ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
L'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo

Alessia Gori, 2015

2.1 Introduzione

L'art. 3 proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante.

Il divieto di tortura e di trattamento inumano o degradante, sancito dall'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, costituisce uno dei traguardi più importanti delle società moderne. In passato, la tortura era considerata la tecnica principale di ricerca della prova all'interno nel sistema processuale di tipo inquisitorio; la giustificazione teorica dell'inflizione dei supplizi stava nella finalità repressiva dei delitti, infatti l'interesse pubblico alla punizione del colpevole era considerato prioritario rispetto all'ingiustizia e inumanità dello strumento utilizzato. L'atrocità del metodo appare ancora più manifesta in considerazione del fenomeno della falsa testimonianza, infatti accadeva di sovente che il prigioniero confessasse delitti non compiuti pur di porre fine ai supplizi, e d'altra parte era altrettanto possibile che il colpevole venisse scagionato in virtù della propria capacità di resistere ai tormenti, dando così prova di (falsa) innocenza.

Oggi il divieto sancito dall'art. 3 della Convenzione rappresenta un elemento costante in tutti gli strumenti internazionali di tutela dei diritti dell'uomo e in gran parte delle Costituzioni moderne; come tale la Corte ha più volte ribadito l'importanza del divieto definendolo "un principio fondamentale delle società democratiche". Questa espressione è stata utilizzata dai giudici di Strasburgo per la prima volta nel caso Soering c. Regno Unito (1) che concerneva il caso di estradizione di un cittadino europeo negli Stati Uniti, dove avrebbe subito la condanna alla pena di morte per aver commesso omicidio. I giudici nella sentenza, dopo aver definito l'art. 3 come principio fondamentale, ne hanno riconosciuto l'importanza, affermando che esso rappresenta uno standard accettato a livello internazionale, come si evince dal Patto internazionale del 1966 sui diritti civili e politici e dalla Convenzione americana sui diritti umani 1969, oltre che agli altri strumenti convenzionali richiamati nel precedente capitolo. Dall'analisi della giurisprudenza possiamo osservare che a partire dal 1989, i giudici hanno cristallizzato questo principio, dapprima in maniera più sporadica, poi sempre più sistematica, fino a richiamare il carattere fondamentale dell'art. 3 all'interno dei principi generali richiamati nelle sentenze rese.

E' interessante notare che la norma in analisi, oltre ad essere una delle più scarne, è l'unica della Convenzione che non prevede eccezioni o deroghe, il divieto non trova impedimenti d'azione neppure in circostanze gravi quali la lotta al terrorismo o alla criminalità organizzata. I giudici infatti, nella sentenza Chahal c. Regno Unito (2), hanno affermato il principio secondo cui nessuna circostanza, comprese la minaccia di terrorismo o le preoccupazioni per la sicurezza nazionale, può giustificare l'esposizione di un individuo al rischio concreto di tali violazioni di diritti umani. Il governo del Regno Unito era intervenuto nel caso per cercare di opporsi al divieto assoluto di tortura e maltrattamenti. Esso ha sostenuto che il diritto di una persona ad essere protetta da tale trattamento all'estero doveva essere temperato rispetto al rischio in cui l'individuo aveva posto lo Stato che lo stava allontanando. Nel caso richiamato, la Corte ha rigettato questa tesi ritenendo che la Convenzione europea proibisse, in ogni circostanza, l'espulsione verso Paesi in cui vi fosse il rischio di tortura e maltrattamenti, valorizzando il carattere assoluto dell'art. 3.

In ragione del suo ampio raggio d'azione, privo di limitazioni, l'art. 3 costituisce uno degli strumenti più efficaci nella lotta conto la violazione dei diritti fondamentali dell'uomo; la giurisprudenza ha intrapreso un percorso evolutivo della norma, anche grazie alla struttura duttile dell'articolo, in modo da ricomprendervi al suo interno nuove forme di tutela. In ragione della portata e della flessibilità della norma rispetto alla copertura di nuove esigenze di garanzia, l'art. 3 è diventato un modello di tutela richiamato nelle più recenti Carte sui diritti umani, come ad esempio, la Carta europea dei diritti dell'uomo e la Carta di Nizza, la quale ha adottato le precise parole della norma nell'art. 4, così da richiamare il divieto nel panorama europeo.

2.2 Ambito di applicazione

L'art. 1 della Convenzione stabilisce che ogni persona soggetta alla giurisdizione di uno Stato membro, gode dei diritti sanciti nella Carta. Nel rispetto dello spirito che ha dato origine alla Cedu, l'applicazione ratione loci è garantita da una formula aperta e onnicomprensiva, la quale stabilisce che per godere dei diritti del titolo I sia sufficiente trovarsi sotto la giurisdizione di un qualsiasi Stato firmatario. La nozione di giurisdizione è stata oggetto di interpretazione estensiva, sia da parte della Corte che della Commissione, tanto che secondo una dottrina prevalente, questo termine ha oramai un significato autonomo. Corollario di questo principio è la responsabilità dello Stato per gli atti lesivi compiuti dai propri organi sul territorio sul quale esercita la giurisdizione, tanto più se le condotte vietate costituiscono una violazione sistematica dell'art. 3 della Convenzione. L'espansione dell'applicazione ratione loci operata dalla Corte ha interessato anche violazioni compiute in zone di guerra, dove lo Stato membro stava esercitando un controllo e disponeva di un'amministrazione locale subordinata.

Per quanto riguarda, invece, l'applicazione extraterritoriale dell'art. 3, la norma prevede che in caso di estradizione, espulsione o allontanamento dal territorio di uno Stato firmatario, vige un obbligo positivo per tale Stato di assicurarsi che il soggetto allontanato non rischi di subire un trattamento contrario all'art. 3. Il rischio deve essere attuale e concreto, come si legge nella già ricordata sentenza Soering c. Regno Unito (3), vero e proprio leading case in materia. Dottrina e giurisprudenza hanno influenzato il concetto di ragioni sostanziali ed effettive (in riferimento al rischio di maltrattamento all'estero), tanto che la Corte con un'interpretazione ancora una volta estensiva, ha progressivamente adottato un approccio più garantista verso la persona oggetto della misura di allontanamento, riducendo la soglia minima di rischio ai fini dell'individuazione della violazione (4).

Nella sentenza Saadi c. Italia (5), la Corte ha riconosciuto una responsabilità dello Stato parte per il solo fatto di avere esposto un individuo al rischio di violazioni, mentre nella sentenza Abdolkhani e Karimnia c. Turchia (6), si individua una responsabilità anche nell'ipotesi in cui lo Stato membro abbia conoscenza (o sia ragionevole pensare che l'abbia) del fatto che il luogo di destinazione della persona allontanata non sia il primo Paese (tappa intermedia), bensì un'altro successivo (luogo definitivo), e che li il rischio di condotte lesive dell'integrità e dignità della persona sia reale e attuale.

Secondo un'applicazione letterale dell'art. 3, la Corte ha poi stabilito che essa abbia un'applicazione verticale, ovvero che essa vieti atti di tortura o trattamenti/pene disumani e degradanti, commessi da organi nazionali. La nozione va intesa con riguardo al diritto internazionale generale in tema di responsabilità degli Stati, per cui tale responsabilità è invocabile per comportamenti assunti in contravvenzione alle istruzioni impartite da organi superiori,. Con un'interpretazione estensiva, la Corte, ha invece individuato un'applicazione orizzontale della norma, ovvero ha riconosciuto una responsabilità statale anche in caso di violazioni compiute nella sfera interindividuale.

2.3 Le condotte vietate dall'art. 3 della Convenzione

2.3.1 Le prime forme di tutela

Fin dalla sua origine l'art. 3 della Convenzione ha accordato una tutela specifica, il diritto di ciascun individuo a non subire una violazione dell'integrità fisica e psichica, a causa di tortura o trattamento o pena disumana o degradante. Alla finalità ampia e generale della prescrizione, però, non si accompagnava alcuna indicazione in ordine al significato da dare alle proibizioni. Se da un lato la scarsa definizione dei termini ha dato la possibilità ai giudici di adattare di volta in volta il contenuto della norma alle esigenze di tutela richieste dalla società, dall'altro, i termini generali con cui si indicano le condotte vietate dovevano essere chiariti, per meglio capire la portata della prima generazione di tutele offerte dalla norma. I termini si riferiscono a tre differenti livelli di severità del maltrattamento commesso nei confronti di persone private della libertà personale. Da una parte, il requisito della severità è stato considerato propedeutico all'applicazione dell'art. 3 in generale, nel senso che è necessario che ci sia un minimo di severità del maltrattamento perché questi sia considerato contrario alla norma in analisi; dall'altra, una volta riscontrata la violazione, il parametro della severità è stato usato come metro con cui classificare le tre tipologie di condotte vietate (7). L'uso del parametro della severità è ben spiegato nell'opinione concorrente del giudice De Meyer nel caso Tomasi c. Francia (8), egli infatti ritiene che "the severity of the treatment is relevant in determining, where appropriate, whether there has been torture".

La mia analisi della distinzione tra le diverse condotte vietate dalla Convenzione prende le mosse dalle parole che la Commissione ha pronunciato nel 1969 a proposito del cosiddetto "Caso Greco" (9), in riferimento alla descrizione delle tre tipologie di maltrattamenti, "Ogni tortura non può non essere anche trattamento inumano e degradante e ogni trattamento inumano non può non essere anche degradante". E' interessante che si riconduca la matrice di tutte le tipologie previste dall'art. 3 ad un unico ceppo, infatti il trattamento disumano sembra essere l'unica condotta da cui prendere le mosse per la sussunzione del caso concreto al dispositivo normativo; la tortura e il trattamento o pena degradante appaiono come categorie relative rispetto al trattamento disumano e vengono individuate, nel caso di tortura, quando la soglia di gravità è molto alta, mentre, se la sofferenza inflitta alla vittima non è tale da rientrare nella categoria principale, ma comunque ha superato il minimo di gravità tollerato, si parla di trattamento degradante.

Il divieto di Tortura

Per definire le tre tipologie di condotta vietate dalla Convezione, è necessario utilizzare come discrimine la diversa intensità della gravità dell'azione (10). La tortura, consiste in una particolare forma di maltrattamento specificatamente volta a causare una sofferenza crudele e molto grave; essa costituisce dunque il livello più alto di severità del comportamento illecito e si connota per la presenza di una ferma volontà di infliggere tale sofferenza.

Il primo riferimento a livello pattizio della nozione di tortura è la Dichiarazione di principi adottata dall'Assemblea Generale dell'ONU nel 1975, con la risoluzione n. 3452 (XXX), la quale in seguito ha costituito il fondamento per la stesura della Convenzione ONU contro la tortura. Il testo definiva la tortura come "an aggravated and deliberate form of cruel, inhuman or degrading treatment or punishment", ed è proprio questa definizione che i giudici richiamano nella sentenza Irlanda c. Regno Unito (11), leading case per quanto concerne l'analisi delle condotte vietate.

Elemento di differenziazione tra le tre categorie dell'art. 3 della Convenzione sono i patimenti inflitti, sia sotto il profilo della tipologia sia sotto quello dell'intensità; la Corte nel caso Irlanda c. Regno Unito chiarisce che non tutte le violenze sono punibili ai sensi dell'art. 3, benché condannabili secondo la morale o addirittura il diritto interno degli Stati. Dalla lettura della norma si evince la volontà dei redattori di legare al termine tortura uno stigma particolarmente infamante che copre quei trattamenti inumani deliberatamente provocanti gravi e crudeli sofferenze, ed è questo elemento che distingue la tortura dai trattamenti o pene disumani o degradanti.

La sentenza Irlanda c. Regno Unito, 1978

Il caso ha origine nell'Irlanda del Nord agli inizi degli anni Settanta, durante questo periodo particolarmente cruento si fronteggiavano due fazioni, una di separatisti cattolici e l'altra di unionisti protestanti. Gli episodi di violenza furono gravi a tal punto da richiedere l'istituzione, da parte del Regno Unito, di centri speciali per la conduzione degli interrogatori sulla base di una legislazione d'emergenza. Questi luoghi però divennero famosi per i metodi violenti utilizzati dalle forze dell'ordine inglesi, allo scopo di estorcere confessioni e informazioni ai terroristi dell'IRA (Irish Republican Army) o presunti tali, al tempo considerati una minaccia effettiva alla legge e all'ordine. La sentenza riporta come esempio di interrogatorio le cosiddette "Cinque tecniche di privazione sensoriale", utilizzate al fine di privare il soggetto delle proprie capacità sensoriali per poi meglio ottenere le informazioni d'interesse. Queste tecniche consistevano nell'incappucciamento, nell'obbligo di rimanere in piedi per tempi molto lunghi, nell'inflizione di un rumore costante, nella privazione di sonno nonché di acqua e cibo.

La Commissione aveva già espresso in precedenza la propria opinione affermativa circa l'esistenza di forme di tortura durante il periodo compreso tra il 1971 e il 1974, queste forme tuttavia erano state giudicate come episodi isolati da imputare ai singoli autori materiali e non a una pratica amministrativa eseguita in ambito Statale.

L'Irlanda chiedeva alla Corte di riconoscere le pratiche sopra descritte come tecniche di tortura e di affermare l'esistenza di una responsabilità attribuibile direttamente allo Stato e non ai singoli autori materiali. La decisione del 18 Gennaio 1978, delude le aspettative dello Stato richiedente, poiché giudica positivamente sia il riconoscimento delle violazioni da parte del Governo britannico, sia l'abbandono delle pratiche e il conseguente impegno a non reiterarle in futuro, sia infine la compensazione economica offerta alle vittime.

Sul piano sostanziale, la Corte non ritiene provati né gli elementi costitutivi della tortura, così come intesa ai fini della Convenzione, né la sussistenza di una pratica attribuibile allo Stato chiamato in causa. La sentenza del 1978 accerta la responsabilità, per trattamento inumano e degradante, di singoli componenti delle forze in servizio presso i centri d'interrogatorio menzionati nel ricorso, non essendo possibile dimostrare né la prosecuzione delle violazioni oltre l'autunno 1971 né l'utilizzo delle tecniche incriminate in luoghi diversi da quelli figuranti nel procedimento.

La sentenza ora analizzata rileva, a mio parere, perché evidenzia la difficoltà per la Corte di individuare nel caso concreto la violazione dell'art. 3 nella forma più grave, ovvero della tortura, nonché la tendenza a far ricadere l'eventuale violazione riscontrata sugli autori materiali e non sullo Stato; anche quando questa avviene nelle forme dell'interrogatorio ad opera di personale statale e in luoghi di detenzione ufficiali, come nel caso ora analizzato (12). In altre parole si evidenzia un deficit di efficacia degli strumenti internazionali volti ad assicurare la tutela dei diritti della Convenzione, dovuto forse, in questo caso, a una scelta politica della Corte, di non ravvisare tortura in strumenti di contrasto dell'emergenza terroristica che in quel periodo colpiva numerosi Paesi del Consiglio d'Europa.

La Corte, in questa sentenza si sforza di delineare un confine più tangibile tra le tipologie di condotte vietate previste dall'art. 3. In proposito è interessante leggere le parole dei giudici di Strasburgo, i quali dichiarano che "The five techniques were applied in combination, with premeditation and for hours at a stretch; they caused, if not actual bodily injury, at least intense physical and mental suffering to the persons subjected thereto and also led to acute psychiatric disturbances during interrogation. They accordingly fell into the category of inhuman treatment within the meaning of Article 3 (art. 3). The techniques were also degrading since they were such as to arouse in their victims feelings of fear, anguish and inferiority capable of humiliating and debasing them and possibly breaking their physical or moral resistance. On these two points, the Court is of the same view as the Commission. In order to determine whether the five techniques should also be qualified as torture, the Court must have regard to the distinction, embodied in Article 3 (art. 3), between this notion and that of inhuman or degrading treatment. In the Court's view, this distinction derives principally from a difference in the intensity of the suffering inflicted (13).

Come possiamo leggere nell'estratto sopra riportato, la Corte ha distinto tre tipologie di comportamento vietato, che vanno dalla più grave, la tortura, alla meno grave, trattamenti o pene degradanti, passando per la forma intermedia dei trattamenti o pene inumani.

Per individuare un confine nelle varie tipologie, l'organo giudicante ha fatto ricorso a un profilo più fisico, per descrivere le pene disumane e un profilo più psicologico per definire le pene degradanti; per quanto riguarda la tortura, sembra che la Corte l'abbia intesa come una forma di trattamento disumano dai connotati marcatamente più gravi. In altre parole la tortura costituisce un trattamento disumano che infligge alla vittima un livello di sofferenza a tal punto forte, da richiedere un'ulteriore definizione al fine di stigmatizzare un trattamento oltremodo inconcepibile, la forma di aberrazione più grave dell'essere umano. Da questo percorso argomentativo deriva, secondo i giudici, che le cinque tecniche di privazione sensoriale, di cui sopra, pur costituendo indubbiamente un trattamento disumano, non sono tali per gravità e violenza da integrare il concetto di tortura.

La difficoltà di delineare, nelle cinque tecniche di interrogatorio una pratica di tortura è posta in evidenza anche dalla presenza di numerose opinioni dissenzienti e separate allegate al dispositivo.

I giudici Zekia, O'Donoghue, Evrigenis e Matscher nelle loro opinioni contestarono la decisione del corpo collegiale di non tenere in considerazione la relazione della Commissione sulle attività di interrogatorio compiute dal Governo inglese negli anni tra il 1971 e il 1973, nella quale si riconosceva nelle tecniche di interrogatorio un caso di tortura e non di trattamento degradante, come stabilito dalla Corte. Secondo il giudice Zekia, i fatti riportati dalla Commissione, in ragione della loro premeditazione e dell'intensa sofferenza fisica e mentale che hanno provocato alle vittime, non potevano non essere qualificati come tortura, anche se non avevano comportato lesioni personali evidenti. Il giudice, richiamando sia il Caso greco di pochi anni prima, sia norme convenzionali (14) quali l'art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, l'art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, e l'art. 1 della risoluzione dell'Assemblea Generale del 1975, ha riconosciuto che anche forme di maltrattamento che ledano la psiche e non il fisico, possono integrare il livello di gravità tale da rientrare nelle categorie dell'art. 3 e persino nel campo della tortura.

Il giudice Evrigenis, d'altra parte, nella sua argomentazione ha adottato una tecnica sistematica volta a privare di fondamento il percorso logico della Corte nel distinguere la tortura dal trattamento degradante; egli richiama sia la definizione di tortura indicata dalla Commissione, per cui essa è una forma aggravata di trattamento degradante, che a sua volta è un maltrattamento deliberato capace di provocare gravi sofferenze sia fisiche che mentali, sia quella della Corte per cui è tortura il trattamento disumano che infligge deliberatamente sofferenze molto gravi e crudeli.

Come possiamo notare, la sfumatura di significato è molto sottile, quasi le due definizioni si sovrappongano, tanto più che il giudice Evrigenis ha sottolineato che la Corte nel suo percorso argomentativo ha richiamato, a sostegno della propria interpretazione, il testo dell'art. 1 della risoluzione del 1975, nel quale si da una descrizione del concetto di tortura sostanzialmente uguale a quella della Commissione (la quale vi ricomprende sofferenze sia fisiche che mentali particolarmente gravi).

La distinzione tra tortura e trattamento disumano, sembra dunque ridursi al fattore dell'intensità, ultimo discrimine tra le due condotte, tuttavia anche su questo punto interviene un'opinione separata, quella del giudice Matscher, secondo cui il tratto distintivo della tortura è l'applicazione sistematica e intenzionale di una condotta capace di spezzare la vittima tanto nel corpo quanto nello spirito, al fine di ottenere da questa informazioni o coartazioni della volontà o ancora per il solo scopo di aggravare una punizione. Secondo il giudice, l'intensità è ancora un fattore determinante, ma deve essere combinato con l'elemento sistematico.

Il contrasto tra i giudici non si limita all'esegesi del concetto di tortura, ma riguarda anche l'individuazione della ratio dell'art. 3 della Convenzione. Possiamo individuare due correnti di pensiero, da una parte quella riconducibile al giudice Evrigenis, secondo cui i redattori della Convenzione prevedendo anche pene o trattamenti degradanti, hanno voluto ricomprendere nell'ambito dell'art. 3 anche maltrattamenti meno gravi rispetto alla tortura, ma comunque tali da ledere la dignità della vittima e infliggere gravi patimenti; dall'altra parte, la ricostruzione operata dal giudice Fitzmaurice, secondo cui, dato il periodo storico in cui origina il testo convenzionale, i redattori quando hanno scritto il divieto di cui all'art. 3 avevano in mente la realtà cruda e terribile al'indomani del secondo conflitto mondiale, quindi la copertura era stata prevista solo per forme gravi di maltrattamenti, tortura e trattamento disumano. Secondo il giudice la Convenzione non tutela da forme intermedie di maltrattamento. Il giudice però chiarisce che quanto appena detto non significa che forme meno gravi di maltrattamenti non siano degni di ricevere una copertura in virtù del fatto che essi si trovano in contrasto con l'alto ideale dei diritti umani considerabili in astratto dalla Convenzione. I giudici, per garantire una tutela estesa, dovranno applicare una interpretazione viva del testo in modo da sviluppare la convenzione in questo senso, in attesa che gli stati parte modifichino il testo convenzionale in modo che comprenda chiaramente queste forme diverse da tortura e trattamento disumano.

Il contrasto tra la decisione finale del corpo collegiale e i singoli giudici che hanno reso un'opinione dissenziente si incentra dunque principalmente sul concetto di tortura sotto il profilo ontologico. Nel 1978, è prevalsa una visione della tortura come atto brutale e puramente fisico riconducibile alle tecniche settecentesche di inflizione dei supplizi, richiamate da Foucault nel suo testo Sorvegliare e punire (15). Si fa riferimento ad un concetto di "corpo a corpo", in cui gli elementi differenzianti erano le azioni che venivano inflitte dal carceriere sul corpo della vittima, con tecniche tanto brutali, quanto arcaiche. I giudici dissenzienti invece, seppur con argomentazioni diverse, giungono tutti a delineare un passaggio evolutivo nella definizione del concetto di tortura, ovvero che essa può essere anche intesa sotto il profilo psicologico, il quale pur non lasciando tracce visibili sul corpo, può risultare comunque un sistema molto sofisticato di inflizione del dolore. I giudici concordano che anche un maltrattamento che provoca danni psichici può integrare la soglia di gravità della tortura e che non è necessario riscontrare lesioni personali, in questo senso le cinque tecniche di interrogatorio inflitte ai presunti membri dell'IRA dai funzionari inglesi hanno costituito una forma di tortura.

La distinzione operata dalla Corte europea e dai singoli giudici nel 1978 farà da linea guida nell'interpretazione dei casi successivi ai fini del riconoscimento della violazione del divieto posto nell'art. 3 della Convenzione.

La sentenza Tyrer c. Regno Unito, 1978

Nello stesso anno la Corte si trova a dover decidere su un ulteriore episodio di presunta violazione dell'art. 3 della Convenzione, nella sentenza Tyrer c. Regno Unito (16).

Sebbene il contesto del caso di specie sia molto diverso, le conclusioni cui arriveranno i Giudici di Strasburgo costituiranno insieme alla statuizione sul caso Irlanda c. Regno Unito, i fondamenti per la definizione della soglia minima di gravità e la connessa distinzione tra le categorie all'interno dell'art. 3.

A differenza del caso precedente, questa sentenza della Corte europea non concerne un'ipotesi inter-statale, bensì quella di un cittadino dell'Isola di Man, il quale cita in giudizio il Governo del Regno Unito per la violazione dell'art. 3 della Convenzione. Il fatto storico che dette origine alla sentenza fu l'inflizione di una punizione corporale, nella fattispecie tre colpi di verga, ad un ragazzo di quindici anni, quale sanzione per atti di teppismo a scuola. Il giovane sig. Tyrer decise in seguito di adire la Commissione, affinché giudicasse se vi fosse stata una violazione dell'art. 3 Cedu; l'organo ritenne che il caso fosse fondato e rimise la decisione alla Corte, allegando la propria opinione per cui la pena essendo degradante, costituisce violazione della Convenzione. La Corte, nel decidere sul caso, ancora una volta dichiara che non siamo in presenza di un atto di tortura, né di pena inumana, tuttavia rileva che la punizione inflitta al minore, se non può essere qualificata come trattamento disumano o tortura, costituisce una pena degradante inflitta in violazione dell'art. 3 della Convenzione.

Nella sentenza Tyrer c. Regno Unito, si riprende il percorso argomentativo delineato in precedenza nel leading case del 1978, la Corte afferma che non è ammissibile una deroga alla norma neanche quando la punizione inflitta poggia su radici giuridiche molto profonde che costituiscono una tradizione normativa che individua nelle punizioni corporali un efficace strumento di prevenzione del crimine, richiamando il carattere inderogabile della norma. I giudici operano un'analisi sistematica del fatto storico al fine di tentare una classificazione della punizione corporale subita dal ricorrente, all'interno delle "tipologie" previste dall'art. 3.

I giudici utilizzano come linea guida per la definizione del concetto di tortura, trattamento o pena disumana o degradante, le argomentazioni riportate nella sentenza Ireland c. Regno Unito, di cui abbiamo già parlato. Alla luce di tali definizioni, la Corte ritiene che la punizione inflitta al sig. Tyrer non abbia i connotati della gravità richiesti per la tortura e che le sofferenze patite dal ricorrente non siano state tali da integrare un trattamento disumano; la punizione è qualificata come degradante. E' interessante notare che anche in questo caso i giudici non si esimono dall'ammettere che la sola sofferenza insita naturalmente nella punizione, non sia sufficiente a integrare una violazione dell'art. 3, ma sia necessario un quid in più. Nell'argomentazione dell'organo giudicante si fa riferimento ad una interpretazione letterale della norma della Convenzione, sostenendo che gli aggettivi "inumano" e "degradante", espressamente previsti dalla norma della Convenzione, richiedano di operare una distinzione tra la punizione in generale e la punizione che per via di ulteriori fattori contrasta con l'art. 3.

Un ulteriore passaggio nella definizione del concetto di tortura è rappresentato dall'entrata in vigore della Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti disumani o degradanti. Il testo si apre con una definizione di tortura ben più corposa rispetto alla risoluzione del '75, da cui prende le mosse, anche alla luce della giurisprudenza immediatamente precedente di cui abbiamo citato i riferimenti principali. La norma per definire un atto come tortura, connette il maltrattamento al perseguimento di un elenco di finalità ben precise:

  • ottenere informazioni o confessioni
  • punire l'individuo o terzi soggetti per atti compiuti (o sospettati di essere stati compiuti) dal primo o dai secondi
  • intimidire o esercitare pressioni sul soggetto o sui terzi
  • istigare terrore o infliggere dolore in ragione di una qualsiasi forma di discriminazione

Al profilo oggettivo, la norma ne fa seguire uno soggettivo, infatti sono punite le condotte sopra schematizzate, solo quando a compierle è un pubblico ufficiale, ovvero un soggetto che agisce a titolo ufficiale o che è stato istigato o ha ottenuto il consenso dal pubblico ufficiale stesso.

L'articolo si conclude con una clausola che fa salve le sofferenze e i patimenti inflitti da o in ragione di una sanzione legittima. In questo modo si introduce una deroga al divieto di cui all'art. 3, relativizzando la sua portata, infatti ciò che è considerato un livello accettabile di sofferenza in ragione della detenzione, è concetto mutevole, che segue uno sviluppo contestuale a quello della società. In una realtà sempre più multietnica, anche le carceri riflettono la varietà di origini e culture della società odierna, e non è forse una sofferenza ingiustificata impedire ad un musulmano di seguire la propria dieta? Lo stesso concetto di tutela verso il sovraffollamento è stata una conquista recente tra i diritti dei detenuti, solo nell'ultimo decennio esso ha avuto risonanza nel panorama giurisprudenziale internazionale.

Alcuni esempi riguardanti casi di tortura

Alla luce dei sempre più numerosi strumenti pattizi sul divieto di tortura e dell'attività giurisprudenziale della Corte, a partire dagli anni Novanta si sviluppa un orientamento volto a valorizzare l'interpretazione del concetto di tortura in modo da garantire un assoluto rispetto dell'integrità fisica dell'individuo, trovando le basi nella sentenza Irlanda c. Regno Unito, laddove dice che solo un trattamento che causa sofferenza inumana e crudele può essere ricondotto al termine tortura (17).

Nel caso Corsacov c. Moldavia (18), la Corte ha dichiarato che costituisce tortura la pratica con cui le guardie estorcono informazioni o confessioni dai detenuti colpendo ripetutamente la pianta del piede con un manganello, pratica detta Falaka.

Nella sentenza Tigran Ayrapetyan c. Russia (19), il ricorrente ha denunciato di aver subito maltrattamenti contrari all'art. 3 perché durante l'interrogatorio le guardie lo hanno picchiato e costretto a tenere una posizione semi-accovacciata mentre teneva una piastra metallica tra le mani; l'ufficiale lo aveva avvertito che, se non fosse riuscito a mantenere la posizione, avrebbe ricevuto un calcio nel petto. La Corte ha osservato che, al momento dell'incidente il ricorrente aveva appena compiuto diciotto anni e che il maltrattamento inflitto aveva causato gravi sofferenze fisiche e mentali che hanno richiesto quasi tre settimane di ricovero in un ospedale. La Corte nella decisione ha tenuto conto dei criteri di severità e dello scopo del maltrattamento, ed ha statuito che l'accumulo di atti di violenza fisica e mentale inflitta al ricorrente costituissero un atto di tortura, in violazione dell'art. 3 della Convenzione.

In generale, la Corte ha considerato tortura anche la condotta di un agente di polizia che ha provocato lesioni della salute fisica della vittima tali da renderla invalida a vita (20). In un altro caso la Corte si è pronunciata positivamente sull'esistenza di una pratica di tortura nell'ipotesi in cui il ricorrente era stato sottoposto a elettroshock (21) o ancora, pur di estorcere informazioni gli erano state asportate le unghie delle mani e dei piedi (22).

L'integrità dell'individuo, però, non si identifica solo con il profilo fisico, ma anche con quello psicologico, infatti la Corte orienta l'interpretazione dell'art. 3 in modo da ricomprendere tra le condotte vietate, tutte quelle pratiche che hanno come effetto quello di suscitare sentimenti di paura angoscia e inferiorità, al fine di umiliare la vittima e spezzarne la resistenza.

Nella sentenza Tomasi c. Francia (23), del 1992, il ricorrente era stato sottoposto a fermo perché sospettato di essere legato ad una cellula terrorista, durante l'interrogatorio egli ha affermato di essere stato minacciato con una pistola, picchiato, spogliato nudo di fronte ad una finestra, privato di acqua, cibo, sonno e costretto a stare in piedi per ore. I giudici nel caso di specie si dichiarano a favore dell'esistenza di una violazione dell'art. 3 della Cedu, in ragione del fatto che una persona soggetta a fermo di polizia, o comunque detenuta, è vulnerabile e in balia della volontà degli agenti di custodia, ancor più se i tempi scelti per gli interrogatori sono a notte fonda, e i referti medici sono in grado di provare che il ricorrente abbia subito un trattamento volto a porlo in uno stato di inferiorità; tali sentimenti integrano il concetto di tortura, anche se non hanno provocato lesioni personali a lungo termine, ma leso gravemente la psiche della vittima. In questo modo i giudici della Corte hanno voluto ribadire che in primis l'art. 3 tutela l'integrità della persona privata della libertà, e lo fa a prescindere che questa sia stata lesa nel corpo o nella mente, segnando una rottura con la precedente giurisprudenza resa nel caso del 1978, Irlanda c. Regno Unito.

Nella sentenza Aksoy c. Turchia (24), di pochi anni dopo, i giudici sono stati chiamati a pronunciarsi su un caso di maltrattamenti subiti dalla ricorrente posto in custodia, durante un interrogatorio volto ad ottenere una confessione. La Corte ha ritenuto che infliggere ad un individuo una pratica come l'impiccagione palestinese, consistente nel denudare e tenere sospeso al soffitto la vittima per le braccia, precedentemente bloccate dietro la schiena, consistesse in un atto di tortura, differente dal trattamento inumano, in ragione della gravità, crudeltà e intensità della sofferenza. I giudici hanno concordato sul fatto che la pratica di maltrattamento non potesse non essere premeditata e inflitta deliberatamente, dal momento che richiede una lunga preparazione, e che la valutazione doveva prescindere dalle lesioni personali a lungo termine che la vittima avrebbe potuto riportare o meno.

L'evoluzione argomentativa sul concetto in analisi ha portato i giudici ad affermare che per ricondurre una condotta alla tortura è necessario che vi siano circostanze tali da qualificare un trattamento inumano, che in questo contesto assume il ruolo di definizione primaria, da cui derivare i confini degli altri maltrattamenti vietati. In altre parole si richiede che dalla condotta derivino sofferenze fisiche particolarmente crudeli o che essa sia finalizzata ad ottenere informazioni dalla vittima o ancora che sia perpetrata attraverso atti intollerabili per il sentimento comune, quali ad esempio la violenza inflitta a un soggetto privato della libertà dagli stessi agenti che lo avevano in custodia. I giudici attraverso questa evoluzione interpretativa del concetto di tortura sono arrivati ad adottare il metodo della contestualizzazione dei comportamenti, per distingue il trattamento disumano dalla tortura.

Per comprendere meglio quest'ultimo concetto vorrei analizzare brevemente una sentenza del 25 settembre 1997, il caso Aydin c. Turchia (25), in cui la Corte introduce il concetto di tortura nel senso che abbiamo detto sopra, ovvero come trattamento inumano particolarmente qualificato dalle circostanza di fatto.

La sentenza Aydin c. Turchia

A causa del conflitto che imperversava nel sud-est della Turchia tra le forze di sicurezza e i membri del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), la quasi totalità delle provincie del paese era stata posto sotto lo stato d'emergenza.

Durante questi scontri un gruppo di agenti ha fatto irruzione nella casa della ricorrente, allora diciassettenne, e con violenza e minaccia ha tentato di ottenere informazioni su presunti rapporti della famiglia con membri del movimento ribelle. Non avendo ottenuto ciò che volevano, gli agenti hanno prelevato l'intera famiglia e portati nella gendarmeria a Derik.

Una volta giunti li, la ricorrente è stata separata dagli altri parenti e tenuta in isolamento per tre giorni, bendata, picchiata, costretta a spogliarsi e violentata.

La Corte, dopo aver accettato come corretta la ricostruzione degli eventi svolta dalla Commissione, ha anche accolto l'impostazione che quest'ultima dava del concetto di tortura secondo cui lo stupro, atto di per sé particolarmente crudele, che colpisce l'integrità fisica e morale della vittima, risulta in quelle circostanze aggravato perché commesso da persona dotata di autorità a danno di una maggiormente vulnerabile (26) (ricordo che la vittima oltre ad essere in stato di detenzione era anche minorenne).

I giudici di Strasburgo ribadiscono il carattere assoluto dell'art. 3 della convenzione, il quale non ammette in alcun caso che si utilizzi tortura o trattamenti inumani o degradanti nei confronti di altre persone, nemmeno quando questi potrebbero essere coinvolti in attività di terrorismo. Dopo di ché richiamano le parole della sentenza del 1978, con cui si distingueva il trattamento disumano dalla tortura per il carattere particolarmente afflittivo di quest'ultima condotta caratterizzata da particolare sofferenza e gravità, al punto da necessitare un particolare stigma.

L'analisi prosegue con la valutazione del caso concreto, individuando nello stupro di una ragazza detenuta un trattamento disumano qualificato dalla particolare violenza e gravità, di seguito le parole della Corte:

While being held in detention the applicant was raped by a person whose identity has still to be determined. Rape of a detainee by an official of the State must be considered to be an especially grave and abhorrent form of ill-treatment given the ease with which the offender can exploit the vulnerability and weakened resistance of his victim. Furthermore, rape leaves deep psychological scars on the victim which do not respond to the passage of time as quickly as other forms of physical and mental violence. The applicant also experienced the acute physical pain of forced penetration, which must have left her feeling debased and violated both physically and emotionally (27).

Si riconosce dunque nella violenza sessuale una pratica di particolare crudeltà ed efferatezza poiché viola contemporaneamente il corpo e la mente della vittima, lasciando un senso di vulnerabilità e svilimento paragonabile per gravità solo al dolore fisico dell'aggressione.

Oltre a questa esperienza già di per sé gravissima, la vittima è stata sottoposta anche a ulteriori trattamenti particolarmente terrificanti e umilianti, quali ad esempio l'esser costretta a sfilare nuda; per questi motivi i giudici accolgono l'impostazione della Commissione e riconoscono l'esistenza di un cumulo di atti di violenza fisica e mentale e in particolare la crudeltà dello stupro cui è stata sottoposta la vittima, qualificando queste condotte come tortura (28).

In questa sentenza è interessante notare anche il passaggio in cui i giudici riconoscono una rilevanza al principio della contestualizzazione dei comportamenti, per cui anche lo scopo dei militari che hanno tenuto il comportamento e il fatto che fossero rappresentanti dello Stato ha influito sulla valutazione della configurabilità dell'atto come tortura:

The applicant and her family must have been taken from their village and brought to Derik gendarmerie headquarters for a purpose, which can only be explained on account of the security situation in the region (see paragraph 14 above) and the need of the security forces to elicit information. The suffering inflicted on the applicant during the period of her detention must also be seen as calculated to serve the same or related purposes (29).

Quest'ultimo rilievo è decisivo per individuare il criterio giurisprudenziale adottato dalla Corte per definite una condotta come tortura, in proposito rileva non solo il grado di sofferenza inflitta, ma anche la natura dell'atto e lo scopo. Il grado di crudeltà della condotta può essere da solo sufficiente a integrare la fattispecie di tortura, ma gli altri elementi sono comunque rilevanti come circostanze aggravanti, specie in quei casi dove la condotta è al limite tra le due categorie del trattamento inumano e della tortura. In altre parole il grado di sofferenza inflitto è il parametro che determina il limite esterno dell'atto di tortura, mentre natura dell'atto e scopo costituiscono elementi del limite interno.

Per concludere, è interessante notare che i giudici hanno riconosciuto nel soggetto detenuto una figura di particolare vulnerabilità che deve essere protetta dall'eventuale abuso dell'ufficiale, il quale molto facilmente può compiere atti violenti senza che nessuno sia testimone o possa ostacolarlo.

Alle soglie degli anni Duemila, l'attività giurisprudenziale della Corte imprime al dispositivo dell'art. 3 della Convenzione un nuovo percorso argomentativo; i giudici infatti, applicando una interpretazione evolutiva al concetto di tortura cominciano a sostenere che alcuni atti che in passato erano considerati come trattamenti inumani o degradanti, possono essere qualificati diversamente, potendo integrare anche una tortura. La sentenza con cui i giudici hanno inteso rivedere completamente la distinzione interna delle tre condotte vietate dalla Convenzione è la sentenza Selmouni c. Francia (30), del 1999, in cui il ricorrente, sottoposto a custodia cautelare, era stato interrogato per quattro giorni dagli agenti di polizia nell'ambito di un caso di traffico di droga.

La sentenza Selmouni c. Francia

Il ricorrente, Ahmed Selmouni, un olandese di origine marocchina, nel novembre 1991 fu tenuto in custodia a Bobigny, in Francia dove fu posto a fermo e interrogato dagli agenti di polizia giudiziaria di Saint-Denis, nel corso di un indagine per traffico di stupefacenti. Mentre era trattenuto in custodia dalla polizia fu esaminato per ben sei volte dai medici che rilevarono segni di percosse sul tutto il corpo. Il ricorrente ha denunciato i propri carcerieri dichiarando di aver subito gravi maltrattamenti, quali ad esempio percosse con una mazza da baseball, lesioni personali, minacce, riduzione della vista da un occhio, molestie sessuali e stupro. Il caso è stato presentato alla Corte prima dell'entrata in vigore del Protocollo n.11 che ne ha cambiato la struttura e il funzionamento (31), perciò i fatti sono stati precedentemente ricostruiti e vagliati dalla Commissione, la quale dopo aver dichiarato ricevibile il ricorso, all'unanimità ha riscontrato una violazione degli artt. 3 e 6 §1, ovvero divieto di tortura e trattamento disumano o degradante e diritto a un'equa udienza entro un termine ragionevole. La Corte, nel valutare la conformità dei fatti del caso con le condotte vietate, dichiara che ai sensi della Convenzione, il termine tortura deve essere interpretato quale atto che comporta notevole pena o sofferenze, siano esse fisiche oppure mentali, intenzionalmente inflitte ad una persona e che gli scopi per cui si compie tali atti illeciti siano quelli indicati dall'art. 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.

I giudici, richiamando il leading case Irlanda c. Regno Unito, ribadiscono che l'intensità minima richiesta per l'applicazione dell'art. 3 è relativa: dipende, infatti, da alcuni parametri che la Corte individua nelle circostanze del caso, nella durata della tortura, nei suoi effetti fisici e mentali, ed, in alcuni casi, sesso, età e stato di salute della vittima. Per "intenzionalmente", invece, la Corte intende che le sofferenze devono essere inflitte deliberatamente per uno scopo, come ad esempio l'ottenimento di una prova, una punizione o intimidazione o al fine di ottenere la confessione. Nel caso di specie, è incontestato tra le parti, e documentato dai medici, che il ricorrente abbia subito delle violenze tali da non consentirgli di lavorare per un periodo di almeno otto giorni e che è stato indotto alla confessione da parte degli agenti di polizia attraverso tecniche volte a umiliarlo e spezzare la sua resistenza psichica e fisica. Con questa sentenza la Corte europea dei diritti dell'uomo ha sistematizzato i principi relativi alla portata del divieto di tortura ed alla qualificazione dei trattamenti inumani e degradanti, così in modo da tracciare "un'audace linea di demarcazione" tra il rispetto dell'art. 3 e le condizioni delle persone private della libertà (32).

Trattamento o punizione disumano

Un trattamento o pena per essere disumano deve infliggere gravi sofferenze fisiche o psicologiche con l'aggiunta dell'elemento della premeditazione. Ancora una volta sarà utile fare riferimento alla sentenza Irlanda c. Regno Unito, leading case in materia, dove la Corte nel riconoscere le cinque tecniche di interrogatorio come trattamento disumano, ha affermato che il criterio per distinguere la tortura dal trattamento inumano e degradante sta nella differenza di intensità della sofferenza inflitta, richiamando così l'idea di utilizzare il concetto di gravità come limite interno. Dalla lettura del §167 della sentenza, ne consegue che un trattamento disumano deve consistere, nel minimo, in una forte sofferenza fisica o psicologica, se non una vera e propria violenza sul corpo della persona, capace di suscitare nelle vittime sentimenti di paura e angoscia. La nozione di trattamento disumano ora riportata trova una eco nelle successive sentenze della Corte, in cui si individua una definizione attraverso una formula costante: "The Court has considered treatment to be 'inhuman' because, inter alia, it was premeditated, was applied for hours at a stretch and caused either actual bodily injury or intense physical or mental suffering" (33).

Il giudice, per individuare un maltrattamento contrario al divieto di cui all'art. 3 della Convenzione dovrà tenere conto di un certo numero di fattori, quali ad esempio, tutte le circostanza del caso, come la durata del trattamento e gli effetti fisici e mentali, in alcuni casi dovrà anche considerare il sesso, lo stato di salute e l'età della vittima (34). Nella sentenza Price c. Regno Unito (35), i giudici hanno affrontato il caso di una persona disabile condannata a sette giorni di detenzione per oltraggio alla Corte. La richiedente ha presentato ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo per lamentare una detenzione inappropriata al proprio stato di salute, infatti non le era stato concesso di caricare la batteria della propria sedia a rotelle, non ha potuto contare sull'assistenza di personale medico femminile per espletare le sue necessità fisiche e anche quando era stata assistita, l'infermiera l'ha lasciata sola sul water per oltre tre ore e l'ha spogliata di fronte a personale di sesso maschile, lasciandola esposta ed umiliata. Per questi motivi la richiedente ha dichiarato che per tutto il periodo della sua detenzione è stata sottoposta a trattamento inumano e degradante che le ha provocato cicatrici fisiche e psicologiche. La Corte nel caso di specie dichiara che tenere in stato di detenzione un soggetto affetto da gravi disabilità, senza disporre di una struttura adeguata integra il concetto di pena disumana e degradante dunque contraria all'art. 3 della Convenzione.

Il trattamento a cui la ricorrente è stata sottoposta ha violato non solo le disposizioni specifiche, ma l'intero spirito delle Regole minime per il trattamento dei detenuti, adottate il 30 agosto 1955 dal Primo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei trasgressori (36).

Nella sentenza Taştan c. Turchia (37) la Corte è stata investita di un caso riguardante la chiamata al servizio di leva militare obbligatoria di un uomo di settanta anni, il quale per questi motivi si è trovato a subire umiliazioni e un peggioramento della salute altrimenti buona. Il caso differisce dalle esemplificazioni fin qui richiamate, perché non concerne un'ipotesi di maltrattamenti in condizioni di detenzione, anche se il ricorrente si trovava ugualmente sotto il controllo di agenti dello Stato, i quali sono chiamati a rispondere dei maltrattamenti delle persone comunque sottoposte alla loro autorità. Nel caso di specie la Corte ha dichiarato che costringere una uomo anziano a sottoporsi ad un addestramento per reclute di venti anni, senza compiere alcun tentativo di mitigare l'adempimento, ad esempio destinando il ricorrente a una posizione più protetta, ha costituito un trattamento disumano e degradante. La Corte dunque ha tenuto conto dell'età del ricorrente per valutare la gravità dei maltrattamenti subiti.

Il giudice di Strasburgo nel decidere su casi di maltrattamenti ha verifica giudicato rilevante anche l'esistenza della volontà di umiliare e avvilire la vittima (38). L'analisi dei fatti porta i giudici ad affermare che una punizione perché sia umiliante, non ha necessità della pubblicità, è sufficiente che venga percepita come tale dalla vittima. Nel caso precedente del sig. Taştan, ad esempio, non vi erano ragioni di necessità pubblica per richiamare alle armi un anziano contadino, nel farlo è stato perseguito specificamente lo scopo di punirlo attraverso un corso di addestramento umiliante e inutile; ugualmente nel caso Tyrer la punizione corporale era funzionale ad umiliare la vittima al fine di punirla per la condotta molesta.

Nel decidere se una condotta fosse trattamento disumano la Corte, in alcune ipotesi, ha stabilito che il proposito di umiliare la vittima qualora manchi, non esclude una violazione dell'art. 3. Nel caso Price c. Regno Unito, i giudici hanno riconosciuto che non era intenzione dell'autorità penitenziaria umiliare la richiedente, ma che ciò fosse dipeso solo da carenze strutturali. Così anche nella sentenza Kalashnikov (39), i giudici hanno rilevato che il personale penitenziario si fosse concretamente attivato per alleviare le sofferenze che i detenuti pativano a causa del sovraffollamento e delle condizioni igieniche scarse, tuttavia, le strutture fatiscenti e inadeguate comportavano un trattamento umiliante e lesivo per la salute.

In altre sentenze, specie contro Russia e Turchia, la Corte ha utilizzato la copertura dell'art. 3 della Convenzione per punire gli Stati in casi di sparizioni di persone soggette a limitazioni della libertà. I giudici hanno dichiarato che la sparizione, costituisce un trattamento inumano per i familiari della persona scomparsa, proprio per il fatto di non sapere cosa è accaduto ai propri cari a causa della reticenza delle autorità che avevano in custodia la vittima, per queste ragioni la Corte considera violato l'art. 3 (40). Questo orientamento della Corte trova origine alle fine degli anni Novanta, nel caso Kurt c. Turchia (41), in cui la ricorrente, madre della persona in custodia, lamentava la scomparsa del figlio in seguito al fermo da parte delle autorità turche che indagavano sulla presenza di esponenti del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). La ricorrente ha dichiarato che le forze armate nell'arco di due giorni avevano bruciato e perquisito tutto il villaggio in cui abitava e che avevano preso in custodia il figlio per accertamenti; la donna ha affermato di aver visto il figlio il giorno dopo alla cattura, quando si era recata al comando per portargli generi di conforto, ma che dopo quell'occasione non ha più avuto notizie. Alle sue richieste di informazioni sulla salute del proprio caro i gendarmi avevano risposto che egli era stato rapito dal partito del PKK e che non era in loro custodia. La madre, allora, ha fatto ricorso a tutti gli organi preposti, nel tentativo di scoprire la sorte del proprio figlio, ma questi le hanno risposto nello stesso modo, e cioè che il sig. Kurt era stato rapito. Quando la ricorrente ha adito la Corte, lamentava di aver subito, tra l'altro, una violazione dell'art. 3 nella misura in cui le era stato inflitto un patimento grave, deliberato e prolungato, a causa della reticenza dei gendarmi di farle avere notizie del figlio scomparso sotto la loro custodia.

La Corte in proposito ha statuito che il maltrattamento per rientrare nel campo d'applicazione dell'art. 3 deve raggiungere un livello minimo di gravità, a tale proposito richiama la circostanza in cui la ricorrente si era rivolta al pubblico ministero nei giorni successivi alla scomparsa di suo figlio nella convinzione che fosse stato preso in custodia dagli agenti dello Stato. A riprova della veridicità dell'esposizione dei fatti, la Corte ricorda che la ricorrente aveva visto il figlio detenuto nel villaggio con i propri occhi e che la mancata comparizione di questi dopo pochi giorni le ha fatto nascere la paura per la sua incolumità, come dimostrano le petizioni del 30 novembre e del 15 dicembre 1993. Tuttavia, il pubblico ministero non si è mostrato incline a credere alle paure che la donna denunciava, preferendo invece dare credibilità alla versione dei gendarmi che sostenevano che il sig. Kurt fosse stato rapito dal PKK. A causa di questi fatti, la madre è stata lasciata in condizioni di forte angoscia a causa di una completa assenza di informazioni ufficiali circa il destino toccato al figlio dopo che i gendarmi lo avevano preso in custodia. La Corte afferma che l'angoscia patita nel corso di un periodo di tempo molto lungo come quello trascorso nel caso di specie, ha reso le sofferenze della donna ancora più penose, per questi motivi i giudici decidono di accordarle la tutela dell'art. 3 in ragione del trattamento riservatole dai pubblici ufficiali circa la reale condizione del figlio da loro preso in custodia.

In questo caso la Corte ha individuato per la prima volta il superamento del livello minimo di gravità a causa delle sofferenze morali subite dai parenti delle vittime di sparizione o morte in circostanze misteriose, in cui la reticenza dei pubblici ufficiali responsabili della custodia dei propri cari, provoca angoscia e dolore gravi e prolungati.

Un'ulteriore tema su cui si è attestata la giurisprudenza di Strasburgo riguarda le sentenze concernenti il carcere a vita; anche in questo caso, l'interpretazione data all'art. 3 Cedu non sempre si risolve in un contrasto tra questo istituto e la Convenzione, la sentenza di ergastolo non necessariamente costituisce violazione dell'articolo in analisi (42).

La ricostruzione della giurisprudenza in tema di ergastolo prende le mosse dal caso Kafkaris c. Cipro (43), dove oggetto di discussione per i giudici era la compatibilità della sentenza di carcere a vita con il divieto di pena disumana o degradante di cui all'art. 3 della Convenzione. La Corte in apertura della propria argomentazione, ha ribadito il principio per cui è ammissibile una condanna perpetua di un soggetto adulto (44), purché essa non sia irriducibile; secondo i giudici di Strasburgo è tale quella condanna per cui l'ordinamento interno non preveda meccanismi di revisione. E' compatibile con l'art. 3 della Convenzione anche un meccanismo di rivalutazione della pena che non preveda un minimo di anni da scontare, in altre parole la Corte sino a questo momento si accontentava dell'esistenza sulla carta di una possibilità per il detenuto di riacquistare la libertà, anche se labile (45). Queste le parole dei giudici nella sentenza in analisi: It follows that a life sentence does not become "irreducible" by the mere fact that in practice it may be served in full. It is enough for the purposes of Article 3 that a life sentence is de jure and de facto reducible (46).

La Corte nella sentenza in analisi, ha stabilito che la pena dell'ergastolo non costituisce, di per sé, un trattamento inumano o degradante, tuttavia, ha fissato alcuni paletti.

  1. La sanzione non deve avere un carattere manifestamente sproporzionato rispetto alla gravità dei fatti compiuti;
  2. La protrazione dello stato di detenzione deve essere giustificata in relazione ai fini legittimi della pena stessa;
  3. La pena deve essere de facto e de jure riducibile.

La previsione della Corte però era soggetta a due limiti, da una parte, era necessario provare in concreto che il protrarsi della detenzione non fosse più giustificato, dovendo quindi l'ergastolano aver già scontato una porzione significativa di pena prima di potersi considerare vittima ai sensi dell'art. 34, anche in assenza di un effettivo meccanismo di riesame; dall'altra parte, la Corte non ha mai concretamente individuato gli scopi legittimi della pena né il peso da attribuire a ciascuno di essi. In questo modo, la protrazione dell'ergastolo, inflitto per un reato di estrema gravità, poteva giustificarsi sul solo presupposto del suo carattere retributivo (47).

Di conseguenza in questa prima fase la Corte non sanciva il diritto di un detenuto ad ottenere una revisione della propria condanna, ma solo il diritto di potervi accedere in futuro.

Recentemente la Corte è tornata sull'argomento con la sentenza Vinter c. Regno Unito (48), la quale rappresenta un'ulteriore passo in avanti nella discussione sulla compatibilità dell'ergastolo con l'art. 3 Cedu (49). La sentenza è interessante, tra l'altro perché per la prima volta la Corte, pur riconoscendo un ruolo importante alla funzione rieducativa della pena, le conferisce un ruolo che funge da limite alle altre funzioni, in particolare a quella retributiva. L'aspetto principale della sentenza Vinter consiste nel riconoscimento del valore centrale della dignità umana all'interno della funzione retributiva della pena. La valorizzazione di tale principio ha comportato una doppia conseguenza, da una parte ha permesso di riconoscere il diritto a sperare in una futura liberazione fin dal momento dell'inflizione della sanzione penale: "in cases where the sentence, on imposition, is irreducible under domestic law, it would be capricious to expect the prisoner to work towards his own rehabilitation without knowing whether, at an unspecified, future date, a mechanism might be introduced which would allow him, on the basis of that rehabilitation, to be considered for release" (50). Dall'altra, trascorso un certo lasso di tempo, il carattere retributivo della pena o le esigenze della prevenzione generale non sono più sufficienti, di per sé, per giustificare il permanere della detenzione. Nel caso di specie tuttavia, la Corte ha considerato che l'assenza di un percorso di risocializzazione da parte del detenuto associato a un elevato tasso di pericolosità possono giustificare un rifiuto della modificazione della pena e dunque una conferma della misura detentiva cosiddetta a vita.

Trattamento o punizione degradante

Nei paragrafi precedenti abbiamo già affrontato il tema dei trattamenti o pene degradanti, ma sempre in relazione alle altre due condotte previste dall'art. 3 della Convenzione, la tortura e i trattamenti o pene disumani. In questo paragrafo vorrei approfondire il concetto di trattamento degradante e distinguerlo da quello di pena degradante; per quanto concerne i primi, una dottrina ormai consolidata (51) richiama la definizione contenuta nel parere espresso dalla Commissione nel 1973 nel cosiddetto caso degli Asiatici dell'Africa Orientale (52). Il ricorso era stato presentato da cittadini residenti in Uganda e Kenya, in possesso di passaporto britannico, originari di varie zone dell'Asia, i quali volendo trasferirsi nel Regno Unito, si videro rigettare la domanda sulla base di alcuni articoli del Commonwealth Immigrants Act del 1968. Il ricorso si basa sulla presunta violazione degli articoli 8, 14 e 3 della Cedu (53) per quanto concerne la norma di nostro interesse, la Commissione sostiene nel proprio parere che "il rigetto della richiesta di trasferimento avrebbe costituito 'trattamento degradante' perché avrebbe di fatto trasformato i ricorrenti in apolidi, con intento discriminatorio rispetto ai cittadini dei Paesi 'bianchi' del Commonwealth". La Commissione prosegue dando una definizione di trattamento degradante che ancora oggi è considerata valida e attuale:

L'espressione 'trattamenti degradanti' mette in evidenza che tale disposizione tende in generale ad impedire lesioni particolarmente gravi della dignità umana. Di conseguenza, una misura che scredita una persona nel suo ceto sociale, nella sua situazione o nella sua reputazione, può essere considerata un 'trattamento degradante' [...] solo se raggiunge una certa soglia di gravità (54).

In questo caso la soglia minima di gravità era stata individuata nella discriminazione fondata sulla razza, in ragione della quale, si applicava a un gruppo di persone, un regime particolarmente restrittivo che creava una disparità di trattamento inesistente se tale distinzione si fosse fondata su altri elementi. Il parere sommariamente analizzato, pur essendo emblematico per individuare una definizione di trattamento degradante, rimane un caso raro della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, essendo più frequente l'analisi di casi aventi ad oggetto pene degradanti. Tuttavia è possibile citare una recente pronuncia con la quale la Corte torna sull'argomento, il giudizio Oršuš e altri c. Croazia (55). La sentenza concerne un argomento molto delicato e di fondamentale importanza ai fini di una maggiore integrazione dei popoli degli Stati firmatari, la materia di discussione è la discriminazione razziale (56).

Nel 2010, la Grande Camera è stata chiamata a pronunciarsi su un caso già giudicato dalla prima sezione della Corte, la quale aveva respinto il ricorso. I ricorrenti, quattordici studenti delle scuole primarie di diverse cittadine croate, denunciavano una violazione del loro diritto a non subire discriminazioni in ragione dell'etnia di appartenenza. Questi studenti erano stati assegnati a varie classi ad hoc, tutte composte da altri ragazzi di origine rom come loro, lo Stato croato ha giustificato una simile disposizione in ragione della scarsa conoscenza della lingua nazionale dei ricorrenti. Come ricordato dai giudici, per discriminazione si intende "un qualsiasi trattamento differenziato, salvo giustificazioni obiettive e ragionevoli, riservato a persone che si trovano in una situazione similare". Ciò non esclude la possibilità, per gli Stati parte della Convenzione, di prevedere, mediante apposita legislazione, un trattamento particolare nei confronti di determinati soggetti, al fine di rimuovere le condizioni sfavorevoli e di "ineguaglianza fattuale" che li pongono in una situazione di svantaggio rispetto alla maggioranza della popolazione, consentendo così il raggiungimento di una parità sostanziale, le cosiddette affirmative actions. In questi casi, pertanto, la mancata previsione di un trattamento differenziato per determinati gruppi di persone ha rappresentato una lesione del dettame di cui all'art. 14 della Convenzione Europea. Dopo aver tenuto conto della particolare situazione di svantaggio della minoranza rom, riscontrabile nella quasi totalità degli Stati membri dell'Unione europea e ampiamente documentata dai rapporti della Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza, la Corte di Strasburgo ha accolto il ricorso, condannando la Croazia per violazione degli artt. 14 e 3 Cedu, ritenendo che la discriminazione fosse ingiustificata e che ciò avesse comportato un trattamento degradante per i ricorrenti. Allo stesso tempo i giudici hanno invitato tutti gli Stati parte della Convenzione ad intervenire con un maggiore impegno nella garanzia dell'effettività dei diritti della minoranza rom, salvaguardando la loro identità e preservandone la diversità culturale.

In materia di pena degradante abbiamo già analizzato in precedenza la sentenza che costituisce il leading case sul punto in questione, ovvero il caso Tyrer c. Regno Unito; senza ripetermi nell'analisi fattuale del caso, per la quale rimando al paragrafo dedicato, vorrei ripercorrere i passaggi della Corte in cui si delinea il concetto d'interesse. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto necessario individuare un criterio di distinzione tra pena degradante e contenuto fisiologicamente afflittivo della pena, poiché come si legge nella sentenza "un individuo può essere umiliato per il solo fatto di essere stato condannato penalmente", ma "sarebbe assurdo sostenere che ogni pena giudiziaria [...] abbia carattere 'degradante' ai sensi dell'articolo 3" (57). Nella sentenza però si afferma anche che in certi casi a rendere degradante una pena è anche il fatto che esse venga percepita come tale dalla vittima, spetterà al giudice tenere di conto di questo ulteriore fattore. Per i giudici, l'elemento di discrimine è da individuare nel livello particolarmente alto di umiliazione e sconforto che accompagnano la pena, è necessario quindi fare una valutazione caso per caso, studiando le dinamiche reali della sanzione, la sua natura e la sua modalità di esecuzione. In altre parole, la Corte riconosce che nel potere dello Stato di infliggere una sanzione, specie se corporale, esiste una violenza che non si può scindere dall'atto istituzionale, il quale per la propria natura punitiva non può non tendere all'umiliazione e afflizione; sarà poi l'evoluzione della coscienza sociale a determinare il livello di soglia minima di tolleranza dell'afflittività della pena e per questo motivo il concetto di condotta vietata ai sensi dell'art. 3 è in continua evoluzione.

Nel caso Campbell e Consas c. Regno Unito (58) del 1982, la Corte torna sul tema di pena degradante per chiarire un dubbio di natura interpretativa, ovvero se un rischio di violazione dell'art. 3 sia sufficiente a condannare il futuro autore della condotta. I giudici richiamando la precedente statuizione del 1978 ricordano che la valutazione della violazione dell'art. 3 deve basarsi sull'indagine in concreto dell'umiliazione e prostrazione subite dalla vittima a seguito della condotta vietata e pertanto tali conseguenze negative devono essere provate. Non è concepibile una estensione della portata dell'art. 3 a copertura del "timore di subire una punizione", poiché questo oltre ad essere un fatto aleatorio è anche legato alla sensibilità della coscienza del singolo individuo e prendere a parametro un simile elemento non garantirebbe una pronuncia oggettiva.

In una sentenza successiva, del 1997, il caso Raninen c. Finlandia (59), il ricorrente, obiettore di coscienza esentato dal servizio militare per ragioni familiari, venne arrestato nella scuola di sostegno del figlio perché ritenuto disertore dopo la scadenza dell'esenzione. Il sig. Raninen ha dichiarato che l'essere portato via in manette davanti al gruppo di sostegno del figlio, aveva provocato nei suoi sentimenti un senso di umiliazione tale da violare il divieto di cui all'art. 3 della Cedu. I giudici nel caso di specie dopo aver ribadito una giurisprudenza precedente che sosteneva un uso proporzionato della forza su soggetti privati della libertà, secondo cui se non vi era il rischio di fuga o di violenza non si doveva ricorrere a misure coartive, nel caso di specie non ha individuato un trattamento degradante. La Corte infatti ha dichiarato che una breve esposizione in manette, operata da un ufficiale che stava eseguendo la misura così come il suo addestramento richiedeva e che lo stava facendo in ragione di una disposizione amministrativa, non viola l'art. 3 nemmeno nel caso in cui la vittima l'abbia percepita come tale.

2.3.2 Il divieto di deroghe o eccezioni

L'art. 3 della Convenzione, sin dalla sua entrata in vigore, ha accordato una protezione assoluta al diritto di non subire torture e trattamenti disumani e degradanti, non prevedendo alcuna deroga al divieto di cui è portatore. Il carattere assoluto della norma si ricava dalla Convenzione stessa, dove all'art. 15 si fa espresso divieto di deroga, persino in caso di guerra o di pericolo pubblico che interessi la nazione (60), anche la lettura dei lavori preparatori può essere utile in tal senso, infatti il delegato del Regno Unito in seno all'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa si esprimeva nel senso di vietare ogni forma di tortura da chiunque e per qualunque motivo fosse posta in essere (61), nel testo proposto, si legge che "[L'assemblea] ritiene che sarebbe preferibile per una società morire piuttosto che consentire a tale relitto della barbarie [la tortura] di continuare a vivere".

Il principio del divieto di eccezioni in merito al diritto a non essere sottoposto a tortura o trattamento disumano e degradante è stato ribadito anche dalla giurisprudenza della Corte, la quale attraverso la propria attività ne ha sviluppato la portata. A mio parere è possibile individuare tre diversi momenti in cui le argomentazioni della Corte a sostegno del principio di assolutezza, hanno subito uno sviluppo evolutivo, ampliando la portata del principio. La selezione delle sentenze di seguito analizzate non vuole esaurire la casistica sull'argomento in esame, ma solo delineare un orientamento argomentativo particolarmente ricorrente nelle decisioni della Corte in merito al principio di assolutezza dell'art. 3.

Momento genetico

Il primo gruppo di sentenze copre un arco temporale di circa un decennio, dal 1978 al 1989, e trova un valido esempio nei due leading cases Irlanda c. Regno Unito e Tyrer c. Regno Unito, analizzate in precedenza. In questa prima fase la Corte consolida il principio di divieto di eccezioni o deroghe richiamando la disciplina contenuta nella stessa Convenzione, statuendo che l'art. 3 garantisce una tutela assoluta che prevede un'applicazione indifferenziata indipendentemente dalla condotta della persona privata della libertà o da ragioni di sicurezza nazionale. Di seguito le parole di giudici nel caso Irlanda c. Regno Unito,

The Convention prohibits in absolute terms torture and inhuman or degrading treatment or punishment, irrespective of the victim's conduct. Unlike most of the substantive clauses of the Convention and of Protocols Nos. 1 and 4 (P1, P4), Article 3 (art. 3) makes no provision for exceptions and, under Article 15 para. 2 (art. 15-2), there can be no derogation therefrom even in the event of a public emergency threatening the life of the nation (62).

Le parole della Corte troveranno un consolidamento nelle successive sentenze, dove la formula ora riportata verrà richiamata dai giudici a dimostrazione del fatto che il principio di assolutezza è ormai sedimentato nella coscienza giuridica del giudice di Strasburgo (63).

La tutela dell'integrità della persona e il divieto di bilanciamento degli interessi: le sentenze Soering c. Regno Unito e Chahal c. Regno Unito

Il principio di assolutezza subisce uno sviluppo importante, a partire dal 1989, con la sentenza Soering c. Regno Unito (64), in cui i giudici si sono pronunciati sulla compatibilità dell'estradizione del ricorrente con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, nella specifica ipotesi in cui nel Paese di destinazione questi avrebbe scontato, con ogni probabilità, una condanna alla pena di morte. La Corte in questa occasione definisce per la prima volta il divieto di tortura di cui all'art. 3 come uno dei valori fondamentali di una società democratica, il quale, trova tutela in molti strumenti convenzionali, come ad esempio, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e la Convenzione americana sui diritti dell'uomo; per queste ragioni i giudici definiscono la tutela derivante dalla norma in analisi uno standard accettato a livello internazionale. Sulla base di questo importante riconoscimento, la Corte si pronuncia contro l'estradizione del ricorrente, argomentando che le responsabilità che gli Stati sono chiamati ad assolvere sulla base dell'art. 3 non si esauriscono nel rispetto del divieto sul suolo nazionale, bensì coprono anche quelle circostanza in cui si verificano conseguenze, ragionevolmente prevedibili, al di fuori della propria giurisdizione. Secondo i giudici, lo spirito della Convenzione verrebbe tradito se si relativizzasse il divieto di tortura e si consentisse ad uno Stato di estradare una persona in un Paese in cui esistano serie ragioni di credere che possa subire una delle condotte vietate. La Corte ha riconosciuto la necessità di una tutela anche indiretta del divieto di trattamenti contrari all'art. 3 Cedu nel caso di estradizione, espulsione o comunque allontanamento da uno Stato parte della Convenzione; si tratta di un'applicazione del principio di stampo internazionalistico di non refoulement (65) che, in questo contesto, mira a garantire effettività ai diritti individuali protetti dalla Convenzione (66).

A partire dalla sentenza Soering, i giudici hanno dotato il principio di assolutezza di una portata più ampia rispetto al passato, valorizzandone l'efficacia a dispetto della competenza territoriale dello Stato parte, infatti il giudice di Strasburgo da questo momento può valutare in via indiretta la legittimità convenzionale del trattamento sanzionatorio previsto nello Stato di destinazione, non parte della Convenzione. La Corte a partire da questa sentenza ha posto sugli Stati membri l'onere di effettuare una valutazione rigorosa delle conseguenze prevedibili derivanti dall'estradizione del ricorrente in un Paese terzo (67).

In proposito, merita un approfondimento il tema dell'estradizione verso Paesi con problemi di sovraffollamento carcerario: settore particolarmente interessante se messo a sistema con il divieto di deroga di cui gode l'art. 3 della Convenzione. Il tema in analisi tocca l'ipotesi in cui il soggetto sia un detenuto di uno Stato membro che debba essere estradato verso un Paese terzo, quindi al di fuori dell'ambito di applicazione della Cedu.

A partire dalla sentenza Soering c. Regno Unito, come abbiamo visto, la Corte ha dato una interpretazione estensiva dell'art. 3 della Convenzione, in base alla quale nessuno può essere espulso se, nel Paese d'arrivo, vi è il rischio di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti. Lo Stato che intende estradare un proprio detenuto dovrà sincerarsi che costui non rischi di subire un trattamento contrario all'art. 3, tuttavia il pericolo deve essere concreto e attuale, una mera possibilità, non comprovata nella sostanza, non esporrà il Paese membro a violazione della Convenzione qualora disponga l'estradizione verso uno Stato terzo. Il sistema sembrerebbe funzionare abbastanza bene, tuttavia nella realtà delle carceri a livello globale è molto inverosimile trovare una struttura detentiva che non abbia in sé i sintomi del sovraffollamento o in cui lo stato di detenzione sia impeccabile, specie nelle carceri della grandi metropoli americane, sudamericane e asiatiche. La Corte dunque si è trovata sempre più spesso a dover trovare un equilibrio tra il principio della sentenza Soering e la realtà delle condizioni di reclusione dei detenuti nei Paesi extra europei, pertanto la soluzione adottata parrebbe essere diversa a seconda che la Corte debba decidere circa la violazione della convenzione in ambito europeo o che debba esprimersi sui rischi di subire trattamenti vietati dall'art. 3 in realtà al di fuori dei confini di competenza della Cedu.

Nel primo caso la Corta ha applicato il criterio di valutazione risultante della giurisprudenza consolidata negli anni, ovvero costituiscono violazione dell'art. 3, detenzione in condizioni igieniche insufficienti, scarsa possibilità di uscire dalla cella o di fare attività fisica, mancanza di luce naturale o impianto di ventilazione e riscaldamento, mancanza di una rete fognaria, spazio della cella pro capite inferiore a 3m² e così discorrendo.

Nel secondo caso questi criteri non vengono presi in considerazione e se l'assenza di una rete idrica e fognaria in un centro di detenzione è sufficiente ad integrare violazione in un Paese europeo, non lo è se ad essere valutato è un carcere extraeuropeo in un caso di estradizione. Appare evidente l'applicazione di una deroga all'art. 3 in caso di estradizione di un detenuto in un Paese terzo, forse anche in virtù della considerazione secondo cui, la richiesta degli stessi standard dentro e fuori l'Europa impedirebbe di fatto l'estradizione, se non in pochi casi rispetto a quelli presentati (68). Vi è una dottrina autorevole che si attesta sulle medesime conclusioni, affermando l'esistenza di una deroga all'art. 3 della Convenzione (69), essa afferma che la tutela invocata ai sensi della norma in analisi, da parte di una persona colpita da un provvedimento di espulsione non è la stessa, a seconda del paese di destinazione, se europeo o extraeuropeo; infatti la soglia minima di gravità sarà valutata nel primo caso, in modo più restrittivo, e nel secondo, ammettendo una deroga al principio di cui all'art. 3.

Nel percorso evolutivo della giurisprudenza della Corte, in tema di tutela dell'integrità della persona, una sentenza di rilievo é il caso Tomasi c. Francia, in cui i giudici affermano che "The requirements of the investigation and the undeniable difficulties inherent in the fight against crime, particularly with regard to terrorism, cannot result in limits being placed on the protection to be afforded in respect of the physical integrity of individuals" (70). La sentenza rappresenta un primo passo verso l'affermazione chiara e precisa da parte della Corte che dall'art. 3 come diritto assoluto, discende la garanzia per le persone private della libertà di non subire torture o altri trattamenti disumani o degradanti in ragione della lotta al terrorismo.

Il pensiero dei giudici si consolida un anno dopo, nel 1996, con la sentenza Chahal c. Regno Unito (71), in cui si afferma che la lotta al terrorismo non inficia il principio di assolutezza dell'art. 3 della Convenzione, il quale, nemmeno in una circostanza tanto grave può subire una eccezione. La Corte riconosce innanzitutto che gli Stati affrontano difficoltà molto grandi per proteggere le loro comunità dalla violenza terrorista, e che non è possibile quindi sottovalutare la portata del pericolo del terrorismo e la minaccia che ne deriva. Ciò non deve, tuttavia, mettere in dubbio la natura assoluta dell'art. 3. Di seguito le parole dei giudici,

The Court is well aware of the immense difficulties faced by States in modern times in protecting their communities from terrorist violence. However, even in these circumstances, the Convention prohibits in absolute terms torture or inhuman or degrading treatment or punishment, irrespective of the victim's conduct.

Nel caso di specie i ricorrenti erano sospettati di attività di terrorismo internazionale, i giudici della Corte, contrariamente alle richieste del Governo inglese, dichiararono che l'estradizione sarebbe stata contraria alla Convenzione poiché vi erano forti probabilità che nel Paese di destinazione i ricorrenti sarebbero stati sottoposti a tortura o trattamenti disumani e degradanti a causa dei sospetti pendenti su di loro. L'argomentazione sottostante al ragionamento della Corte fu che l'art. 3, custodendo uno dei valori fondanti di una società democratica, non potesse entrare in bilanciamento con diverse, anche se legittime, istanze, ma dovesse ricevere una tutela assoluta.

Un ulteriore dato di rilievo nella sentenza in analisi è rappresentato dal fatto che i giudici parifichino all'estradizione della persona anche l'ipotesi di espulsione, applicando le stesse argomentazioni utilizzate per la prima. Queste le parole dei giudici,

The prohibition provided by Article 3 against ill-treatment is equally absolute in expulsion cases. Thus, whenever substantial grounds have been shown for believing that an individual would face a real risk of being subjected to treatment contrary to Article 3 if removed to another State, the responsibility of the Contracting State to safeguard him or her against such treatment is engaged in the event of expulsion. In these circumstances, the activities of the individual in question, however undesirable or dangerous, cannot be a material consideration (72).

Dalla giurisprudenza sul divieto di eccezioni all'art. 3, deriva una responsabilità per lo Stato nel caso applichi un decreto di espulsione della persona, se nel Paese di arrivo vi siano forti possibilità che questa subisca maltrattamenti contrari al dispositivo dell'art. 3 (73).

Il divieto di deroghe, anche in circostanze gravi, come la lotta al terrorismo, è un principio che i giudici riaffermano nel corso del tempo, contribuendo a cristallizzare questo dato nella coscienza giuridica europea.

Nel caso di seguito riportato, la Corte riconosce come tortura un maltrattamento compiuto ai danni di due cittadini ceceni, seviziati dai gendarmi durante una ricognizione volta all'individuazione di cellule terroristiche del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan (74)).

Il ricorrente Nasır İlhan, è fratello di Abdüllatif İlhan, vittima dei maltrattamenti. In base alla ricostruzione della Commissione è emerso che la vittima è stata prelevata dal villaggio in cui viveva con il fratello perché sospettato di avere contatti con il PKK; durante la missione di recupero del sospettato, gli agenti hanno picchiato gravemente Abdüllatif İlhan, fino a provocargli una commozione celebrale e a farlo svenire. Per rianimarlo i gendarmi hanno gettato la vittima nel fiume e poi, senza offrire cure mediche o un cambio di abiti lo hanno condotto al quartier generale con un clima che rischiava di mandare in ipotermia il sig. Ilhan. Il ricorrente ha dichiarato che il fratello ha ricevuto solo cure superficiali e controvoglia da parte di un medico passato per caso dalla gendarmeria, nonostante questi non fosse in grado di reggersi sulle proprie gambe e avesse lividi ed emorragie gravi. Solo 36 ore dopo la loro cattura, i due fratelli hanno potuto essere visitati in un ospedale, dove è stata riscontrata al sig. Abdüllatif İlhan una commozione celebrale e una emiparesi al lato sinistro del cervello. In seguito è stata diagnosticata una riduzione funzionale del 60% del lato sinistro.

La Corte, dopo aver accettato la ricostruzione dei fatti operata dalla Commissione, ha richiamato i principi utili all'identificazione della tortura, affermando che questa consiste in uno stigma molto grave che si differenzia dal trattamento disumano perché in grado di causare sofferenze molto intense e crudeli; oltre alla gravità del trattamento, vi è un elemento intenzionale, che caratterizza la tortura, ovvero la capacità di infliggere intenzionalmente gravi sofferenze o pene con l'obiettivo, tra l'altro, di ottenere informazioni, utilizzando punizioni e intimidazioni. Nel caso di specie i giudici hanno riconosciuto il nesso tra le lesioni inflitte dai gendarmi al fratello del ricorrente e la menomazione grave e permanente subita da questi, dichiarando che vi è stata violazione dell'art. 3 della Convenzione nella forma della tortura, e che le ragioni di prevenzione nei confronti di attività terroristiche non alterano il divieto di eccezioni di cui è portatore l'art. 3.

In una sentenza di qualche anno più tardi la Corte ha ribadito il divieto di eccezioni al dispositivo dell'art. 3; ancora una volta la causa scatenante degli eventi oggetto di valutazione da parte dei giudici è un'attività antiterroristica operata dalle forze armate cecene nei confronti di persone sospettate di svolgere attività terroristiche (75).

I ricorrenti, Arbi Chitayev e suo fratello Adam Chitayev, hanno lamentato che nel corso delle ostilità in Cecenia nel 2000 tra l'esercito russo e i ribelli ceceni, gli agenti statali hanno perquisito più volte la loro abitazione; dopo una di queste perquisizioni, sono stati arrestati e interrogati sulle attività dei ribelli ceceni. Hanno affermato dinanzi alla Corte di essere stati torturati per ottenere una falsa confessione. La Corte ha notato che i certificati medici rilasciati il giorno dopo la loro liberazione confermavano la presenza di varie lesioni, per questi motivi, in considerazione della coerenza delle loro affermazioni dettagliate, avvalorate dai certificati medici, la Corte ha concluso che il Governo russo non aveva potuto dimostrare che le ferite dei ricorrenti non erano state causate dai maltrattamenti inflitti durante la detenzione ed ha riconosciuto che le sofferenze da loro patite erano particolarmente gravi e crudeli e che erano assimilabili alla tortura, in violazione dell'art. 3.

L'indifferenza dei reati commessi dal recluso: le sentenze V. c. Regno Unito e Gäfgen c. Germania

Quest'ultimo gruppo di sentenze ha profili di contatto con quello precedente e non potrebbe essere altrimenti, dal momento che per tutelare al meglio l'integrità psico-fisica della persona, la Corte ha più volte affermato il divieto di bilanciamento dell'art. 3 con altri interessi o tutele. Secondo l'orientamento prevalente della Corte, il divieto di cui all'art. 3 della Convenzione oltre a non poter essere bilanciato con ragioni inerenti la sicurezza nazionale, non deve nemmeno subire eccezioni in base al tipo di condotta tenuto dalla persona sottoposta a privazione della libertà, né in base al reato da questi compiuto.

Per quanto concerne la condotta del recluso, il divieto di eccezione risale fino alle prime sentenze discusse dalla Corte, infatti nel §162 del caso Irlanda c. Regno Unito si fa riferimento all'indifferenza del comportamento della vittima ai fini della valutazione del maltrattamento alla luce dell'art. 3 della Convenzione. In quell'occasione i giudici hanno parlato di victim's conduct, facendo riferimento al comportamento dei presunti affiliati all'organizzazione terroristica IRA, Irish Republican Army. Il principio si è più volte ripetuto nella giurisprudenza successiva, fino a quando nel 1999 la Corte ha operato una distinzione, specificando che l'applicazione dell'art. 3, in ragione del carattere assoluto, non trova limitazioni ne rispetto alla condotta ne in riferimento ai reati commessi dalla vittima. Nella sentenza V. c. Regno Unito, i giudici affermano che "the Article 3 enshrines one of the most fundamental values of democratic society. It prohibits in absolute terms torture or inhuman or degrading treatment or punishment, irrespective of the victim's conduct [...] The nature of the crime committed by T. and the applicant is, therefore, immaterial to the consideration under Article 3" (76).

Nel caso di specie, la condotta dei ricorrenti aveva scioccato la società inglese, poiché due bambini di dieci anni avevano rapito e picchiato a morte un altro bambino di due anni, per poi lasciarlo sulle rotaie del treno perché venisse travolto. Nel giudizio di fronte alla Corte il rappresentante legale del ricorrente ha addotto che il processo e la pena subita da V. erano nel cumulo eccessive per un bambino di dieci anni e dunque integravano un trattamento disumano e degradante in ragione del forte stress e ripercussioni psicologiche subite da quest'ultimo. Il Governo si opponeva, sostenendo che la prassi degli Stati contraenti sull'età minima per imputare un reato è molto variabile; inoltre ha fatto notare che sono state prese tutta una serie di precauzioni al fine di rendere meno stressante possibile il processo, ad esempio riducendone la durata giornaliera o affidandosi alla competenza di psicologi e assistenti sociali. La Commissione ha rilevato che non c'era stata alcuna intenzione di umiliare o degradare il ricorrente, e che anzi, erano state prese tutte le misure necessarie ad evitare una simile eventualità; essa tuttavia fa notare che il forte stress e disagio patiti dal ricorrente erano più legati alla presa di coscienza della propria condotta e al fatto di doverne rendere conto, piuttosto che al processo di per se stesso. La Corte ha concordato con la Commissione e ha rilevato che le difficoltà subite dai ricorrenti sarebbero state comunque tali, perché originate da un senso di colpa per l'omicidio commesso e lo dimostra il fatto che sia prima che dopo i bambini, ascoltati da uno psicologo manifestavano senso di paura e rimorso per le proprie azioni; per questi motivi, i giudici, non ritengono che il processo del ricorrente ha dato luogo a una violazione dell'art. 3 della Convenzione.

Questa ulteriore distinzione all'interno del divieto di eccezioni o deroghe all'art. 3 della Convenzione, trova una eco nelle sentenze successive della Corte. Nei primi anni del Duemila, due sentenze dai profili molto simili, hanno interessato i giudici di Strasburgo, i casi Labita c. Italia e Indelicato c. Italia; in entrambe, i ricorrenti erano stati accusati di associazione mafiosa, salvo poi nel primo caso essere completamente scagionato da ogni accusa. In entrambi i casi l'Italia ha rischiato la condanna della Corte per violazione del divieto di cui all'art. 3, nello specifico per tortura, salvo poi evitare lo stigma a causa di assenza di prove sufficienti a confermare i maltrattamenti lamentati dai detenuti nel carcere di Pianosa. Anche in queste sentenze la Corte ribadisce che i reati di cui i ricorrenti sono accusati, non hanno nessun effetto derogatorio sul principio di assolutezza di cui all'art. 3 (77). La stessa conclusione è stata adottata dalla Corte anche, ma non solo, in casi in cui il ricorrente era accusato di terrorismo o di associazione mafiosa e legami con gruppi islamisti (78), a ribadire che in nessun caso è ammesso il bilanciamento della norma in esame.

Recentemente la Grande Camera ha riaffermato il concetto di irrilevanza della natura del reato ai fini dell'applicazione dell'art. 3, in una sentenza del 2010, Gäfgen c. Germania (79).

Nel caso di specie, il ricorrente aveva rapito il figlio di una famiglia di banchieri di Francoforte sul Meno, con lo scopo di chiedere un riscatto, tuttavia egli ha poi ucciso il bambino e ne ha occultato il corpo. Dopo l'arresto due agenti di polizia che lo hanno interrogato hanno minacciato di infliggergli una serie di torture se non avesse rivelato dove fosse il bambino, le minacce degli agenti erano state tali da infondere nel ricorrente una condizione psicologica di ansia e paura, tanto che egli in breve rese una piena confessione dell'omicidio. La Corte, nella prima sentenza pronunciata nel 2008 davanti alla V sezione, affermava che le concrete minacce di tortura avevano causato al ricorrente uno stato di grave sofferenza, al punto di concretarsi in un trattamento disumano, in violazione dell'art. 3. Lo Stato tedesco, venuto a conoscenza dell'accaduto è intervenuto tempestivamente a punire gli agenti che hanno minacciato il ricorrente, inoltre tutte le dichiarazioni rese sotto minaccia di tortura sono state escluse dagli atti del procedimento penale a carico del ricorrente; ciò ha fatto sì che Gäfgen perdesse lo status di vittima ai sensi dell'art. 3 della Convenzione.

Incidentalmente è interessante soffermarsi sul concetto di status di vittima; esso è la particolare qualificazione con cui vengono individuate le persone che hanno subito un maltrattamento ai sensi della Convenzione (nel nostro caso, dell'art. 3). Ben più interessante, però è la circostanza in cui un soggetto perde tale status; secondo la giurisprudenza della Corte ciò avviene quando la riparazione è intervenuta in maniera adeguata e sufficiente, ciò dipende da tutte le circostanze della causa, con particolare riguardo alla natura della violazione della Convenzione che è in esame (80). Perciò, lo status di vittima può dipendere dall'importo del risarcimento accordato dal giudice nazionale e dall'effettività del ricorso che permette di percepire un tale importo (81). Nel caso Gäfgen c. Germania, il ricorrente, di fronte alla Grande Camera, lamentava che la riparazione offerta nel precedente giudizio non era stata adeguata o sufficiente, infatti egli affermava che i due agenti fossero stati condannati a una pena pecuniaria condizionalmente sospesa e che fossero stati semplicemente trasferiti ad altro incarico. La Corte però, ha rigettato tale istanza affermando che lo stesso non potesse più considerarsi "vittima" di una violazione dell'art. 3 Cedu in quanto le autorità giurisdizionali lo avevano già restituito in integrum sancendo l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese sotto minaccia di tortura.

La decisione della Corte pone qualche dubbio circa il divieto di deroga dell'art. 3 della Convenzione. La perdita dello status della vittima per il solo fatto di aver ricevuto una qualche forma di riparazione non sembra in linea con il principio di assolutezza di cui è portatrice la norma in analisi. A maggior ragione appare evidente l'incongruenza nel caso di specie, in ragione del fatto che i poliziotti non solo erano stati esentati dalla sanzione loro inflitta, ma per uno di essi c'era stato anche un avanzamento di grado. Data la connessione tra lo status di vittima e la possibilità di invocare tutele di fronte alla Corte europea dei diritti dell'uomo, la perdita di tale stato dovrebbe essere legata ad una valutazione approfondita delle riparazioni effettivamente intervenute da parte dello Stato incriminato.

La decisione sul caso, pervenuto davanti alla Grande Camera viene completamente ribaltata, i giudici in questa sede sottolineano che le minacce che i due agenti di polizia hanno utilizzato per estorcere al ricorrente la confessione lo hanno certamente posto in uno stato di angoscia, qualificato come trattamento inumano. Sebbene le Autorità statali abbiano punito i due agenti di polizia dichiarati colpevoli, la punizione è stata di modesta entità e con ogni probabilità non ha avuto il necessario effetto deterrente al fine di prevenire future violazioni del diritto in questione. Il fatto che uno dei due agenti colpevoli della violazione sia stato messo a capo di una centrale di polizia conferma la convinzione che l'intento punitivo dello Stato tedesco sia stato troppo blando. Pertanto la Corte ha riconosciuto con sentenza definitiva una violazione dell'art. 3 della Cedu.

Nel percorso argomentativo la Grande Camera si premura di chiarire che il divieto di tortura e trattamento disumano o degradante è una norma assoluta, pertanto neanche in circostanze in cui il soggetto vittima di una condotta vietata dalla Convenzione abbia commesso un grave delitto, come quello di uccidere un bambino, si può derogare all'applicazione dell'art. 3 (82).

2.3.3 Il criterio della gravità del maltrattamento

Non tutte le violazioni all'integrità di una persona costituiscono di per sé un trattamento vietato ai sensi dell'art. 3 della Convenzione, sin dalle prime pronunce, la Corte ha affermato che le condotte illecite sono quelle che superano un livello minimo di gravità e si caratterizzano per il disprezzo per l'umanità della persona che le contraddistingue (83). Nel leading case Irlanda c. Regno Unito, i giudici affermano che "ill-treatment must attain a minimum level of severity if it is to fall within the scope of Article 3. The assessment of this minimum is, in the nature of things, relative; it depends on all the circumstances of the case, such as the duration of the treatment, its physical or mental effects and, in some cases, the sex, age and state of health of the victim, etc." (84).

La Corte, nelle proprie decisioni, ha più volte affermato che il concetto di soglia minima di gravità è relativo, ovvero da valutare in base alle circostanze specifiche del caso concreto, sulla base di un elenco non tassativo e tendenzialmente mutabile di fattori concreti che richiedono una valutazione caso per caso.

Così, ad esempio, nella sentenza A. c. Regno Unito (85) i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che vi fosse stata una violazione dell'art. 3 della Convenzione, nella circostanza in cui il ricorrente era stato picchiato violentemente dal patrigno e questi avesse addotto come giustificazione la necessità di applicare un castigo ragionevole. Questo caso rappresenta un'applicazione orizzontale della norma in analisi, che offre una tutela contro i maltrattamenti anche quando gli autori sono privati ai danni di altri privati. La Corte ha ritenuto responsabile del trattamento disumano e degradante lo Stato convenuto per il fatto di non aver saputo tutelare il giovane dai maltrattamenti subiti da un privato e vietati dalla norma convenzionale. In altra circostanza, nel caso Ciğerhun Öner c. Turchia (86), in cui un bambino di dodici anni era stato maltrattato durante un fermo della polizia, la Corte riconosce la violazione dell'art. 3 nei confronti del ricorrente sia per il maltrattamento subito, sia per i tempi eccessivamente lunghi del processo volto ad accertare la responsabilità dell'autorità pubblica. In questo caso gli effetti fisici del maltrattamento erano stati provati sulla base di un referto medico, ma la Corte ha anche rilevato un trattamento degradante nella lunga attesa del ricorrente e di sua madre prima di avere una sentenza che gli rendesse giustizia. Recentemente, i giudici, in considerazione dell'evoluzione della sensibilità sociale in merito al trattamento dei detenuti, hanno riscontrato una violazione dell'art. 3 della Convenzione anche nel caso di una visita ginecologica ad una detenuta, eseguita in presenza di agenti di custodia di sesso maschile e senza averle tolto le manette (87), oppure nel caso siano stati eseguiti degli accertamenti medici non necessari e non rispondenti agli standard delineati dal CPT, cui la Corte fa riferimento (88).

In altra circostanza la Corte ha riconosciuto una violazione dell'art. 3 della Convenzione in riferimento ai patimenti subiti dai familiari di persone scomparse in Cecenia (89), oppure ha ritenuto colpevole uno Stato per le condizioni di detenzione dei ricorrenti, sia nella circostanza in cui l'ambiente carcerario era stato giudicato insalubre, sia per l'incompatibilità psico-fisica del detenuto con la detenzione (90). La varietà dei casi in cui è stata ravvisata una violazione della norma in analisi, dipende dal fatto che spesso i giudici hanno interpretato la Convenzione europea dei diritti dell'uomo come uno strumento vivo che si evolve secondo una propria biologia, anche in reazione al contesto politico e sociale che interessa gli Stati membri; ciò a fatto sì che la Corte riscontrasse violazione dell'art. 3 in casi tutt'altro che standardizzati, in cui, ad esempio, mancava persino l'inflizione intenzionale di una sofferenza psico-fisica, oppure che riconoscesse come atti di tortura, anche quelle condotte che l'orientamento precedente avrebbe giudicato come rientranti in una delle altre due tipologie di comportamenti vietati. L'argomentazione per cui la Convenzione è uno strumento vivo nelle mani del giudice, trova origine nel leading case Tyrer c. Regno Unito citato in precedenza, in questa occasione la Corte si trovava a dover stabilire i parametri in base ai quali una punizione degradante fosse tale. I giudici hanno dichiarato che non costituisce esimente il fatto che una punizione non sia degradante in base all'opinione pubblica, ne il fatto che rappresenti un buon deterrente contro la criminalità, stante il fatto che alcuna ragione giustifica una violazione dell'art. 3 della Convenzione. Al contrario la Corte dichiara che per stabilire se una condotta o punizione sia degradante dovrà tenere conto del contesto sociale del momento in cui si trova a decidere, nello specifico, dovrà valutare la punizione in analisi alla luce della normativa penale in vigore tra gli Stati membri. Di seguito le parole della Corte

The Court must also recall that the Convention is a living instrument which, as the Commission rightly stressed, must be interpreted in the light of present-day conditions. In the case now before it the Court cannot but be influenced by the developments and commonly accepted standards in the penal policy of the member States of the Council of Europe in this field (91).

In questo senso la vitalità della Carta convenzionale garantisce l'attualità del giudizio della Corte e sperabilmente una maggiore aderenza delle tutele alle necessità del caso concreto, in particolare, e a quelle delle comunità del Consiglio d'Europa, in generale. Dalla generosa casistica in proposito (92), possiamo prendere ad ulteriore esempio il caso Soering, in cui la Corte partendo dal presupposto che la Convenzione sia uno strumento vivo ha potuto stabilire che la pena di morte potesse entrare in conflitto con il divieto di pene o trattamenti disumani o degradanti ai sensi dell'art. 3. L'incompatibilità era dovuta al fatto che il detenuto condannato alla pena di morte dovesse attendere la propria esecuzione nel cosiddetto corridoio della morte, rimanendovi nell'incertezza di quando la condanna sarebbe stata eseguita e dunque in un continuo stato di ansia e paura. I giudici in questa circostanza hanno richiamato le pratiche in quel momento in uso tra gli Stati membri, evidenziando che in molti Paesi la pena capitale non era più in vigore e che tra quelli in cui era ancora praticata, di fatto non veniva effettuata; la Corte ha richiamato anche il Protocollo n. 6 proposto da Amnesty International, con cui si stabiliva l'abolizione della pena di morte in tempo di pace tra gli Stati d'Europa, aperto alla firma nel 1983 e sino a quel momento ratificato da tredici Stati contraenti, ma non ancora in vigore al tempo della sentenza.

Sulla base dell'attenta analisi del panorama giuridico allora vigente, la Corte ha potuto stabilire che vi fossero stati profondi cambiamenti circa l'atteggiamento degli Stati membri verso la pena di morte e che per questi motivi era necessario valutarne la compatibilità con il dispositivo di cui all'art. 3 della Convenzione, la cui risposta affermativa a aperto gli orizzonti dell'applicazione della norma anche a realtà al di fuori dei confini europei.

Volendo bilanciare l'innegabile valore garantito dalla vitalità della Convenzione, specie nel contesto della valutazione della gravità minima necessaria per la violazione dell'art. 3, è utile far notare che la stessa configurazione degli elementi utilizzati dai giudici per individuare una condotta vietata sono, a dire degli stessi, variabili, "La valutazione di questo minimo è, nella natura delle cose, relativo dipende da tutte le circostanze del caso, come la natura e il contesto delle pene o trattamenti, il modo e il metodo della loro esecuzione, la durata, i gli effetti fisici o mentali ed, in alcuni casi, il sesso, l'età e lo stato della salute della vittima". Da ciò deriva che se anche si vuole individuare una definizione oggettiva di diritto assoluto, è assolutamente soggettiva la valutazione di cosa sia tortura o trattamento inumano e degradante, rendendo discontinua l'applicazione dell'art. 3 come tutela contro tali condotte (93).

Per quanto riguarda il criterio della gravità, la Corte ne fa un uso sia come limite esterno, che come limite interno. Nel primo caso, i giudici hanno utilizzato come filtro l'intensità della gravità del maltrattamento, per discernere dalla varia tipologia di condotte, solo quelle capaci di frustrare l'umanità e la dignità della persona. Con riguardo al giudizio negativo da parte della Corte circa il superamento della soglia minima di gravità, è possibile fare riferimento al caso Nechiporuc e Yonkalo c. Ucraina, in cui la Corte ha dichiarato che lo stress e l'ansia provati da una delle ricorrenti per essere stata portata in una caserma e interrogata, non sono sufficienti ad integrare la soglia minima di gravità, neppure nel caso di specie in cui la donna era incinta all'ottavo mese, poiché, si legge nella sentenza, questo tipo di sentimenti sono connaturati alla situazione specifica e non a trattamenti vietati dalla Convenzione. Parimenti, nella sentenza Sevastyanov c. Russia (94), di fronte al ricorrente che lamentava di aver subito una violazione dell'art. 3 in ragione delle condizioni di detenzione patite durante il processo, la Corte afferma che la permanenza di poche ore in una cella, per quanto piccola e priva di areazione, non integra di per sé un trattamento suscettibile di ricadere entro l'ambito di applicazione della norma in esame. Per quanto riguarda il concetto di limite interno, l'intensità della gravità del maltrattamento consente di distinguere tra loro le tre categorie individuate dai redattori della Convenzione, ovvero, tortura, trattamento o pena disumana, trattamento o pena degradante (95).

La Corte ha inteso distinguere due criteri per la valutazione del superamento della soglia minima di gravità, un criterio legato alle circostanze oggettive del fatto, quali la durata del trattamento e la gravità dello stesso, e un criterio richiamante le qualità soggettive della vittima, come ad esempio l'età, il sesso, le condizioni psicologiche, ecc.. Di recente, i giudici di Strasburgo hanno preso in considerazione, ai fini della valutazione sul raggiungimento della soglia minima di gravità, anche condizioni di natura soggettiva, quali l'appartenenza della vittima a un gruppo "svantaggiato e vulnerabile" o la sua qualità di richiedente asilo (96).

2.4 Obblighi positivi e negativi derivanti dal divieto di tortura e trattamento disumano o degradante

2.4.1 Introduzione

In ragione dell'art. 3 della Convenzione, grava sugli Stati membri un obbligo negativo di astensione, che sancisce il divieto di infliggere agli individui un trattamento disumano o degradante oppure un atto di tortura; in particolare la norma costituisce una garanzia importante per coloro che sono detenuti e dunque privati della libertà e soggetti ad una autorità. L'esegesi della norma in analisi è interamente frutto dell'attività giurisprudenziale del giudice europeo, infatti la materia del diritto dei detenuti, spesso marginale o assente nei trattati internazionali, è stata valorizzata e dotata di tutele grazie alla tecnica di protezione par ricochet. Al fine di garantire una applicazione effettiva del dispositivo di cui all'art. 3 e di proteggere l'integrità psico-fisica della persona privata della libertà, l'attività interpretativa della Corte si è orientata verso la derivazione dagli obblighi negativi espressi nel testo, di obblighi positivi del tutto innovativi. Grazie a questa tecnica per così dire di trasformazione, sono stati previsti per i Paesi membri una serie di obblighi di fare, capaci di offrire una prevenzione e, in caso di violazione, una repressione del comportamento vietato ai sensi dell'art. 3. Il contenuto di tali obblighi è in continuo sviluppo e può variare sulla base delle circostanza dei singoli casi, includendo misure che ne tengano di conto. Di seguito si procederà ad un'analisi diacronica degli sviluppi operati dalla giurisprudenza di Strasburgo al fine di arricchire il novero degli obblighi positivi previsti per gli Stati firmatari, e di conseguenza la tutela offerta alle persone poste sotto custodia da un'autorità. Si noti però che le sentenze prese in analisi per ogni obbligo positivo coprono circa un trentennio di attività della Corte, la quale opera in modo trasversale, e non a compartimenti stagni; per questo motivo nel seguito la suddivisione temporale terrà conto unicamente del leading case da cui origina un nuovo obbligo positivo, per poi analizzare una casistica esemplificativa che abbraccia tutto il periodo di attività della Corte.

2.4.2 Obbligo di avviare una procedura di inchiesta

L'art. 3 della Convenzione, così come è stato interpretato dal giudice di Strasburgo, fa sorgere in capo agli Stati contraenti l'obbligo di avviare un'inchiesta effettiva ed ufficiale ogni qual volta vi sia la denuncia o il sospetto ragionevole (97) che siano stati compiuti atti di tortura o trattamento disumano o degradante ai danni di una persona sottoposta a custodia. In questo senso, la tutela di tipo sostanziale sancita dal divieto ex art. 3 della Convenzione si arricchisce di un'ulteriore garanzia sul piano procedurale che ne rinforza gli effetti. Si noti che i due piani, sostanziale e procedurale, non si sovrappongono, ma anzi, rimangono distinti, infatti uno Stato può essere condannato per la violazione dell'obbligo di inchiesta sancito dall'art. 3 ed essere comunque scagionato dalla violazione sostanziale della stessa norma durante il medesimo giudizio (98).

L'obbligo positivo in analisi trova un riscontro normativo nella stessa Convenzione europea dei diritti dell'uomo all'art. 6, che regola il diritto ad un giusto processo, ovvero un processo che sia celere, pubblico, equo e amministrato da un organo costituito per legge, giudicato da una giuria terza e imparziale. L'articolo costituisce un baluardo della salvaguardia dell'accusato, poiché definisce sia i suoi diritti, sia i limiti entro cui l'autorità giudiziaria può agire durante il processo, in modo da garantire il diritto di difesa del convenuto in ogni stato e grado del giudizio. Il diritto a potersi difendere dalle accuse ricevute trova il proprio corrispettivo nella possibilità di far valere in giudizio i propri diritti; senza queste garanzie procedurali, il diritto sostanziale rischia di rimanere privo di forza.

Ugualmente importante è l'art. 13 Cedu, il quale sancisce il diritto ad ottenere un ricorso effettivo contro qualsiasi violazione della Convenzione, ovvero un ricorso che permetta concretamente di attivare un procedimento volto all'accertamento della violazione. L'effettività della tutela giurisdizionale è generalmente intesa come la capacità del processo di conseguire risultati nella sfera sostanziale, vale a dire di garantire la soddisfazione dell'interesse; la Corte ha utilizzato nella propria giurisprudenza il combinato disposto degli artt. 13 e 3 per individuare un fondamento giuridico all'obbligo positivo degli Stati di avviare un'inchiesta in caso di denuncia di maltrattamenti (o sospetto) ai danni di persone detenute.

Un ulteriore riferimento normativo è rappresentato dalla Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, conclusa a New York il 10 dicembre 1984, in cui all'art. 12 è possibile leggere, "Ogni Stato Parte vigila affinché le autorità competenti procedano immediatamente ad un'inchiesta imparziale, ogni volta che vi siano motivi ragionevoli di ritenere che un atto di tortura sia stato commesso su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione". In questo importante documento si fa riferimento per la prima volta al diritto ad ottenere un'indagine accurata nei casi in cui sia denunciato un atto di tortura. La Corte nelle proprie sentenze ha spesso richiamato l'art. 12, statuendo che pur non essendo presente nella Cedu una disposizione parimenti esplicita non si può non interpretare lo strumento del ricorso effettivo come comprendente anche l'obbligo di indagine in ipotesi di maltrattamento, altrimenti le tutele sostanziali ex art. 3 perderebbero di forza. Non è ammissibile secondo la Corte che le autorità possano abusare degli individui posti sotto la loro custodia e rimanere impuniti a causa di un'indagine scarsa o mai avviata (99).

Attraverso l'analisi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, è possibile ricostruire l'origine dell'obbligo positivo in analisi e le relative evoluzioni. In un primo momento la base normativa da cui derivare l'obbligo di avviare una procedura di inchiesta era stata individuata nell'art. 13 Cedu, utilizzato in relazione all'art. 3 della medesima Convenzione. Il caso primigenio in questo senso è la sentenza già ricordata Aksoy c. Turchia (100) del 1996, in cui il ricorrente era stato arrestato con l'accusa di essere un membro del PKK, il partito dei lavoratori curdi; il magistrato al quale venne presentato per un colloquio durante il periodo di custodia presso la polizia, ignorò i palesi segni delle torture subiti dal detenuto, infatti questi non era neppure riuscito a firmare il verbale a causa delle lesioni alle articolazioni delle braccia. Nonostante il ricorrente avesse denunciato i maltrattamenti, il pubblico ufficiale non dispose alcuna indagine per accertare lo svolgimento dei fatti ed eventualmente le responsabilità degli agenti. La Corte in questa sentenza approfondisce due punti molto importanti che saranno ripresi ed estesi nelle successive pronunce: in primo luogo i giudici evidenziano che per la vittima di maltrattamenti, e in particolare quando questa è detenuta, è assai arduo fornire la prova degli abusi subiti, sia perché versano in una condizione di totale dipendenza rispetto alle autorità carcerarie, sia perché talvolta vengono tenuti isolati da qualsiasi fonte esterna (parenti, avvocato o dottori) e dunque è difficoltoso per loro raccogliere prove delle violenze. In secondo luogo, la Corte ricostruisce il vincolo giuridico dell'obbligo positivo in analisi a partire dall'art. 13 della Convenzione, stabilendo che, in ragione dell'importanza nel panorama internazionale dei divieti di cui all'art. 3 Cedu, è necessario interpretare il diritto ad un ricorso effettivo, nel senso di ricomprendervi un obbligo per gli Stati di avviare indagini approfondite ed efficaci, ma anche tempestive e imparziali, ogni volta vi sia una denuncia credibile da parte del detenuto. La Corte, poi, specifica che in tale contesto, un'indagine efficace richiede che sia predisposto un accesso effettivo per la vittima di violenze al procedimento di indagine, e che il risultato dell'inchiesta porti all'individuazione e incriminazione dei responsabili, giudicando come particolarmente grave l'atteggiamento del funzionario che, non rispettando l'obbligo positivo, mina la possibilità di utilizzare altri rimedi contro le violenze ai danni dei detenuti. Come già anticipato, in questa occasione la Corte ricomprende nel diritto ad un ricorso effettivo anche il dispositivo di cui all'art. 12 della Convenzione ONU contro la tortura, rendendolo vincolante per tutti gli Stati firmatari della Convenzione del 1950.

Per quanto riguarda l'origine dell'obbligo positivo di avviare una procedura di inchiesta, fondato direttamente sull'art. 3 Cedu, il caso emblematico è stato Assenov c. Bulgaria (101), del 1998, la prima sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che ha coinvolto un ricorrente rom dell'Europa centrale. Il caso ha origine in un episodio avvenuto nel 1992, quando la polizia bulgara ha arrestato Anton Assenov, un ragazzino rom quattordicenne colto a giocare d'azzardo in una piazza cittadina; il ricorrente ha sostenuto che durante le due ore di detenzione illegale, la polizia lo avrebbe colpito sia con il manganello che con pugni allo stomaco, prima di lasciarlo andare senza alcun capo d'imputazione. In seguito alla vicenda, grazie all'aiuto di un'organizzazione umanitaria specializzata nei diritti dei rom, Assenov ha ottenuto dei certificati medici comprovanti i maltrattamenti subiti. Per due anni il ragazzo e i suoi genitori hanno sporto denuncia ad ogni autorità responsabile per le indagini penali, compreso il capo della Procura generale, al fine di ottenere l'avvio di un'inchiesta e incriminare i poliziotti ritenuti responsabili dei maltrattamenti subiti dal minore. Nel 1997, dopo che tutte le denunce erano state fatte cadere, il sig. Assenov ha presentato un'istanza presso la Corte europea dei diritti dell'uomo, ma la principale difficoltà per il ricorrente, come per tante altre vittime di abusi in custodia, era dimostrare che le lesioni subite in carcere fossero il frutto di violenza compiuta da pubblici ufficiali, difficoltà aggravata dal fatto che era intercorso un ampio lasso di tempo tra i fatti e il ricorso davanti ai giudici di Strasburgo. Infatti, proprio in ragione del periodo trascorso fino al momento in cui l'istanza fu presentata, la Corte ha ritenuto impossibile stabilire, sulla base degli elementi di prova disponibili, se i danni subiti dal ricorrente fossero stati causati dalla polizia, come asserito dal ragazzo (102). Per superare quest'ostacolo, i ricorrenti hanno fatto ricorso ad un ragionamento fondato sui vizi di procedura, in cui si sosteneva che il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti di cui all'art. 3 della Cedu doveva essere inteso non solo come atto a vietare una condotta lesiva da parte della polizia, ma anche come suscettibile di imporre allo Stato un concreto obbligo d'inchiesta circa le denunce di abusi. L'argomento secondo cui un diritto sostanziale garantito nella Convenzione necessita di un certo procedimento, in questo caso l'inchiesta, è fondato su due fonti: in primis, la decisione della Corte europea, di qualche anno precedente, nel caso McCann c. Regno Unito (103) che istituiva un simile obbligo d'inchiesta a carico degli Stati circa il rispetto per il diritto alla vita di cui all'art. 2. In secondo luogo, come abbiamo detto, l'argomento ha trovato fondamento in analoghe disposizioni di diritto internazionale, compresa la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. La Corte ha riconosciuto per la prima volta l'obbligo per gli Stati di garantire un'adeguata inchiesta ufficiale, che assicurasse alla giustizia i responsabili dei maltrattamenti denunciati dalla vittima e vietati dall'art. 3 della Convenzione:

where an individual raises an arguable claim that he has been seriously ill -treated by the police or other such agents of the State unlawfully and in breach of Article 3, that provision, read in conjunction with the State's general duty under Article 1 of the Convention to 'secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in ...[the] Convention', requires by implication that there should be an effective official investigation. This investigation, as with that under Article 2, should be capable of leading to the identification and punishment of those responsible (104).

Il motivo, ha spiegato la Corte, è di natura pratica, senza un'adeguata copertura garantita dall'obbligo di avviare l'inchiesta in caso di denuncia, lo Stato avrebbe potuto aggirare il divieto di cui all'art. 3 attraverso una scarsa indagine:

If this were not the case, the general legal prohibition of torture and inhuman and degrading treatment and punishment, despite its fundamental importance, would be ineffective in practice and it would be possible in some cases for agents of the State to abuse the rights of those within their control with virtual impunity (105).

La norma in analisi è stata intesa come comprendente non solo un diritto sostanziale, ma anche una componente procedurale; quest'ultima, viste le difficoltà di dimostrare la responsabilità per la tortura e gli abusi della polizia, è stata spesso addirittura più utile ai fini della prova in giudizio, ed è innegabile che sotto un profilo politico, per la Corte sia senz'altro più semplice rilevare un vizio di procedura piuttosto ché una violazione sostanziale dell'art. 3. Infatti i giudici si pronunciano più facilmente sull'inadeguatezza delle indagini piuttosto che giudicare lo Stato coinvolto in atti di tortura, attenuando così lo stigma connesso alla violazione del divieto di tortura e trattamento disumano o degradante.

La giurisprudenza inaugurata con i casi Aksoy e Assenov è stata poi seguita nelle sue linee generali con i successivi casi, in particolare con la sentenza Bati e a. c. Turchia (106), del 2004. Nel Caso di specie, quindici cittadini turchi sono stati arrestati e trattenuti per interrogatorio dalle forze di polizia di Istanbul, nell'ambito di un'operazione antiterroristica; il ricorrente e i suoi compagni in seguito hanno denunciato alle autorità di aver subito maltrattamenti, ma di fronte all'inerzia degli inquirenti, si sono rivolti ai giudici di Strasburgo, lamentando che le autorità non avevano condotto effettive indagini sul loro caso e che non avevano perseguito penalmente con la dovuta celerità gli agenti delle forze dell'ordine accusati di torture e di maltrattamenti, per cui i principali autori degli atti di violenza hanno potuto godere di una quasi totale impunità, malgrado la presenza di prove incontrovertibili.

Nell'ambito della decisione sul caso in analisi i giudici di Strasburgo hanno impresso un ulteriore sviluppo al profilo procedurale derivante dall'art. 3 della Convenzione, in primis i giudici hanno ribadito che in casi di denunce di maltrattamenti o torture, il diritto ad un ricorso effettivo prevede che le indagini siano svolte nel più breve lasso di tempo possibile e che queste siano approfondite ed efficaci. La Corte però ha aggiunto un ulteriore profilo, prevedendo che, in simili circostanze, si sarebbe dovuto procedere ad indagine anche quando non vi fosse stata una denuncia, ma vi fossero comunque indicazioni sufficientemente chiare che il maltrattamento avesse avuto luogo. Tale previsione, secondo la Corte, è particolarmente necessaria nei confronti di violenze su detenuti, infatti queste persone versano in una condizione di forte vulnerabilità che può provocare un sentimento di paura tale da frenare una denuncia (107). Recentemente la Corte, in merito ad una casistica giurisprudenziale riguardante principalmente la Turchia, ha stabilito che non sono ammissibili i procedimenti nei quali l'azione penale non ha potuto essere esercitata in ragione della mancata autorizzazione a procedere contro gli ufficiali di polizia coinvolti nella vicenda (108). Queste le parole dei giudici nella sentenza Çağlayan c. Turchia (109) "In the instant case, however, the proceedings in question did not produce any result due to the application of Law no. 4616, which created virtual impunity for the perpetrators of the acts of violence, despite the evidence against them". I giudici in questo modo hanno voluto prevedere tanto un obbligo di avviare l'indagine d'ufficio, quanto escludere che condizioni di procedibilità rendano impossibile un'inchiesta o persino facciano salvi i responsabili delle violenze a danno di persone detenute.

Proseguendo nell'analisi del caso Bati, la Corte, richiamando quanto affermato nella precedente sentenza Aksoy c. Turchia circa la difficoltà per la vittima detenuta di fornire prove sufficienti a dimostrare i maltrattamenti subiti, ha affermato che l'obbligo di avviare un'inchiesta è un obbligo qualificato e non assoluto, pertanto si considera assolto per "le autorità dello Stato, quando abbiano preso tutte le misure ragionevoli, per assicurare le prove riguardanti l'incidente, tra cui ad esempio, una dichiarazione dettagliata relativa alle accuse della presunta vittima, testimonianze oculari, le prove forensi e, se del caso, certificati medici supplementari atti a fornire una scheda completa e accurata delle lesioni e, in fine un'analisi obiettiva delle constatazioni mediche, in particolare per quanto riguarda la causa delle lesioni" (110). I giudici concludono sul punto affermando che "Any deficiency in the investigation which undermines its ability to establish the cause of injury or the person responsible will risk falling foul of this standard" (111). In questo senso la Corte ribadisce ancora una volta che una qualsiasi violazione della tutela procedurale ha come diretta conseguenza l'annullamento degli effetti garantisti del divieto di tortura o trattamenti inumani o degradanti previsto dall'art. 3 della Convenzione, sul piano sostanziale. Incidentalmente è interessante notare che la giurisprudenza successiva definirà un limite all'obbligo dello Stato circa gli standard di indagine, infatti nella sentenza Antipenkov c. Russia, la Corte afferma che "An obligation to investigate is not an obligation of result, but of means" (112) ovvero che non tutte le indagini possono concludersi positivamente o rispecchiare le affermazioni del ricorrente, ma senza dubbio devono almeno portare ad una ricostruzione soddisfacente dei fatti di causa e nel caso le accuse si rivelino fondate, condurre all'individuazione e punizione dei responsabili. In questo senso la Corte afferma che non è deprecabile un'inchiesta che si conclude con un nulla di fatto se questa è stata condotta con serietà e diligenza.

La sentenza Bati, nel complesso, sembra voler indicare linee guida agli inquirenti circa il concetto di indagine diligente in ipotesi di maltrattamento di un soggetto in vinculis, in modo da tracciare uno standard apprezzabile per il futuro e alla luce del quale giudicare la bontà delle investigazioni. La Corte infatti oltre a prevedere una casistica circa le "misure ragionevoli per assicurare le prove", specifica che uno dei requisiti necessari è l'indipendenza degli inquirenti; nella sentenza i giudici affermano che "For an investigation into torture or ill-treatment by agents of the State to be regarded as effective, the general rule is that the persons responsible for the inquiries and those conducting the investigation should be independent of anyone implicated in the events [...] This means not only that there should be no hierarchical or institutional connection but also that the investigators should be independent in practice" (113). Sul punto la Corte si è espressa in seguito, nelle sentenze Ipek c. Turchia e Çağlayan c. Turchia, in entrambe le ipotesi i giudici hanno ritenuto inadeguato l'organo inquirente perché subordinato gerarchicamente al Governatore, il quale a propria volta era legato alle forze di sicurezza nei cui confronti veniva svolta l'indagine (114); infine i giudici hanno riconosciuto anche la necessità di un controllo pubblico delle indagini e dei suoi risultati, per assicurare che l'obbligo procedurale di cui all'art. 3 della Convenzione fosse rispettato e applicato con tempestività (115).

Come abbiamo potuto osservare, l'obbligo di avviare una procedura di inchiesta richiede, perché sia soddisfatto, che l'indagine sia diligente; in parte ho già richiamato alcuni casi in cui il giudice di Strasburgo chiarisce questo requisito, ma vi è un ulteriore profilo di approfondimento. La Corte sin dalle prime pronunce circa gli obblighi procedurali derivanti dall'art. 3 della Convenzione, ha inteso vagliare anche gli apprezzamenti del materiale probatorio effettuati dalle Corti interne, nel caso in cui i giudizi si mostrassero manifestamente contraddittori o superficiali o si fondassero su elementi di prova che apparivano prima facie inattendibili (116). Nella sentenza Celik c. Turchia n. 1 (117), la Corte apre il proprio percorso argomentativo, elencando i requisiti minimi di un'indagine diligente, secondo cui l'inchiesta deve essere indipendente, imparziale e soggetta al controllo pubblico, e che le autorità competenti agiscano con diligenza esemplare e prontezza. Inoltre, la Corte ricorda che i diritti sanciti dalla Convenzione sono pratici ed efficaci, e non teorici o illusori. Pertanto, in tali casi, un'indagine efficace deve essere in grado di condurre all'identificazione e alla punizione dei responsabili. La Corte prosegue nella propria argomentazione dichiarandosi insoddisfatta del vaglio operato dai giudici nazionali in merito agli elementi probatori del caso di specie; la sentenza infatti si basa sulla circostanza in cui, a seguito ad un pestaggio subito dal ricorrente che si trovava in visita nel carcere, i testimoni oculari dell'accaduto erano stati ascoltati per la prima volta solo dopo tre anni, mentre al direttore del carcere e ai poliziotti era stata accordata l'impunità in applicazione di una legge che prevedeva la sospensione dei processi a carico dei poliziotti. Per questi motivi la Corte ha riconosciuto una violazione dell'obbligo procedurale derivante dall'art. 3 della Convenzione, in ragione del fatto che le autorità nazionali non avevano condotto un'indagine indipendente ed efficace sulla base delle accuse di maltrattamenti fatte dal ricorrente e per la scarsa diligenza usata nella valutazione e acquisizione del mezzo di prova oltre che per l'impunità riservata agli ufficiali.

Parimenti la Corte, ha giudicato insufficiente la valutazione del materiale probatorio operata dal Pubblico Ministero di Livorno nel caso Labita c. Italia (118) di qualche anno precedente. I giudici hanno ritenuto che l'archiviazione delle indagini circa i maltrattamenti subiti dal ricorrente nel carcere in cui era stato assegnato, fosse scorretta. Infatti la Corte non ritenne ammissibile che dopo una lunga inchiesta, il PM fosse riuscito solo a reperire alcune fotocopie in bianco e nero dei presunti aggressori, e che in seguito alla ben comprensibile difficoltà del Labita di riconoscere da tali elementi le guardie carcerarie che lo avevano aggredito, il Pubblico Ministero abbia optato per l'archiviazione del caso perché ignoti gli autori.

A partire da questa sentenza, parallelamente all'obbligo di avviare un'indagine in caso di denuncia di maltrattamenti, la Corte ha sviluppato un ulteriore profilo relativo alle violazioni procedurali negli specifici casi in cui l'imputato di reati di violenze ex art. 3 Cedu venga assolto a seguito di cause di estinzione del reato o della pena (119). Anzitutto il percorso argomentativo della Corte nella successiva giurisprudenza, si è incentrato sul concetto di rapidità del giudizio; ad esempio, nella sentenza Slimani c. Francia (120), dopo aver ribadito la necessità di una indagine imparziale ed efficace, volta alla identificazione e punizione dei responsabili, il giudice europeo statuisce che essa deve anche essere celere. Il requisito della rapidità era già stato richiamato in precedenza nel caso Tomasi c. Francia, in cui si dichiarava irragionevole il tempo impiegato per lo svolgimento dell'inchiesta relativa alla denuncia di presunti maltrattamenti. Come corollario del requisito della celerità la Corte ha statuito che, in caso di prescrizione del reato durante il processo, si debba ritenere comunque violato l'obbligo positivo derivante dall'art. 3, poiché il rimedio in cui consiste il procedimento penale non è stato sufficiente per la vittima della violenza (121).

Lo scopo della previsione giurisprudenziale dell'obbligo di inchiesta, sarebbe vanificato se non vi fosse correlato un'aspettativa di instaurazione del processo parimenti vincolante, qualora ovviamente i risultati dell'indagine supportino una richiesta di rinvio a giudizio. In proposito, nel caso Okkali c. Turchia (122), la Corte ha dichiarato che "L'aspetto procedurale dell'art. 3 è garantito solo quando è il complesso delle procedure, ivi compresa la fase del giudizio a soddisfare gli imperativi dell'interdizione posta da tale disposizione". In numerose sentenze successive (123) la Corte ha nuovamente affrontato il tema della prescrizione dichiarando che quando questa è conseguenza di una ingiustificata procrastinazione del procedimento penale; così i giudici nella sentenza Aşici c. Turchia (124), "les exigences procédurales de l'article 3 [...] s'étendent au-delà du stade des investigations préliminaires, lorsque celles-ci ont entraîné l'ouverture de poursuites pénales [...]. Ainsi, [...] il n'est pas acceptable non plus que l'aboutissement d'une telle procédure se heurte, entre autres, à la prescription pénale en raison d'atermoiements judiciaires incompatibles avec l'exigence de célérité et de diligence implicite dans ce contexte". Il caso presenta una ricostruzione dei fatti molto simile a precedenti casi già vagliati dalla Corte di Strasburgo, infatti il ricorrente lamentava di aver subito violenze gravi (in particolare la rottura del setto nasale) durante l'arresto da parte delle forze di polizia. Lo Stato non aveva contestato il referto medico comprovante le lesioni, ma aveva attribuito il fatto ad un uso legittimo della forza in proporzione alle resistenze operate dal ricorrente. La Corte ha rilevato che non ci fossero a favore della tesi proposte dallo Stato e che a causa della reticenza dell'organo di polizia (unico ad avere informazioni dirette per l'accertamento dei fatti), il giudizio nazionale era incorso in prescrizione. In questo contesto, secondo il giudice europeo, spetta allo Stato il compito di garantire che le autorità di polizia collaborino attivamente nelle indagini, in modo che si svolgano con successo, perché è inammissibile che in casi di accertamento di violazione dell'art. 3, non sia possibile individuare gli eventuali responsabili a causa di una prescrizione dovuta alla reticenza degli stessi indagati di violazione (125).

Sulla scia della giurisprudenza successiva al caso Bati, la Corte è intervenuta in circostanze riguardanti la violazione dell'art. 3 della Convenzione, anche in riferimento a casi di amnistia e indulto. Ad esempio, nel caso Turan Cakir c. Belgio (126) i giudici hanno stabilito che in casi in cui siano imputati di reato di tortura o trattamento disumano o degradante agenti di polizia, non sarà ammissibile una conclusione del processo a seguito di cause di estinzione del reato o della pena, ma che sia necessaria una sentenza nel merito. Nel caso di specie, il giudizio d'appello promosso dal ricorrente avverso il provvedimento di non luogo a procedere non era stato fissato se non a distanza di sei anni dall'impugnazione, quando il termine di prescrizione era ormai maturato.

La giurisprudenza inaugurata con il caso Bati è stata poi seguita nelle sue linee generali con le successive pronunce, in particolare con la sentenza Okkali c. Turchia (127), in cui per la prima volta la Corte ha affermato che in caso di violazione sostanziale dell'art. 3 da parte di agenti di polizia, in linea di principio, la concessione di un'amnistia o di indulto non deve essere permessa, il principio ha poi trovato una eco nella giurisprudenza più recente (128). In una sentenza resa l'anno successivo, la Corte afferma ulteriormente che coloro che si trovano nella condizione di indagato/imputato in un procedimento per violazione sostanziale ex art. 3 non dovrebbero poter rimanere in servizio, sarebbe più appropriata una sospensione in attesa della definizione delle loro responsabilità; a maggior ragione, in caso di comprovata colpevolezza, tali agenti dovrebbero essere licenziati (129). Sempre in riferimento all'amnistia, merita un cenno infine la decisione Ould Dah c. Francia (130), del marzo 2009, con cui la Corte ha dichiarato che l'intervenuta amnistia nello Stato in cui si sono verificati gli episodi di tortura non scalfisce la giurisdizione universale dello Stato membro della Convenzione nel cui territorio sia presente l'accusato, in ottemperanza agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in materia. Nel caso di specie, il ricorrente, un ufficiale dell'esercito mauritano giunto in Francia nel 1998, era stato denunciato per aver commesso episodi di tortura nel Paese d'origine e condannato dalle autorità giurisdizionali francesi, nonostante il fatto che avesse beneficiato, in patria, di un provvedimento di amnistia.

2.4.3 Divieto di estradizione ed espulsione alla luce dell'art. 3 Cedu

L'art. 3 della Convenzione è stato oggetto di numerose evoluzioni interpretative da parte della Corte, la quale ne ha esteso la portata sotto vari profili, alcuni dei quali sono stati già approfonditi. La norma in analisi ricopre un ruolo centrale anche in riferimento al tema dell'espulsione ed estradizione, infatti, con le sentenze analizzare di seguito, per la prima volta la Corte si pone il problema di che cosa possa accadere ad un detenuto quando questi passa dalla giurisdizione di uno Stato membro a quella di uno Stato terzo, in altre parole i giudici si pongono il problema di assicurare la validità del divieto di tortura e trattamento inumano e degradante anche al di fuori dei propri confini di competenza.

A partire dalla metà degli anni Ottanta si comincia a discutere il rapporto tra l'art. 3 della Convenzione che statuisce il divieto di tortura e trattamento disumano e degradante, e il potere dello Stato di allontanare dalla propria giurisdizione un individuo detenuto. Nelle sentenze Altun c. Repubblica Federale di Germania (131) e Kirkwood c. Regno Unito (132), rispettivamente degli anni 1983 e 1984, la Commissione afferma per la prima volta che esiste una responsabilità per lo Stato membro, ai sensi dell'art. 3, in ordine ai prevedibili maltrattamenti cui andrebbe incontro il detenuto che venisse espulso o estradato in un paese terzo. Particolarmente interessante è la decisione della Commissione nel caso Kirkwood, nel quale, analogamente a quanto accadrà nella sentenza Soering, si discuteva la possibilità di accordare agli Stati Uniti l'estradizione di una persona detenuta da parte del Regno Unito e la relativa compatibilità con l'art. 3 della Convenzione. Nello specifico i membri della Commissione erano chiamati a pronunciarsi sulla possibilità che il cosiddetto corridoio della morte, in cui i detenuti condannati alla pena di morte attendevano l'esecuzione della pena, per le sue caratteristiche particolarmente avvilenti e umilianti, fosse sufficiente ad integrare la soglia minima di gravità che determina la violazione della norma in analisi. La Commissione ha affermato che "If conditions in a country are such that the risk of serious treatment and the severiry of that treatment fall within the scope of Article 3 of the Convention, a decision to deport, extradite or expel an individual to face such conditions incurs the responsibility under Article I of the Convention of the contracting State which so decides". Tuttavia i commissari dopo aver valutato le condizioni fattuali del caso di specie hanno stabilito che non vi fosse un rischio tale da richiedere una protezione par ricochet.

La Corte, nel 1989, forte di un simile orientamento della Commissione volto a consolidare un ampliamento dell'ambito di applicazione dell'art. 3, si pronuncia nel caso Soering c. Regno Unito (133), dichiarando che l'estradizione era ostacolata dal fatto che nel Paese di destinazione il ricorrente avrebbe subito maltrattamenti vietati dalla Convenzione. E' importante precisare che la struttura argomentativa fa perno sulla colpevolezza dello Stato membro nel non garantire indirettamente il rispetto dell'art. 3 e non su una validità extraterritoriale della Convenzione.

Prima di proseguire nell'analisi della sentenza è utile richiamare i fatti da cui essa ha tratto origine. Il ricorrente, Jens Soering, era un cittadino tedesco con problemi mentali che nel 1985, nello Stato della Virginia (USA), aveva ucciso assieme alla fidanzata Elizabeth Haysom, di nazionalità canadese, i genitori di quest'ultima. In seguito al duplice omicidio, i due erano fuggiti nel Regno Unito, dove poi erano stati arrestati per truffa nell'aprile del 1986. Interrogato dalla polizia, il signor Soering aveva confessato anche la propria responsabilità nel reato di omicidio, per questi motivi, gli Stati Uniti avevano tempestivamente inoltrato la richiesta di estradizione di entrambi gli indagati verso la Virginia, ove peraltro vigeva la pena di morte, sanzione che il ricorrente presumibilmente rischiava di vedersi comminata. Mentre per la sua complice, la signorina Haysom, l'estradizione era stata eseguita senza ritardi, poiché canadese, per il Sig. Soering non fu così. Infatti, nel medesimo periodo era pervenuta richiesta anche dalla Germania, suo paese natale e di cui era cittadino; il ricorrente dunque aveva presentato ricorso presso gli organi di Strasburgo allo scopo di bloccare il procedimento, poiché nel frattempo le autorità britanniche avevano ritenuto sufficienti le garanzie fornite dal Procuratore Federale dello Stato americano in ordine alla non esecuzione della pena di morte, anche ove fosse stata irrogata dal tribunale competente, nonostante la rassicurazione consistesse in una nota al giudice competente in cui si chiedeva di tenere di conto la possibilità di non irrogare la pena capitale.

La sentenza della Corte europea presenta diversi profili d'interesse.

L'argomento principale di discussione era l'interpretazione del dispositivo di cui all'art. 3, nello specifico, se esso potesse essere o meno la base giuridica su cui fondare il divieto di estradizione di una persona posta sotto la giurisdizione di uno Stato membro verso uno Stato terzo in cui non era assicurato il rispetto del divieto sancito dalla norma in analisi; in particolare si dibatteva sul fatto che la permanenza nel cosiddetto corridoio della morte fosse condizione sufficiente a superare la soglia di gravità prevista per la violazione della norma in analisi.

La Commissione, nella relazione sul caso, aveva espresso il proprio parere positivo sostenendo che tali circostanze, estradizione o espulsione, potessero dare origine ad una possibile violazione dell'art. 3 per violazione dei diritti fondamentali (134). Dello stesso parere era anche la Germania, la quale adduceva come elemento corroborante la giurisprudenza interna dei tribunali tedeschi, le cui sentenze confermavano l'interpretazione che era stata data dalla Commissione.

In fine, lo stesso Soering, nella propria argomentazione difensiva aveva sostenuto che la norma della Convenzione dovesse essere letta nel senso di prevedere un divieto per gli Stati membri di porre la persona che si trova sotto la loro giurisdizione in una circostanza in cui rischiasse di subire da parte di uno Stato terzo, una lesione dei diritti fondamentali, previsti dalla Convenzione (135).

Alle argomentazioni favorevoli ad una interpretazione estensiva dell'art. 3 della Convenzione, si opponevano i Governi di Regno Unito e Stati Uniti. Quest'ultimi in particolare asserivano che una simile lettura interferisse con i trattati internazionali, e costringesse gli Stati membri a farsi carico del mantenimento dei criminali, impedendo agli Stati in cui era stato commesso il crimine di ottenere giustizia. Sotto il profilo probatorio il governo britannico aveva sostenuto che si potesse avvalorare una tutela ai sensi dell'art. 3 Cedu, solo nell'ipotesi in cui il maltrattamento fosse certo, imminente e grave (136), richiedendo che l'alea fosse provato oltre ogni ragionevole dubbio.

Per dirimere la controversia la Corte ha preso le mosse da considerazioni generali circa l'interpretazione e l'ambito di applicazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. In primo luogo i giudici hanno ricordato che l'art. 1 Cedu, fissa un limite, specialmente territoriale, all'ambito di applicazione della Convenzione, non prevedendo alcun obbligo in capo agli Stati terzi, ne prevedendo il rispetto delle norme convenzionali per tali Stati non membri. Per questi motivi i giudici hanno affermato che "Article 1 cannot be read as justifying a general principle to the effect that, notwithstanding its extradition obligations, a Contracting State may not surrender an individual unless satisfied that the conditions awaiting him in the country of destination are in full accord with each of the safeguards of the Convention" (137).

La Corte tuttavia afferma che una questione di violazione degli obblighi previsti dalla Convenzione potrebbe nascere ai sensi dell'art 3, in particolare i giudici hanno sottolineato che "These considerations cannot, however, absolve the Contracting Parties from responsibility under Article 3 for all and any foreseeable consequences of extradition suffered outside their jurisdiction" (138). In particolare, nell'analisi della norma in oggetto essi hanno valorizzato lo scopo speciale che il dispositivo persegue, ovvero la tutela collettiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per queste ragioni un'interpretazione che non garantisse una tutela pratica ed efficace di tali prerogative, violerebbe lo spirito della Convenzione, e in particolare del Preambolo della stessa.

La Corte in seguito terrà sempre presente la necessità ora espressa di non inficiare lo spirito dell'accordo pattizio che lega gli Stati del Consiglio d'Europa.

Sebbene vi sia un obbligo per gli Stati che vieta atti di tortura a livello internazionale nella Convenzione ONU contro la tortura, non vi è una diretta influenza della stessa sul dispositivo di cui all'art. 3. Tuttavia i giudici nella sentenza Soering hanno considerato necessario applicare una interpretazione tale da far rientrare nella norma in analisi anche il divieto di estradizione qualora vi sia un forte rischio di violenze contrarie all'art. 3. La motivazione sottesa, richiama proprio quella necessità, espressa in precedenza, di assicurare il rispetto dello spirito della Convenzione.

Dopo aver espresso il principio generale, i giudici statuiscono anche una serie di contemperamenti volti ad evitare che il divieto di estradizione si tramuti in una mancata applicazione della legge per il reo fuggito all'estero. In particolare la Corte afferma che è necessario trovare un bilanciamento tra la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'uomo e l'interesse generale della comunità a vedere puniti i responsabili dei crimini. Saranno le circostanze del caso a permettere una valutazione puntuale circa il rischio per il colpevole di subire maltrattamenti contrari all'art. 3. Dall'analisi del precorso argomentativo seguito dai giudici di Strasburgo, sin qui analizzato, si può evincere la ratio del divieto di estradizione, infatti appare chiaro che lo scopo di questa ulteriore tutela non sia quello di valutare la responsabilità dello Stato terzo per violazione del dispositivo di cui all'art. 3 della Cedu, bensì quello di vagliare l'operato dello Stato membro nell'assicurare che un soggetto posto sotto la propria giurisdizione non subisca maltrattamenti contrari alla Convenzione.

Dopo aver delineato i confini entro i quali interpretare il divieto di estradizione, l'analisi del caso di specie si è articola su due profili, da una parte, i giudici hanno cercato di ricostruire l'attività del sistema penale dello Stato della Virginia per capire quanto fosse probabile una condanna capitale del ricorrente; d'altro lato hanno valutato la compatibilità del cosiddetto corridoio della morte (condizione connessa alla condanna) con il divieto di tortura e trattamento disumano di cui all'art. 3 della Convenzione.

Circa il primo profilo, la Corte ha ritenuto insufficienti le garanzie offerte dal Governo degli Stati Uniti sulla scarsa probabilità di una condanna del ricorrente, ciò in ragione del fatto che nel sistema penale dello Stato della Virginia tali raccomandazioni non hanno alcun peso certo sulla decisione del giudice di merito. Per questi motivi il rischio di condanna e dunque di subire maltrattamenti vietati dalla Convenzione è sufficiente a far scattare una valutazione della compatibilità dell'estradizione con il dispositivo dell'art. 3 Cedu.

Con riguardo al secondo profilo, la Corte prosegue la propria analisi del caso di specie, studiando in prima battuta il ruolo della pena capitale nel sistema penale degli Stati membri e successivamente applicando tali considerazione alla circostanza concreta.

La pena capitale al momento della statuizione del caso Soering era regolata dall'art. 2 co.1 della Convenzione, il quale consente la condanna a morte del colpevole nel solo caso di esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena. Con l'estradizione del ricorrente nel paese terzo, il Regno Unito avrebbe di fatto condannato a morte il sig. Soering in un'ipotesi diversa rispetto a quella prevista dall'art. 2. Inoltre i giudici nella loro valutazione del caso hanno tenuto in considerazione anche la relazione presentata dall'organizzazione Amnesty International, che sosteneva la tesi per cui la pena di morte per le sue caratteristiche costituiva una pena disumana e degradante in violazione dell'art. 3 Cedu.

La Convenzione, per stessa ammissione del corpo giudicante, è uno strumento vivo, che necessita un'interpretazione capace di tener conto delle condizioni attuali, e in questo caso degli standard di politica penale applicati negli Stati membri. I giudici alla luce di questa analisi affermano che, "De facto the death penalty no longer exists in time of peace in the Contracting States to the Convention. In the few Contracting States which retain the death penalty in law for some peacetime offences, death sentences, if ever imposed, are nowadays not carried out. This 'virtual consensus in Western European legal systems that the death penalty is, under current circumstances, no longer consistent with regional standards of justice', to use the words of Amnesty International, is reflected in Protocol No. 6 to the Convention, which provides for the abolition of the death penalty in time of peace" (139). La Corte richiamando il Protocollo n. 6 alla Convenzione (approvato, ma non ancora entrato in vigore), relativo all'abolizione della pena di morte, ha sottolineato un'evoluzione degli standard di giustizia che la Convenzione ha il dovere di valorizzare, ma i giudici hanno ritenuto inadeguato interpretare l'art. 3 come grimaldello per dichiarare la pena di morte pena disumana e degradante a priori, in quanto ciò non era riconducibile alla volontà dei redattori. Tuttavia il collegio non ha chiuso totalmente la porta alla possibilità di sottoporre la pena capitale al vaglio dell'art. 3 Cedu, dichiarando che di volta in volta è necessario valutare se dalle circostanza del caso è possibile evincere un superamento della soglia di gravità, richiesto dalla norma in analisi (140).

Applicando tali considerazioni alle circostanza concrete del caso, la Corte ha tenuto conto delle argomentazioni del ricorrente, secondo cui, i tempi molto lunghi del sistema di ricorsi in sede penale dello stato della Virginia, lo avrebbero costretto a stare nel cosiddetto braccio della morte per circa sei-otto anni, periodo in cui a causa della giovane età e del disturbo psichico di cui era affetto, avrebbe rischiato con ogni probabilità di subire violenze fisiche anche di natura sessuale. In aggiunta a tutto ciò, il periodo particolarmente lungo di attesa del responso avrebbe causato un forte stress psicologico tale da integrare una violazione ai sensi dell'art. 3 Cedu. Al contrario del parere reso dalla Commissione, i giudici hanno ritenuto tenere in forte considerazione il fattore anagrafico (al momento del delitto il ricorrente aveva appena 18 anni) e le sue condizioni psicologiche, ritenendo che i due fattori cumulativamente alla durata della detenzione nel braccio della morte fossero elementi sufficienti per superare la soglia di gravità richiesta dalla norma in analisi. In fine i giudici hanno valutato positivamente la possibilità di estradare il ricorrente nel proprio paese natio, la Repubblica Federale di Germania, in modo da assicurare il colpevole di un efferato omicida alla giustizia, non rischiando di lasciare un vuoto creato dalla garanzia offerta ai sensi dell'art. 3. In tal caso i giudici hanno effettuato un bilanciamento tra gli interessi in gioco, ovvero quello di garantire il rispetto delle tutele dei diritti dell'uomo e quello di assicurare il responsabile di un efferato omicidio alla giustizia.

Per questi motivi i giudici all'unanimità e per la prima volta si pronunciano positivamente rispetto alla violazione dell'art. 3 in caso di estradizione di un detenuto verso un paese terzo in cui non era assicurato il rispetto delle norme della Convenzione. Di seguito le parole dei giudici,

However, in the Court's view, having regard to the very long period of time spent on death row in such extreme conditions, with the ever present and mounting anguish of awaiting execution of the death penalty, and to the personal circumstances of the applicant, especially his age and mental state at the time of the offence, the applicant's extradition to the United States would expose him to a real risk of treatment going beyond the threshold set by Article 3 (art. 3). A further consideration of relevance is that in the particular instance the legitimate purpose of extradition could be achieved by another means which would not involve suffering of such exceptional intensity or duration.

Accordingly, the Secretary of State's decision to extradite the applicant to the United States would, if implemented, give rise to a breach of Article 3 (141).

Con la sentenza Soering c. Regno Unito la giurisprudenza della Corte compie un'evoluzione significativa nell'ampliamento delle tutele offerte alla persona privata della libertà. Come abbiamo potuto leggere nell'analisi del percorso argomentativo dei giudici, per la prima volta, in questa occasione, si afferma la possibilità di passare al vaglio della Convenzione le condizioni di detenzione patite da un soggetto in uno Stato terzo dopo che è avvenuto il provvedimento di espulsione o estradizione. La particolarità della sentenza non si limita però a questo fattore molto importante, infatti, i giudici nel 1989 hanno affermato anche che la responsabilità di uno Stato membro per "concorso" nella violazione dei diritti sanciti dall'art. 3, sarà vagliata alla luce del giudizio probabilistico sul verificarsi della condotta vietata (142). Il criterio trova un fondamento di validità nella necessità di assicurare una applicazione pratica ed efficace della Convenzione (143); in concreto, il giudizio probabilistico effettuato dai giudici, prevede che qualora il ricorrente presenti elementi di prova oggettivi in grado di far ritenere il rischio di violazione dell'art. 3, come reale, l'onere di dare prova contraria e dunque convincere i giudici dell'assenza del rischio, spetterà allo Stato convenuto. In proposito possiamo leggere le parole della Cote stessa, la quale afferma che "It is not normally for the Convention institutions to pronounce on the existence or otherwise of potential violations of the Convention. However, where an applicant claims that a decision to extradite him would, if implemented, be contrary to Article 3 by reason of its foreseeable consequences in the requesting country, a departure from this principle is necessary, in view of the serious and irreparable nature of the alleged suffering risked, in order to ensure the effectiveness of the safeguard provided by that Article (art. 3)" (144).

Con questa pronuncia, i giudici di Strasburgo hanno tentato di specificare con maggiore accuratezza il principio espresso pochi anni prima nella sentenza Campbell e Consans c. Regno Unito (145) di cui ho già parlato. In quell'occasione, la Corte aveva affermato che una violazione dell'art. 3 per timore di una condotta vietata non era ammissibile, salvo il caso in cui esso fosse reale e la sua verificazione immediata. A distanza di sette anni, con il caso Soering, la Corte compie un'opera di generalizzazione, specificando che il timore per una violazione dei diritti dell'uomo è rilevante ai fini della condanna dello Stato convenuto quando ci sono consistenti motivi di credere che tale maltrattamento avverrà. Come abbiamo visto, nel caso di specie i consistenti motivi sono stati ravvisati sia nell'analisi del sistema penale della Virginia, che non garantiva un giudizio diverso dalla pena di morte in ragione dell'età, dello stato mentale del ricorrente o delle garanzie fornite dal Governo statunitense, e nell'affermazione dello stesso Governo britannico per cui vi era un rilevante rischio per Soering che la pena di morte sarebbe stata comminata.

La giurisprudenza inaugurata con la sentenza Soering c. Regno Unito, è stata poi seguita nelle sue linee generali nei casi successivi. Nella sentenza Vilvarajah c. Regno Unito, la giurisprudenza della Corte specifica che il pericolo per il ricorrente oltre ad essere reale deve essere anche personale, cioè il pericolo deve riguardare direttamente l'individuo oggetto del provvedimento di espulsione: "The evidence before the Court concerning the background of the applicants, as well as the general situation, does not establish that their personal position was any worse than the generality of other members of the Tamil community or other young male Tamils who were returning to their country. Since the situation was still unsettled there existed the possibility that they might be detained and ill-treated as appears to have occurred previously in the cases of some of the applicants (see paragraphs 10, 22 and 33 above). A mere possibility of ill-treatment, however, in such circumstances, is not in itself sufficient to give rise to a breach of Article 3" (146).

Un'ulteriore evoluzione giurisprudenziale si ha con la sentenza Cruz Varas c. Svezia (147), in cui la Corte ha affermato che un'astratta possibilità di violazione dei diritti fondamentali non è sufficiente ad integrare una responsabilità dello Stato parte in caso di estradizione o espulsione. Nel caso di specie, il ricorrente, Cruz Varas, a causa della sua militanza politica aveva subito nel proprio paese d'origine, il Cile, violenze, abusi e detenzione arbitraria. Per queste ragioni aveva lasciato il Cile chiedendo asilo politico in Svezia, in seguito al rigetto della domanda, aveva fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo affermando che il provvedimento di espulsione avrebbe comportato per sé e la propria famiglia il rischio di subire maltrattamenti contrari all'art. 3 della Convenzione (148). La Corte in tale circostanza concluse che, tenendo conto anche del miglioramento delle condizioni generali di tutela dei diritti fondamentali riscontrati in Cile a seguito del mutamento del regime politico, non vi erano prove sufficienti a dimostrare che l'espulsione avrebbe comportato per il ricorrente un pericolo reale di maltrattamenti (149).

La Corte, con riferimento alla nozione di rischio al quale è sottoposto l'individuo da espellere o estradare, si è spesso divisa tra un giudizio che tenesse conto unicamente della situazione contingente generale e un'argomentazione che invece tenesse conto anche delle condizioni speciali del ricorrente.

Nel caso Salah Sheekh c. Paesi Bassi (150), il ricorrente sosteneva che se fosse stato deportato in Somalia settentrionale avrebbe corso un rischio reale di essere sottoposto a tortura o a trattamenti crudeli e inumani in ragione della propria appartenenza al gruppo di minoranza Reer Hamar. Non avendo nessun clan o legami familiari nelle aree "relativamente sicure", vi era la concreta possibilità che sarebbe stato costretto a vivere in un campo per sfollati. Secondo il ricorrente, le condizioni in questi campi erano disumane e dunque nel complesso il provvedimento di allontanamento avrebbe integrato una violazione indiretta dell'art. 3 della Convenzione.

La Corte innanzitutto assicura che l'eventuale estradizione del ricorrente sarebbe avvenuta verso le zone del paese considerate "relativamente sicure", nell'interesse della salvaguardia di quest'ultimo; essa rileva anche che le zone in questione non sono quelle di appartenenza del ricorrente, il quale si troverebbe privo della protezione del proprio clan. I giudici riconoscono che vi è una questione circa la compatibilità di un provvedimento di espulsione verso zone in cui è assente una rete sociale e le garanzie offerte dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Nella propria decisione il collegio si basa sulla relazione dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) compiuta nel 2004 in Somalia, secondo la quale l'espulsione di un cittadino somalo verso una parte del paese da cui non ha origine, sarebbe deleteria, visto che in tali Paesi la società si basa sul sistema del clan dominante, per cui il clan di appartenenza è l'elemento comune più importante per sicurezza personale. Dopo aver analizzato la situazione generale di rispetto dei diritti umani nel Paese di destinazione, la Corte si dichiara sfavorevole ad un provvedimento di espulsione poiché nelle zone specifiche del territorio dello Stato terzo, il ricorrente avrebbe subito maltrattamenti in violazione dell'art. 3 della Cedu (151).

In altri casi la Corte, pur riscontrando un rischio generale di tortura o trattamento disumano o degradante, ha approfondito l'indagine, applicando l'ulteriore criterio fondato sull'esame di un rischio speciale, legato specificatamente alla persona ricorrente. Nel caso A. c. Paesi Bassi (152), oggetto della sentenza era una possibile espulsione del ricorrente verso la Libia dove in passato aveva militato nel partito politico di opposizione; questi obiettava che a causa delle rivelazioni fatte sul gruppo politico di appartenenza, avrebbe rischiato di subire maltrattamenti contrari all'art. 3. La Corte in primo luogo ricorda che gli Stati contraenti hanno il diritto, come afferma un consolidato diritto internazionale, di controllare l'ingresso, il soggiorno e l'espulsione degli stranieri; tuttavia, l'espulsione di uno straniero da parte di uno Stato contraente può dar luogo a una questione di cui all'art. 3, e quindi impegnare la responsabilità dello Stato ai sensi della Convenzione, in particolare nel caso in cui sussistano fondati motivi di ritenere che la persona interessata, se deportata, verrebbe esposta al rischio di subire trattamenti contrari alla Convenzione. La norma in analisi, in questi casi implica l'obbligo di non espellere il ricorrente verso il Paese terzo di origine. La Corte, in secondo luogo ha affermato il principio per cui, la valutazione del rischio cui è sottoposto il ricorrente espulso deve essere fatta sulla base delle circostanze esistenti al momento del giudizio, tenendo conto sia dei mutamenti positivi che negativi delle condizioni di tutela dei diritti dell'uomo (153). La Corte ha osservato anche che dai materiali in suo possesso ed dai materiali proposti dalle parti si può comprendere che la situazione generale dei diritti umani in Libia continuava a dare adito a serie preoccupazioni. Quando si tratta della tutela delle persone detenute in Libia, i materiali provenienti da fonti governative e non governative hanno indicato l'esistenza di un rischio reale per i detenuti di essere sottoposti a tortura e o maltrattamenti. In particolare il rischio specifico che corre il ricorrente si somma a quello generale appena evidenziato, poiché il partito cui apparteneva, potrebbe voler punire il proprio ex affiliato. La Corte, pertanto, ha ritenuto sussistenti fondati motivi di credere che il ricorrente potrebbe incorrere in un rischio reale di trattamento vietato ai sensi dell'art. 3 della Convenzione, se venisse espulso verso la Libia.

Un'ultima ipotesi vagliata dalla Corte riguarda il caso in cui l'indagine circa un rischio generale abbia dato esito negativo; in tali casi la Corte procederà alla valutazione del rischio particolare corso dal ricorrente, tenendo conto dei diversi fattori di natura personale, professionale o altro. Ad esempio, nel caso in cui nel Paese d'origine non vi siano particolari ragioni da far ritenere esistente un rischio generale di subire maltrattamenti, come era avvenuto nel caso R.c. c. Svezia (154) in riferimento all'espulsione verso l'Iran, ma tuttavia esistesse un rischio particolare per coloro che non potevano dimostrare di aver lasciato il Paese in modo legale. Un altro esempio che vede come Stato convenuto ancora una volta la Svezia, riguarda l'espulsione di una ricorrente verso l'Afghanistan; anche in questo caso il Paese di destinazione non presentava condizioni tali da integrare un rischio generale per la donna di subire maltrattamenti, tuttavia, la mancata conformazione ai rigidi costumi e tradizioni locali della ricorrente la esponeva ad un rischio specifico di subire violenze in contrasto con l'art. 3 (155). In proposito è interessante anche la sentenza F. c. Regno Unito (156), in cui la Corte non ha ritenuto accettabile le istanze del ricorrente, il quale temeva che a causa della propria omosessualità avrebbe subito violenze in Iran, paese d'origine. La Corte in questo caso ha affermato che non tutte le restrizioni dei diritti riconosciuti dalla Convenzione possono comportare una violazione dell'art. 3 Cedu, ma solo quello che raggiungono la soglia minima di gravità. In questo caso il proprio diritto alla vita privata era bilanciabile con l'interesse dello Stato membro ad estradare il ricorrente.

Il divieto di estradizione che nasce dall'interpretazione estensiva fatta dalla Corte nelle prime sentenze a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, trova ulteriori approfondimenti nella giurisprudenza successiva. Nel 1996 con le sentenze Chahal c. Regno Unito (157) e Ahmed c. Austria (158), la Corte afferma che quanto detto sino a quel momento per il provvedimento di estradizione, dovesse essere considerato valido anche per l'espulsione; per l'analisi della prima sentenza, si rinvia ai paragrafi precedenti, mentre è necessario approfondire le circostanze della seconda.

Il ricorrente, cittadino somalo, aveva ottenuto lo status di rifugiato in quanto membro di un partito politico di opposizione e per questo sottoposto a persecuzione; già due suoi familiari erano stati uccisi da esponenti del partito avversario. Dopo quattro anni dal suo arrivo in Austria, il sig. Ahmed fu condannato a due anni e mezzo per tentata rapina e per questo motivo il Governo ritirò lo status di rifugiato e provvide immediatamente all'espulsione dal territorio nazionale. Dopo aver ottenuto, tramite appello, una sospensione del provvedimento di un anno, rinnovabile periodicamente in ragione delle condizioni di sicurezza offerte dal Paese di destinazione, il ricorrente ha presentato il caso ai giudici di Strasburgo; egli sosteneva che ci fosse una violazione dell'art. 3 nel provvedimento di espulsione, poiché nel Paese di origine vi erano forti rischi che subisse violenze censurate dalla norma in analisi. La Corte si trovava a decidere se il provvedimento di espulsione fosse soggetto allo stesso vaglio previsto per quello di estradizione e se il pericolo per lo Stato comportato dal ricorrente fosse bilanciabile con la necessità di salvaguardare i diritti sanciti dalla Convenzione.

In primo luogo la Corte riafferma il "principio Soering" secondo cui "However, the expulsion of an alien by a Contracting State may give rise to an issue under Article 3, and hence engage the responsibility of that State under the Convention, where substantial grounds have been shown for believing that the person in question, if expelled, would face a real risk of being subjected to treatment contrary to Article 3 in the receiving country. In these circumstances, Article 3 implies the obligation not to expel the person in question to that country" (159).

Successivamente la Corte, anche in un caso di espulsione richiama le precedenti argomentazioni in tema di art. 3, affermando che il carattere assoluto e lo spirito della Convenzione non permettono ad uno Stato membro di allontanare dal proprio territorio una persone che nel Paese di origine sarebbe sottoposto al concreto rischio di torture o trattamenti disumani o degradanti, anche quando lo Stato ospitante adduca ragioni di ordine pubblico o sicurezza nazionale (160).

Proprio questa ultima argomentazione della Corte estende la protezione dell'art. 3 nei confronti dei rifugiati in senso più ampio rispetto alla Convenzione ONU sullo Status dei rifugiati del 1951, la quale all'art. 33 co.2 prevede deroghe che invece l'articolo in analisi esclude (161):

Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere in nessun modo un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche. 2 Il beneficio di detta disposizione non potrà tuttavia essere invocato da un rifugiato per il quale vi siano gravi motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure da un rifugiato il quale, essendo stato oggetto di una condanna già passata in giudicato per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato.

L'orientamento della Corte troverà riscontro nella successiva convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, in cui all'art. 3 co.1 si può leggere:

nessuno Stato contraente espellerà, rimpatrierà o estraderà una persona verso un altro Stato ove vi siano dei seri motivi di credere che rischi di essere sottoposto a tortura.

Un ulteriore profilo di sviluppo operato dai giudici di Strasburgo in riferimento al tema in analisi, riguarda l'estensione della copertura di garanzia offerta dall'art. 3 nell'ipotesi in cui l'estradizione o l'espulsione di un detenuto comporti un rischio per la sua salute.

Il caso di riferimento è la sentenza D. c. Regno Unito (162), in cui il ricorrente, un trafficante di stupefacenti, era un cittadino del piccolo arcipelago di Saint Kitts e Nevis, che era entrato illegalmente in territorio inglese ed poi arrestato perché trovato in possesso di una grossa quantità di cocaina. Sottoposto a regolare processo, era stato condannato a scontare una pena detentiva di 3 anni in un carcere britannico. Dopo circa un anno e mezzo dall'imprigionamento, gli era stata diagnosticata la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), per la quale veniva sottoposto a tutte le cure del caso. Dopo aver scontato la pena e rimesso in libertà, le autorità britanniche avevano emanato un provvedimento di espulsione nei suoi confronti, contro il quale egli si appellava inutilmente presso il tribunale nazionale competente prima e agli organi di Strasburgo successivamente. A ragione della propria opposizione all'espulsione, egli sosteneva di essere vittima di una violazione dell'art. 3 della convenzione poiché nel suo Paese d'origine non avrebbe potuto ricevere le cure del caso, né essere in alcun modo assistito, essendo privo di parenti o amici, mentre al momento era seguito da alcune associazioni di volontariato. La Corte in tale circostanza afferma che qualora circostanze di carattere umanitario lo richiedano è necessario interpretare l'art. 3 in modo da offrire garantire una certa flessibilità alle tutele offerte dalla norma, in particolare i giudici hanno affermato che "Against this background the Court emphasises that aliens who have served their prison sentences and are subject to expulsion cannot in principle claim any entitlement to remain in the territory of a Contracting State in order to continue to benefit from medical, social or other forms of assistance provided by the expelling State during their stay in prison. However, in the very exceptional circumstances of this case and given the compelling humanitarian considerations at stake, it must be concluded that the implementation of the decision to remove the applicant would be a violation of Article 3" (163).

In questo modo la Corte ha giudicato responsabile lo Stato convenuto, esprimendo il principio secondo cui anche una impossibilità di ricevere cure adeguate può integrare un serio rischio tale per cui l'allontanamento del territorio del ricorrente comporterebbe una violazione ai sensi dell'art. 3.

L'obbligo positivo di proteggere gli individui dai maltrattamenti ai sensi dell'art. 3 della Convenzione, può nascere anche se le condotte vietate sono eseguite non da pubblici ufficiali, ma da soggetti privati. Tali obblighi, possono sorgere in capo allo Stato solo se le autorità erano a conoscenza, o potevano esserlo, della violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla norma in analisi, queste le parole dei giudici nella sentenza Z e a. c. Regno Unito, "The obligation on High Contracting Parties under Article 1 of the Convention to secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in the Convention, taken in conjunction with Article 3, requires States to take measures designed to ensure that individuals within their jurisdiction are not subjected to torture or inhuman or degrading treatment, including such ill-treatment administered by private individuals. These measures should provide effective protection, in particular, of children and other vulnerable persons and include reasonable steps to prevent ill-treatment of which the authorities had or ought to have had knowledge" (164).

Allo scopo di prevenire la minaccia contro l'integrità fisica e psichica degli individui causata da altri privati cittadini, la Corte ha inteso ravvedere nell'obbligo positivo una responsabilità dello Stato di prevedere sanzioni penali capaci di scoraggiare tali violazioni; inoltre la Corte ha stabilito che lo Stato, per liberarsi dall'obbligo di tutela orizzontale previsto ai sensi dell'art. 3, dovrà garantire investigazioni effettive e una provvedimenti efficaci per la lotta al crimine, in particolare riservando una tutela speciale a persone o gruppi particolarmente vulnerabili.

La responsabilità dello Stato per atti di violenza compiuti tra privati, è individuata dalla Corte nella sentenza HLR c. Francia (165), in cui il ricorrente, un cittadino colombiano, rischiava un procedimento di espulsione nel proprio Stato d'origine, in cui era fortemente probabile il rischio di venire ucciso per mano di un cartello di droga concorrente. La Corte, richiamando il carattere assoluto dell'art. 3 ha ritenuto di dover decidere nel senso di accordare una protezione anche nel caso in cui la condotta lesiva dell'integrità fisica provenga da persone o gruppi che non siano pubblici ufficiali. Sentenze più recenti sempre di questo tenore sono la sentenza Opuz c. Turchia (166), del 2009, in cui la Corte ribadisce i principi espressi nel precedente caso e aggiunge che non è possibile subordinare l'intervento dello Stato all'istanza della vittima, specie nei casi di violazione dell'art. 3, e le sentenze Rodic e altri c. Bosnia Erzegovina (167), del 2008 e E.S. e a. c. Slovacchia (168) del 2009, in questi casi la Corte specifica che l'obbligo positivo di protezione e prevenzione può variare sia sulla base del livello di vulnerabilità della vittima, sia rispetto alla natura e alla gravità delle offese (già subite o minacciate).

Nella sentenza Ilascu e a. c. Moldavia e Russia (169), la Corte chiude il cerchio con una previsione che respinge l'idea di un deficit di responsabilità dello Stato qualora questi abbia perso i propri poteri sovrani effettivi su parte del territorio di propria giurisdizione, in questi casi, lo Stato non è liberato dall'obbligo di compiere ogni sforzo per prevenire o reprimere ogni violazione dell'art. 3 Cedu.

Più recentemente, il tema del divieto di espulsione o estradizione quando nel Paese di destinazione vi sia il rischio per l'individuo di patire torture o trattamenti disumani o degradanti, è stato affrontato anche nel nostro Paese. Emblematica è la sentenza Saadi c. Italia (170), la quale giunge in un momento in cui il rinvio in Paesi noti per la pratica di tortura e maltrattamenti avviene con una frequenza preoccupante in nome della "guerra al terrorismo". La Corte ha riaffermato la regola espressa in primis nel caso Soering secondo cui nessuna circostanza, comprese la minaccia di terrorismo o le preoccupazioni per la sicurezza nazionale, può giustificare l'esposizione di un individuo al rischio concreto di tali seri abusi di diritti umani (171).

Il caso di specie riguarda la decisione delle autorità italiane di estradare in Tunisia Nassim Saadi, un cittadino tunisino legalmente residente in Italia. Il ricorrente è stato processato in contumacia in Tunisia per reati di stampo terroristico e condannato a venti anni di carcere. Di fronte alla Corte Europea, Saadi ha dichiarato che sarebbe andato incontro al rischio di tortura e maltrattamenti in Tunisia, un Paese in cui gli abusi sui presunti terroristi sono una pratica abituale e ben documentata.

La Corte, nella ricostruzione dei fatti ha ribadito che devono essere tenute di conto le circostanze esistenti nel Paese di destinazione al momento della decisione, se l'estradizione è stata ritardata per provvedimenti provvisori ai sensi dell'art. 39 della Convenzione, l'organo giudicante dovrà considerare la situazione reale e più recente per la valutazione del rischio di maltrattamento cui potrebbe andare in contro il ricorrente (172).

La Corte rileva anzitutto che gli Stati sono chiamati ad affrontare difficoltà immense, nei tempi moderni, nel proteggere le loro comunità dalla violenza terrorista; essa non può pertanto sottovalutare la portata del pericolo del terrorismo e la minaccia che rappresenta per la comunità. Ciò non deve, tuttavia, mettere in discussione la natura assoluta dell'art. 3, in particolare, i giudici come fecero nella sentenza Chahal, hanno respinto le obiezioni del Governo inglese di effettuare un bilanciamento dei diritti fondamentali ogni qual volta vi fossero circostanze che riguardassero la lotta al terrorismo. La Corte afferma saldamente che i due concetti di "rischio e pericolosità" non sono legati tra loro e devono essere valutati l'uno indipendentemente dall'altro (173).

Nel caso di specie, la Corte ha tenuto conto, in primo luogo, i rapporti di Amnesty International e dell'Human Rights Watch sulla Tunisia, che descrivono una situazione preoccupante; le conclusioni di tali relazioni sono corroborate dal rapporto del Dipartimento di Stato americano, in particolare, tali relazioni menzionano numerosi e regolari casi di tortura e maltrattamenti ai danni di persone accusate di far parte di cellule terroristiche. Le pratiche che i rapporti hanno riferito includono la sospensione al soffitto, le minacce di stupro, la somministrazione di scariche elettriche, l'immersione della testa in acqua, percosse e bruciature di sigaretta. Tutte queste pratiche, afferma la Corte, raggiungono senza dubbio il livello di gravità richiesto dall'art. 3, in aggiunta a tali atrocità si vi è anche un forte deficit strutturale, infatti i rapporti dichiarano che le accuse di tortura e maltrattamenti non sono indagati dalle autorità tunisine competenti, le quali si rifiutano di dare seguito alle denunce utilizzando, invece, regolarmente le confessioni ottenute sotto costrizione. La Corte, tenendo conto della provenienza dei report e delle autorità che li hanno curati, non dubita la loro affidabilità e in virtù del reale rischio di maltrattamenti a condannato lo Stato italiano per il provvedimento di espulsione del ricorrente.

La sentenza ha anche affrontato il problema delle ässicurazioni diplomatiche" e qualora il dovere di uno stato di non effettuare deportazioni, ove vi sia il rischio di tortura o maltrattamento, possa essere mitigato dalle promesse di trattamento umano da parte del Paese dove l'individuo deve essere deportato. La Corte ha ritenuto che tali assicurazioni non bilancino automaticamente un rischio reale, sottolineando "che l'esistenza di leggi nazionali e l'adesione a trattati non sono sufficienti ad assicurare protezione adeguata contro il rischio di maltrattamento". La Corte ha lasciato aperta la questione se le assicurazioni possono, "nella loro attuazione pratica", fornire una garanzia sufficiente contro il rischio di maltrattamento". Di fatto, una volta che tale rischio è stabilito, la Corte non ha mai riconosciuto assicurazioni in grado di rimuoverlo. Un numero crescente di attori internazionali (tra cui l'Alto Commissario per i diritti umani, il relatore speciale sulla tortura, e il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa) ritengono che le assicurazioni diplomatiche contro la tortura e i maltrattamenti siano intrinsecamente inaffidabili e praticamente inattuabili, e che pertanto non costituiscano una salvaguardia efficace contro la tortura e i maltrattamenti.

2.4.4 Onere probatorio

L'impegno della Corte ad assicurare l'avvio delle indagini ogni qualvolta vi sia una denuncia da parte di un soggetto in vinculis è strettamente legata alla giurisprudenza dell'organo europeo in tema di onere probatorio.

Lo standard probatorio richiesto dalla Corte, in caso di violenze nei confronti di persone detenute, ha subito evoluzioni di notevole portata. Originariamente, nelle pronunce in materia di violazione del divieto di tortura e trattamento disumano e degradante nei confronti di un Paese membro, la Corte si è dimostrata particolarmente sensibile allo stigma connesso ad una simile accusa, per questo si è orientata verso la richiesta di una rigorosa prova della condotta lesiva, la quale doveva essere sufficiente a fondare il convincimento dei giudici "oltre ogni ragionevole dubbio". La Corte richiedeva di fornire indizi gravi, precisi e concordanti, come deriva dalla sua più vecchia pronuncia in materia, il caso Irlanda c. Regno Unito: "The Court agrees with the Commission's approach regarding the evidence on which to base the decision whether there has been violation of Article 3. To assess this evidence, the Court adopts the standard of proof 'beyond reasonable doubt' but adds that such proof may follow from the coexistence of sufficiently strong, clear and concordant inferences or of similar unrebutted presumptions of fact. In this context, the conduct of the Parties when evidence is being obtained has to be taken into account" (174).

A partire dagli anni Novanta, la Corte ha mutato il proprio orientamento in tema di onere della prova, con le sentenze Tomasi c. Francia e Selmouni c. Francia (175), nelle quali è possibile apprezzare un cambiamento di criterio, non più quello dell'"oltre ogni ragionevole dubbio", bensì una "presunzione di responsabilità" in capo alle autorità statali.

Sulla base della nuova impostazione data dalla Corte, l'onus probandi veniva ripartito tra ricorrente e Stato convenuto nel seguente modo:

Per quanto concerneva la vittima, questa doveva dare prova ai giudici delle violenze subite attraverso qualsiasi elemento, come ad esempio, referti medici o testimonianze di compagni di cella. Le accuse, in tal caso, dovevano convincere la Corte secondo lo standard dell'oltre ogni ragionevole dubbio; tale prova poteva risultare da un insieme di indizi o di presunzioni, non contestate dalla contro-parte, sufficientemente gravi, precisi e concordanti (176).

Il nesso causale intercorrente tra le lesioni così dimostrate e la condotta degli agenti di polizia penitenziaria, era invece coperta dalla nuova impostazione della presunzione della responsabilità, secondo cui spettava allo Stato dare prova che i fatti si erano svolti diversamente (177) rispetto a quanto affermato dal ricorrente.

In questo caso lo Stato convenuto poteva liberarsi da ogni responsabilità se dimostrava, o che le violenze inflitte alla vittima non erano tali da integrare la gravità minima necessaria richiesta dalla giurisprudenza della Corte per le violazione dell'art. 3; oppure che le lesioni non erano rilevanti perché pregresse all'arrivo in carcere o auto procurate durante la detenzione, ovvero perché inflitte in un contesto in cui l'uso della forza si era qualificato come necessario e proporzionato.

In concreto, nella sentenza Selmouni c. Francia, i giudici hanno consolidato quanto stabilito nel caso Tomasi, leading case in materia, stabilendo che vi è inversione dell'onere della prova tutte le volte in cui un individuo viene tratto in custodia dalla polizia in stato di buona salute, ma si trova ferito al momento del rilascio, verosimilmente dagli agenti allo scopo di estorcergli una confessione per il crimine del quale è indagato. Spetta pertanto allo Stato di fornire una spiegazione plausibile di come quelle lesioni siano state causate. Con ogni probabilità, a fondamento dell'evoluzione dello standard probatorio vi è la considerazione della Corte per cui, in un sistema chiuso e isolato come quello carcerario, è più facile per l'amministrazione penitenziaria raccogliere elementi sufficienti a dare prova del reale svolgimento dei fatti, anziché per la vittima delle violenze, vera e propria parte debole della vicenda.

I giudici in una recente sentenza contro la Turchia, hanno infatti affermato che "Dans le cas de personnes blessées alors qu'elles se trouvaient sous le contrôle d'autorités ou d'agents de l'Etat - par exemple pendant des opérations policières ou militaires -, la charge de la preuve incombe au gouvernement défendeur; ainsi, c'est à celui-ci qu'il appartient de réfuter les allégations formulées à son endroit par des moyens appropriés et convaincants, et ce a fortiori lorsque les autorités ou les agents en question sont réputés êtres les seuls, d'une part, à connaître le déroulement exact des faits incriminés et, d'autre part, à avoir accès aux informations susceptibles, justement, de confirmer ou de réfuter de telles allégations" (178); in questo caso il giudice di Strasburgo ha messo in evidenza che l'inversione dell'onere della prova a carico dello Stato, tiene di conto del fatto che spesso le autorità carcerarie sono in una posizione privilegiata nella raccolta delle prove.

Per queste ragioni, i giudici, hanno statuito nella sentenza Selmouni che "where an individual is taken into police custody in good health but is found to be injured at the time of release, it is incumbent on the State to provide a plausible explanation of how those injuries were caused, failing which a clear issue arises under Article 3 of the Convention" (179).

Nel proseguo dell'argomentazione, i giudici hanno affermato che qualunque sia l'esito dei procedimenti interni, condanna o assoluzione degli agenti di polizia, lo Stato convenuto è tenuto comunque a dare una spiegazione delle lesioni riportate dal detenuto (180), altrimenti risulterà comunque colpevole di violazione sostanziale dell'art. 3.

Data l'importanza dell'istituto dell'onus probandi al fine di garantire effettività alla tutela offerta dall'art. 3, è fondamentale calibrare l'onere della prova sulla base del reale rapporto intercorrente tra vittima e presunto colpevole. La ragione è data dalla preoccupazione sia di svuotare sostanzialmente il contenuto del divieto di cui all'art. 3 della Convenzione, sia di offrire una via di fuga allo Stato che rischia una condanna per condotte vietate, attraverso la semplice manomissione dell'inchiesta su presunte violazione lamentate da soggetti posti sotto la propria autorità. Esiste una interconnessione biunivoca tra l'obbligo positivo di avviare un'indagine adeguata ed efficace in caso di denuncia di maltrattamenti da parte di soggetti detenuti e lo standard probatorio richiesto in sede di giudizio affinché si possa ritenere violato il divieto di cui all'art. 3. Uno Stato che volontariamente conduca una indagine scarsa in merito alle doglianze di un detenuto potrebbe provocare una carenza di prove in sede dibattimentale, tale da non soddisfare l'onere probatorio richiesto, rischiando al massimo una condanna per violazione di obblighi positivi e non di diritto sostanziale.

Si veda ad esempio, la sentenza Labita c. Italia. In quel caso la vittima di violenze non ha potuto ottenere un riconoscimento della violazione dell'art. 3 sotto il profilo sostanziale, a causa di gravi lacune nelle indagini; in particolare, è interessante fare riferimento all'opinione dissenziente dei giudici Pastor, Ridruejo, Bonello, Makarczyk, Tulkens, Stráznická, Butkevych, Casadevall e Zupanci, con la quale essi affermano che "the standard used for assessing the evidence in this case is inadequate, possibly illogical and even unworkable since, in the absence of an effective investigation, the applicant was prevented from obtaining evidence and the authorities even failed to identify the warders allegedly responsible for the ill treatment complained of".

Con queste parole i giudici hanno voluto porre l'attenzione su una possibile applicazione relativa dell'art. 3, che invece nasce come assoluto, per volontà dei redattori della Carta e dell'interpretazione giurisprudenziale della Corte. Infatti, come abbiamo già detto in precedenza, l'applicazione effettiva delle tutele offerte dall'art. 3 si basa principalmente sulla qualità delle indagini svolte a seguito di denuncia, senza le quali il divieto di tortura rimane un principio tutelato solo sulla carta.

A seguito di quanto sin qui detto, appare necessario soffermarsi su una riflessione in merito al carattere assoluto dell'art. 3. La Corte, in tema di onere probatorio, ha deciso di utilizzare due standard distinti, uno per il momento genetico dell'accusa del ricorrente, in cui questi deve provare oltre ogni ragionevole dubbio di aver subito maltrattamenti; l'altro legato alla prova liberatoria dello Stato convenuto, addossando ogni onere probatorio su quest'ultimo attraverso il criterio della presunzione di responsabilità. La Corte ha giustificato una simile struttura in ragione delle evidenti difficoltà pratiche per la vittima di raccogliere prove sul nesso causale, in un sistema in cui essa non ha margine di autonomia rispetto alle guardie, presunte responsabili delle violenze.

Le argomentazioni della Corte appaiono ragionevoli e condivisibili, ma incomplete, a mio parere. Infatti i giudici hanno spesso riconosciuto in passato che a causa del rapporto sproporzionato tra detenuto e autorità, questi può essere impossibilitato a denunciare un maltrattamento; abbiamo visto che l'autorità inquirente è stata persino investita dell'obbligo di attivarsi d'ufficio nel caso in cui ci sia un ragionevole sospetto di violenza, proprio per venire incontro a quei soggetti che per paura o mancanza di prove evidenti non si fanno avanti. Tenuto conto di ciò, sembra essere eccessivamente oneroso porre un limite come quello della presentazione di referti medici, ovviamente diversi da quelli redatti dal personale medico del carcere, perché non sempre il detenuto può ottenerli (o per paura di subire ripercussioni o a causa dell'isolamento con il mondo esterno). Queste perplessità circa lo standard probatorio sembrano trovare dei riscontri nella più recente giurisprudenza della Corte, la quale nelle proprie argomentazioni a favore dell'esistenza di una provata violenza, tiene conto di molteplici fattori, anche indiretti, che nell'insieme attenuano il rigore del criterio dell'oltre ogni ragionevole dubbio.

In tema di referti medici idonei a comprovare l'accusa in giudizio, è interessante la sentenza Volkan Ozdemir c. Turchia (181), dell'ottobre 2009, il ricorrente, a sostegno dei maltrattamenti subiti, presentava una cartella redatta dai medici del penitenziario dove era stato condotto per il fermo. In tali referti erano evidenti lacune e contraddizioni e, più in generale, si ponevano molto al di sotto degli standard dettati dal CPT; la Corte, al fine di ottenere una panoramica completa delle circostanze del caso, invitava il Governo turco a fornire la copia del referto medico redatto dai medici dell'istituto penitenziario due giorni dopo l'ingresso del ricorrente in carcere, richiesta che però non ha dato riscontri. In questa occasione, e contrariamente al caso Labita, i giudici di Strasburgo, in assenza di una prova decisiva in senso opposto, hanno valutato la lacunosità e la contraddittorietà dei referti medici come un elemento a supporto delle allegazioni del ricorrente, evitando che questi subisse le conseguenze negative derivanti dalla mancata corrispondenza di questi ultimi agli standard di diligenza richiesti, tra gli altri, dal CPT.

Con la sentenza Isayev e a. c. Russia (182), di pochi anni dopo, la Corte ha affrontato il caso riguardante la morte in carcere di una persona arrestata solo una settimana prima dalla polizia per accertamenti circa il suo legame con un'organizzazione ribelle cecena. La ricostruzione dei fatti è stata possibile sulla base delle dichiarazioni rese dai compagni della vittima, dichiarazioni che, date le circostanze, si presentavano come scarne e poco accurate, ma tuttavia di maggiore utilità rispetto alla lacunosa ricostruzione offerta dallo Stato convenuto. Il Governo russo infatti si è rifiutato più volte di fornire elementi utili alla Corte per ricostruire i giorni in cui la vittima è stata in custodia fino alla sua morte. La Corte in questo caso considera attendibili le dichiarazioni dei compagni della vittima, sia per accertare il buono stato di salute della vittima al momento dell'arresto, sia per confutare la versione dello Stato secondo cui i traumi riportati dal sig. Isayev erano dovuti ad un legittimo uso della forza a causa delle resistenza fatte al momento dell'arresto. I giudici nella propria argomentazione hanno ribadito che spetta allo Stato dare spiegazioni per le lesioni riportate a seguito di detenzione, da parte di un individuo precedentemente sano; il rifiuto del Governo di presentare una documentazione completa sul fatto ha indotto la Corte ha ritenere sufficienti le dichiarazioni di coloro che hanno assistito ai fatti sia per accertare una violazione dell'art. 3 nella forma della tortura, sia una violazione procedurale dello stesso, a causa della lentezza delle indagini svolte in seguito alla morte della vittima (indagini avviate solo 3 anni dopo). Anche in questa sentenza del 2011, la Corte ha operato un'attenuazione del livello di rigore richiesto alle vittime per sostenere le proprie accuse in giudizio, utilizzando un approccio aperto a valutare tutti gli elementi di prova (esistenti, ma soprattutto, in questo caso, assenti).

Un anno dopo, nella sentenza Ananyev e a. c. Russia (183), la Corte oltre a riconoscere una oggettiva difficoltà per il recluso a reperire prove sufficienti a comprovare in giudizio l'accusa, ha dato particolare rilievo anche alla qualità delle prove fornite dallo Stato parte per liberarsi dall'accusa di violazione dell'art. 3, ma anche ai rapporti del CPT e alla casistica precedente riguardante lo Stato in tema di condizioni materiali di detenzione. Nel caso di specie le prove fornite dal Governo russo sono state giudicate insufficienti dalla Corte, poiché esse consistevano in una serie di certificati rilasciati dal direttore del centro di detenzione oggetto del reclamo dei ricorrenti; la Corte ha più volte sottolineato che in tali certificati mancavano i riferimenti alla documentazione carceraria originale ed erano apparentemente basate su ricordi personali piuttosto che su qualsiasi dato oggettivo e, per questo motivo, erano di poco valore probatorio.

Nella sentenza Ananyev e a. c. Russia, la Corte riconosce che essa, nell'analizzare le prove, si basa su una valutazione globale del caso concreto e adotta delle conclusioni che sono, a suo parere, supportate dalla libera valutazione di tutte le prove, comprese quelle deduzioni che possono derivare dai fatti e dalle osservazioni delle parti. Basandosi sulla propria giurisprudenza essa afferma che la prova può nascere dalla coesistenza di inferenze, chiare e concordanti sufficientemente forti o di presunzioni non confutate di fatto. A questo proposito, la ripartizione dell'onere della prova è intrinsecamente legata alla specificità dei fatti, la natura della denuncia, e il diritto convenzione in questione. Nella sentenza la Corte si dichiara consapevole delle difficoltà oggettive incontrate dai ricorrenti nella raccolta delle prove a sostegno di tali affermazioni circa le condizioni della loro detenzione, essa afferma che "Owing to the restrictions imposed by the prison regime, detainees cannot realistically be expected to be able to furnish photographs of their cell or give precise measurements of its dimensions, temperature or luminosity" (184); tuttavia, come abbiamo già detto e come la Corte sottolinea anche in questa recente sentenza, l'inversione dell'onere della prova non esime il ricorrente dal dare una prova dei maltrattamenti, ma si ammette che ciò avvenga con i pochi mezzi a disposizione del detenuto. Il richiedente deve fornire una spiegazione elaborata e coerente delle condizioni della sua detenzione menzionando gli elementi specifici, come ad esempio le date del suo trasferimento tra le diverse strutture, che consentano alla Corte di stabilire che la denuncia non è manifestamente infondata o inammissibile per qualsiasi altro motivo. Solo una descrizione credibile e ragionevolmente dettagliata delle condizioni degradanti di detenzione costituisce un fumus boni iuris dei maltrattamenti e serve come base per un'eventuale futura denuncia per il Governo.

Sebbene l'inversione dell'onere probatorio riguardi esclusivamente i soggetti in vinculis, ritenuti particolarmente svantaggiati da necessitare un'attenuazione di rigore, le recenti pronunce della Corte mostrano un cambiamento di orientamento anche nei ricorsi in cui parte siano privati non soggetti a restrizione della libertà, nel caso Kaboulov c. Ucraina (185), in materia di estradizione, i giudici hanno applicato il criterio dell'inversione dell'onere della prova nei confronti dello Stato verso cui sarebbe dovuto essere estradato il ricorrente, il Kazakistan, in questo caso la Corte ha ritenuto di dover valutare negativamente l'incapacità del Governo di smentire la violazione potenziale dell'art. 3 avanzata dai rapporti di organizzazioni nazionali e internazionali. Tuttavia, l'apertura della Corte a espandere il criterio probatorio anche in ipotesi di soggetti non detenuti, trova un contemperamento nella dissenting opinion dei giudici Zagrebelsky e Sajo, i quali ritengono che nelle ipotesi in cui il ricorrente non si trova in stato di detenzione, l'inversione dell'onere della prova appare priva di qualsiasi giustificazione e di fatto impone alle autorità statali il soddisfacimento di una probatio diabolica.

Note

1. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, 07.07.1989, riferimento n. 14038/88, §88.

2. Corte, sentenza Chahal c. Regno Unito, 07.07.1996, riferimento n. 22414/93, §79 e ss.

3. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit.

4. Per un approfondimento sull'obbligo di non-refoulement, si veda: A. Lanciotti, D.Vitiello, L'articolo 3 della Cedu come strumento di tutela degli stranieri contro il rischio di refoulement, in L. Cassetti (a cura di), Diritti, principi e garanzie sotto la lente dei giudici di Strasburgo, Jovene editore, 2012, p. 223 e ss.

5. Corte (GC), sentenza Saadi c. Italia, 28.02.2008, ricorso n. 37201/06, §126.

6. Corte, sentenza Abdolkhani e Karimnia c. Turchia, 22.09.2009, ricorso n. 30471/08, §88.

7. C. Grabenwarter, European Convention on Human Rights, Commentary, C.H. Beck- Hart-Nomos-HLV, p.32.

8. Corte, sentenza Tomasi c. Francia, 27.08.1992, riferimento n. 12850/87.

9. Così la Commissione nel Rapporto del 18.11.1969 sul cosiddetto "Caso Greco", rapporto nato da un ricorso interstatale presentato congiuntamente dai Paesi scandinavi e dall'Olanda, in cui si esaminavano le massicce violazioni dei diritti umani commesse nella Grecia del cosiddetto "regime dei Colonnelli"; a seguito del rapporto, per sfuggire a ben più gravi conseguenze - nello specifico, la sospensione - il Paese ellenico decideva di uscire spontaneamente dal Consiglio d'Europa.

10. A. Cassese, Prohibition of Torture ad Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, Mcdonald-Matscher-Petzold, p.241.

11. Corte, sentenza Irlanda c. Regno Unito, 18.01.1978, riferimento n. 5310/71.

12. Si noti che l'interpretazione data al termine tortura dal collegio giudicante e dai singoli giudici nelle proprie opinioni dissenzienti sono molto differenti, nel proseguo mi soffermerò più a lungo su questo punto.

13. Corte, Irlanda c. Regno Unito, cit., §167.

14. art. 5 Dichiarazione universale, Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti; art. 7 Patto internazionale su diritti civili e politici, Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico; art. 1 risoluzione n.3452 (XXX), Ai fini della presente dichiarazione, tortura significa qualsiasi atto mediante il quale il dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, sono intenzionalmente inflitte da o su istigazione di un pubblico ufficiale [...] per ottenere [...] informazioni o confessione [...] La tortura costituisce una forma aggravata e deliberata di pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

15. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, 1975.

16. Corte, caso Tyrer c. Regno Unito, sentenza 25.4.1978, riferimento n. 5856/72.

17. L. Prosperi, Art. 3 CEDU, Proibizione della tortura, in Unilink, diritti e libertà.

18. Corte, sentenza Corsacov c. Moldavia, 04.04.2006, riferimento n. 18944/02 §65.

19. Corte, sentenza Tigran Ayrapetyan c. Russia, 16.09.2010, riferimento n. 75472/01 §§72 e ss.

20. Corte, sentenza Savin c. Ucraina, 16.02.1012, riferimento n. 21987/93, §62.

21. Corte, sentenza Polonskiy c. Russia, 19.03.2009, riferimento n. 30033/05, §124; ma anche più recentemente, Corte, sentenza Nechiporuk e Yonkalo c. Ucraina, 21.04.2011, riferimento n. 42310/04, §157.

22. Corte, sentenza Buntov c. Russia, 05.06.2012, riferimento n. 27026/10, §64.

23. Corte, sentenza Tomasi c. Francia, cit.

24. Corte, sentenza Aksoy c. Turchia, 18.12.1996, riferimento n. 21987/93, §64.

25. Corte, sentenza Aydin c. Turchia, 25.09.1997, riferimento n. 23178/94.

26. Commissione, caso Aydin c. Turchia, parere, 17.04.1997 §214-215.

27. Corte, sentenza Aydin c. Turchia, cit., §83.

28. Corte, sentenza Aydin c. Turchia, cit., §86.

29. Corte, sentenza Aydin c. Turchia, cit., §85.

30. Gran Camera, Selmouni c. Francia, 28.07.1999, Ricorso n. 25803/94, §§96 e ss., 101 e 105.

31. Per un approfondimento rimando al capitolo precedente di questo elaborato.

32. F. Sudre, Droit Européen et international des droits de l'homme, XXII edizione, Ed. Puf, 2011, pp. 320.

33. Alcuni esempi: Corte, sentenza Kudla c. Polonia, 26.10.2000, riferimento n. 30210/96 §92; Corte, sentenza Kalashnikov c. Russia, 15.07.2002, riferimento n. 47095/99 §95; Gran Camera, sentenza M.S.S. c. Belgio e Grecia, 21.01.2011, riferimento n. 30696/09 §220.

34. Corte, sentenza Irlanda c. Regno Unito, cit. §162.

35. Corte, sentenza Price c. Regno Unito, 10.07.2001, riferimento n. 33394/96 §24.

36. Per un approfondimento sul tema rimando al capitolo successivo.

37. Corte, sentenza Taştan c. Turchia, 04.03.2008, riferimento n. 63748/00 §31.

38. in proposito richiamo la sentenza Tyrer c. Regno Unito, analizzata in precedenza.

39. Corte, sentenza Kalashnikov c. Russia, cit., §94.

40. Ad esempio: Corte, sentenza Lyanova e Ailyeva c. Russia, 02.10.2008, riferimento n. 12713/02-28440/03 §§116 e ss.; Gran camera, sentenza Varnava e a. c. Turchia, 18.09.2009, riferimento n. 16064/90 §§200 e ss.; Corte, sentenza Beksultanova c. Russia, 27. 09.2011, riferimento n. 31564/07 §§115 e ss.

41. Corte, sentenza Kurt c. Turchia, 25.05.1998, riferimento n. 24276/94 §§130-134.

42. C. Grabenwarter, European Convention of human rights, cit. p.35.

43. Corte (GC), sentenza Kafkaris c. Cipro, 12.02.2008, riferimento n. 66069/09, §§95-99.

44. Commissione, decisione Bamber c. Regno Unito, 14.12.1988, riferimento n. 13183/87, p. 235; Commissione, decisione Kotälla c. Paesi Bassi, 06.05.1978.

45. F. Viganò, Ergastolo senza speranza di liberazione condizionale e art. 3 Cedu: (poche) luci e (molte) ombre in due recenti sentenze della Corte di Strasburgo, in Rivista telematica giuridica dell'Associazione italiana dei costituzionalisti, vol. 2/2012.

46. Corte (GC), sentenza Kafkaris c. Cipro, cit. §98.

47. C. Parodi, Ergastolo senza liberazione anticipata, estradizione e art. 3 CEDU: meno rigidi gli standard garantistici richiesti in caso di estradizione, Nota a Corte EDU, sez. IV, sent. 10 aprile 2012, ric. nn. 24027/07, 11949/08, 36742/08, 66911/09 e 67354/09, Babar Ahmad et al. c. Regno Unito, in Diritto penale contemporaneo, vol. 2/2012.

48. Corte (GC), sentenza Vinter e a. c. Regno Unito, 09.07.2013, riferimento n. 66069/09, §§108-110.

49. C. Parodi, Ergastolo senza liberazione anticipata, estradizione e art. 3 CEDU, Nota a c. eur. dir. uomo, sez. V, 4 settembre 2014, Trabelsi c. Belgio, ric. n. 140/2010, in Diritto penale contemporaneo, vol. 3-4/2014.

50. Corte (GC), sentenza Vinter e a. c. Regno Unito, cit., §122.

51. L. Prosperi, Articolo 3 CEDU - Proibizione della Tortura, cit.

52. Commissione, caso Asiatici dell'Africa Orientale c. Regno Unito, parere 1.12.1973.

53. art. 8 "Diritto al rispetto della vita privata e familiare"; art. 14 "Divieto di discriminazione".

54. Commissione, caso Asiatici dell'Africa Orientale c. Regno Unito, cit., on 189 e 207.

55. Corte, sentenza Oršuš e a. c. Croazia, 16.03.2010, riferimento n.15766/03.

56. A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo, 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), in Diritto penale contemporaneo, vol.2/2011, p. 223.

57. Sentenza Tyrer c. Regno Unito, cit., §30-33.

58. Corte, caso Campbell e Cosans c. Regno Unito, sentenza 25.2.1982, Serie A n. 48, §26 ss.

59. Corte, sentenza Raninen c. Finlandia, 16.12.1997, riferimento n. 20972/92, §§55 e ss.

60. Si noti che, il divieto di deroga accordato all'art. 3 dall'art. 15 della Convenzione non lo si riconosce invece all'art. 2, norma che sancisce il diritto alla vita; infatti per questa norma è prevista una eccezione nel caso di decesso causato da legittimi atti di guerra.

61. Si tratta di un emendamento proposto dal delegato inglese M. Cocks, reperibile in forma integrale in Collected Edition of the "Travaux Préparatoires" of the European Convention of Human Rights, The Hague, Martinus Nijhoff, 1975, vol. II, Prima sessione doc. n. 19, pp. 4-5.

62. Corte, sentenza Irlanda c. Regno Unito, cit., §163.

63. Ad esempio: Corte, sentenza Ribitsch c. Austria, 04.12.1995, riferimento n. 18896/91, §32; Corte, sentenza Aksoy c. Turchia, cit., §§61-63; Corte, sentenza Assenov e a. c. Bulgaria, 28.10.1998, riferimento n. 24760/94, §93; Corte, sentenza Labita c. Italia, 06.04.2000, riferimento n. 26772/00, §119; Corte, sentenza Ramirez-Sanchez c. Francia, 04.07.2006, riferimento n. 59450/00, §§115-116;.

64. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit., §88.

65. Il concetto è ripreso anche in altre sentenze più recenti, ad es. Corte, sentenza Saadi c. Italia, cit., §138.

66. C. Parodi, Ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata e art. 3 Cedu: meno rigidi gli standard garantistici richiesti in caso di estradizione, in Diritto penale contemporaneo, cit.

67. Corte, sentenza Vilvarajah e a. c. Regno Unito, 30.10.1991, riferimenti nn. 13163/87 13164/87 13165/87 13447/87 13448/87, §§103 e 108.

68. A. Dias Vieira, Significado de Penas e Tratamentos Desumanos, Análise Histórico-Jurisprudencial Comparativa em Três Sistemas Jurídicos: Brasil, Europa e Estados Unidos, 2007.

69. J.F. Flauss, Actualité de la Convention européenne des droits de l'homme (février-août 2005), in AJDA, 10 octobre 2005; F. Sudre, L'article 3 de la Convention européenne des droits de l'homme: le droit des détenus à des conditions de détention conformes à la dignité humaine, Libertés, Justice, Tolérance, Mélanges en hommage au doyen Gérard Cohen-Jonathan, Bruylant, 2004, volume II, p. 1499.

70. Corte, sentenza Tomasi c. Francia, cit., §115.

71. Corte (GC), sentenza Chahal c. Regno Unito, cit., §79.

72. Corte (GC), sentenza Chahal c. Regno Unito, cit., §80.

73. Corte, sentenza Hamed c. Austria, 17.12.1996, riferimento n. 25964/94, §§39-41.

74. Corte (GC), sentenza Ilhan c. Turchia del 27062000, riferimento n. 22277/93, §87.

75. Corte, sentenza Chitayev c. Russia, 18.01.2007, riferimento n. 59334/00.

76. Corte, sentenza V. c. Regno Unito, 16.12.1999, riferimento n. 24888/94, §69.

77. Corte, sentenza Labita c. Italia, cit., §119; Corte, sentenza Indelicato c. Italia, 18.10.2001, riferimento n. 31143/96, §30.

78. Corte, sentenza Ramirez-Sanchez c. Francia, cit., §116; Corte, sentenza Saadi c. Italia, cit., §127.

79. Corte (GC), sentenza Gäfgen c. Germania, 01.06.2010, ricorso n. 22978/05.

80. Corte, sentenza Gäfgen c. Germania, cit., §116.

81. Ibidem, §18-19.

82. Corte (GC), sentenza Gäfgen c. Germania, cit., §87.

83. Così ad esempio: Corte, sentenza Tomasi c. Francia, cit., §114 (per il numero e l'intensità dei colpi inferti alla vittima); Corte, sentenza Klaas c. Germania, 22.09.1993, riferimento n. 15473/89, §§23 e ss. (per i maltrattamenti inflitti al detenuto ricorrente, in presenza della figlia minore); Corte, sentenza Hurtado c. Svizzera, 28.01.1994, riferimento n. 17549/90, §12 (per il rifiuto di assistenza medica e sanitaria nonostante le lesioni del ricorrente).

84. Corte, sentenza Irlanda c. Regno Unito, cit., §162.

85. Corte, sentenza A. c. Regno Unito, 23.09.1998, riferimento n. 25599/94, §20.

86. Corte, sentenza Ciğerhun Öner c.Turchia, 23.11.2010, riferimento n. 2858/07, §89 e ss.

87. Corte, sentenza Filiz Uyan c. Turchia 08.01.2009, riferimento n. 7496/0.

88. Corte, sentenza Salmanoglu e Polattaş c. Turchia, 17.03.2009, riferimento n. 15828/03, §80 e ss. in particolare §§95-98.

89. Corte, sentenza Dolsayev e a. c. Russia, 22.01.2009, riferimento n. 10700/04, §§112 e ss; Corte, sentenza Khaydayeva e a. c. Russia, 05.02.2009, riferimento n. 1848/04, §§119 e ss.

90. Corte, sentenza Sulejmanovic c. Italia, 16.07.2009, Ricorso n. 22635/03;.

91. Corte, sentenza Tyrer c. Regno Unito, cit., §31.

92. Tra le altre ad esempio: Corte, sentenza Dudgeon c. Regno Unito, sentenza 22.10.1981, riferimento n. 7525/76; Corte sentenza Soering c. Regno Unito,1989, cit., §72; Corte, sentenza X, Y e Z c. Regno Unito, 22.04.1997, riferimento n. 21830/93; Corte, sentenza V. c. Regno Unito, 1999, cit., §72.

93. M. K. Addo, N. Grief, Does Article 3 of the European Convention of Human Rights Enshrine Absolute Rights?, in European Journal of International Law, 1998, pp. 510-524.

94. Corte, sentenza Nechiporuc e Yonkalo c. Ucraina, 21.04.2011, riferimento n. 42310/04 e Corte, sentenza Sevastyanov c. Russia, 22.04.2010, riferimento n. 37024/02.

95. In proposito rimando alle pagine dedicate alla trattazione delle tre condotte vietate per un esame specifico della giurisprudenza.

96. In proposito si veda la sentenza Oršuš e a. c. Croazia, cit.

97. Corte, sentenza Ay c. Turchia, 22.03.2005, riferimento n. 30951/96, §§59-60.

98. Si veda ad esempio, Corte, sentenza Indelicato c. Italia, cit. e Corte, sentenza Labita c. Italia, cit., §131.

99. Corte, sentenza Aksoy c. Turchia, cit., §98.

100. Corte, sentenza Aksoy c. Turchia, cit., §§97-100.

101. Corte, sentenza Assenov e a. c. Bulgaria, cit.

102. Corte, sentenza Assenov e a. c. Bulgaria, cit., §100.

103. Corte, sentenza McCann c. Regno Unito, 27.09.1995, ricorso n. 18984/91 §161.

104. Corte, sentenza Assenov e a. c. Bulgaria, cit., §102.

105. Ibidem, §102.

106. Corte sentenza Bati e a. c. Turchia, 03.06.2004, ricorsi n. 33097/96 57834/00, §133 e ss.

107. Più recentemente, Corte, sentenza Stanimirovic c. Serbia, 18.10.2011, riferimento n. 26088/06, §§36-40.

108. A. Colella, Rassegna delle pronunce del triennio 2008-2010 in tema di art. 3 Cedu, in Diritto penale Contemporaneo, cit., p. 227 e ss.

109. Corte, sentenza Çağlayan c. Turchia, 21.10.2008 riferimento n. 30461/02, §§50- 52.

110. Corte sentenza Bati e a. c. Turchia, cit., §134;Vedi anche: Corte, sentenza Mikheyev c. Russia, 26.01.2006, riferimento n. 77617/01, §107; Corte, sentenza Antipenkov c. Russia, 15.10.2009, riferimento n. 33470/03, §62;.

111. Corte sentenza Bati e a. c. Turchia, cit., §136.

112. Sentenza, Antipenkov c. Russia, cit., §62.

113. Corte sentenza Bati e a. c. Turchia, cit., §135; vedi anche, Corte, sentenza Mikheyev c. Russia, 26.01.2006, riferimento n. 77617/01, §§108-110.

114. Corte, sentenza Ipek c. Turchia, 17.02.2004, riferimento n. 25764/94, §174; Corte, sentenza Çalayan c. Turchia, cit., §49.

115. Più recentemente, Corte, sentenza M. e a. c. Italia e Bulgaria, 31.07.2012, riferimento n. 40020/03.

116. A. Colella, Rassegna delle pronunce del triennio 2008-2010 in tema di art. 3 Cedu, in Rivista di Diritto Penale Contemporaneo, cit., p. 228.

117. Corte, sentenza Celik c. Turchia n. 1, del 26.10.2004, riferimento n. 44093/98.

118. Corte, sentenza Labita c. Italia, cit.

119. Per un approfondimento: A. Esposito, Il diritto penale "flessibile": quando i diritti umani incontrano i sistemi penali, Giappichelli 2008, pp. 224; A. Colella, Rassegna delle pronunce del triennio 2008-2010 in tema di art. 3 Cedu, cit., p. 230.

120. Corte, sentenza Slimani c. Francia, 27.07.2004, ricorso n. 57671/00, §27-32, ma anche Corte (GC), sentenza Selmouni c. Francia, cit.

121. Sul punto si veda, L. A. Sciacovelli, Divieto di tortura e obbligo di inchiesta sulle sue violazioni secondo la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e il diritto internazionale generale, in La Comunità internazionale, 2005, pp. 269 e ss.

122. Corte, sentenza, Okkali c. Turchia, 17.10.2006, ricorso n. 52067/99, §65.

123. Ad esempio: Corte, sentenza Erdal Aslan c. Turchia, 02.12.2008, ricorso n. 25060/02 e 1705/03, §17; Corte, sentenza Keser e Kömürkü c. Turchia, 23.06.2009, ricorso n. 5981/03, §§15-17; Corte, sentenza Alkes c. Turchia, 16.02.2010, ricorso n. 3044/04, §§15-17.

124. Corte, sentenza Aşici c. Turchia, 16.03.2010, ricorso n. 26625/04, §§15-17.

125. In merito agli effetti della giurisprudenza di Strasburgo nel panorama italiano e in particolare in merito all'art 630 c.p.p., riguardante casi di revisione del processo penale, si veda: S. Lonati, La Corte costituzionale individua lo strumento per dare attuazione alle sentenze della Corte europea: un nuovo caso di revisione per vizi processuali, pubblicata in Rivista di Diritto Penale Contemporaneo, in data 19 maggio 2011.

126. Corte, sentenza Turan Cakir c. Belgio, 10.03.2009, ricorso n. 44256/06, §42 e ss.

127. Corte, sentenza Okkali c. Turchia, cit., §76.

128. Corte, sentenza Yeşil e Sevim c. Turchia, 05.06.2007 ricorso n. 34738/04, §38; Corte, sentenza Yılmaz Erdoğan e altri c. Turchia, 14.10.2008, ricorso n. 19374/03, §56; Corte, sentenza Müdet Kömürcü c. Turchia n. 2, 21.07.2009, ricorso n. 40160/05, §29.

129. Corte, sentenza Yeşil e Sevim c. Turchia, cit., §37.

130. Corte, sentenza Ould Dah c. Francia, 17.03.2009, ricorso n. 13113/03.

131. Commissione, sentenza Altun c. Repubblica Federale Tedesca,03.05.1983, riferimento n. 10308/83, pp. 219-220.

132. Commissione, sentenza Kirkwood c. Regno Unito,12.03.1984, riferimento n. 10479/83, p. 183.

133. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit.

134. Commissione, rapporto caso Soering, §94.

135. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit., §§80-82.

136. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit., §83.

137. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit., §86.

138. Ibidem.

139. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit., §102.

140. La Corte evidenzia alcuni elementi utili a valutare il superamento della soglia di gravità: Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit., §104.

141. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit., §111.

142. Per ulteriori approfondimenti, si veda: A. Esposito, art. 3 Proibizione della tortura, in Bartole, Conforti, Raimondi (a cura di) Commentario alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, Cedam, 2001, pp. 66 e ss.; L. Prosperi, art. 3 CEDU, Proibizione della tortura, in Unilink, diritti e libertà, cit.; Bartole, De Sena, Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, Cedam, 2012, pp. 85 e ss.

143. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit., §87.

144. Corte, sentenza Soering c. Regno Unito, cit., §90.

145. Corte, sentenza Campbell e Consas c. Regno Unito, cit. §26.

146. Corte, sentenza Vilvarajah c. Svezia, cit., §111.

147. Corte, sentenza Cruz Varas c. Svezia, 20.03.1991, riferimento n. 15576/89.

148. Ibidem, §76.

149. Ibidem, §82.

150. Corte, sentenza Salah Sheekh c. Paesi Bassi, 11.01.2007, riferimento n. 1948/04, §§128- 138.

151. In tema di valutazione del rischio generale di subire maltrattamenti in ipotesi di estradizione o espulsione si veda anche la più recente Corte, sentenza T.N. c. Danimarca, 20.01.2011, riferimento n. 20594/08, §85.

152. Corte, sentenza A. c. Paesi Bassi, 27.07.2010, riferimento n. 4900/06, §141 e ss.

153. In proposito si veda una sentenza dello stesso anno che affronta principalmente il tema degli elementi migliorativi della situazione di rispetto dei diritti umani: Corte, sentenza Dzhaksybergenov c. Ucraina, 10.02.2011, riferimento n. 12343/10, §§36-37.

154. Corte, sentenza R.C. c. Svezia, 09.03.2010, riferimento n. 41827/07, §§38 e ss.

155. Corte, sentenza N. c. Svezia, 20.07.2010, riferimento n. 23505/09, §§52 e 56-57.

156. Corte, sentenza F. c. Regno Unito, 22.06.2004, riferimento n. 17341/03.

157. Corte, sentenza Chahal c. Regno Unito, cit., §§73-78.

158. Corte, sentenza Ahmed. c. Austria, cit.

159. Ibidem, §39.

160. Ibidem, §40-41.

161. L. Prosperi, art. 3 CEDU, Proibizione della tortura, in Unilink, diritti e libertà, cit., p.36.

162. Corte, sentenza D. c. Regno Unito, 02.05.1997, riferimento n. 30240/96, §§49-53.

163. Ibidem, §54.

164. In proposito si veda: Corte, sentenza Z. e a. c. Regno Unito, 10.05.2001, riferimento n. 29392/95, §74 e ss.; Corte, sentenza D.P. e J.c. c. Regno Unito, 10.10.2002, riferimento n. 38719/97, §§109-110.

165. Corte, sentenza HLR c. Francia, 29.04.1997, ricorso n. 24573/94, §39-40.

166. Corte, sentenza Opuz c. Turchia, 09.06.2009, ricorso n. 33401/02, §159 e 168.

167. Corte, sentenza Rodic e a. c. Bosnia Erzegovina, 27.05.2008, ricorso n. 22893/05, §72.

168. Corte, sentenza E.S. e a. c. Slovacchia, 15.09.2009, ricorso n. 8227/04, §43.

169. Corte, sentenza Ilascu e a. c. Moldavia e Russia, 08.07.2004, ricorso n. 48787/99, §453.

170. Corte, sentenza Saadi c. Italia, cit.

171. Ibidem, §124.

172. Ibidem, §133.

173. Ibidem, §§138-139.

174. Corte, sentenza Irlanda c. Regno Unito, cit. §162.

175. Corte, sentenza Tomasi c. Francia, cit., §§108-111 e Corte, sentenza Selmouni c. Francia, cit., §87.

176. Si veda, ad esempio: Corte, sentenza Irlanda c. Regno Unito, cit. §161; Corte, sentenza Aydin c. Turchia, cit. §73; Corte, sentenza Selmouni c. Francia, cit. §88; Corte, sentenza Pantea c. Romania,03.06.2003, riferimento n. 33343/96, §181.

177. Sulla ricostruzione dello standard richiesto dalla Corte in materia di onere della prova, si veda anche: A. Esposito, Il diritto penale "flessibile": quando i diritti umani incontrano i sistemi penali, cit., pp.238-239; A. Colella, C'è un giudice a Strasburgo, in Rivista italiana di diritto processuale e penale, 2009/04, p.1801; A. Colella, Rassegna delle pronunce del triennio 2008-2010 in tema di art. 3 Cedu, cit., pag. 226.

178. Corte, sentenza Keser e Kömürcü c. Turchia, 23.06.2009, riferimento n. 5981/03, §60; si veda anche: Corte, sentenza Mansurolu c. Turchia, 26.02.2008, riferimento n. 43443/98, §§77-78.

179. Si veda ad esempio: Corte, sentenza Selmouni c. Francia, cit. §87; Corte, sentenza Berktay c.Turchia, 01.03.2001, riferimento n. 22493/93, §167; Corte, sentenza Altay c. Turchia, 22.05.2001, riferimento n. 22279/93, §50; Corte, sentenza Bursuc c. Romania, 12.10.2004, riferimento n. 42066/98, §80; Corte, sentenza Gomi e a. c. Turchia, 21.12.2006, riferimento n. 35962/97, §§72-73.

180. La sentenza Selmouni è del 1999, ma la Corte si è espressa in questo senso già nella sentenza Ribitsch del 1995: Corte, sentenza Ribitsch c. Austria, cit., §§27-32; si veda anche: Corte, sentenza Berktay c.Turchia, cit., §168; Corte, sentenza Bursuc c. Romania, cit., §80.

181. Corte, sentenza Volkan Ozdemir c. Turchia, 20.10.2009, ricorso n. 29105/03.

182. Corte, sentenza Isayev e a. c. Russia, 21.06.2011, ricorso n. 43368/04, §§122-133; 141-155; 162-165.

183. Corte, sentenza Ananyev e a. c. Russia, 10.01.2012, ricorso n. 42525/07, §§121-130.

184. Ibidem.

185. Corte, sentenza Kaboulov c. Ucraina, 19.11.2009, ricorso n. 41015/04.