ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 4
I suicidi ribelli

Silvia Ubaldi, 1997

1. Introduzione

In questo capitolo viene riportata una casistica di fatti di suicidio e di tentato suicidio rilevati in prevalenza presso il tribunale di Sorveglianza di Firenze riguardante pertanto la situazione dei carceri facenti parte del distretto della Corte d'appello di Firenze, i dati scarni e la forma usata è fedele alle schede raccolte presso gli uffici competenti e ciò al fine di far comprendere come in concreto il problema viene trattato.

2. I casi di suicidio appello/protesta

L'ideal tipo del suicidio appello/protesta rivela un carattere eteroaggressivo nella condotta suicidaria: il soggetto reagisce con aggressività alla propria situazione di disagio, ma non potendo scaricare la propria aggressività verso chi ritiene responsabile della propria "sofferenza" si ribella suicidandosi. Il suicidio, così, quando assume il significato di protesta, diventa una forma di devianza attiva, riconducibile, per le sue caratteristiche, alla tipologia degli atti ribelli.

II detenuto cerca con il suo comportamento di attirare l'attenzione sulla propria situazione personale e realizza una manifestazione di protesta contro il sistema penitenziario che ritiene responsabile della grave situazione nella quale egli versa.

Un primo caso che manifesta queste caratteristiche è quello del detenuto M.A. nato il 18/5/64 recluso nel carcere di Sollicciano. Per avere un quadro più completo di M.A. è importante ricordare che il soggetto è in custodia cautelare in attesa del giudizio di primo grado; ed è imputato per gravi reati per i quali rischia un lunghissimo periodo di detenzione. Il detenuto infatti risulta imputato di associazione al fine di traffico di stupefacenti e di armi da guerra, di associazione per delinquere di stampo mafioso, di concorso continuato in detenzione e porto illegale di armi e munizioni, e per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti (in concorso continuato).

Dalla natura dei reati a lui contestati si può desumere che il soggetto non dovrebbe presentare aspetti caratteriali endogeni che possano in qualche modo predisporre al suicidio quale possibile soluzione delle proprie frustrazioni. Tuttavia il detenuto ha già tentato per ben due volte il suicidio: il primo tentativo risale al 23/11/92 mentre il secondo tentativo è stato compiuto il 5/12/92. Questo secondo tentativo di suicidio sembra aver colpito l'attenzione dell'amministrazione penitenziaria.

Dal testo del rapporto al capo reparto si legge che: "alle ore 14:10, il detenuto ha tentato di darsi fuoco, cominciando ad incendiare i vestiti, che indossava con l'accendino del tipo consentito, al punto da rendere necessario l'intervento degli altri agenti in servizio". La guardia che redige il rapporto aggiunge inoltre che non è la prima volta che il detenuto M.A. mette in atto tali "insani gesti", di cui l'ultimo risale al 23/11. Secondo la decisione dell'autorità dirigente il detenuto viene sottoposto a grande Sorveglianza ed è mantenuto sotto costante controllo sanitario; inoltre viene privato degli oggetti che possano favorire gesti autolesivi. La guardia medica dopo aver descritto le caratteristiche delle ustioni riportate dal detenuto; riferisce che "al momento il soggetto è mutacio e non vuole dialogare".

In occasione del tentativo di suicidio del 23/11/92 è stata rinvenuta una lettera di Addio, indirizzata precisamente alla direzione dell'istituto, in cui il detenuto M.A. dichiara esplicitamente di voler attribuire al gesto suicidario il significato di protesta:

"Protesto contro il mondo, contro lo stato, contro l'Ingiustizia, e i soprusi. La gente è Pazza che non si rende conto che il Popolo è sottomesso dallo stato, centinaia di vittime innocenti... Lascio questo "mondo di merda" dove tutti tacciono nei soprusi dello stato. Perdonami Anna. Abbi cura dei bambini. Ti voglio bene." (Segue la firma dell'autore)

Dal contenuto di questa lettera si può notare come il gesto del detenuto nonostante che si manifesti attraverso un atto autoaggressivo, contenga tuttavia una forte carica aggressiva rivolta verso l'esterno, dal momento che sono "gli altri" i responsabili e i colpevoli del suo stato di ingiusta carcerazione. Non è soltanto il contenuto della lettera a rivelare il significato eteroaggressivo del tentativo di suicidio, ma la modalità di esecuzione del gesto è forse ancora più persuasiva in questo senso. Di fronte alla descrizione della condotta suicidaria per così dire violenta, in considerazione del tipo dei reati per i quali il detenuto risulta imputato e alla luce della "focosità" del contenuto della lettera di addio, si può affermare che con il suo gesto M.A. non intenda rivelare alcuna volontà di morire; ma piuttosto sembra voler manifestare in maniera decisa la sua posizione di protesta. Si può dunque interpretare il gesto di M.A. come atto simbolicamente eteroaggressivo riconducibile alla figura del suicidio con il significato di protesta/appello. Il gesto di M.A. consiste in un vero e proprio atto di ribellione. M.A. urla di rabbia: "Protesto contro il mondo! ...La gente è pazza! ... Lascio questo mondo di merda!" Il tentato suicidio di M.A. corrisponde ad una forma di devianza attiva e presenta il carattere della protesta virile così come la intende Adler.

Sempre a Sollicciano si registra un ulteriore tentativo di suicidio avvenuto l'11/5/92. Il soggetto, che al momento del gesto ha 34 anni, risulta imputato per reati molto gravi come furto, minaccia, rapina, estorsione, omicidio, nonché detenzione di stupefacenti e ricettazione.

Nelle informazioni al capo reparto si riferisce che il soggetto ha attuato l'ennesimo tentativo di impiccagione. L'ultimo tentativo di suicidio risale al 13/11/92. R.G. non ha voluto dare spiegazioni sulle ragioni di questo episodio. Tuttavia l'intero comportamento è di per sé molto eloquente: dopo il tentativo di impiccamento, durante l'esperimento di soccorso da parte della guardia di sorveglianza, R.G. non ha mancato di aggredire la guardia stessa. Durante il tragitto che porta all'infermeria il detenuto ha continuato ad aggredire, se non fisicamente, verbalmente la guardia che lo scortava rivolgendogli appellativi come: "gallina, merda, verme, vai a fare in culo ..." Non solo, ma a dimostrare ulteriormente che esiste una libera interscambiabilità tra gesto autoaggressivo e eteroaggressivo, è l'ultimo gesto che il soggetto compie durante il tragitto prima di arrivare all'infermeria: il detenuto con aria di sfida e di minaccia si caccia in bocca una lametta lasciando intendere che l'avrebbe ingoiata se non fosse stato rispettato dalla guardia. Tutta la dinamica dell'episodio a partire dal tentativo di impiccamento (atto materialmente autoaggressivo), fino al momento dell'aggressione prima fisica e poi verbale della guardia (atto materialmente eteroaggressivo), per finire poi con l'ultimo momento in cui si mette in bocca la lametta (atto materialmente autoaggressivo) rivela una presenza costante di aggressività; confermata oltretutto dall'andamento, e dalla lettera dell'episodio successivo del 5 dicembre.

Insieme al rapporto sulla descrizione dell'ultimo tentativo di suicidio è acclusa una lettera di addio dai toni assai accesi. Lo sfogo d'ira è tale che l'emotività ha reso quasi indecifrabile il messaggio della lettera:

Sollicciano 11/5/92

"R. sono io sottoscritto e questo (allude al proprio suicidio) farà ridurre gli uomini di coraggio, ma la pena è già divisa in tre pene: prima pena "fine pena mai" Seconda pena è fisica! Terza pena è la MENTE!! Cioè pensare; pensare la nostra madre 84 anni, nostro padre 91, un figlio di 11 anni che lascio fuori (intende dal carcere) senza vedere più!! Mia moglie è qui dentro con pena di 14 anni. Sapete tiro la vita avanti tutta fino al traguardo, e poi la LIBERTA', dove esiste un altro "Fine pena mai", sotto questo mondo fatto di tanti bambini e vecchi che soffrono. Mi si diluisce il cuore sapendo tra bambini e vecchiaia quale forza per loro ci vuole per tirare avanti tutta, cioè per vivere!! Soffro per loro e per le ingiustizie! A me R. mi accusano di COSE GROSSE, io non so nulla, perché mi hanno fatto criminale? Forse perché ho sparato a qualcuno degli indegni? Ho già pagato! Ho sempre preso e dato tutto ciò che era dato a Cesare...! Con i miei sacrifici, no crimini! I Giudei mi accusano di art. 624-612- 628- 629-575-710-497-416-71-73-5-75 e così pensano di fare stare all'inferno un uomo; ecco perché gli uomini coraggiosi FINISCONO. L'Ingiustizia! Ma se criminale lo avete fatto!! Ho servito la schifosa della Patria, solo lì mi sono opposto! Non ho più voglia di essere opposto, ero a Pisa avevo 19 anni nella 46º Brigata Follia di merda. Smettiamo di costruire complicità di chi uccide. Sono LORO che costruiscono macchine criminali; e poi al macero tutti con i codici, che solo noi bisogna rispettare! Questa è Giustizia?? Dice mio padre: - ho fatto guerre e battaglie, ho ucciso figli come me, e lì il codice non c'era?...Tu mio figlio non facesti niente e quello sporco codice per te funzona??- Smettiamo, che smettano di essere complici di chi decide le carneficine con uno schifo di voto si sentono nel cielo! Ma negli alti dei cieli c'è solo un Dio che ha il codice in mano!!!

Firma R.

Qui termina, solo Dio mi giudicherà nel letto della pace, se sarò colpevole andrò uguale nel riposo della pace...

Tina sta forte trasmetterò tutto il possibile delle mie forze a voi altri -Mamma, Padre- Tina Mauro Fratelli cugini e sofferenti.

Nutrirò i vostri dolori non nutrite il mio!

Sono al di fuori dei crimini che allocano a me"

(Firma.)

Il messaggio di questa lettera di congedo, come del resto anche di quella precedente conferma la tesi generale sul significato di protesta e di aggressività del suicidio. La condotta suicidaria di R.G. si manifesta nella forma della devianza attiva con quella carica di aggressività, che è tipica di un atto di ribellione. Il comportamento del detenuto presenta tutti i caratteri del ribelle che si riflettono anche nel tono della lettera; l'aggressività del comportamento raggiunge due momenti di acme quando il detenuto minaccia la guardia dicendo: "Gallina, merda, vai a fare in culo!" e nel momento in cui si caccia in bocca la lametta minacciando di ingoiarla nel caso in cui non gli fosse portato rispetto.

Un episodio simile si riscontra nel rapporto disciplinare del 9/10/92. Il detenuto J.B. nato il 20/12/51, in Tunisia, è recluso presso il carcere di Sollicciano. Il soggetto è imputato per spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti in concorso, è stato arrestato in flagranza di reato e durante il regime di reclusione si è reso responsabile del reato di resistenza a pubblico ufficiale e del reato di lesione personali aggravate.

J.B. in modo simile al detenuto precedente, fa un uso particolare della lametta: ha la bocca cucita e all'interno custodisce una lametta, che rifiuta di consegnare. Le labbra sono state cucite in modo complesso, perciò si suppone che non sia stata opera sua; ma che sia stato perlomeno aiutato. Il soggetto effettua lo sciopero della fame da alcuni giorni.

Il detenuto rifiuta ogni intervento medico e rifiuta anche di rispondere alle domande; ha ancora la bocca cucita, non rivolge parola anche se il detenuto è stato visto parlare con il compagno di cella. Ciononostante appare in discrete condizioni generali, mentre viene tenuto il colloquio in infermeria fuma. Al colloquio in cella il detenuto critica l'intervento degli infermieri che lo hanno soccorso, ribadendo la propria ferma intenzione al suicidio a meno che non venga ascoltato dal magistrato. La serietà del proposito di suicidio non è da prendere alla leggera, dal momento che il detenuto ha già posto in essere un tentativo di impiccamento, l'8/10/92. In tale data J.B. veniva sorretto dai compagni di cella, che lo staccavano da un legaccio al quale si era appeso. Il comportamento di J.B. è stato imitato dai suoi compagni di cella, i quali esprimono il loro messaggio di protesta attraverso lo sciopero della fame. Essi minacciano a turno di seguire l'esempio di J.B. adottando come gesto dimostrativo quello di cucirsi la bocca, se, nei prossimi giorni, non parleranno con il magistrato di sorveglianza.

Il detenuto J.B. protesta contro la Giustizia facendo del proprio corpo una bandiera: egli si procura a intervalli più o meno regolari delle lesioni alle braccia, che ogni tanto fa sanguinare. Siccome J.B. rifiuta ogni intervento medico è stato trasferito al reparto transito per favorire un miglior controllo. Il detenuto, come risulta dalle informazioni al comandante, dichiara di essere innocente, asserendo che continuerà la sua forma di protesta, finché non sarà fatta giustizia nei suoi confronti. Il 10 Novembre del '92 J.B. ha dichiarato di interrompere lo sciopero della fame per 3 o 4 giorni e di assumere: purea di patate con burro, per consentire l'uscita dal suo corpo della lametta ingoiata in data 5/11/92. Infine gli sono stati rimossi i punti con i quali si era cucito le labbra. Già il giorno successivo il soggetto torna a rifiutare il vitto dell'Amministrazione. Prosegue dunque lo sciopero della fame anche nei giorni seguenti.

Dunque il suicidio, nonostante che si manifesti nella forma dell'autoaggressione diventa un'arma attraverso la quale dirigere verso gli altri la propria carica di rabbia e di violenza. È proprio in virtù di questa rabbia che il gesto suicida di J.B. può essere definito come un atto di protesta, confacente ad un comportamento ribelle. J.B. sembra ribellarsi con aggressività al proprio destino e realizza il proprio tentativo teso ad attirare l'attenzione attraverso la martirizzazione, nonché attraverso la martoriazione del proprio corpo.

In ognuno degli episodi di tentato suicidio le modalità di esecuzione sono indicative delle finalità del gesto. Occorre sottolineare quanto possa essere rilevante, per l'interpretazione del significato dell'atto di suicidio, il metodo tecnico usato per darsi la morte. Se ci si vuole avvicinare a quello che può essere il significato del singolo caso allora è importante cercare di decifrare i segni attraverso i quali il soggetto ci comunica il suo ultimo messaggio. In questa ottica si dovrà prestare attenzione al modo in cui viene organizzato il gesto autosoppressivo, specie quando presenta una spettacolare regia teatrale per esempio nell'episodio di novembre R.G. tenta l'impiccamento utilizzando un lenzuolo come fune che lega alla doccia del bagno. Nell'episodio di dicembre R.G. ricava ancora una volta un cappio da un lenzuolo, che questa volta lega alla finestra della cella, situata al di sopra del cancello. L'impiccamento è una forma di suicidio che presenta già di per sé una sua spettacolarità, in questo caso il soggetto ha voluto denunciare tragicamente la propria morte ad un ipotetico pubblico. R.G. assicura il cappio alla finestra della cella posta al di sopra del cancello in modo tale che il proprio corpo, una volta appeso per il cappio, possa calare facendo aderenza con tutta la persona alle sbarre del cancello.

Nel caso precedente del detenuto M. A., il suicidio in senso di protesta era stato realizzato con la diversa tecnica dell'incendio, raggiungendo comunque una pari spettacolarità nella forma del "rogo di se stesso". Anche il detenuto C.T., all'età di 20 anni, tenta il suicidio in segno di protesta il 28/7/92 nel carcere di Sollicciano. Ancora una volta il progetto di suicidio viene realizzato con l'ausilio coreografico del "fuoco": il soggetto infatti incendia la cella dopo essersi barricato all'interno. Così anche S.A. imputato per traffico di stupefacenti, viene trovato mentre sta appiccando fuoco ad un pacco di carta straccia, che da giorni custodiva nel proprio armadietto.

Sia l'incendio, che l'impiccamento sono modalità esecutive del suicidio con le quali si perviene alla "ostentazione" della morte, in segno di protesta, manifestando e in qualche modo riversando tutta l'aggressività verso il "proprio pubblico". Questa considerazione vale anche per il caso di T.S., che, l'8/7/92 ha tentato il suicidio attraverso l'impiccamento, ricavando il cappio dai lacci delle scarpe. Il detenuto, senza lasciare adito a dubbi circa il movente del suo comportamento, ha esplicitamente dichiarato, dopo il proprio recupero, di aver tentato l'impiccamento: "poiché il magistrato mi aveva messo in isolamento senza valido motivo". Infine il soggetto è stato nuovamente allocato al reparto transito, sottoposto a grandissima sorveglianza (quindi in isolamento), proprio a seguito del tentato suicido, con il quale protestava per quella misura di isolamento immotivata.

Il 27/7/92 il detenuto P.N., incriminato per omicidio volontario, condannato in primo grado e appellante avverso alla sentenza di condanna, in mattinata ha tentato l'impiccagione. P.N. nato a Brindisi il 18/9/53 è recluso presso il carcere di Sollicciano. Il soggetto è stato condannato ad una pena di reclusione fino al 30/10/2004.

L'agente che si è occupato del detenuto riferisce nel suo rapporto che: "Alle ore 10.00 circa, sentivo provenire dalla cella del detenuto il rumore tipico di uno sgabello che cade a terra. Infatti P.N. aveva tentato, con una cordicella di quelle del tipo che reggono i pantaloni, di togliersi la vita con l'impiccagione." Visitato dal medico il detenuto appare: "lucido, orientato, collabora al colloquio, ma l'eloquio è lento e monotono. L'umore è notevolmente depresso. Presenta lieve deficit della memoria recente. L'ideazione contiene elementi che lasciano pensare a nuovi tentativi di suicidio". Parlando con la guardia che si era occupata del suo salvataggio, P.N. rispondeva che voleva essere trasferito ad un carcere militare. Inoltre si rifiutava di prendere la terapia prescritta dal medico dicendogli le testuali parole: "Non le voglio, perché quando mi sveglio tenterò di nuovo di uccidermi". Così facendo P.N. realizza la sua protesta. Su consiglio medico la cella viene privata di tutti gli oggetti atti a procurarsi ferite; durante la perquisizione veniva ritrovata una cordicella dello stesso tipo di quella usata poco prima per impiccarsi.

Il detenuto sembra aver evidenziato anche gravi e comprensibili motivi di incompatibilità con altri detenuti. È la seconda volta che il detenuto tenta il suicidio in quest'ultimo reparto. Sollecita continuamente il proprio trasferimento in un'altra struttura di tipo militare. Vorrebbe essere trasferito alla Spezia, ma dalle informazioni non risulta che in quella sede vi sia anche il Carcere Militare, ma soltanto il tribunale. Si dispone la grande sorveglianza, inoltre si prescrive la visita psichiatrica urgente, nonché la sensibilizzazione dell'educatore e dello psicologo.

Il detenuto con il suo comportamento sembra volersi ribellare di proposito al mondo dell'istituzione totale. P.N. devia attivamente di fronte alle esigenze di compostezza richieste dal regolamento: esegue ripetutamente tentativi di suicidio e manifesta la propria aggressività anche tra i propri compagni dal momento che viene specificato nel rapporto l'esistenza di gravi motivi di incompatibilità con altri detenuti. Inoltre il comportamento ribelle è tutto contenuto nelle parole riferite al medico quando rifiuta di assumere i farmaci: "... tanto quando mi sveglio tenterò di nuovo di uccidermi ...".

Il detenuto P.M., proveniente da Prato e recluso presso il carcere di Pistoia, prima ancora di conoscere l'esito dell'udienza, intraprende lo sciopero della fame minacciando continuamente di togliersi la vita. Il recluso non dichiara il proprio fine di protesta nei confronti dell'istituzione penitenziaria, ma lo rende evidente attraverso tutta la sua condotta. P.M. sembra non tollerare la disciplina che gli viene imposta da parte dell'autorità, tra le altre accuse risulta definitivamente condannato per il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Così sembra che egli tenti il suicidio esattamente per deviare da quelle che sono regole eteroimposte come per compiere un atto di ribellione. Egli esprime la sua rabbia e l'aggressività, non soltanto, rifiutando di alimentarsi, ma con ogni forma di comportamento "deviante", per esempio minaccia di farsi male colpendo un vetro con un pugno.

Sempre come risposta ad una sfida nei confronti dalle guardie (e più genericamente all'Amministrazione penitenziaria) e come forma di protesta per le prepotenze subite è da intendere il comportamento della detenuta S.E.

S.E. è nata il 29/4/72 a Milano è reclusa presso il carcere di Sollicciano a Firenze. I reati contestati alla detenuta sono di oltraggio a pubblico ufficiale aggravato e continuato, e di resistenza a pubblico ufficiale, di atti di danneggiamento, di rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale, nonché di falsa attestazione o di dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o altrui e di detenzione abusiva d'armi.

Il 4/3/95 presso il carcere di Sollicciano la detenuta S.E. assume un comportamento fortemente aggressivo; la detenuta rende esplicito il suo messaggio di ribellione in ogni modo non solo rendendosi responsabile del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, ma anche compiendo gesti autosoppressivi caratterizzati da una forte carica di violenza. Il 2/3/95 la detenuta ha ricoperto di insulti e parolacce l'agente di servizio dicendole: "Bastarda, Vaffanculo, non mi rompere il cazzo!" con un atteggiamento visibilmente minaccioso. Il tutto perché l'agente aveva rifiutato di consegnare alla detenuta delle pinzette per ciglia.

Il 16/2/95 alle 2.00 del mattino la detenuta è nella sua cella ed è molto agitata; infatti riferiva di sentirsi poco bene. Nel frattempo scende dal letto e cade a terra svenuta. L'infermiera provvede a somministrarle delle gocce su richiesta della stessa paziente, perché sosteneva di trovarsi in stato confusionale e depressivo. Dopo essersi ripresa la S.E. rivela che verso le 21.30 aveva inghiottito una pinzetta per ciglia e la limetta del tagliaunghie, perciò le bruciava la gola. Mentre l'infermiera chiamava il medico di guardia, la detenuta si chiudeva in bagno e non rispondeva al richiamo dell'agente. Il medico di guardia la trova accasciata a terra con la cintura dei pantaloni legata al collo. La cintura di cuoio che teneva stretta al collo non aveva provocato alcun segno di soffocamento né di lesione. Il medico non rinviene alcuna patologia, benché la detenuta lamenti bruciore alla gola causato dalle pinzette che ha ingerito. La detenuta rifiuta le visite. Viene comunque sottoposta a sorveglianza a vista e la sua cella viene privata degli oggetti atti a gesti autolesivi.

S.E. assume una condotta di devianza attiva ribellandosi anche alle cure del medico; tutto il suo comportamento sembra teso ad una sfida personale nei confronti della guardia, sfida che poi nel gesto fatale diventa un modo per affermare la propria identità poiché sembra essere per lei l'atto finale con cui potersi prendersi le proprie rivincite. Il suicidio diventa, secondo questa ricostruzione un gesto per affermare la propria "volontà di potenza" e in questo compiacimento della propria superiorità il soggetto si permette addirittura di prendersi gioco dei propri rivali. In questo caso la violenza che traspare dalll'atteggiamento generale della S.E. appare così forte da far pensare che il tentativo di suicidio possa esprimere il significato ideale di appello/protesta.

Simile è il caso di V.G., nato a Foggia nel 1960 in attesa di giudizio di primo grado per il reato di detenzione di stupefacenti. V.G. dopo il primo tentativo di impiccamento avvenuto il 20/3/95 dichiara alla guardia, che lo soccorre, di averlo commesso per motivi di famiglia, oltre che per motivi di giustizia; inoltre nel rapporto si spiega che effettivamente la situazione famigliare è giunta al limite del tracollo economico a causa del suo arresto. Di nuovo nel successivo tentativo di suicidio con lo sciopero della fame, il detenuto confida di soffrire "perché deve mantenere la famiglia a carico". Come è stato già messo in evidenza (1) il detenuto tende a attribuire alla carcerazione anche la responsabilità delle precarie condizioni economiche in cui viene a trovarsi la sua famiglia. Attraverso il suicidio il soggetto intende denunciare l'ingiustizia del regime detentivo, poiché non si limita a punire il recluso, ma penalizza inevitabilmente anche la sua famiglia.

Ripercorrendo brevemente i casi esaminati possiamo vedere che l'apprensione per la situazione familiare è una costante: il primo detenuto esaminato cioè M.A. conclude la sua lettera di addio congedandosi dalla moglie: "Perdonami questa Anna. Abbi cura dei bambini. Ti voglio bene".

Il secondo detenuto G.R. non nasconde la sua continua preoccupazione verso la famiglia: "pensare la nostra madre 84 anni, nostro padre 91, un figlio mio 11 anni, che lascio fuori (intende dal carcere) senza vedere più!! Mia moglie è qui dentro con pena di 14 anni!" Di nuovo nella parte finale della lettera si rivolge direttamente ai membri della sua famiglia per un ultimo saluto chiamando loro per nome uno alla volta: "Tina sta forte, trasmetterò tutto il possibile di mie forze a voi altri:- Mamma Padre - Tina, Mauro Fratelli cugini e sofferenti: Nutrirò i vostri dolori, non nutrite il mio! Sono al di fuori dei crimini che allocano a me." _ singolare notare come nell'elenco delle persone care dalle quali il detenuto si congeda, si possa riconoscere un ordine di importanza esistente tra la schiera dei suoi cari, che si manifesta principalmente nella sequenza in cui vengono presentati i suoi interlocutori. Si può infatti notare che dopo una strana forma di "condoglianze verso la futura vedova di se stesso", inizia il suo commiato salutando prima i genitori messi in evidenza e distaccati in coppia dagli altri attraverso l'uso di due lineette parentetiche, di nuovo saluta in rassegna la moglie, poi il figlio, e infine i fratelli. Fino a questo punto aveva dimostrato anche graficamente il suo rispetto scrivendo con le maiuscole l'iniziale di tutti i soggetti nominati indipendentemente dal fatto che fossero nomi comuni o propri; da questo momento invece comincia a usare sempre la scrittura minuscola; il che sottolinea l'ordine (quasi gerarchico) di importanza affettiva tra i cari del detenuto. Nei casi esaminati, però, il detenuto si rende anche conto che la propria morte non modificherà la situazione. Con il suicidio non riuscirà a risolvere i problemi della propria famiglia, anzi è come se si tirasse indietro nel momento peggiore; ecco perché, a mio avviso, il soggetto chiede perdono nel momento dell'ultimo congedo dai suoi cari. Il detenuto R.G. nella sua lettera di Addio sperimenta addirittura un ultimo tentativo di offrire il proprio aiuto promettendo di trasmettere "tutto il possibile delle sue forze ai suoi cari dall'aldilà".

3. I casi di suicidio minaccia/ricatto

L'atto suicida assume significato di minaccia/ricatto, quando il detenuto minaccia di uccidersi per ottenere un fine preciso come un trasferimento, un permesso, la somministrazione di cure mediche... Il suicidio diventa un arma sui generis per ricattare l'istituzione penitenziaria. Come si è visto in questi casi il soggetto "riprende possesso del proprio corpo come se fosse un oggetto esterno e tiene in ostaggio questo corpo finché non avrà raggiunto ciò che vuole" (2).

Il primo caso che presenta queste caratteristiche è quello di R.D. Il detenuto tenta di impiccarsi perché ritiene di non ricevere adeguate cure dai sanitari. R.D., nato il 4/8/48 a Afragola (Na), è imputato di furto aggravato in concorso e porto abusivo d'arma da sparo clandestina.

Il recluso viene trovato in piedi mentre cercava di soffocarsi mediante una cintura al collo. L'agente intervenuto per salvarlo riferisce che il detenuto si stringeva la cintura dei pantaloni al collo, con il preciso intento di soffocarsi. Fatta aprire la cella l'agente tentava di persuadere il detenuto a desistere; ma questi appena vista la guardia, le intimava di uscire, altrimenti avrebbe stretto più forte la cintura. Dopo varie insistenze, finalmente il detenuto accetta di seguire la guardia in infermeria, restando però a distanza e mantenendo sempre la cinta stretta al collo. Giunti nell'atrio, vedendo che il recluso stava diventando cianotico, viene liberato dalla morsa della cinta ad opera dell'agente. Allora il R.D. vistosi ormai vinto si accasciava a terra. Egli stesso dichiara, dopo essere stato salvato dal tentato soffocamento, di aver compiuto l'atto per richiamare l'attenzione dei medici, che non gli somministravano un certo tipo di terapia che seguiva dall'esterno. Questo dunque sembra essere il motivo di minaccia del suicidio di R.D. Quando, però, viene richiesto al detenuto per quale motivo egli si volesse suicidare, il detenuto, in un primo momento, riferisce che la causa è dovuta ad una crisi di sconforto morale per motivi di carattere strettamente personale, per i quali mal sopporta la carcerazione. Allo psichiatra spiega che i motivi personali riguardano principalmente problemi economici conseguenti alla carcerazione. Si calma solo dopo il colloquio in infermeria, ma risulta facile preda di crisi di agitazione psicomotoria, per cui viene disposta un'attenta sorveglianza. Inoltre si raccomanda al responsabile del reparto di "allocarlo" con un altro italiano in modo da favorire la possibilità di dialogo che forse potrà ridurre la tensione che ha fatto maturare il proposito di suicidio.

La condotta di R.D. appare come un comportamento di devianza attiva: il soggetto minaccia di suicidarsi per ottenere dal medico delle particolari cure. R.D. si "ribella" perfino nel momento di maggior pericolo per la sua vita. Nel momento in cui viene colto nell'atto di impiccarsi, invece di arrendersi, perché ormai è scoperto, minaccia e ricatta la guardia dicendo che se solo si fosse avvicinata avrebbe stretto più forte la cintura. Non solo, ma acconsentendo a recarsi in infermeria, per tutto il tragitto il detenuto segue la guardia a distanza mantenendo in atto con le sue stesse mani la struttura scenica dell'impiccamento al punto di diventare perfino cianotico. Forse in questo momento R.D. si sarebbe soffocato se la guardia non l'avesse liberato compiendo un atto di forza.

L'impiccamento "dinamico" così realizzato dal detenuto rappresenta un esempio eloquente di suicidio con significato di minaccia. Il soggetto, in una scena quasi paradossale, ottiene l'attenzione e l'obbedienza della guardia minacciando di soffocarsi. La guardia effettivamente asseconda le richieste del soggetto come se il detenuto si schermisse di un ostaggio per aprirsi la strada e il paradosso sta nel fatto che il detenuto prende in ostaggio se stesso o meglio il proprio corpo. Il "rapimento di se sesso alle istituzioni" riesce a sortire gli effetti sperati almeno fino a che il detenuto non viene salvato o meglio "liberato" per opera della guardia - così afferma la guardia - ma in realtà, se entriamo nella metafora del gesto di R.D. il soggetto nel momento della sua "liberazione" dal rapimento di se stesso, di fatto, viene riportato in prigione nel possesso dell'Autorità. Questa ricostruzione sembra trovare conferma nel resoconto dell'agente che riporta il fatto: "il detenuto dopo essere stato avvicinato e liberato dall'agente, ormai vistosi vinto si accasciava a terra." Così il detenuto è come se "subisse" il salvataggio di se stesso, perché in realtà il suo progetto di minaccia e di ricatto alle Istituzioni fallisce proprio nel momento del suo recupero e infatti R.D. "dimostra" di arrendersi e di gettare la spugna nel momento in cui si lascia andare accasciandosi a terra.

Il caso di C.F.M. si presenta come un altro interessante caso in cui il soggetto minaccia di suicidarsi a meno che non venga trasferito ad un altro istituto penitenziario. Il gesto di minaccia/ricatto del detenuto non si ferma ad un semplice tentativo, ma sfocia in un vero e proprio suicidio consumato. C.F.M., nato in Tunisia il 13/21/62, dopo aver scontato un primo periodo di detenzione nella Casa circondariale di Sollicciano era stato trasferito al carcere di Prato per "sfollamento". Il soggetto era già stato nel carcere di Prato in custodia cautelare. C.F.M. era appellante avverso ad una sentenza di primo grado che lo aveva condannato per il reato di concorso in omicidio e la scadenza della sua pena era prevista per il 17/12/2004.

Il detenuto C.F.M. muore suicida nella Casa Circondariale di Prato il 3/5/95 appena trentenne. Tenterò di ricostruire la dinamica dei fatti che riguardano il C.F.M. a partire dall'ultimo rapporto che ritrae il detenuto nella sezione di isolamento nell'atto di impiccarsi: "Il detenuto ha attuato il gesto suicidario mediante impiccamento utilizzando un laccio confezionato con una striscia di coperta legata alla finestra della cella. Grazie alle pronte attività di rianimazione il paziente riacquistava un'attività cardiaca spontanea. Tuttavia, egli muore all'ospedale civile di Prato".

Il C.F.M. aveva sempre mantenuto un atteggiamento teso alla protesta durante tutto il periodo di detenzione che, come detto, è stata scontata in due istituti: il carcere di Sollicciano e il carcere di Prato:

Il 3/4/93 iniziava lo sciopero della fame in segno di protesta, perché a suo dire doveva essere ricoverato in Ospedale, verso le ore 18,30 dello stesso giorno, il medesimo detenuto dichiarava all'agente di servizio nella sezione isolamento che smetteva di attuare lo sciopero della fame. Il 6/4/93 riprende lo sciopero della fame sempre in segno di protesta per essere ricoverato presso l'Ospedale. Il 14/4/93 dichiarava di interromperlo in quanto non riteneva più valida la sua protesta. Il 24/4/93 il detenuto ingoia due posate. Quando gli agenti chiedono il perché di tale gesto, il C.F.M. dichiara: "Non so cosa mi sia successo, ma ho sentito il bisogno di farlo, ed i motivi sono molto personali e non posso dirveli" Intanto il 4/5/93 C.F.M. riprende la manifestazione di protesta con astensione dall'assunzione di cibo per il seguente motivo: "voglio andare all'ospedale perché nella mia pancia ci sono una forchetta e un coltello ingeriti da me giorni addietro". Il 27/4/93 riprendeva lo sciopero della fame che non smetterà più fino alla sua morte.

All'interno della cella nel posto letto del detenuto non è stato trovato alcun manoscritto o altro messaggio capace di spiegare il motivo del suo "insano gesto" né C.F.M. aveva confidato qualcosa al compagno di cella, anche perché, come riferito dallo stesso detenuto non vi era dialogo fra di loro in quanto i due erano di nazionalità diversa.

I motivi del gesto si possono ricostruire attraverso una lettura delle informazioni del comandante di reparto: il C.F.M. risultava arrestato il 17/12/91 per il reato di concorso in omicidio in persona di un proprio connazionale. Presso lo stesso istituto si trovava anche un coimputato K.M. Entrambi i detenuti sono dello stesso luogo di origine, così come lo era anche la vittima del loro delitto. Tra i due detenuti l'ostilità era tale che l'autorità giudiziaria aveva disposto il divieto di incontro. La discordia fra i due, sembra che avesse avuto risonanza anche nel paese d'origine, con ripercussioni anche sulle rispettive famiglie.

Nella relazione di servizio l'agente mette in evidenza che entrambi i detenuti si erano fatti notare nell'istituto di Prato per una serie di proteste che vanno dal barricamento, all'incendio della cella allo sciopero della fame. Il K.M., tuttavia, in seguito alla sentenza della Corte di Assise di Firenze che il 30/3/93 lo condannava alla pena di 20 anni di reclusione, sembrava essersi calmato; l'agente osserva che invece C.F.M. continuava lo stesso comportamento di prima pur essendo stato condannato a "soli" 13 anni.

L'agente che redige il rapporto in questione ritiene che i motivi di disaccordo tra i due, ai quali sicuramente si associano, parteggiando ora per l'uno ora per l'altro, gli altri detenuti tunisini, siano alla base della instabilità comportamentale, prima da parte di entrambi i detenuti, ed ora da parte del solo C.F.M. Si tratterebbe, a parere dello scrivente di un "comportamento pretestuoso", finalizzato sicuramente ad ottenere il trasferimento dall'istituto. Tale comportamento, che la guardia qualifica come "pretestuoso" ha portato il C.F.M. alla morte.

Può essere interessante osservare che, nel caso del detenuto C.F.M., lo sciopero della fame rappresenta una manifestazione di protesta che allo stesso tempo fa parte del più articolato processo di autodistruzione del detenuto. Si può notare come in questo caso si tratti di una modalità di esecuzione di suicidio che spesso viene sottovalutata dall'Amministrazione Penitenziaria. Mi sembra significativo osservare, che i rapporti ufficiali relativi agli scioperi della fame, vengono catalogati tra le forme di protesta contro la giustizia "per definizione", indipendentemente dalle dichiarazioni che vengono rese per spiegarne le motivazioni. Spesso tali rapporti non vengono nemmeno sottoposti all'attenzione del magistrato, tanto vengono considerati "poco seri".

Molto vicino alla vicenda di C.F.M. e di K.M., che abbiamo visto prima coinvolti in un conflitto tra gruppi di detenuti tunisini (vicenda che si conclude con il suicidio di C.F.M) si pone un altro episodio: il tentativo di impiccamento del recluso B.A.M verificatosi nel carcere di Sollicciano. Il detenuto esperisce il proprio tentativo servendosi di un lenzuolo. L'agente che redige il rapporto ritiene che il soggetto avrebbe messo in atto il gesto di impiccamento per accellerare i tempi per un suo trasferimento in un altro istituto. Sembra che il detenuto sia arrivato al punto di minacciare il suicidio per ottenere questo trasferimento. Tuttavia il B.A.M. da parte sua riferisce di voler morire per motivi personali. In un secondo momento, forse preso da sconforto dichiara spontaneamente la natura di questi segreti motivi:

Quando ero in libertà ho tagliato la faccia con un coltello a x da me riconosciuto con il nome di y. Il fratello di y si trova nell'istituto con il nome di z, e viene riconosciuto dal dichiarante con il nome di r. Quest'ultimo ho saputo da amici che ha incaricato i detenuti s e t di trovare una scusa per vendicarsi di quello che ho fatto. Pertanto chiedo a codesta direzione di essere spostato ad altra sezione "isolata", dove non possa incontrare detenuti di nazionalità straniera. Non intendo denunciare i detenuti sopra citati, chiedo solo di essere protetto fino a quando sarò detenuto in questo istituto.

Questi due casi precedenti ci offrono uno spaccato della sub-cultura delinquenziale che caratterizza il microcosmo carcerario. Da questi esempi si ricava che il suicidio può diventare l'ultimo disperato strumento tramite il quale ottenere protezione dalla "Giustizia" per difendersi da un'altra giustizia molto più pericolosa ed efficace organizzata sulla base di faide che si intrecciano tra sottogruppi della sub-cultura carceraria.

Il 17/6/95 M.B., nel carcere di Sollicciano, dopo essersi lungamente sottoposto allo sciopero della fame, tenta di impiccarsi con le stringhe delle scarpe minacciando di suicidarsi se non verrà fatto parlare con il magistrato di sorveglianza allo scopo di essere trasferito in un carcere vicino casa.

In modo analogo il detenuto Z.D. tenta di impiccarsi legando la sciarpa alle sbarre della finestra del carcere di Sollicciano. Nelle dichiarazioni rilasciate alle guardie di servizio dice: "Voglio essere trasferito in Calabria. Io non ho ammazzato nessuno, sono innocente. Voglio fare i colloqui con mia moglie ecc." Dopodiché - riferiscono le guardie di sorveglianza - prendeva la fotografia della moglie, riposta nell'armadietto della cella e cominciava a baciarla. Dopo questo tentativo di impiccagione Z.D. dichiara di voler fare lo sciopero della fame per ottenere il trasferimento in Calabria per stare vicino alla moglie e alla figlia. A parere del medico il soggetto si trova in uno stato di palese labilità psichica caratterizzato da spunti persecutori.

Ancora a Sollicciano R.M. esegue lo sciopero della fame dichiarando espressamente allo psichiatra con il quale tiene il colloquio di non voler protestare genericamente contro la giustizia, ma di voler morire attraverso l'astensione dal cibo. Inoltre specifica bene che non si ucciderà solo se verrà fatto parlare con la moglie. Si dispone la visita psichiatrica urgente. Per lo stesso motivo il 12/10/95 nel carcere di Sollicciano il detenuto M.S. minaccia di uccidersi se non verrà trasferito al carcere di Pisa. Recluso nel carcere di Sollicciano P.A. minaccia continuamente di suicidarsi perché vuole essere trasferito alla Spezia vicino alla famiglia.

Il 14/11/95 C.F. minaccia di suicidarsi allo scopo di ottenere il trasferimento presso un istituto vicino alla famiglia. C.F, nato l'1/12/55 a Cava dei Tirreni (Salerno) è detenuto al carcere di Prato, in custodia cautelare, in attesa di giudizio di primo grado per il reato di omicidio aggravato, per il reato di associazione di stampo mafioso ritenuta appartenente al primo livello di Camorra clan di "Carmine Alfieri".

Il detenuto viene trovato riverso sul pavimento alle ore 17.30 durante l'orario di socialità a celle aperte. Il fatto stesso di aver commesso l'atto nell'orario destinato alla socialità può essere indice di un'intenzione a realizzare solo una messa in scena. Il soggetto viene trovato privo di sensi con al collo una cordicella, ricavata da una stringa da scarpe. Il C.F. ancora stringeva la cordicella procurandosi un immediato gonfiore al viso. Una volta rianimato il detenuto viene fatto visitare dal medico di guardia e dal medico psichiatra. Non può essere osservato il consiglio di trasferire il detenuto nel reparto isolamento, perché le uniche due celle sono inagibili nel sovraffollato carcere di Sollicciano; perciò è stato realizzata un'altra sistemazione con sorveglianza a vista.

Lo stato psicofisico del detenuto è caratterizzato da "astenia" e "dispepsia". È molto agitato e rifiuta la terapia sedativa; secondo il medico di guardia, è urgente la visita psichiatrica poiché il soggetto minaccia gesti autolesivi gravi, quindi raccomanda che sia sottoposto a Grandissima Sorveglianza. Non del tutto conformi alle interpretazioni fatte dal medico di guardia risultano le osservazioni della psichiatra, che nella relazione del 14/11/95 descrive il gesto del C.F. come un tentato impiccamento di chiaro significato "manipolativo", dal momento che è stato realizzato a cella aperta.

Quanto al significato del gesto suicidario sono importanti due documenti: le informazioni del comandante di reparto e la relazione della psichiatra che in fondo non fa che confermare la ricostruzione dei fatti contenuta nel documento precedente. Nelle informazioni al comandante di reparto si apprende che non è la prima volta che il detenuto tenta il suicidio, sempre con "la messa in scena dell'impiccamento". Come sottolinea la psichiatra, sembra che il fine sia quello di attirare l'attenzione per essere trasferito vicino alla famiglia e per poter ottenere un posto di lavoro che gli consenta di stare buona parte della giornata fuori della cella. C.F. minaccia ancora di compiere gesti autolesivi (manipolativi o no) per cui si prescrive sorveglianza a vista.

Il gesto suicidario mantiene il carattere di ricatto o di minaccia anche se può cambiare lo scopo in vista del quale si agisce. È molto frequente che in carcere si arrivi a minacciare il suicidio per ottenere cure sanitarie.

F.M. minaccia di suicidarsi nel caso in cui venga trasferito all'ospedale di Parma. Questo tipo di minaccia a prima vista risulta quanto meno singolare, infatti di solito le richieste dei detenuti sono rivolte ad ottenere trasferimenti presso ospedali esterni. Ma il caso di F.M. è diverso: egli è molto malato e si è sottoposto a innumerevoli trasferimenti presso ospedali specializzati a causa delle sue gravi condizioni di salute. Tutte le volte che è stato eseguito un trasferimento le condizioni di salute hanno subito un notevole peggioramento senza trovare alcuna compensazione dalle cure specialistiche tenute all'ospedale cui era destinato.

Nella lettera indirizzata al direttore dell'istituto il detenuto espone la sua situazione personale con particolare riferimento alle gravi condizioni di salute precisando che tutte le volte che è stato trasferito ad un ospedale ha sempre rischiato la vita. Quindi conclude: "Lasciatemi in pace, tanto la mia salute è sempre uguale, in più vengo imbottito di psicofarmaci"

4. I casi di suicidio delitto/vendetta

Il suicidio delitto/vendetta è il gesto proprio di colui che pur aggredendo se stesso, in realtà, vorrebbe aggredire gli altri per punirli e dunque per vendicarsi. Si è parlato a questo proposito di "omicidio camuffato", poiché il soggetto non essendo nelle condizioni di uccidere la persona di cui si vuole vendicare è costretto a riversare tutta l'aggressività verso se stesso. È una forma molto particolare di vendetta: il soggetto uccide se stesso facendo ricadere la colpa della propria morte "sulle spalle" dell'istituzione della giustizia e del sistema penitenziario, che ritiene responsabili della propria morte.

Nel 1995 C.A., nato in Marocco, è recluso nel carcere di Pistoia nella posizione giuridica di appellante. Egli come, molti altri detenuti di provenienza straniera, si è procurato dei tagli lineari, non soltanto agli avambracci, ma perfino sull'addome. È quasi terrificante e allo stesso tempo paradossale pensare che un individuo, nel momento in cui si sta tagliando ai polsi e all'addome provocando intenzionalmente un martirio del suo corpo seminando sangue su tutta la sua persona; anziché spaventarsi, e chiedere aiuto; persista nelle sue minacce arrivando a dire: "Io mi ammazzo in cella e faccio passare i guai a tutti quanti, anche al capo galera!".

Per il modo in cui è stata realizzata, e per la ferma dichiarazione del detenuto alle guardie del penitenziario, la condotta suicidaria di C.A. potrebbe essere interpretata come una forma di devianza attiva. Nonostante che C.A. aggredisca il proprio corpo, la sua reale intenzione sembra quella di "far passare un guaio" ai suoi sorveglianti almeno a giudicare dalle dichiarazioni rilasciate alle guardie di servizio.

Il detenuto reagisce come un ribelle di fronte alle avversità. Per quanto si trovi in una situazione di sicura debolezza; C.A. continua ad aggredire e a minacciare tutto il personale del penitenziario perfino il "capo galera". Egli si propone con il tono della sfida come per volersi vendicare di tutti coloro che si trovano fuori della cella. Emblematiche sono le parole: "faccio passare i guai a tutti anche al Capo galera!".

In questo caso mi sembra particolarmente calzante la teoria di Adler, in base alla quale il suicidio ha la funzione di affermare la propria superiorità. È come se C.A. nel momento in cui si accinge allo sventramento di se stesso intendesse ribellarsi dimostrando che i propri "sorveglianti" non sono migliori o più forti e che non sono in grado né di fargli alcun male né tantomeno di poterlo piegare ad una posizione di inferiorità. Il detenuto sembra voler dimostrare la propria superiorità infliggendo a se stesso una pena più dura di quella che gli viene inflitta. Così C.A. afferma la propria superiorità perché dimostra di non provare alcuna sofferenza né di fronte alla pena delle Istituzioni; né di fronte alla pena che si infligge da solo. Anzi sembra sentirsi talmente forte da poter avanzare delle minacce per potersi vendicare.

Credo di non sbagliare di molto se affermo che questi pensieri sono comuni a molti detenuti. Questo vale soprattutto tra coloro che ricorrono al suicidio per vendicarsi e dunque per trionfare in un duello personale da cui poter pretendere soddisfazione.

Il 2/5/93 si verifica un altro significativo episodio di questo tipo presso la Casa Circondariale di Prato. Il detenuto A.F., nato alla Spezia il 26/9/61, è in attesa del giudizio di primo grado. I reati contestati all'imputato sono: detenzione di stupefacenti, oltraggio, resistenza, lesioni a pubblico ufficiale, guida senza patente, associazione per delinquere finalizzata alla costruzione, organizzazione e finanziamento di una struttura avente la disponibilità di armi anche da guerra, in particolare di importazione, acquisto, detenzione, trasporto e vendita di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti. Associazione per delinquere di stampo mafioso.

Per quanto riguarda l'esecuzione del fatto il detenuto A.F. ha tentato il suicidio tramite impiccamento, che viene così descritto nel rapporto disciplinare: "Dallo spioncino della cella si era potuto notare una rudimentale corda legata a mo' di cappio alla sbarra orizzontale della inferriata della finestra. Una volta dentro la cella, l'agente in servizio slega la corda solo dopo essersi infilato un paio di guanti per precauzione, dal momento che A.F. è positivo HIV. Alla richiesta di spiegazioni circa le motivazioni del gesto viene riferito che A.F. replicava con modo, definito dagli agenti, "poco urbano". Gli agenti, inoltre, riferiscono: ' il detenuto appariva molto infastidito e diceva che voleva farla finita con la vita e che a noi (le guardie) non interessava nulla'. Mentre parlava si alzava dal letto cercando di strappare la corda dalle mani dell'agente che lo aveva soccorso, dandogli una tale spinta da farlo urtare contro il muro per appropriarsi della corda, cosa che comunque non gli riusciva. Dopo reiterati tentativi A.F. accettava di recarsi al locale infermeria. Mentre transitava sul corridoio, il detenuto diceva alla guardia che lo stava scortando: 'Guardia, Ma tu che mi porti alle celle di isolamento?!' e non appena la guardia terminava di dirgli che per il momento doveva andare solo in infermeria, questi si scagliava contro la sua persona, colpendolo con un pugno all'addome e con la stampella, in dotazione per motivi sanitari, tirava un colpo alla spalla destra e un colpo alla gamba destra dell'agente. Istintivamente l'agente cercava di bloccarlo riuscendovi solo con l'aiuto del capoposto".

Si rivelano utili per l'interpretazione del caso anche le misure disciplinari che vengono disposte dopo l'accaduto. "Si dispone che venga esercitata la Grande Sorveglianza per tutelare l'incolumità del soggetto che si trova esposto ad un elevato rischio suicida e per il comportamento oltraggioso e violento nei confronti del personale operante." La grande sorveglianza è la più comune disposizione dopo un tentato suicidio; tuttavia mi è sembrata almeno apparentemente contraddittoria la motivazione della misura stessa: assolve allo stesso tempo un fine preventivo nei confronti dell'incolumità del detenuto; e un fine preventivo nei confronti dell'incolumità del personale operante. Come si è visto nel caso precedente la condotta suicidaria può rivelarsi autoaggressiva e allo stesso tempo eteroaggressiva senza per questo essere contraddittoria. Il soggetto agisce sotto la pressione di una forte aggressività che scarica indifferentemente verso se stesso o verso altri che magari possono attirare nella loro direzione tale aggressività.

Si ripropone in questo episodio la stessa dinamica del caso R. esaminato tra i casi di protesta. A.F. presenta un comportamento alternativamente autoaggressivo, con il tentato impiccamento, e eteroaggressivo, con l'aggressione alla guardia. Nonostante la somiglianza di struttura di questo episodio con quella dei casi di protesta/appello il caso di A.F. è stato descritto come possibile tipo ideale di suicidio delitto/vendetta, perché rispetto al suicidio protesta/appello presenta un più elevato grado di aggressività. Nel quadro degli ideal tipi di suicidio carcerario, che ho costruito come mappa di riferimento, i tipi di suicidio protesta appello presentano caratteritiche talmente simili che sono stati definiti come sottotipi di un medesimo tipo ideale più generale e la differenza dei vari sottotipi è stata fondata sul grado di aggressività della condotta del soggetto.

Il caso di A.F. ci appare ancora più sorprendente se guardiamo alla diagnosi riportata sul registro medico. A.F. risulta affetto da sindrome depressiva si tratta di una forma di depressione di tipo reattivo. Viene dunque prescritta la visita psichiatrica e il soggetto viene sottoposto a grande sorveglianza. Siamo abituati a identificare il comportamento del depresso con quello del rinunciatario. La depressione ci suggerisce l'immagine di colui che non reagisce e si arrende definitivamente ad ogni aggressione; invece ci troviamo di fronte ad un caso in cui il soggetto reagisce con tutte le sue forze contro tutto e anche contro se stesso; poiché trova ovunque nemici da cui difendersi anche con la forza. Il soggetto risulta incriminato per associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata alla fabbricazione, importazione, acquisto, vendita e detenzione di armi comuni alterate e da guerra e bombe a mano, nonché congegni di natura esplodente. A.F. è inoltre imputato di spaccio di sostanze stupefacenti, in particolare eroina, cocaina, hashish ed Ecstasy. Può apparire strano che un detenuto di tale tipo possa essere inquadrato nella figura del rinunciatario e che abbia bisogno dei colloqui di sostegno da parte dell'educatore e dello psicologo. Dal registro medico si legge: "All'arrivo del medico il detenuto è seduto sul letto, notevolmente agitato e riferisce di non volere più vivere. Appare depresso, pare che ci sia stato un peggioramento delle sue condizioni psichiche e dice di essere angosciato da idee persecutorie. Alla fine del colloquio A.F. è più tranquillo e accetta la terapia farmacologica. Il medico di guardia oltre che a richiedere la visita dello psichiatra si raccomanda affinché venga adottata ogni possibile forma di sorveglianza per poter svolgere un'accurata prevenzione. Si affida perciò all'educatore e agli operatori dell'area trattamentale per effettuare anche colloqui di sostegno".

La condotta suicidaria di A.F. si potrebbe collocare in una forma di devianza attiva, poiché il soggetto sfoga tutta la sua aggressività esternamente. Nel momento in cui viene salvato anziché essere riconoscente al proprio "salvatore" prende a "spintoni" la guardia al punto di farla sbattere conto il muro. Anche se infortunato e con le stampelle, tale è la rabbia del detenuto che prende a percuotere la guardia che lo scorta perfino con la stampella. Anche in questo caso, come nel precedente, il detenuto non si piega all'ubbidienza; anzi è furioso perché ogni atteggiamento da parte delle guardie viene interpretato dal soggetto come un gesto per evidenziare il suo stato di inferiorità e di sottomissione di fronte a loro e di fronte a chiunque. La reazione del detenuto è ancora una volta dettata dall'orgoglio, dal bisogno di rivalsa, dalla necessità di riscattarsi per affermare la propria superiorità attraverso un suicidio che per questo potrebbe avere il significato di delitto/vendetta.

La condotta di A.F., almeno da come è descritta nei rapporti di servizio, sembra rispondere ai caratteri della devianza attiva, perché il soggetto, di sicuro, non si conforma a quelle che sono le regole di comportamento. Malgrado tenti di impiccarsi appare evidente come con il suo impiccamento vorrebbe impiccare e così punire tutti gli altri. A.F., come molti altri detenuti, percepisce come atto di prepotenza e quasi come una sfida il controllo che viene esercitato sulla sua detenzione. Per questo anziché ubbidire egli si adopera con tutte le forze per rispondere con un atteggiamento di sfida.

Altro caso di suicidio definito come gesto manipolativo nei rapporti ufficiali è quello di S.A.H., recluso presso il carcere di Sollicciano. Il detenuto è nato in Tunisia il 27/12/66. La posizione giuridica di S.A.H. è di ricorrente con "fine pena" al 4/11/91.

La guardia riferisce nel suo rapporto: "Il 13/8/91 il detenuto approfittando dell'apertura della cella in occasione del ritiro della spazzatura, usciva dalla cella correndo verso il centro del piano; arrivato al cancello bussava furiosamente al vetro del piano e con tono visibilmente alterato e a gran voce diceva alla guardia: 'TU MI DEVI PORTARE ALL'ISOLAMENTO'. gli spiegavo che ciò non era di mia competenza, dopodiché cercavo di chiudere il cancello per avvisare il capoposto; ma questi afferandomi ai polsi cercava di sottrarmi le chiavi dalle mani. Ne derivava una breve colluttazione, a seguito della quale, riuscivo a divincolarmi dalla presa del detenuto e a richiudere il cancello." Il giorno successivo il detenuto spiega che voleva essere portato all'isolamento per motivi di tranquillità personale. S.A.H. dice di non avere problemi con gli altri detenuti; ma che ha bisogno di andare all'isolamento per poter stare tranquillo. Nega di aver aggredito l'agente e dice di ricordare solo che stava molto male in quanto aveva bevuto 3 bustine di vino. Asserisce che qualche agente lo ha picchiato. Ma come si evince dalla relazione di servizio, i fatti sono andati diversamente. Dopo la visita medica il detenuto è stato trasferito al Reparto Isolamento allo scopo di salvaguardarlo da gesti autolesionistici. Questa misura precauzionale è stata molto opportuna, ma non abbastanza efficace, dal momento che il 17/8/91 verso le 17.20 il detenuto ha posto in essere un tentativo di impiccagione con una striscia di stoffa ricavata da un lenzuolo.

Il detenuto era già in terapia, però non rispetta mai le prescrizioni del medico e invece di aspettare la sera per prendere una parte delle medicine assume tutti i farmaci la mattina. Così nel pomeriggio chiede ulteriore terapia ansiolitica e nel caso in cui gli venga rifiutata, il detenuto minaccia gesti autolesionistici, come si è spesso verificato. Il 17/8/91 S.A.H. rifiuta la terapia ansiolitica, buttando per terra le compresse che gli erano state somministrate. Il detenuto manifesta propositi autolesionistici. Anche se, a parere delle guardie di sorveglianza, ogni tentativo di suicidio sembra rivolto ad uno scopo dimostrativo; il detenuto si dimostra particolarmente determinato nel portare a termine i propri propositi suicidari; per cui si richiede il trasferimento in cella priva di suppellettili.

Nel rapporto del 18/8/92 è riportata la dichiarazione di S.A.H. in cui afferma di aver messo in atto il tentativo di impiccagione in segno di protesta, perché il medico non gli ha somministrato gli psicofarmaci richiesti. A parere del direttore il detenuto cerca con gesti autolesionistici di costringere i medici a prescrivergli i farmaci che lui desidera (in particolare il Darkene), rifiutando, invece, di prendere quelli che gli vengono dati. La condotta è dichiaratamente strumentale, tuttavia si raccomanda che il detenuto rimanga a grandissima sorveglianza.

Da un controllo fatto dall'agente che ha perquisito la cella successivamente rispetto al gesto suicidario risulta che il gesto di tentata impiccagione fosse una vera messa in scena in quanto la striscia del lenzuolo allacciata alla finestra era lunga circa 10 - 15 centimetri. Il caso di S.A.H. è molto particolare, perché il soggetto è pienamente consapevole di strumentalizzare il proprio suicidio. Si serve del suicidio per ottenere la terapia farmacologica che preferisce e ricatta medici e ufficiali minacciando ogni momento di autosopprimersi dimostrando un altissimo dominio di sé. Sembra affermare la propria superiorità riuscendo a mantenere una tale distanza da potersi permettere non solo di sfidare l'autorità minacciando la propria morte, ma addirittura si burla apertamente "dell'Autorità". Così non si preoccupa neppure di rendere almeno verosimile il tentativo di impiccamento arrivando a utilizzare una corda di 15 centimetri. Infine egli stesso ridendo confessa alla guardia che il suo suicidio è una farsa, una sceneggiata; infatti nelle dichiarazioni del detenuto si riporta che il gesto suicidario era sicuramente una messa in scena, poiché lo stesso S.A.H. con un sorriso beffardo affermava che era uno scherzo, e non aveva nessuna intenzione di morire.

Anche questo caso sembra presentare un comportamento di devianza attiva il detenuto S.A.H. si ribella continuamente trasgredendo a tutte le regole che gli vengono imposte; al punto di disobbedire di proposito per il solo gusto di disobbedire. S.A.H. si vendica in questo modo della sua condizione esistenziale arrivando al punto di prendersi giuoco di coloro che dovrebbe, invece, temere e in questo giuoco di sfide e di vendette S.A.H. scherza anche con il suo suicidio. Mi sembra emblematica la scena finale del caso di S.A.H. in cui il detenuto è rappresentato con un sorriso beffardo dicendo che l'impiccamento era uno scherzo e che non aveva nessuna intenzione di morire.

Note

1. Cfr. cap.2., pf. 7. 1.

2. Cfr. cap.2, pf. 7. 2.