ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Considerazioni conclusive
Il sistema di accoglienza in Italia: un percorso verso l'integrazione?

Angela Suprano, 2016

Dalla trattazione proposta non sembra affatto agevole rinvenire una risposta a quello che sembrerebbe essere un vero e proprio dubbio amletico. Sicuramente, come evidenziato nell'ultima parte del lavoro, un processo d'integrazione ed inclusione non si attua né realizza solo sulla base di forti premesse motivazionali da cui l'individuo è spinto subito dopo il suo arrivo nel nostro Paese. Si tratta di un percorso che dovrebbe coinvolgere e vedere la collaborazione di vari attori, primo tra tutti l'ente statale. La logica emergenziale, che ha continuato paradossalmente a imperare nell'ambito degli interventi in materia di rifugiati, ha inevitabilmente contribuito, in peius, a trattare il fenomeno dell'immigrazione in termini settoriali, non adeguati a un fenomeno ormai strutturato come quello delle "migrazioni forzate". L'impronta meramente emergenziale ha finito per travolgere anche la struttura dello stesso circuito di accoglienza, compromettendo drammaticamente le premesse per un futuro processo d'integrazione e inclusione sociale.

Carenze strutturali, inadempienze procedurali di cui il sistema di accoglienza è affetto, finiscono per aggravare drasticamente le condizioni dei destinatari di quello stesso sistema. Basti pensare alla estenuante attesa cui essi sono costretti in un momento di estrema fragilità interiore, legata al fatto di essere catapultati in una realtà che non gli appartiene e, in alcuni casi, non vuole appartenergli, una realtà che non (ri)-costruisce, anzi, che molto spesso distrugge.

Di fronte ad un sistema dalle forme sbiadite, che si scontra con una prassi diffusa e lontana dalla lettera della legge, il sentimento di quanti vorrebbero trovare nei Paesi sicuri, accoglienza e ospitalità è quello di profonda incertezza, poiché costretti ad imbattersi in scarsi livelli di accoglienza e assenza di prospettive di integrazione.

Le drammatiche vicende degli ultimi anni che hanno visto l'Italia sotto i riflettori europei, hanno tuttavia portato gli enti statali, regionali, comunali e gli stessi operatori del terzo settore, a riflettere sulla necessità di riformare il circuito di accoglienza.

Il risultato della concertazione politica si è sostanziato in "grandi apparenti novità". Infatti, oltre un cambiamento nominativo dei centri governativi sembra non esserci nulla. Le strutture sono le medesime, i tempi di permanenza nei centri sembrerebbero ridotti (in base alla lettera del nuovo d.lgs. 142/2015), ma questo non assicura un'effettiva inversione di tendenza rispetto a quanto consolidatosi finora nella prassi dell'accoglienza. Non solo, non vi è traccia alcuna nel nuovo decreto legislativo dei nuovi hotspot. Innocua "dimenticanza" del nostro legislatore? Alle sperimentazioni future e (pare) imminenti la risposta.

La trattazione dello SPRAR e la proposizione da ultimo del modello di SPRAR di Villa Pieragnoli, rispondono ad una logica interna allo stesso circuito di accoglienza. Si tratta, infatti, dell'ultima tappa che chiude il sistema, ma non per tutti. La possibilità di avere accesso al Servizio di Protezione per richiedenti asilo e rifugiati, che prevede la presa in carico della persona e l'attivazione di percorsi individualizzati finalizzati all'integrazione, è privilegio di pochi e in ogni caso intrisa di una forte componente di aleatorietà. L'elemento più preoccupante è il carattere assistenzialistico che dallo SPRAR potrebbe emergere. I beneficiari del progetto, infatti, tendono a individuare nell'offerta SPRAR sicurezza e stabilità, rifiutando quasi di impostare il progetto come una (ri)-conquista della propria autonomia fuori dal contesto SPRAR. Il "dopo" spaventa, disorienta. E questo si può leggere anche dai tempi di permanenza che si protraggono oltre ogni limite previsto sulla carta. Un fatto ulteriore, su cui si dovrebbe riflettere, è il seguente: per quanti accedono allo SPRAR dopo aver stazionato anni e anni sul territorio, usufruendo di un vari servizi per cercare di sopravvivere, quali prospettive si hanno? Oppure, più semplicemente, si ha qualche prospettiva di integrazione?

In questi ultimi casi la difficoltà aumenta, primo tra tutti perché il soggetto è già entrato a contatto con la realtà, subendo la marginalità che da questa facilmente ne può derivare, e questo potrebbe rappresentare una prima "distruzione" di quelle speranze di (ri)-conquista del proprio "Io" nel nuovo contesto sociale, economico, abitativo. In queste situazioni come si vive l'ingresso nel progetto? Come un'opportunità o come un ulteriore servizio per garantirsi la sopravvivenza?

Lo stravolgimento dell'ultimo anello dell'accoglienza dipende necessariamente dalla mancanza di premesse iniziali, di obiettivi alla base dell'accoglienza che siano non soltanto pensati o scritti, ma che assumano forme concrete e soprattutto vengano perseguiti.

Il grave gap che separa il de iure dal de facto sferra un duro colpo alla costruzione di un sistema di accoglienza ordinato. Manca, infatti, la "sistematicità" del percorso di accoglienza, un'ordinarietà che assicuri ai destinatari la certezza di iniziare un percorso e terminarlo con risultati che rendano questi stessi soggetti parte del tutto, e non soltanto un surplus tradotto in termini negativi e per questo additati come il "diverso", un "loro" distinto da un "noi". Non si tratta di una terminologia casuale. La contrapposizione tra un "loro" e un "noi" è ciò che emerge nella quotidianità del tempo e che, evidentemente, inibisce non soltanto l'integrazione, ma anche e soprattutto il pensiero che un percorso finalizzato a tale obiettivo possa iniziare.

Dovrebbero essere queste le basi sulle quali fondare un intervento statale consapevole, responsabile e volto a garantire almeno un sistema di accoglienza efficiente, certo e che rifletta nella concretezza l'idea dell'"accoglienza" intesa come ospitalità.

Soltanto attraverso una riforma concreta del sistema di accoglienza è possibile ipotizzare la buon riuscita del percorso e quindi un processo di effettiva integrazione.

Un altro problema che emerge è la mancanza di un monitoraggio attivo sul territorio che sia indice di un'avvenuta inclusione quantomeno in termini economico-abitativi. L'uscita dal progetto SPRAR, infatti, segna una cesura forte con ogni singolo beneficiario e questo potrebbe esser letto in termini positivi solo se si avesse l'assoluta certezza che gli stessi hanno effettivamente intrapreso un percorso di (ri)-conquista del proprio essere e continuino ad attuarlo. Infatti, all'indomani del percorso di uscita dal progetto i singoli non vengono più monitorati e questo alimenta l'idea per cui l'interesse all'integrazione, all'accoglienza cosiddetta integrata restano questioni aperte e irrisolte.

L'integrazione, dunque, dovrebbe essere assunta, ripercorrendo la posizione di C. Hein, non come un optional, ma come un vero e proprio impegno che deve coinvolgere l'intera società.

Occorre, dunque, riformulare le premesse iniziali, assumere il dovere di accogliere e impegnarsi in un percorso di effettiva integrazione che sia l'incarnazione di una politica dai toni umanitari idonei a trattare la questione non in termini di calamità ma come fatto di ordinaria amministrazione.