ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Nella colonia penale: la giustizia evanescente

Federica Helferich, 2015

In una "valletta profonda e sabbiosa", isolata e arsa dal forte sole tropicale, che avvolge tutto quanto in un clima abbacinante e accecante, la macchina esecutrice delle sentenze, un tempo gioiello e orgoglio della colonia penale, si accinge a eseguire il suo compito per quella che potrebbe essere l'ultima volta.

Protagonisti di questo scenario che fin da subito assume i tratti di un rovente miraggio sono il condannato, l'ufficiale addetto all'esecuzione della sentenza e il viaggiatore, un estraneo che è stato invitato ad assistere a tale procedura da parte del nuovo comandante della colonia penale. Subito, però, emerge che in realtà il condannato, nonostante sia colui sul quale si abbatterà la sentenza e quindi sia l'"oggetto" della macchina esecutrice, non è veramente protagonista: piuttosto, con la sua aria di "cagnesca acquiescenza" e il suo sguardo di "sonnacchiosa testardaggine", è quasi un nolente spettatore di uno spettacolo del quale non era stato minimamente avvisato e del quale non capisce le parole. Infatti è al viaggiatore soltanto che l'ufficiale, zelante e operoso nonostante il caldo opprimente, rivolge le sue esaltate spiegazioni circa il funzionamento della macchina che, via via nel suo discorso, viene circondata da una sorta di abbraccio semantico, indice del profondo attaccamento e affetto che l'ufficiale nutre nei confronti dell'apparecchio e dei bei tempi andati che esso rappresenta.

Il viaggiatore, dapprima refrattario alle spiegazioni, poi via via sempre più interessato, è costantemente guardato dal condannato, che sembra sforzarsi di capire cosa stia succedendo e a tratti imita addirittura i gesti che il viaggiatore compie. Tanto che, quando l'indignazione e l'incredulità del viaggiatore, nell'apprendere i dettagli dell'esecuzione, esplodono, il condannato rivolge lo sguardo sul viaggiatore, quasi come se "gli chiedesse se potesse approvare un simile procedimento". In questo gioco di sguardi e di gesti tra i due, il viaggiatore (che già nel suo essere così denominato emerge quale potenziale conoscitore di numerose culture dalla mentalità aperta ed esperta) diventa suo malgrado un intermediario tra l'inumanità dell'esecuzione e della sentenza stessa e l'umanità che - per quanto poco gradevole - è incarnata dal condannato, diventa quasi un giudice del giudizio.

Un giudizio la cui esecuzione è affidata interamente alla macchina e alla sua perfezione millimetrica, grazie alle cure quasi materne che le rivolge l'ufficiale: infatti, l'erpice collocato sopra al letto mobile ha il compito di incidere sull'intero corpo del condannato "il comandamento che egli ha violato". Secondo l'insindacabile giudizio dell'ufficiale, che è insieme militare, legislatore, giudice ed esecutore e che parte sempre dal presupposto della colpa, e quindi applica la punizione a prescindere, siamo qui davanti a un caso di indisciplina e oltraggio ai superiori: reato che sarà pertanto punito inscrivendo, sulle carni del condannato, il precetto "onora il tuo superiore". È stato infatti il superiore gerarchico del condannato a denunciare l'inadempienza del sottoposto all'ufficiale, al quale questa semplice denuncia in quanto tale è bastata per procede all'emanazione della sentenza e alla privazione della libertà personale del condannato, senza peraltro convocarlo né interrogarlo. Difatti, questi, come apprende il sempre più sgomento viaggiatore, né conosce la sentenza, né sa di essere condannato (tanto "lo apprenderà sulle sue carni") né ha avuto la possibilità di difendersi.

È chiaro come questi tre non-stati del condannato e la modalità di esecuzione della sentenza siano il rovescio negativo di tutti i principi del nostro ordinamento. Per quanto riguarda la fase della cosiddetta punibilità in astratto, il momento della comminatoria edittale è escluso in toto dato che l'intera vicenda punitiva è affidata alle intuitive e irrevocabili decisioni dell'ufficiale, il cui operato fa sì che la legge non sia nemmeno conoscibile da parte dei consociati. Questi ultimi, pertanto, sono privati della loro libertà di autodeterminazione, poiché non possono in alcun modo calcolare né prevedere le conseguenze delle loro azioni. Lo stesso processo di cognizione viene saltato a piè pari: al condannato viene appioppato tale status non solo senza che egli ne sia stato minimamente avvertito, ma anche e soprattutto senza che sia rintracciabile una sua qualche colpevolezza: dal momento, infatti, che egli non era motivabile tramite norme, poiché le norme vengono create sul momento dall'ufficiale factotum, il fatto di reato commesso non è nemmeno collegabile alla sua sfera psichica, non può appartenergli. Siamo dunque di fronte a una responsabilità penale senza colpevolezza: il condannato si trova a subire la conseguenza, da lui non conoscibile e non conosciuta se non nella misura in cui si trova incatenato di fronte alla macchina esecutrice, di un'azione che non gli appartiene. Sembra qui venire in gioco la cosiddetta teoria dell'obbedienza in quanto tale: scopo della configurazione di una tale inadempienza (tra l'altro irrisoria) come reato sarebbe tutelare non un bene giuridico e nemmeno un valore culturale, ma proprio l'ordinamento in quanto tale, le norme e i precetti in quanto tali, anche - e qui sta il paradosso- se i consociati non sono in condizioni di conoscerli: l'autodeterminazione e la conoscibilità delle conseguenze delle proprie azioni soccombono interamente di fronte alla necessità dell'ordinamento della colonia penale di tutelare se stesso, a prescindere da qualsiasi altro fattore.

A questa irrazionale e ossimorica modalità di previsione dei reati e del loro contenuto di disvalore, si accompagna un'altrettanto paradossale e incoerente rispetto ai nostri principi fase di punibilità in concreto e modalità di esecuzione.

Per quanto riguarda il momento dell'irrogazione possiamo notare, in primo luogo che la pena, significativamente, coincide con la stessa sentenza; in secondo luogo che questa, se ci soffermiamo sul suo mero contenuto, può addirittura apparire razionale e consona alle esigenze della pena moderna: l'incisione sul corpo del condannato del precetto da lui violato assicurerebbe infatti, a prima vista, una proporzione tra il contenuto di disvalore del fatto e il contenuto afflittivo della pena e garantirebbe una piena personalità della responsabilità penale. Svolgerebbe inoltre un'efficace funzione di prevenzione generale mediante intimidazione e potremmo anche scorgere una funzione di prevenzione speciale mediante rieducazione-espiazione, in quanto la scritta incisa sul corpo varia a seconda del tipo di violazione perpetrata e, in quanto dolorosa, favorisce un'espiazione del male realizzato attraverso una rigenerante sofferenza carnale.

Ma tutte queste impressioni sono destinate a crollare nel momento in cui apprendiamo quale sia la finalità ultima della macchina: uccidere. Abbandonata, ovviamente, qualsiasi fase di commisurazione della pena, il corpo del condannato, dopo circa dodici ore di agonia e sofferenze, viene infilzato definitivamente dall'erpice e scaraventato nella fossa comune. Si tratta dunque di una esecuzione capitale preceduta da tortura, una tortura lunga e minuziosa, che fa sì che la pena di morte non sia, come sosteneva Beccaria, uno spettacolo "terribile ma passeggero": nell'impressione della sentenza sul corpo del condannato il tempo gioca un ruolo importante, scandito nei minimi particolari. E' infatti dopo circa sei ore che è stato calcolato che si realizzi il momento cruciale, il momento di massima efferatezza ma anche il momento in cui il potere punitivo realizza davvero il suo intento: è il momento in cui "si desta l'intelligenza" del condannato, cioè quando questi, "con le sue ferite", inizia a decifrare la scritta, a capire la sentenza e la pena, per poi essere, però, ucciso definitivamente sei ore più tardi.

Per quanto attiene all'esecuzione della pena, l'incisione sulle carni qui svolge una funzione che, in parte similmente alle nostre pene, è rivolta più agli spettatori dell'esecuzione che al condannato: per quanto l'erpice si avventi sulle carni di costui, e per quanto la sentenza sia su di lui impressa, il condannato non potrà interiorizzarla né poi metterla in pratica in futuro, appunto perché di lì a poco morirà. Questa incisione è rivolta al condannato solo nella misura in cui, a titolo di mera punizione, gli provoca dolore e sofferenza, mentre è tutta destinata agli spettatori nella misura in cui è a loro che si rivolge la sentenza, a titolo di monito per il futuro. E infatti il lungo procedimento di incisione sulla carne ricalca e imita l'incisione e il fissaggio del precetto nel cervello degli spettatori, in primo luogo quello dei bambini, che il vecchio comandante si preoccupava in prima persona di far assistere alla procedura. In passato, infatti, lungi dallo svolgersi in una valle isolata e arida, le esecuzioni si tenevano al cospetto di fior di spettatori, i quali addirittura, stando ai nostalgici racconti dell'ufficiale, molto spesso non guardavano nemmeno, ma "stavano sdraiati con gli occhi chiusi nella sabbia: ognuno sapeva che in quel momento si compiva la giustizia". Ecco come questa esecuzione svolge perfettamente la funzione di prevenzione generale mediante intimidazione, compensando così l'assoluta mancanza di utilità nel presente.

Nonostante i parziali punti di contatto con la nostra sanzione punitiva, nel tipo di pena e di esecuzione della colonia penale non è assolutamente ravvisabile un'idea di retribuzione-proporzione, poiché tra il contenuto di disvalore del fatto (disvalore che, inoltre, è stabilito volta per volta dall'ufficiale!) e il contenuto afflittivo della punizione non c'è alcuna proporzione sul piano né quali né quantitativo: tant'è che la sentenza incisa sul corpo del condannato è attorniata di arabeschi ed elaborati disegni, che servono solo ad aumentare il carico di sofferenza.

Allo stesso modo non è ravvisabile alcuna idea rieducativa, non solo perché il condannato è destinato a morire e quindi gli è preclusa la possibilità di mettere in atto nella realtà sociale, una volta terminata l'espiazione della pena, i precetti appresi, ma anche perché si tratta di una giustizia che, come dice lo stesso ufficiale, "appena raggiunta, già sta svanendo": nell'ordinamento della colonia penale la vicenda punitiva, che ovviamente non può non essere indefettibile, si estingue senza lasciare traccia, se non nella mente degli eventuali spettatori, una volta che si ritiene che il messaggio, letteralmente, "sia passato".

Esiste, in questo sistema, una sorta di commistione tra il dire e il fare, che si uniscono in un'unica, dolorosa entità: viene fatto all'uomo quello che gli si dice che possa essere fatto, e ciò gli viene fatto dicendolo. "L'homme ne craint vraiment que pour son corps. Dès qu'un offenseur comprend qu'on pourrai lui faire ce qu'on lui dit, sa terreur est sans nom" (Daniel Pennac, Journal d'un corps).

In tutto ciò, mentre il viaggiatore da una parte vorrebbe rimanere estraneo e limitarsi a osservare senza dover commentare e dall'altra è però colto da "un imprecisabile sentimento", l'ufficiale rimane sempre più invischiato nelle spire del suo ossessivo attaccamento alla macchina e al vecchio regime, attaccamento che si traduce nell'atteggiamento ossequioso tendente al religioso che egli tiene di fronte ai (ridicolmente) "sacri" disegni del vecchio comandante; disegni che solo lui è in grado di comprendere e interpretare e che per questo assomigliano, più che a istruzioni e a direttive, a misteriosi simboli che alludono a una realtà oggi non più conosciuta e dal solo ufficiale ancora venerata. Infatti nei confronti della realtà attuale, e soprattutto nei confronti del nuovo comandante, l'ufficiale nutre una rabbia che stenta a reprimere, una rabbia venata di follia, come ci sembra testimoniare l'episodio nel quale egli, prima di sottoporsi lui stesso alla sua adorata macchina, si toglie accuratamente le vesti per poi però gettarle con foga nella fossa, attanagliato in un conflitto interiore tra rispetto dell'ordinamento e del proprio ruolo e ira e disprezzo rispetto alla piega "garantista" che le cose stavano prendendo.

Ma prima, appunto, di provare sulla propria pelle la sua macchina, l'ufficiale libera il condannato, il quale solo a questo punto del racconto assume finalmente un ruolo attivo, a livello sia fisico ("voleva essere libero, dato che gli concedevano la libertà; cominciò a scuotersi", "era tanto impaziente che si era già prodotto qualche scorticatura alla schiena") sia psichico ("e per la prima volta un raggio di vera vita illuminò il volto del condannato. Era la verità? O era solo un capriccio dell'ufficiale, una cosa del momento? Quello straniero gli aveva ottenuto grazia? Cosa stava accadendo? Tutte queste domande si succedettero sul suo viso", "rideva tra sé di un lieve riso muto"). Questa improvvisa vivacità finisce per coinvolgere anche il soldato incaricato di tenere legato e controllare il condannato; questi due soggetti, considerati unitamente, sono, più che veri e propri esseri umani in carne e ossa, ombre, marionette che, senza pronunciare alcuna parola, si intrattengono a vicenda a seconda di come l'ufficiale tira i fili della vicenda ("il soldato e il condannato non si occupavano che dei fatti loro", "forse il condannato si sentiva in obbligo di tenere allegro l'altro, fatto sta che girava in tondo davanti a lui nelle sue vesti lacere; il soldato, rannicchiato a terra, rideva picchiandosi le ginocchia", "tra i due scoppiò un litigio semischerzoso").

Ed è appunto l'ufficiale che decide di liberare il condannato e di prendere il suo posto; al che il condannato, sul cui volto apparve "un largo riso silenzioso, che non si spense più", crede di venire vendicato: in questo momento così umano e animalesco insieme, questi si trova a rappresentare tutti i militari della colonia che, nel tempo, hanno dovuto subire tale trattamento fino in fondo, e, pienamente calato nella parte, corre insieme al soldato ad allacciare le cinghie della macchina intorno al corpo dell'ufficiale, perché si vuole assicurare che egli soffra un pari dolore; al quale peraltro vuole assistere, nonostante la contrarietà dimostrata dal viaggiatore.

Ma le cinghie, per l'ufficiale, non sarebbero nemmeno necessarie, dato che egli volontariamente si sottopone all'esecuzione della sua personale sentenza, volontariamente vuole incidere sul proprio corpo la frase "sii giusto". Si tratta di una sorta di intimo, doloroso e sofferto motto, quasi come se, così facendo, l'ufficiale si offrisse in sacrificio nella speranza che arrivi un giorno in cui il suo messaggio sarà compreso e adeguatamente accolto. E in questa morte per un ideale, in questo gesto che sa di martirio la follia dell'ufficiale si ricopre di un manto di onore e di virtù, degna del suo ruolo.

Sennonché, in un ultimo, macabro e insieme patetico momento, la macchina, proprio nel compiere la sua ultima esecuzione, si sfascia e cade a pezzi; l'erpice, invece di incidere il messaggio sul corpo, lo "trafigge soltanto": ecco che il martirio dell'ufficiale va in rovina e così, in un finale tragicomico, si appalesa la portata auto-distruttiva di un tale sistema, pur se congegnato nel più preciso dettaglio.

"Nessun segno della promessa redenzione era percepibile; quello che la macchina aveva dato a tutti gli altri, l'ufficiale non lo aveva trovato. Le labbra erano serrate, negli occhi, aperti, era l'espressione della vita, lo sguardo era calmo e convinto, la fronte era trapassata dal grande aculeo di ferro": questa ultima immagine, insieme ebbra di vita e di morte, di serenità e di terrore, di pacatezza e di frenesia, corona questa vicenda anch'essa tutta ossimorica e paradossale, ma vagamente e minacciosamente profetica.