ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Diana Genovese, 2015

Negli ultimi decenni, la tratta di esseri umani ha destato un forte interesse delle organizzazioni internazionali a causa dei suoi enormi e preoccupanti sviluppi (1).

L'esigenza di una regolamentazione internazionale, a fronte della rivalutazione della tratta odierna come affare economico estremamente redditizio per le organizzazioni criminali che la gestiscono a livello nazionale e soprattutto transnazionale, ha condotto le organizzazioni internazionali e sovranazionali a predisporre importanti misure di hard law al fine di assicurare il controllo sociale del territorio e contrastare il movimento illegale delle persone e dei proventi ottenuti dallo sfruttamento economico delle stesse.

Parallelamente, la tratta è stata annoverata tra le pratiche lesive di diritti umani fondamentali, in quanto capace di annullare la dignità umana, e pertanto oggetto di stigmatizzazione anche a fronte dell'eventuale consenso della vittima all'iniziativa criminale.

A fronte di entrambe queste esigenze, numerosi interventi normativi, tra cui si annovera principalmente il Protocollo sulla tratta annesso alla Convenzione di Palermo del 2000 sulla criminalità organizzata, si sono proposti l'obiettivo di prevenire e reprimere il fenomeno e, partire dalla Convenzione del Consiglio d'Europa firmata a Varsavia nel 2005, anche di proteggere e fornire assistenza alle vittime.

Accanto all'implementazione di un approccio progressivamente olistico nella lotta alla tratta di esseri umani, si riscontra un sostanziale affrancamento della vicenda della tratta dal divieto di riduzione in schiavitù/servitù, a fronte dell'abolizione di quest'ultima nella quasi totalità degli ordinamenti giuridici esistenti.

Storicamente il testo internazionale che lega la tratta di persone alla schiavitù è la Convenzione di Ginevra del 1926 e quella supplementare del 1956, che definiscono la prima come «l'atto di cattura, di acquisto, di cessione di una persona in vista della riduzione in schiavitù, nonché ogni atto di acquisto di uno schiavo in vista di venderlo o scambiarlo, ed ogni atto di cessione per vendita o per scambio ed, in genere, ogni atto di commercio o trasporto di schiavi».

Quasi quaranta anni dopo la definizione offerta dal Protocollo del 2000 delle Nazioni Unite appare tuttavia decisamente cambiata: «indica il reclutamento, trasporto, trasferimento, l'ospitare o accogliere persone, tramite l'impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un'altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l'asservimento o il prelievo di organi».

A partire da questo momento, la riduzione in schiavitù smette di rappresentare il nucleo essenziale del fenomeno della tratta, rappresentando solo una delle finalità più gravi che possano scaturire dalla stessa.

L'autonomia e la peculiarità dei due fenomeni ha di conseguenza portato ad una crescente valorizzazione in ambito internazionale della tratta di esseri umani, come condotta criminale finalizzata in generale allo sfruttamento delle vittime.

In tale contesto, l'Unione europea si è recentemente dotata un importante strumento normativo, la direttiva 2011/36/UE relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, la cui definizione riprende, ampliandola la formulazione del Protocollo di Palermo: «il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l'alloggio o l'accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell'autorità su queste persone, con la minaccia dell'uso o con l'uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l'inganno, l'abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l'offerta o l'accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un'altra, a fini di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, compreso l'accattonaggio, la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù, lo sfruttamento di attività illecite o il prelievo di organi».

Il profilo di maggior rilevanza riguarda l'ampia definizione di tratta fatta propria dalla direttiva, la quale non si riferisce unicamente "to the process by which an individual is moved into a situation of exploitation. It extends to include the maintenance of that person in a situation of exploitation" e "can take place within as well as between countries, and for a range of exploitative purposes including, but not limited to sexual exploitation" (2).

Come si è avuto modo di sottolineare nel capitolo finale, l'adozione della suddetta direttiva ha fornito l'occasione per un'importante riforma del reato di tratta (art. 601 c.p.) anche nell'ordinamento italiano.

In particolare, l'Italia ha attuato la direttiva per il tramite del d.lgs. 24/2014, il quale non sembra tuttavia soddisfare in pieno le richieste del legislatore comunitario, soprattutto laddove si limita ad introdurre alcune norme e a modificarne altre senza preoccuparsi di costruire una disciplina di sistema inerente la problematica della tratta di esseri umani al pari di quanto avvenuto in ambito europeo (3), dove le previsioni concernenti la repressione penale della tratta sono state integrate da misure rivolte all'assistenza e alla protezione della vittima, nonché alla prevenzione del fenomeno.

Nell'intento di fare un bilancio delle inadempienze del legislatore italiano in ordine all'attuazione della direttiva 2011/36/UE si segnala innanzitutto la mancata introduzione della definizione di 'posizione di vulnerabilità' così come esplicitata dall'art. 2, par. 2, dell'atto europeo nonché della previsione sull'irrilevanza del consenso di cui all'art. 2, par. 5.

Per quanto riguarda la definizione di 'posizione di vulnerabilità', la giurisprudenza potrà tuttavia fare riferimento direttamente alla direttiva europea; mentre, per ciò che concerne l'irrilevanza del consenso, questa previsione potrebbe essere considerata superflua nel nostro ordinamento ove i beni personalissimi, come quello alla dignità e alla libertà personale, sono ritenuti indisponibili.

Un'importante lacuna si registra, invece, sotto il profilo dell'inattuazione dell'art. 8 della direttiva in ordine al mancato esercizio dell'azione penale nei confronti delle vittime che abbiano commesso il fatto per esservi state costrette, in conseguenza dei reati di cui agli artt. 600 e 601 c.p.

Assente è, inoltre, l'introduzione di una norma che, in linea con quanto disposto dall'art. 12, par. 2, della direttiva preveda l'accesso «senza indugio» alla consulenza e all'assistenza legale con patrocinio a spese dello Stato delle vittime prive di risorse finanziarie sufficienti.

Infine, il legislatore italiano ha omesso di attuare l'art. 17, il quale impone agli Stati di prevedere l'accesso ad un sistema adeguato di risarcimento delle vittime di reati dolosi violenti, introducendo la possibilità di ottenere meramente un indennizzo nella misura di euro 1.500 per ogni vittima dal Fondo di cui all'art. 12, co. 3, l. 228/2003, istituito per finanziare i programmi di assistenza e integrazione sociale realizzati in favore delle vittime di tratta. A fronte tuttavia della clausola di invarianza finanziaria di cui all'art. 11 del d.lgs. 24/2014 la previsione appare di limitata applicazione.

Con riferimento ai profili di mancata conformità della normativa interna con la direttiva europea, si potrà fare leva sull'effetto diretto dell'atto europeo, e in particolare su quelle disposizioni che siano chiare e precise, e sempre che dispongano del carattere incondizionato, cioè che sia scaduto invano il termine per l'attuazione della direttiva (4).

Tali caratteri si riscontrano indubbiamente nella disposizione concernente l'irrilevanza del consenso in presenza dei mezzi indicati dal par. 1 dell'art. 2 (5), in quella sul mancato esercizio dell'azione penale alle vittime di tratta e in quella sull'accesso al gratuito patrocinio.

Tuttavia occorre rammentare che l'effetto diretto si atteggia quale sanzione dell'inadempimento di un obbligo da parte dello Stato membro, pertanto è stato escluso che tale effetto possa comportare situazioni soggettive passive nei confronti di persone fisiche o giuridiche (6).

Per quanto riguarda le modifiche di cui all'art. 601 c.p., la norma se interpretata come visto nell'ultimo paragrafo non sembra destare questioni di contrasto con il dettato di cui all'art. 2 della direttiva.

Ciò appare necessario alla luce dell'obbligo di interpretazione conforme, che consiste nell'obbligo di interpretare le norme interne in conformità al diritto dell'Unione. Tale onere si impone in particolar modo nei riguardi dei giudici nazionali e rinviene il suo fondamento nel principio di leale collaborazione (7), che comporta l'obbligo per gli Stati membri di assicurare l'attuazione del diritto dell'Unione e l'esecuzione degli obblighi derivanti dal sistema giuridico dell'Unione. Tale principio presuppone evidentemente l'attitudine della norma interna all'assunzione di una pluralità di significati, tra i quali dovrà essere necessariamente privilegiato quello conforme al diritto dell'Unione; tale principio si riferisce sia alle norme prive di effetti direttive, che alle norme dotate di efficacia diretta. Con riferimento a quest'ultime, l'obbligo di interpretazione rappresenta infatti un tentativo di risolvere il conflitto normativo in via esegetica, accogliendo un'interpretazione della norma interna in senso conforme alla norma dell'Unione, evitando così il ricorso allo strumento della disapplicazione della norma interna ed evitando altresì la situazione di inadempimento.

In ossequio al principio di interpretazione conforme si potrà pertanto propendere per un'interpretazione dell'art. 601 c.p. che non contempli più necessariamente la finalità dello sfruttamento, comunque analogo a quello tipico di chi è ridotto in schiavitù, e che di fatto sleghi il reclutamento delle persone dal risultato della riduzione in schiavitù. Tale lettura, oltre ad essere conforme a quella proposta a livello del diritto dell'Unione, è ragionevole alla luce della stessa lettera della norma, che altrimenti risulterebbe priva di effetto utile.

La direttiva 2011/36/UE, come si è visto, nel definire lo sfruttamento fa riferimento «come minimo» ai «lavori e servizi forzati»: dunque se nel minimo andrà ricompresa senza dubbio la finalità della riduzione in schiavitù, ciò non significa che lo sfruttamento non possa riguardare altre gravi forme di prestazioni lavorative che non implichino necessariamente la schiavitù della persona coinvolta.

La direttiva europea lascia infatti aperta una forbice in cui il legislatore nazionale è libero di collocarsi, ammettendo l'integrazione della fattispecie anche nel caso di sfruttamento di prestazioni lavorative non necessariamente forzate. Tali considerazioni vanno infatti combinate con l'espresso riferimento all'abuso di una posizione di vulnerabilità, che evidentemente implica l'apertura a mezzi di 'reclutamento' non coercitivi ma facenti leva sulla condizione soggettiva della vittima, la quale potrebbe sottoporsi a determinate prestazioni nella convinzione di non avere altra scelta effettiva ed accettabile. Ciò è peraltro avvalorato dall'esplicita previsione dell'irrilevanza del consenso in presenza di uno dei mezzi indicati dalla norma, tra cui rientra lo stesso abuso della posizione di vulnerabilità.

Attualmente l'art. 601 c.p., così come modificato dal d.lgs. 24/2014, propende per un'interpretazione ancora più ampia del concetto di tratta di quella contenuta della direttiva 2011/36/UE, laddove nella seconda parte fa un riferimento generico allo sfruttamento di «prestazioni lavorative» e non all'art. 600 c.p. che, secondo l'impostazione proposta nell'ultimo paragrafo del presente elaborato, dovrebbe riguardare unicamente la prima parte della fattispecie.

L'adozione di una simile interpretazione da parte delle Procure e della giurisprudenza permetterebbe peraltro di riempire una grave lacuna nel nostro ordinamento, ossia la mancanza di una disposizione penale ad hoc che punisca lo sfruttamento lavorativo. Con l'introduzione dell'art. 603-bis c.p., come si è sopra rilevato, si è persa infatti l'occasione di far fronte a tale vuoto, preferendo sanzionare unicamente l'intermediario (caporale) e non anche il datore di lavoro.

A questo proposito alcuni studi hanno rilevato che i casi di violenza, abuso e sfruttamento dei lavoratori migranti in molte aree del sud Italia potrebbero cadere all'interno dell'ampia definizione della direttiva 2011/36/UE, in quanto la stessa sembra coprire quelle situazioni in cui i lavoratori migranti sono sottoposti a gravi forme di sfruttamento, in particolar modo nel settore agricolo, da parte dei datori di lavoro che si approfittano della loro condizione di vulnerabilità ed isolamento (8). Tale abuso concerne, come si è detto più volte, non la forza fisica, ma una combinazione di minacce, controllo psicologico e altre forme di intimidazione perpetrate dai datori di lavoro, a fronte delle condizioni di vulnerabilità dei migranti, che possono essere dovute ad una molteplicità di fattori economici, legali, sociali che in parte derivano dalle politiche di immigrazione restrittive che limitano la mobilità del mercato dei lavorati migranti e aumentano la flessibilità e informalità del mercato del lavoro.

In conclusione, si può affermare che laddove la nostra giurisprudenza si orientasse nel senso di un'interpretazione dell'art. 601 c.p. come sopra prospettata, ossia come fattispecie bipartita, lo stesso diverrebbe un strumento di rilevante valore pratico nell'ottica della tutela di situazioni di sfruttamento che nell'attuale contesto normativo non trovano adeguato riscontro sanzionatorio.

Le considerazioni finora svolte tuttavia rischiano di rimanere inascoltate, a fronte della previsione di un minimo edittale del reato di tratta ancora molto elevato (otto anni): tale dato potrebbe, infatti, scoraggiare la magistratura a perseguire condotte di gravi sfruttamento lavorativo come tratta di esseri umani e condurla ad utilizzare, come sopra rilevato dall'analisi della giurisprudenza sull'art. 600 c.p., altre previsioni penali per lo più inadeguate.

Note

1. Nel periodo 2002-2011, secondo l' International Labour Office (ILO) a livello mondiale si ha un totale di 20,9 milioni di persone vittime del lavoro forzato e dello sfruttamento sessuale, di cui 5,5 sono minori. Il 44 % dei soggetti coinvolti è vittima di tratta, mentre il 56 % è vittima del lavoro forzato nel luogo di origine o di residenza (International Labour Office, ILO Global Estimate of Forced Labour, Geneva, 2012, p. 15).

2. UNODC (2012), Abuse of a position of vulnerability and other "means" within the definition of trafficking in persons, p. 7.

3. In questo senso: ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione), Osservazioni al decreto legislativo 4 marzo 2014 n. 24 di attuazione della direttiva 2011/36UE relativa alla prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI.

4. La possibilità di attribuire effetti diretti alle disposizioni di una direttiva è stata affermata per la prima volta dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea nella sentenza van Duyn (Corte di Giustizia UE, sentenza 4 dicembre 1974, causa 41/74).

5. Art. 2, par. 4, Direttiva 2011/36/UE, cit.

6. La Corte di Giustizia ha negato infatti che le direttive possano essere dotate di effetti diretti orizzontali (Corte di Giustizia UE, sentenza 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall: «la direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e [...] una disposizione d'una direttiva non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso»).

7. Art. 4, par. 3, TUE (Trattato sull'Unione Europea): "In virtù del principio di leale cooperazione, l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati".

8. PALUMBO L., Labour Exploitation and Trafficking in the Agricultural Sector. Reflections on the Inefficacy of Antitrafficking Interventions in Italy, 2 Cardozo El. L. Bull. 20 (2014).