno sgabello rotto o l'uso di un epiteto particolarmente volgare verso una guardia (che spesso diventa oltraggio a pubblico ufficiale), l'incendio della cella o il tentativo di un suicidio. Il registro dei rapporti disciplinari è in realtà "l'unico diario di bordo" della vita in carcere (2).

Dunque per l'analisi del significato dei casi specifici è inevitabile dipendere da ciò che è riferito dalle guardie di sorveglianza o dalle guardie mediche. Così in alcuni casi è possibile che il significato del suicidio sia stato travisato da coloro che hanno steso un rapporto al riguardo.

Di fronte a questa situazione relativa alle fonti anziché cercare di estrapolare dalla rielaborazione altrui il senso del caso, mi è sembrato scientificamente più corretto prendere atto dell'etichettamento operato dall'amministrazione penitenziaria attraverso i rapporti disciplinari e cercare di mettere in luce il significato del singolo caso di suicidio che emerge dalla ricostruzione dei dati ufficiali.

La ricerca empirica da me condotta consiste in un tentativo di ricostruzione dei singoli casi di suicidio sulla base della versione dei fatti descritta nei rapporti disciplinari dalle guardie di sorveglianza. I documenti più significativi si sono rivelati: le lettere di congedo con le quali talvolta i detenuti prendono commiato dai propri cari, o le dichiarazioni che vengono rilasciate personalmente dai detenuti quando (in caso di tentato suicidio) dopo il loro salvataggio sono chiamati a dare spiegazioni sul perché "dell'insano gesto" alla guardia o al medico di guardia o al medico psichiatra o all'educatore. Per costruire una casistica partendo da dati di questo tipo è stata necessaria un'opera di ricomposizione di un mosaico dove le tessere erano estremamente confuse e qualche volta mancavano del tutto.

Nel considerare l'insieme dei casi ho schematizzato in una tabella il sistema di "etichettamento" burocratico operato dallo staff. Sono così arrivata a disporre di una casistica di suicidi e di tentati suicidi, originata dall'etichettamento operato dal personale di sorveglianza. Il risultato è stato quello di tracciare una mappa dei signficati ideali del suicidio carcerario. Questa mappa prevede una descrizione dei molteplici tipi di comportamento di suicidio che possono aversi in carcere.

Alcuni sociologi, come Simon Page e Jean-Claude Bernheim, hanno messo in luce il fatto che attraverso i rapporti ufficiali il detenuto viene etichettato come deviante poiché compie un atto di insubordinazione, quando il suicidio assume un significato "strategico" o "manipolativo". Il detenuto è etichettato come deviante anche quando compie un gesto seriamente finalizzato alla propria morte, poiché in questo caso il suicidio rientra in una forma di devianza psichica. In questo caso il suicida è deviante non perché criminale, ma perché pazzo, malato di mente: il suicida è considerato come una persona che era già malata o che comunque ha sviluppato una patologia psichica. A conferma di ciò va il fatto che le misure che vengono adottate nei confronti di colui che ha tentato il suicidio sono rivolte sempre e soltanto alla salute mentale del soggetto: assistenza psichiatrica, isolamento, trasferimento all'ospedale psichiatrico giudiziario.

In effetti, benché il legislatore italiano non abbia mai affrontato direttamente il problema del suicidio, tuttavia dal quadro complessivo dell'ordinamento giuridico appare evidente la tendenza a inquadrare il gesto autosoppressivo come un atto di "devianza psichica". Per quanto il suicidio non costituisca reato, tuttavia si configura come un comportamento comunque "deviante" poiché viola il diritto alla salute e dunque alla vita, che in virtù dell'art. 32, c.1 della Cost. assurge a valore costituzionale. Inoltre il suicidio è un gesto che trasgredisce anche alla disciplina del codice civile (che all'art. 5 vieta gli atti di disposizione del proprio corpo).

In carcere ogni atto autoaggressivo e dunque anche autosoppressivo costituisce un comportamento che contravviene non solo al diritto, ma anche al dovere alla vita.

Dunque anche secondo l'ordinamento penitenziario si risponde con una soluzione medica al problema del suicidio carcerario, poiché si tende ad inquadrare il suicidio come un comportamento "patologico" che viola il diritto/dovere alla salute. In carcere esiste, infatti, anche un preciso dovere alla salute che si ricava dall'art. 11 dell'ordinamento penitenziario. Questa norma dispone, infatti, cure sanitarie obbligatorie, preordinate alla salute psico-fisica del detenuto indipendentemente dalle richieste dell'interessato.

Il testo normativo che affronta direttamente il suicidio in carcere e le altre forme di autolesionismo si trova però nelle circolari Amato del 1986, del 1987 e del 1988. In base alle misure disposte nelle circolari si può comprendere meglio quale sia il punto di vista dell'amministrazione penitenziaria sul problema carcerario. Come si è visto, Page, osservando attentamente l'atteggiamento dell'Istituzione verso il detenuto "suicida", ha notato che nella mentalità dello staff non è concepibile che una persona "normale" possa pensare seriamente al suicidio. Così il detenuto che si uccide o che tenta di uccidersi, non è "normale" perché malato di mente, oppure è un detenuto "ribelle" che compie un gesto di insubordinazione per attirare l'attenzione, per protestare contro l'ingiustizia oppure per vendicarsi delle "prepotenze" subite in carcere. Avendo presente questa seconda interpretazione del gesto suicidario nella circolare Amato molte sono le raccomandazioni tese a impedire il corso di gesti autoaggressivi "simulativi" tali da "turbare" il buon ordine del penitenziario. Quando il suicidio è un gesto simulativo allora si precisa nella circolare: "l'interesse alla salute deve comporsi con la necessità di evitare rigorosamente eventuali strumentalizzazioni e abusi per i quali, in realtà, le ragioni sanitarie siano nulla più che un pretesto."

Quando invece il suicidio è valutato come un gesto non simulativo e quindi è effettivamente finalizzato a procurare la morte del soggetto, allora viene considerato come il gesto di un malato di mente. È evidente che il punto di vista medico sul suicidio costituisca ancora oggi la linea di tendenza del legislatore italiano, dal momento che si attribuisce la responsabilità dell'atto autosoppressivo non a fattori esogeni, (e cioè legati all'aspetto sociale della carcerazione) ma a fattori endogeni e cioè fattori interni all'individuo. Questo orientamento dell'amministrazione penitenziaria emerge sia dalle misure preventive, che da quelle "rimediali" al comportamento suicida.

In ottica preventiva la tendenza a considerare il suicidio come patologico si ricava dal fatto che il "servizio nuovi giunti", istituito per prevenire il suicidio dei detenuti soggetti a "gesti anticonservativi" è affidato a medici (soprattutto psichiatri e psicologi); questi sono demandati a valutare le potenzialità suicida del soggetto attraverso un colloquio con il detenuto "nuovo giunto".

In ottica "curativa", come prevede la circolare, si dispongono a tutela di colui che ha tentato il suicidio "i servizi sanitari intramurari, e come stabilisce l'art. 11 dell'ordinamento penitenziario, ove siano necessari cure o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti, i detenuti sono trasferiti con provvedimento del magistrato competente in ospedali civili o altri luoghi esterni di cura come l'Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.)".

Analizzando l'etichettamento del suicidio dei detenuti e verificando in esso la stigmatizzazione in una forma di devianza, ho trovato estremamente utili per la comprensione di tale comportamento deviante alcune teorie di Merton (3). Le riflessioni teoriche sull'origine della devianza, e lo studio degli ipotetici significati dell'atto suicida, secondo l'elaborazione di Baechler (4), mi hanno portato a elaborare un sistema di tipi ideali del suicidio carcerario che ho poi schematizzato in una tabella. La tabella dovrebbe risultare comprensiva del maggior numero di significati possibile.

Se vogliamo tracciare a grandi linee gli estremi del comportamento suicidario descritto nella tabella si può dire che a un estremo esso è una devianza attiva, di carattere eteroaggressivo: questo tipo di suicidio consiste in un comportamento che devia dalla normalità, perché il soggetto uccidendosi (o tentando di farlo) rivolge verso se stesso una carica aggressiva che, in realtà vorrebbe dirigere verso gli altri, che ritiene colpevoli del suo stato (in tal caso il suicidio diventa un atto di ribellione). All'altro estremo il suicidio può essere una forma di devianza passiva: il soggetto "distrugge" se stesso perché si autopunisce e introietta l'aggressività, ovvero non reagisce agli eventi rinunciando a vivere. In contrapposizione al suicidio/ribellione, il gesto autosoppressivo inteso come devianza passiva si configura come un atto di rinuncia. A seconda che il suicidio sia di tipo autopunitivo (un atto di rinuncia) o eteropunitivo (un atto di ribellione), si possono distinguere una serie di significati che il suicidio può assumere nel caso specifico. Così in base a quanto risulta dalle definizioni dei rapporti disciplinari, quando il suicidio appartiene alla categoria della devianza attiva e cioè quando può essere assimilato ad una forma di ribellione, può assumere i vari significati di appello/protesta, delitto/vendetta, minaccia/ricatto. Quando, invece, il suicidio rientra in una forma di devianza passiva e dunque equivale ad un atto di rinuncia, allora, può dipendere genericamente da una forma di depressione che, facendo uso di categorie di origine freudiana, ho distinto nei sottotipi ideali di suicidio/castigo, suicidio/lutto e suicidio/melanconia. Infine il suicidio è ancora un gesto di devianza passiva quando esprime il senso di fuga da una realtà insostenibile, fuga che ho distinto in "razionale" e "irrazionale" a seconda del grado di lucidità presente nel soggetto durante l'organizzazione del gesto. A questa parte di schematizzazione teorica dei vari significati ho fatto seguire l'analisi di casi specifici di suicidio e tentato suicidio che ho rielaborato alla luce dei tipi ideali previsti nella tabella.

Per me studiare il suicidio ha voluto dire cercare di comprendere il senso del singolo caso attraverso l'etichettamento ufficiale operato dallo staff del penitenziario. Forse una mappa dei tipi ideali di suicidio in carcere non sarà la soluzione del problema, ma presenta almeno una chiave di lettura per interpretare il significato di un gesto che per la sua drammaticità, non può certo essere trascurato. Credo che, oltre all'interesse prima umano e poi teorico di comprendere l'ultimo messaggio di chi si uccide, esista anche una utilità preventiva nell'individuare un significato del singolo suicidio. Sappiamo che il suicidio di un detenuto è comunque connesso alle condizioni della carcerazione e che allo stesso tempo dipende strettamente dalla personale predisposizione dell'individuo. Ma è solo prestando attenzione al singolo caso che si può cercare di capire quanto prevalga il fattore ambientale o quello individuale nella determinazione del gesto. Dunque diventa estremamente importante imparare a leggere il significato del singolo suicidio o tentato suicidio, perché solo così sarà possibile dare la risposta più adeguata a quel caso specifico.

Note

1. S. Taylor, Durkhein and the Study of Suicide. Macmillan: Basingstoke, 1982.

2. Un ringraziamento particolare va al Presidente del tribunale di sorveglianza, dottor Margara, che mi ha concesso la possibilità di consultare tali registri.

3. R. K. Merton, Social Theory and Social Structure, Glencoe: The Free Press, 1957.

4. A. Baechler, Les Suicides, Galllimard, Paris, 1989.