ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Considerazioni conclusive

Alessia Gori, 2015

Questa tesi trova origine in un'esperienza personale delle dinamiche reali che si sviluppano all'interno di una casa circondariale. Per un anno ho avuto l'opportunità di visitare settimanalmente il carcere di Prato e di interagire con persone che lì erano recluse, potendo saggiare, anche in minima parte, quella che è la realtà all'interno di un luogo che per i più rimane sconosciuto, persino un tabù. La curiosità di approfondire le condizioni di detenzione dei reclusi e le tutele che il diritto internazionale e quello interno offrono contro i maltrattamenti, nasce dall'aver visto con i miei occhi le difficoltà che quotidianamente affrontano i detenuti. Il rapporto con le guardie, la mancanza di beni primari o di denaro per reperirli, la mancanza di un'assistenza legale o la solitudine anche in un luogo perennemente affollato, sono solo esempi di tali condizioni. Parallelamente ho potuto notare anche che il personale di guardia, nella maggior parte dei casi, ha un approccio empatico con il detenuto e che, sempre più spesso, il carcere si apre agli "estranei", come ad esempio i volontari delle associazioni, i quali offrono assistenza ai reclusi sotto numerosi profili, tra i quali, non meno importante, quello del contatto umano.

Dallo studio della giurisprudenza della Corte relativa all'art. 3 della Convenzione si denota due profili che sono, in un certo senso, facce della stessa medaglia, complementari tra di loro: l'isolamento del detenuto e le tutele approntate dalla Corte e dagli strumenti pattizi per assicurare al recluso una tutela contro i maltrattamenti e gli abusi.

Dall'analisi dei casi riportati emerge quello che Mauro Palma (1) chiama modello infantilizzante, in cui il detenuto, all'ingresso nel carcere, oltre alla propria libertà dismette anche la possibilità di gestire la propria vita sotto tutti i profili basilari. Nel suo intervento, il Presidente della Commissione del Ministero della Giustizia italiano per l'elaborazione degli interventi in materia penitenziaria ha affermato che il modello infantilizzante fa perno su un accentramento delle responsabilità in capo all'amministrazione penitenziaria; essa gestisce ogni aspetto della vita del detenuto, dal rifornimento di cibo alla definizione degli orari in cui è possibile fare la doccia o mangiare o dormire. Per altro verso, il detenuto regredisce ad uno stadio infantile, in ragione del quale è tenuto a chiedere o persino pregare l'amministrazione di concedergli questo o quel privilegio/diritto. La posizione subordinata si evince anche dalla modalità con cui sono espresse tali richieste, sotto forma di "letterine", intestate "alla Signoria Vostra". Corollario di questo modello è la libertà dell'autorità cui è soggetto il detenuto di rifarsi su quest'ultimo qualora non si adegui alle richieste dell'amministrazione penitenziaria, ad esempio attraverso maltrattamenti, punizioni arbitrarie o perdita di benefici. Questo sistema, unito al generale isolamento della struttura carceraria rispetto al resto della società, fa sì che il detenuto sia spesso vittima di abusi e dunque un soggetto particolarmente bisognoso di protezione.

L'attività giurisprudenziale della Corte si è rivelata spesso lo strumento più efficace di tutela dei diritti del recluso; molti elementi pattizi hanno preso le mosse dalle pronunce dei giudici di Strasburgo.

Prendendo ad esempio la parabola ascendente delle tutele dei diritti dei detenuti nella specifica ipotesi delle condizioni di detenzione, è possibile notare come, nell'ultimo ventennio, nel panorama giuridico vi siano stati importanti sviluppi. La Corte nelle proprie pronunce si è fatta portatrice di un'istanza di protezione del detenuto che via via stava maturando nella coscienza sociale dei popoli dei Paesi membri. Questo sentimento di maggiore attenzione a quelle che sono le dinamiche all'interno del carcere ha comportato un ampliamento degli orizzonti delle tutele del detenuto. Lo spazio minimo vitale è diventato un parametro indipendente nella valutazione degli standard di reclusione del detenuto e l'attività della Corte nel garantire i livelli minimi di tutela che essa stessa ha fissato si è spinta fino all'utilizzo della sentenza pilota. Quest'ultimo strumento, relativamente recente nel panorama giurisprudenziale europeo, è stato un valido elemento per far sì che gli Stati si assumessero l'onere di adeguare i propri sistemi penali e detentivi ai principi e precetti della Convenzione.

In un'ottica più ampia, tale da ricomprendere la generalità delle tutele facenti capo all'art. 3 della Convenzione, sembra che sia proprio questa la funzione della Corte nell'odierno contesto internazionale, ovvero quella di frapporsi tra il detenuto e il rischio di subire un maltrattamento a cui la sua condizione di reclusione lo espone. Inoltre la Corte spesso con la propria attività ermeneutica ha anticipa i tempi, aprendo la strada a nuove forme di tutela che poi hanno trovato spazio nella coscienza giuridica degli Stati membri (o in strumenti pattizi), i quali spesso ob torto collo sono chiamati ad adottare misure in grado di rispettare i principi contenuti nelle pronunce della Corte.

Concludendo, si può notare che l'attività della Corte nel garantire il rispetto delle tutele sancite dalla Convenzione è in continua evoluzione, e questo dinamismo garantisce che le tutele dei detenuti siano sempre più complesse e ampie, favorendone in questo modo una maggiore aderenza alle necessità concrete della realtà carceraria dei Paesi membri del Consiglio d'Europa.

Note

1. M. Palma, (intervento) Convegno "Il carcere, che pena", Firenze, 15.03.2014.