ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

III. Il case study dei diritti dei migranti

Gioia Bonaventura, 2015

1. La tutela dei diritti dei migranti alla prova dei circuiti giurisdizionali europei

Il fenomeno migratorio ha natura estremamente complessa e multidimensionale, riconducibile ad una pluralità di fattori propulsivi che indubbiamente non costituiscono un numerus clausus: le migrazioni si legano a motivi economici e sociali - disuguaglianza, povertà, disoccupazione -, a situazioni di conflitto politico, etnico o religioso, a disastri ambientali, a fattori culturali.

L'esigenza di disciplinare e ordinare un fenomeno tanto sfaccettato e variegato, intrinsecamente anarchico, è prerogativa sempre attuale nelle agende politiche di tutti i governi dei paesi interessati dai flussi migratori; tuttavia l'approccio con cui si guarda all'immigrazione è eminentemente centrato su una politica securitaria, in cui si rincorrono e moltiplicano misure restrittive dei diritti e delle libertà dei migranti. Un approccio in cui sicurezza e libertà si scontrano. Questa natura di "crocevia del conflitto" attualizza e rende fecondo lo studio del diritto degli stranieri e, ancora di più, dei diritti degli stranieri.

In questo sfondo, gli attori principali sono le Corti, in particolare quelle europee, che mostrano di seguire gli sviluppi del fenomeno e hanno messo in moto processi di riconoscimento concreto dei diritti dei migranti. Come è stato affermato, sono le "Corti giudiziarie e non le istituzioni politiche" ad essere "percepite dai migranti come i loro referenti e gli organismi cui affidare la tutela dei loro diritti" (1).

La concreta portata di questa garanzia e il carattere effettivo della tutela, con specifico riguardo al case study dei diritti dei migranti, possono però variare a seconda di una pluralità di fattori condizionanti, come la singola situazione concreta, il diritto dedotto, anche i rapporti di forza con il potere legislativo di riferimento. Nel gioco della necessaria ed inevitabile ponderazione degli interessi, che caratterizza l'attività giuridica di garanzia in sé, è alto il rischio che i diritti vengano accantonati e messi in secondo piano, nonostante la retorica del moderno mito dei diritti umani. Il confronto diretto tra la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella offerta dalla Corte di Lussemburgo risulta dunque essenziale per poter valutare la sussistenza di eventuali differenze relativamente alla tutela dei diritti fondamentali dei migranti e, in definitiva, per trarre anche delle conseguenze di carattere generale sulla dimensione della garanzia concretamente offerta a livello europeo.

All'interno della pluralità sfaccettata di decisioni dei due circuiti giurisdizionali, sono state selezionate tre "aree di interesse" oggetto di esame più approfondito: la tutela della liberà e sicurezza personale relativamente alla procedura del trattenimento del migrante; la tutela del diritto alla vita familiare; infine, un'ipotesi più specifica, quale l'effettività della garanzia dei diritti dei richiedenti asilo, i cosiddetti migranti forzati.

2. La tutela della libertà personale nel rimpatrio del migrante irregolare

Il diritto di decidere circa le condizioni per l'ingresso, il soggiorno e l'allontanamento di soggetti non cittadini (cioè degli stranieri migranti) costituisce tradizionale prerogativa dello Stato nazionale, tipica manifestazione della sua sovranità: non esiste alcun diritto dello straniero ad essere ammesso e a soggiornare nel territorio di un altro Stato. Nelle parole della Corte europea dei diritti dell'uomo: "the Contracting States have, under a firmly established principle of international law and without prejudice to their commitments under international treaties, including the Convention, the right to control the entry, residence and expulsion of non-nationals" (2). La sovranità esercitata sul proprio territorio dallo Stato, che si concretizza nell'esigenza di tutela della sicurezza pubblica e di controllo dell'immigrazione irregolare, si scontra tuttavia con il distinto e 'moderno' principio internazionale del rispetto dei diritti umani (3). La disciplina dell'immigrazione risente della inevitabile tensione tra i due principî, rispetto ai quali le operazioni di bilanciamento risultano concretamente molto difficili (4). In ogni caso, indubbio è che attualmente l'ago della bilancia 'legislativa' - tanto europea quanto nazionale - penda in maniera massiccia a favore di un'impostazione fortemente securitaria del governo delle migrazioni, a discapito dei diritti umani dei soggetti coinvolti, che vengono nei fatti pretermessi (5).

A tale proposito, il tema dell'allontanamento del migrante dal territorio e della sua 'detenzione amministrativa' - nel gergo di stampo UE il 'trattenimento' - è vicenda in cui chiaramente emerge come le prerogative sovrane dello Stato sul proprio territorio (e il relativo corredo di potere connesso alla salvaguardia del confine) si scontrino con il diritto alla libertà e sicurezza personale del migrante (6). Infatti l'idea del trattenimento dello straniero all'interno di una struttura chiusa e controllata (7) costituisce "una delle chiavi di volta del sistema europeo di controllo ed allontanamento dei migranti, introducendo peraltro un punto decisivo di rottura dei discorsi e delle pratiche costituzionali occidentali in tema di libertà personale e delle sue garanzie" (8). Letteralmente paradigmatica, case study 'esemplare' all'interno del case study dei diritti (negati) dei migranti, è dunque la prassi del trattenimento del migrante sottoposto a una procedura di rimpatrio (9), che evidenzia "come la legge costituita non tema più il paradosso e come si giochi, sulla pelle dei migranti, una partita ideologica e dimentica dell'habeas corpus" (10).

L'istituto costituisce una vera e propria fonte di problematiche e ha dato luogo a consistenti dubbi di legittimità da un punto di vista del rispetto dei diritti umani: siamo infatti di fronte ad una apprezzabile restrizione della libertà personale dell'individuo che non consegue alla commissione di un reato (11). Tuttavia, non si può fare a meno di notare, "nonostante gli sforzi della giurisprudenza nazionale ed europea per circondare tali pratiche di una serie di tutele giurisdizionali", "il forte silenzio che viene dalle aule di queste corti in ordine alla costituzionalità [o, più in generale, legittimità ] in sé di queste pratiche detentive" (12). Allo stato attuale, dunque, l'unico possibile luogo di tutela per i diritti del migrante è il controllo giurisdizionale della regolarità del trattenimento e delle condizioni in cui avviene. In questo modo si evince come sia il potere giudiziario - nazionale quanto europeo - ad essere chiamato a valutare il rispetto dei presupposti applicativi dell'istituto e il rispetto delle altre garanzie, in particolare di natura procedimentale, offerte all'individuo (13).

2.1. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sul rimpatrio e trattenimento del migrante

L'articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo è dedicato al diritto alla libertà e sicurezza individuali, ed è volto a proteggere la libertà fisica della persona contro detenzioni o arresti arbitrari ed abusivi (14). La struttura della disposizione prevede delle ipotesi tassative in cui eventuali limitazioni alla libertà sono legittime (15), tra queste anche l'arresto o detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d'espulsione o d'estradizione. Tale norma enuncia due distinte fattispecie di "legittima privazione della libertà del migrante": la prima è quella finalizzata a impedire al migrante l'ingresso irregolare nel territorio dello Stato; l'altra invece è quella incentrata a garantire l'esecuzione di un provvedimento di espulsione. La giurisprudenza convenzionale è maggiormente sviluppata su quest'ultima ipotesi, che del resto permette un confronto più immediato con la "giurisprudenza d'occasione" della Corte di Giustizia.

In linea generale, dunque, nell'economia CEDU il trattenimento in quanto tale - cioè la privazione della libertà personale del migrante irregolare ai fini del rimpatrio - è un istituto 'convenzionalmente compatibile' poiché integra una delle ipotesi previste dalla norma (tra i quali, lo si ricordi, vi è anche la detenzione di alienati, alcolizzati, tossicomani e vagabondi). Ciò discende in particolare dal consolidato principio di diritto internazionale per cui il diritto di decidere circa le condizioni per l'ingresso, il soggiorno e l'allontanamento di soggetti non cittadini (cioè degli stranieri migranti) costituisce tradizionale prerogativa dello Stato nazionale, tipica manifestazione della sua sovranità: non esiste alcun diritto dello straniero ad essere ammesso e a soggiornare nel territorio di un altro Stato (16). Nelle stesse parole dei giudici di Strasburgo "mentre la regola generale sancita all'art. 5 § 1 è che ogni individuo ha il diritto alla libertà, l'art. 5 § 1(f) prevede un'eccezione a suddetta regola generale, permettendo agli Stati di limitare la libertà degli stranieri nel cotesto del controllo dell'immigrazione. Come la Corte ha già osservato, fermi restando i loro obblighi sulla base della Convenzione, gli Stati godono di un diritto sovrano innegabile di controllare l'ingresso degli stranieri e la loro residenza nel loro territorio" (17).

Gli spazi di tutela per i diritti dei migranti soggetti a rimpatrio sono dunque altri; in particolare la Corte procede secondo un articolato test valutando la sussistenza di molteplici elementi chiave: in primo luogo, la detenzione cui il migrante soggiace deve essere conforme al diritto interno nazionale, tanto sostanziale quanto processuale (deve avvenire cioè "secondo i modi prescritti dalla legge"); tale normativa interna deve essere compatibile con i principî generali convenzionali, in particolare con il principio di certezza del diritto (il rule of law (18)); infine, la detenzione non deve essere arbitraria, cioè deve essere in armonia con l'obiettivo generale dell'articolo 5 CEDU, ovvero la protezione dell'individuo dall'arbitrarietà dei pubblici poteri (19). La Corte precisa i rapporti tra i vari vizi che, colpendo una detenzione, possono renderla incompatibile con il portato convenzionale: il requisito della 'non arbitrarietà' va oltre la conformità al diritto del singolo Stato nazionale, infatti una privazione della libertà personale può essere impeccabilmente eseguita in conformità alle leggi interne, ma comunque risultare arbitraria, e dunque inammissibile sul piano convenzionale. Evidente dunque come la valutazione in punto di arbitrarietà della detenzione sia il vero fulcro della protezione accordata dalla Corte.

Scendendo nel dettagli delle decisioni della Corte di Strasburgo, non mancano le sentenze in cui si è sancita la violazione della libertà personale del cittadino straniero poiché la detenzione risulta perpetrata in spregio al diritto nazionale. Evidente come l'estensione del sindacato del giudice europeo al rispetto della normativa interna determini un allargamento dei poteri della Corte: fermo restando che sono le autorità nazionali ad essere in primo luogo competenti ad interpretare e applicare il diritto nazionale, dalla formulazione dell'articolo 5.1 CEDU deriva che la violazione della normativa interna integra gli estremi di un vulnus alla Convenzione e dunque il sindacato CEDU può e deve estendersi a tali profili (20).

Relativamente alla condizione 'rispetto del diritto nazionale', vengono in rilievo anche quei casi problematici in cui iniziali provvedimenti di allontanamento - titoli su cui si fonda il trattenimento del migrante e dunque la limitazione della sua libertà personale - vengono annullati in sede di riesame giurisdizionale. In tali ipotesi l'approccio della Corte è di stampo sostanziale ricorrendo ad una distinzione incentrata sulla gravità del vizio che ha dato luogo all'annullamento del provvedimento di rimpatrio: in presenza di un titolo di detenzione manifestamente invalido, ad esempio, la Corte ha riscontrato una violazione dell'articolo 5 CEDU, poiché la detenzione risulta fondata su una irregolarità grave e manifesta (21); mentre l'annullamento di un provvedimento di espulsione prima facie legittimo ed efficace non determina per ciò solo la violazione dell'articolo 5 CEDU (22).

Venendo al requisito di non arbitrarietà della detenzione, è necessario osservare come la Corte non abbia dato una definizione precisa e univoca di tale clausola, ma abbia maturato dei principî guida su base casistica - circostanza che, se da un lato lascia ampi margini di manovra ai giudici, anche in funzione di futuri revirement, complica la vita alla dottrina -. Soprattutto, tale requisito sembra variare in una certa misura a seconda del tipo di detenzione la cui legittimità convenzionale la Corte è chiamata a valutare: ad esempio relativamente ai casi delle altre fattispecie tipizzate all'articolo 5 CEDU - particolarmente sub b); d); e) - si richiede, tra le altre cose, anche la proporzionalità, opportunità e necessità della misura detentiva irrogata (23). Per converso, la Corte EDU ha precisato nella sentenza Chahal c. Regno Unito del 1996 che, relativamente alle ipotesi in cui la privazione della libertà costituisce misura finalizzata all'esecuzione di un procedimento d'espulsione, non si richiede che la detenzione sia ragionevolmente considerata necessaria, per esempio per impedire che la persona in questione commetta un reato o si dia alla macchia (24), ma il principio di proporzionalità si applica alla detenzione fondata sull'art. 5.1 f) CEDU solo nella misura in cui questa non si prolunghi per un periodo di tempo irragionevole (25). Nella sentenza Saadi c. Regno Unito del 2008, la Corte ha applicato la medesima declinazione del test di non arbitrarietà anche alle detenzione finalizzate ad impedire l'ingresso illegale nel territorio del migrante "dato che lo Stato gode del diritto di controllare allo stesso modo l'entrata ed il soggiorno nel Paese dei cittadini stranieri, non sarebbe naturale applicare un diverso criterio di proporzionalità ai casi di detenzione contestuale all'ingresso rispetto a quello utilizzato nei casi di espulsione, estradizione o allontanamento di un individuo che si trovi già nel Paese" (26). Tuttavia, ci sono spazi per ipotizzare un cambiamento di orientamento giurisprudenziale ed un allineamento del test di non arbitrarietà della fattispecie sub 5 f) CEDU a quello delle altre ipotesi: entrambe le decisioni menzionate sono state infatti rese prima dell'emanazione della direttiva europea sul rimpatrio, la quale informa il trattenimento dello straniero alla regola della proporzionalità (27). Soprattutto, le decisioni sono state rese prima della recezione di tale strumento normativo europeo negli ordinamenti giuridici degli Stati Membri: non è inverosimile un cambio di orientamento e un'estensione del sindacato della Corte di Strasburgo in merito all'opportunità e necessità della misura detentiva attraverso la valorizzazione del consensus europeo che si è formato (o meglio, è stato imposto) sul punto. Già nella sentenza Raza c. Bulgaria del 2010, infatti, emergono profili inerenti alla valutazione della necessità della misura detentiva dello straniero, anche se ancora non considerata in sé e per sé, ma in quanto indiziaria di una mancanza di buona fede delle autorità competenti (28).

Venendo all'esame della giurisprudenza sulla arbitrarietà della detenzione ai fini dell'allontanamento del migrante, la Corte di Strasburgo richiede che la detenzione non sia posta in essere dalle competenti autorità in mala fede o tramite inganni; che l'ordine di detenzione e la sua esecuzione siano entrambi strettamente connessi con la finalità della restrizione (i.e. l'allontanamento del soggetto dal territorio); il luogo e le condizioni di detenzione devono essere appropriati, soprattutto in considerazione del fatto che la misura è applicata a persone che non hanno commesso alcun reato e che versano spesso in condizioni di particolare vulnerabilità; la durata della misura non deve eccedere il tempo ragionevolmente richiesto per il perseguimento dell'obiettivo ultimo.

Molteplici sono le violazioni dell'articolo 5 f) CEDU riscontrate dalla Corte a causa della natura arbitraria della detenzione del migrante: ad esempio, nel caso Bozano (29) la Corte rileva una violazione convenzionale sotto il duplice profilo sia della arbitrarietà sia della non conformità al diritto interno della detenzione poiché dall'esame del caso concreto emerge come il provvedimento di espulsione costituisse in realtà una forma di "estradizione mascherata", emanato per poter aggirare il parere negativo sull'estradizione dato dal competente giudice francese; tali principî hanno trovato applicazione nella recente sentenza Eshonkulov c. Russia (30). Nel caso Conka (31), invece, la Corte ricorda il carattere primario del bene giuridico protetto dall'art. 5 CEDU e la necessità di un'interpretazione restrittiva delle ipotesi in cui viene compresso; pertanto è necessario che le comunicazioni delle autorità nazionali siano affidabili e non effettuate in malafede: nel caso di specie le autorità di polizia erano riscorse allo stratagemma di invitare il ricorrente, migrante irregolare, a recarsi alla stazione di polizia per stilare una (inesistente) richiesta di asilo, in modo tale da facilitare l'espulsione e l'arresto dello stesso. Molto deciso lo scrutinio convenzionale nel caso Mikolenko c. Estonia, in cui la Corte di Strasburgo si trova a giudicare il caso di una detenzione 'straordinariamente prolungata' nel tempo, per la durata di tre anni e mezzo. Il Giudice europeo afferma che l'allontanamento del ricorrente dal territorio è diventato praticamente impossibile, mancando la cooperazione sia dell'interessato sia del paese terzo di destinazione (nel caso di specie la Federazione Russa): poiché l'articolo 5.1 f) CEDU prevede la legittimità della detenzione solo in funzione dell'allontanamento del soggetto dal territorio, la detenzione che risulti impossibile a causa della mancanza di una prospettiva realistica di espulsione dal territorio non può dirsi giustificata sotto la luce della Convenzione europea. In questo caso, la Corte ritiene preminente il diritto alla libertà del singolo sul contrapposto interesse dello Stato di decidere in merito agli ingressi e soggiorni all'interno del proprio territorio (32).

Come sopra accennato, la valutazione sulla congruità della durata della detenzione rispetto allo scopo cui è finalizzata è uno degli aspetti su cui la Corte valuta l'eventuale arbitrarietà della restrizione della libertà personale. Nel momento in cui la mera sussistenza di un procedimento di allontanamento dal territorio è condizione necessaria e sufficiente a giustificare la privazione della libertà sub species 5 f) CEDU, è evidente che tali procedimenti dovranno essere condotti senza "sprechi processuali" e con la dovuta diligenza (due diligence) (33). La Corte ha precisato che a tale proposito essa valuta caso concreto per caso concreto, due specifiche circostanze quali la condotta delle autorità competenti (34) e la condotta più o meno 'collaborativa' del migrante interessato dalla misura di allontanamento (35).

2.2. La direttiva 2008/115/CE come occasione di pronuncia della Corte di Giustizia dell'Unione europea

In limine, prima di scendere nel merito della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE in punto di tutela dei diritti fondamentali e procedura di rimpatrio, poiché gli obiettivi e la portata della direttiva 2008/115/CE costituiscono il sostrato delle pronunce della Corte è necessario richiamare le linee essenziali della disciplina introdotta da tale strumento normativo, vera e propria premessa logica imprescindibile da cui il ragionamento giuridico della Corte prende le mosse (36).

La direttiva 2008/115/CE, la cosiddetta direttiva rimpatri, ha come scopo l'adozione di norme chiare, trasparenti ed eque al fine di realizzare una politica di rimpatrio efficace: questa costituisce aspetto necessario e da cui non è possibile prescindere per poter dare vita ad una politica d'immigrazione correttamente gestita a livello di Unione europea (37); ad ogni modo, l'allontanamento dal territorio del cittadino del paese terzo deve avvenire in maniera umana, nel pieno rispetto dei suoi diritti fondamentali e della sua dignità (38). L'intenzione del Legislatore europeo è dunque quella di tutelare le frontiere dell'Unione dettando una procedura comune ed efficace di allontanamento dei migranti irregolari, senza tuttavia pretermettere le garanzie dei diritti fondamentali dei soggetti coinvolti, anche e soprattutto in considerazione del fatto che l'organizzazione internazionale si "fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze" (39).

Nel concreto, la direttiva detta un insieme di regole orizzontali che gli Stati membri devono applicare al rimpatrio di cittadini di paesi terzi, cioè al "processo di ritorno di un cittadino di un paese terzo" il quale può avvenire "sia in adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio, sia forzatamente" e verso il "proprio paese di origine" ovvero verso "un paese di transito in conformità di accordi comunitari o bilaterali di riammissione" ovvero "in un altro paese terzo, in cui il cittadino in questione decide volontariamente di ritornare e in cui sarà accettato" (40).

La procedura di rimpatrio del migrante si fonda dunque sul presupposto dell'irregolarità del suo soggiorno all'interno del territorio dell'Unione, che deve essere accertata dalla competente autorità (giudiziaria o amministrativa): sub ratione personae, la direttiva concerne quindi tutti quei cittadini di un paese terzo il cui soggiorno è irregolare ex tunc (come nel caso di chi varchi le frontiere esterne sottraendosi ai controlli) oppure ex nunc (come nel caso di chi, regolarmente entrato, versi in una situazione di irregolarità sopravvenuta, ad esempio per scadenza del visto e permanenza sul territorio UE) (41). La direttiva disciplina analiticamente la scansione procedurale alla quale gli Stati membri devono attenersi per effettuare il rimpatrio: in primo luogo, a seguito di una decisione (che può avere natura giudiziaria o amministrativa) che accerti l'irregolarità del soggiorno e che imponga l'obbligo di rimpatrio, le autorità nazionali devono privilegiare l'allontanamento volontario del migrante irregolare, fissando all'uopo un termine congruo (e consono) nella decisione di rimpatrio; solo in circostanze eccezionali, oppure in caso di mancato adempimento da parte del soggetto migrante dell'obbligo di rimpatrio, è possibile procedere all'allontanamento forzato con tutte le misure necessarie, eventualmente anche coercitive, ma proporzionate e rispettose dei diritti fondamentali dei soggetti destinatari. Tra le varie misure che possono essere adottate, un ruolo residuale ed eccezionale è rivestito dall'istituto del cosiddetto "trattenimento ai fini dell'allontanamento" ovvero la privazione temporanea della libertà personale del migrante, strettamente funzionale all'esecuzione della procedura di rimpatrio.

Il Legislatore europeo dedica un'attenzione particolare alla disciplina di tale istituto, che ha natura di extrema ratio. Nell'ambito del Capo IV della direttiva, per quanto riguarda i presupposti e le condizioni legittimanti il ricorso alla misura coercitiva de qua, si prevede che gli Stati Membri abbiano la facoltà di disporre il trattenimento soltanto per preparare il rimpatrio dello straniero irregolare e/o per effettuare l'allontanamento dello stesso, in particolare quando vi è un rischio di fuga del cittadino del Paese terzo o quando costui eviti od ostacoli tale preparazione. La natura di extrema ratio del trattenimento è confermata dall'inciso secondo il quale, nell'ambito del crescendo di misure coercitive che possono essere impiegate in luogo del rimpatrio volontario, il ricorso a tale istituto è legittimo quando nel caso concreto non possono essere efficacemente utilizzate misure diverse e meno incisive (42). Per quanto riguarda l'individuazione dell'autorità competente a disporre il trattenimento, in considerazione della necessità di rispettare eventuali diversità degli assetti costituzionali degli Stati Membri, le direttiva dispone che la competenza possa alternativamente sussistere in capo all'autorità giudiziaria o in capo all'autorità amministrativa: in ogni caso il provvedimento di trattenimento deve essere scritto e motivato in fatto ed in diritto. Nel caso in cui nello Stato Membro tale competenza sia radicata in seno all'autorità amministrativa, il Legislatore europeo dispone che debba essere sussistente o un meccanismo di pronto riesame giudiziario della legittimità della decisione amministrativa di trattenimento operante in automatico, ovvero che venga configurato il diritto dell'individuo soggetto a trattenimento a provocare un pronto riesame giudiziario. Nel caso in cui, il controllo giurisdizionale accerti l'illegittimità della privazione di libertà, il cittadino del paese terzo deve essere immediatamente rilasciato (43). Ulteriori prescrizioni che risultano centrali nella definizione dei contorni dell'istituto sono quelle relative alla durata del trattenimento e alla sua stretta funzionalizzazione al rimpatrio: secondo le linee direttive europee, la delimitazione della libertà personale del migrante deve avere durata quanto più breve possibile e deve essere mantenuta solo per il tempo strettamente necessario all'esecuzione diligente del rimpatrio (44). Il trattenimento ha una durata circoscritta nel tempo ed in particolare può essere disposto per un massimo di sei mesi: può essere disposta una proroga di ulteriori dodici mesi in casi eccezionali, cioè quando l'esecuzione della procedura di allontanamento richieda un tempo maggiore a causa della mancata cooperazione del cittadino del paese terzo ovvero di ritardi nell'ottenimento della necessaria documentazione dal paese di origine (45). In ogni caso, il provvedimento che dispone il trattenimento deve essere riesaminato a intervalli ragionevoli e, nel caso in cui sia prolungata nel tempo la durata di tale misura, il riesame deve essere deferito ad un'autorità giudiziaria.

Venendo infine alle cause di illegittimità del trattenimento dalle quali discende il dovere di rilasciare immediatamente il cittadino straniero, dallo stretto legame funzionale intercorrente tra la procedura di rimpatrio e la 'detenzione amministrativa' del migrante deriva che nel caso in cui non esista più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi giuridici o di altra natura la restrizione della libertà personale deve cessare immediatamente; lo stesso avviene nell'ipotesi in cui siano venute meno le condizioni che in prima battuta hanno legittimato il ricorso al trattenimento, ovvero il rischio di fuga o l'atteggiamento scarsamente collaborativo del cittadino straniero (46).

Per quanto riguarda le condizioni del trattenimento, la disciplina è del tutto essenziale, quasi scarna: si statuisce che di regola il trattenimento del migrante debba avvenire negli appositi centri di permanenza temporanea e che solo eccezionalmente possa avere luogo all'interno degli istituti penitenziari; in quest'ultima ipotesi, tuttavia, è necessario che i soggetti "trattenuti" siano separati dai detenuti ordinari (47). La direttiva introduce una facoltà di deroga a tale disposizione nel caso in cui un numero eccezionalmente elevato di cittadini di paesi terzi da rimpatriare comporti un notevole onere imprevisto per la capacità dei centri di permanenza temporanea o per il personale amministrativo o giudiziario coinvolto nella procedura (48). Regole particolari e di favor rispetto alla disciplina ordinaria (perlomeno nell'intenzione dell'estensore) sono dedicate all'ipotesi in cui la misura del trattenimento riguardi un minore non accompagnato o un'intera famiglia in cui vi siano dei minori (49).

In definitiva, fermo restando l'obiettivo finale del rimpatrio del cittadino di un paese terzo il cui soggiorno è irregolare, gli spazi di tutela per i diritti fondamentali del migrante sono offerti dalla procedimentalizzazione dell'allontanamento del soggetto, il quale, nel disegno del Legislatore europeo, è informato e retto dal principio di proporzionalità (50).

Nella direttiva rimpatri dunque il Legislatore europeo individua il baricentro tra le contrapposte esigenze di repressione dell'immigrazione illegale sul territorio dell'area Schengen e di tutela dei diritti fondamentali dei soggetti migranti nell'allestimento di un meccanismo di espulsione a intensità graduale crescente: la regola generale è il rimpatrio volontario del cittadino straniero, mentre l'allontanamento coattivo costituisce "l'eccezione da realizzarsi con un crescendo di strumenti restrittivi della libertà personale" (51). In realtà, la tensione tra le esigenze securitarie e quelle di salvaguardia dei diritti umani ha quasi un carattere immanente: essa non solo contrassegna il testo legislativo della direttiva rimpatri ed echeggia nella disciplina dei singoli istituti da essa previsti, ma si rinviene anche nelle pronunce della Corte di Giustizia, nelle quali tale contrasto assume le sembianze di una sorta di schizofrenia ermeneutica che sembra caratterizzare l'approccio giurisprudenziale del giudice di Lussemburgo alla tematica de qua.

A fini didascalici e di chiarezza espositiva, è possibile suddividere l'analisi del corpus giurisprudenziale rilevante in materia in due distinte macrocategorie. Da una parte, possiamo isolare un primo gruppo di pronunce che affrontano gli aspetti concernenti il rapporto tra la procedura di rimpatrio europea e l'eventuale normativa nazionale che criminalizzi la condotta di ingresso e soggiorno irregolare del migrante. Dall'altra, vi è un filone di sentenze della Corte di Giustizia che riguarda le garanzie, soprattutto di natura 'procedimentale', di cui il cittadino di un paese terzo può fruire nell'ambito della procedura di rimpatrio, in particolare nel caso in cui sia sottoposto alla misura del trattenimento. Incrociando le due macrocategorie, è possibile individuare lo spazio di garanzia dei diritti dei migranti ricavato dalla Corte, sfruttando 'i pieni e i vuoti' della normativa europea.

2.2.1. Il caso della criminalizzazione dell'irregolarità del soggiorno: tutela involontaria dei diritti da El Dridi a Sagor

Alcune tra le pronunce della Corte di Giustizia rese in merito alla direttiva 2008/115/CE affrontano il tema della compatibilità di alcune normative nazionali che criminalizzano l'irregolarità del soggiorno del migrante: si tratta evidentemente di normative che, dando luogo a cospicue limitazioni della libertà personale dell'individuo, hanno un fondamento di dubbia ragionevolezza. Tra le sentenze in questione, la vera e propria pietra miliare è la sentenza El Dridi (52), il cui contenuto è precisato dalla pronuncia Achughbabian (53); il quadro è poi completato dalla sentenza Sagor (54) e dalla sua 'appendice concettuale', l'ordinanza pronunciata dalla Corte nel caso Mbaye (55).

Lanciandosi in un ragionamento induttivo, da un esame dell'insieme delle pronunce citate emerge nitidamente il tenore della linea argomentativa prescelta dalla Corte per affrontare il tema del rimpatrio del migrante irregolare e delle sanzioni punitive nazionali che colpiscono la condizione di irregolarità del suo ingresso o soggiorno. Le sentenze sono infatti accomunate dal fatto che i quesiti pregiudiziali ricevono soluzioni incentrate sulla necessità di salvaguardare la politica europea dei rimpatri delineata nella direttiva: il 'metro di giudizio' privilegiato per valutare la compatibilità delle normative nazionali è il pregiudizio che la legge penale dello Stato Membro arreca all'integrità di un efficace sistema di rimpatrio. La Corte di Giustizia nell'affermare l'incompatibilità delle normative nazionali che i giudici del rinvio devono applicare, àncora saldamente il proprio giudizio alla necessità che le procedure di rimpatrio degli Stati siano effettive, produttive di risultati concreti: così facendo la Corte scolpisce i tratti del sistema europeo di allontanamento nel senso per cui l'obiettivo principale - se non unico - di tutela è la salvaguardia dell'area territoriale UE e delle sue frontiere esterne (56). Il profilo 'funzionalistico' della direttiva esce dunque rafforzato dalla lettura della Corte e con esso anche l'integrazione europea e l'uniformazione dei diritti nazionali: l'altra 'faccia della medaglia' - la circostanza che il rimpatrio debba avvenire nel rispetto dei diritti dei soggetti coinvolti - risulta invece in ombra nel ragionamento del Giudice europeo (57).

Prima di passare ad un esame più dettagliato delle singole pronunce, in via preliminare è necessario ricostruire il rapporto intercorrente tra il diritto dell'Unione europea e il diritto penale degli Stati Membri - quello ius terribile manifestazione di sovranità ed identità nazionale - poiché tale tematica costituisce una delle architravi essenziali delle argomentazioni giuridiche sviluppate dalla Corte di Giustizia. L'architettura del Trattato di Lisbona non intacca le competenze in materia di legislazione penale che sono proprie dei singoli Stati nazionali: nel caso di specie significa che i singoli Stati Membri sono "padroni" della disciplina penale dell'immigrazione irregolare. Inevitabilmente e per la loro stessa natura, però, le opzioni di politica criminale nella materia migratoria si sovrappongono e si intersecano alle altre competenze proprie dell'Unione, in particolare quelle inerenti al Titolo V del TFUE: ferma restando la sovranità degli Stati Membri in materia penale, questi non possono adottare una legislazione che contrasti con il diritto comunitario e che vanifichi il conseguimento degli obiettivi dell'Unione. Nel caso di specie, dunque, gli Stati non possono adottare quelle normative penali, volte a sanzionare l'ingresso e il soggiorno irregolare nel proprio territorio, che pongano nel nulla gli scopi propri della direttiva 2008/115/CE (58).

Il primo tema affrontato dalla Corte riguarda la compatibilità con il diritto europeo di quelle leggi nazionali che sanzionano il migrante irregolare con pena detentiva. Nella sentenza El Dridi, ad esempio, partendo dalle specifiche finalità da cui prende le mosse la direttiva rimpatri - attuazione di un'efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio basata su norme comuni affinché le persone interessate siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità - la Corte di Giustizia afferma l'incompatibilità con il sistema europeo della normativa italiana che puniva con reclusione la violazione ingiustificata da parte dello straniero dell'ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio dello Stato (59): la comminazione di una pena detentiva durante lo svolgimento della procedura di rimpatrio UE neutralizza l'efficacia della direttiva rimpatri e il suo effetto utile.

La Corte di Giustizia, nel rapportare la normativa italiana al disegno della direttiva 2008/115/CE (60), nota come nel diritto italiano la sanzione penale della reclusione venga comminata a motivo dell'inosservanza di una delle fasi in cui è scandita la procedura di rimpatrio. Lo Stato italiano introduce cioè una pena detentiva per tamponare ed ovviare ad un primo insuccesso del rimpatrio, mentre dovrebbe continuare ad adoperarsi per dare esecuzione effettiva al provvedimento in questione. Nel caso di specie, la limitazione della libertà personale del migrante è comminata a titolo di sanzione di un obbligo giuridico ed è del tutto svincolata dall'obiettivo primario della direttiva rimpatri, ovvero il pronto ed effettivo allontanamento del migrante irregolare. La detenzione prevista nella disciplina italiana ha natura di pena ed è una sanzione di tipo punitivo; pertanto vi sono vistose differenze con la restrizione della libertà personale prevista ed ammessa nell'impianto della direttiva europea, ovvero il trattenimento ai fini dell'allontanamento. Nell'un caso, infatti, la privazione della libertà del migrante è funzionale al rimpatrio dell'irregolare, dunque all'efficiente gestione dell'immigrazione; nell'altro, invece, la privazione costituisce mezzo repressivo dell'immigrazione, evidentemente percepita come fenomeno criminoso e illegale. Secondo la Corte dell'UE, la normativa italiana non è compatibile con il diritto europeo cristallizzato nella direttiva rimpatri in quanto "una tale pena, segnatamente in ragione delle sue condizioni e modalità di applicazione, rischia di compromettere la realizzazione dell'obiettivo perseguito da detta direttiva, ossia l'instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare". E soprattutto "una normativa nazionale quale quella oggetto del procedimento principale può ostacolare [...] e ritardare l'esecuzione della decisione di rimpatrio" (61).

Tuttavia, sulla carta gli obiettivi della direttiva sarebbero due: una politica efficace in materia di rimpatrio che sia anche rispettosa dei diritti dei migranti coinvolti. La pronuncia però è incentrata esclusivamente sul primo obiettivo, poiché il perno dell'argomentazione della Corte è l'efficacia del sistema di rimpatri europeo, la quale risulta nel caso concreto compromessa dal Testo Unico sull'immigrazione italiano; i diritti fondamentali dei migranti rimangono invece sullo sfondo, nonostante il velato input del giudice a quo in tale direzione, costituito dal richiamo ai principî di proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza della pena detentiva la cui esistenza era messa in dubbio.

L'impostazione de qua trova conferma della successiva sentenza Achughbabian, in cui la Corte di Giustizia afferma che irrogare una pena detentiva nel corso della procedura delineata dalla direttiva 2008/115/CE non contribuisce all'allontanamento del migrante irregolare, ovvero al trasporto fisico dell'interessato fuori dallo Stato Membro dell'Unione (62). Del pari pregiudica l'effetto utile della direttiva anche il differimento nel tempo del rimpatrio, cioè il ritardo nella sua esecuzione dovuto all'applicazione delle scelte di politica criminale dello Stato Membro (63). Infatti, dal diritto dell'Unione deriva che gli Stati devono procedere all'allontanamento "con la massima celerità": risulta del tutto evidente che "così non sarebbe se lo Stato membro interessato, dopo aver accertato il soggiorno irregolare del cittadino di un paese terzo, anteponesse all'esecuzione della decisione di rimpatrio, o addirittura alla sua stessa adozione, un procedimento penale, eventualmente seguito dalla pena della reclusione" (64). La Corte enuncia dunque un principio fortemente escludente: lo straniero irregolare non può esser punito con la reclusione in carcere a motivo del suo ingresso o soggiorno illegale nel territorio, ove ciò ritardi l'esecuzione della procedura di rimpatrio.

Le sentenze El Dridi e Achughbabian rendono manifesto e vivido quello che con un gioco di parole può essere definito come uno dei paradossi del diritto nella tutela dei diritti (65). La Corte infatti si rapporta alla tematica del rimpatrio del migrante irregolare con un approccio strettamente funzionalista, facendosi forza della nozione di effetto utile di disposizioni contenute in uno strumento normativo concordemente ritenuto emblema di un atteggiamento di ostilità nei confronti dei cittadini extra-UE; paradossalmente però, le pronunce della Corte producono un miglioramento delle condizioni dei migranti attraverso la neutralizzazione di normative interne evidentemente deteriori. In merito alla vicenda italiana e al caso El Dridi è stato infatti affermato che la pronuncia "inserisce una tessera importante nella sfera che riguarda i diritti dei migranti, in quanto la libertà personale degli stranieri risulta rafforzata a seguito della sentenza" (66).

Lo spazio aperto alla riflessione da tale paradosso è - si licet -, sterminato.

Lo sbilanciamento a favore dell'efficienza del sistema di rimpatri rispetto alla salvaguardia dei diritti umani può essere colto anche nella soluzione offerta dalla Corte di Lussemburgo ad un'altra questione pregiudiziale, riguardante la compatibilità di normative penali interne che prevedono la privazione della libertà personale del migrante prima dell'avvio della procedura di allontanamento. Nella stessa sentenza Achughbabian, ad esempio, la Cour d'appel de Paris domanda anche della compatibilità con il diritto comunitario della normativa francese che consente la privazione della libertà dello straniero prima dell'accertamento dell'irregolarità del suo soggiorno. La Corte di Giustizia afferma non solo che detta limitazione - nel concreto un fermo di polizia - è ammissibile alla luce del diritto dell'Unione, ma anche che la stessa è particolarmente funzionale all'obiettivo perseguito dal Legislatore europeo, ovvero un sistema snello ed efficace di rimpatri dei cittadini extra-UE irregolari. Nelle parole della Corte di Giustizia, infatti, "poiché le norme e le procedure comuni introdotte dalla direttiva 2008/115 riguardano solo l'adozione di decisioni di rimpatrio e la loro esecuzione, [...] tale direttiva non osta ad una detenzione finalizzata a determinare se il soggiorno di un cittadino di un paese terzo sia regolare o meno". Del resto "la finalità della direttiva 2008/115 - ossia l'efficace rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare - risulterebbe compromessa se gli Stati membri non potessero evitare, mediante una privazione di libertà come il fermo di polizia, che una persona sospettata di soggiornare irregolarmente fugga ancora prima che la sua situazione abbia potuto essere chiarita" (67). Ancora una volta, nell'argomentazione giuridica seguita dalla Corte la compatibilità della disciplina nazionale viene esaminata precipuamente attraverso la lente della efficacia della procedura di rimpatrio.

Una conferma della scarsa tendenza della Corte di Giustizia ad occuparsi in maniera diretta dei diritti umani dei cittadini di paesi terzi è offerta poi da quelle pronunce in cui viene valutata la compatibilità con il diritto UE dell'irrogazione per il migrante irregolare di una tipologia di pena diversa da quella detentiva. Questo aspetto è stato affrontato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Sagor avente ad oggetto la legislazione italiana che sanziona il soggiorno irregolare di un cittadino di un paese terzo con la comminazione di una pena pecuniaria, sostituibile però con la pena dell'espulsione immediata o con l'obbligo di permanenza domiciliare (68). La Corte di Giustizia affronta la questione prospettata dal Tribunale di Taranto suddividendo la propria analisi in più punti: in primo luogo, essa analizza il tema della compatibilità con il diritto dell'Unione della irrogazione di una pena pecuniaria allo straniero irregolare; per poi valutare il profilo della compatibilità della sostituzione di tale pena con le due sanzioni 'alternative' previste dal Legislatore italiano.

Per quanto riguarda la prima questione, di portata più generale - per non dire astratta -, la Corte muove dalla propria giurisprudenza consolidata El Dridi e Achughbabian: la direttiva rimpatri non osta a che il singolo Stato Membro qualifichi come reato l'ingresso o il soggiorno irregolare sul proprio territorio e a tale fine possa prevedere sanzioni, anche di tipo penale, per scoraggiare e reprimere la commissione di tale illecito (69). Ciò che è imprescindibile è che gli Stati Membri rispettino il cuore della disciplina europea in materia di rimpatri che, come visto sopra, risulta pregiudicata dall'applicazione di sanzioni detentive che ostacolano il pronto allontanamento del migrante. Evidente, dunque, come l'applicazione di un'ammenda comporti "effetti sensibilmente diversi da quelli di una normativa che prevede l'avvio di un procedimento penale, che può condurre alla reclusione nel corso della procedura di rimpatrio". L'adozione e l'esecuzione delle misure di rimpatrio non vengono ritardate o in altro modo ostacolate dalla circostanza che sia pendente un'azione penale volta alla comminazione di un'ammenda. Infatti, "il rimpatrio disposto dal Legislatore italiano in attuazione della direttiva può essere realizzato indipendentemente da tale azione penale e senza che quest'ultima debba essere stata accolta" (70). Del pari, "l'applicazione di una pena pecuniaria non impedisce in nessun modo che una decisione di rimpatrio sia adottata ed attuata nella piena osservanza delle condizioni enunciate dalla 2008/115/CE" (71). La comminazione di un'ammenda a motivo dell'ingresso o del soggiorno irregolare sul territorio non distorce il sistema europeo di rimpatrio e il suo efficace funzionamento: la prima questione rivolta alla Corte di Lussemburgo sulla compatibilità della normativa italiana è dunque risolta.

Tuttavia, la portata deterrente della sanzione pecuniaria - nel caso di specie - è sostanzialmente inesistente e sarebbe naif pensare altrimenti; circostanza indubbiamente conosciuta anche dal Legislatore italiano. Una simile considerazione, sommata alla sostanziale inesigibilità pratica del quantum comminato in pressoché la generale totalità dei casi, implica che quasi in automatico il giudice di pace, giudice competente in materia di immigrazione secondo la normativa italiana, dia luogo alla sostituzione della pena pecuniaria. Correttamente ed avvedutamente la Corte di Giustizia dunque affronta nella pronuncia anche gli aspetti concernenti la compatibilità con il diritto europeo delle sanzioni sostitutive.

La prima sanzione sostitutiva tipizzata dal Legislatore italiano è costituita dall'espulsione immediata del cittadino straniero irregolare destinatario dell'ammenda, cui si cumula anche un divieto di reingresso (almeno) quinquennale nel territorio. I giudici del Lussemburgo ritengono questa disciplina ampiamente compatibile con la direttiva 2008/115/CE sia da un punto di vista formale, poiché la decisione di rimpatrio - perno dello strumento normativo in questione - può assumere la forma di una pronuncia giudiziaria resa all'interno di un procedimento avente natura penale (72); sia da un punto di vista sostanziale, poiché la sanzione non contrasta con l'obiettivo del celere rimpatrio dell'irregolare. Anzi, la compatibilità dell'espulsione immediata con la normativa comunitaria emerge manifestamente nel momento in cui si considera che tale 'sanzione' consegue al massimo l'obiettivo dell'efficacia del rimpatrio, dando un'accelerazione alla procedura. La Corte di Giustizia, tuttavia, nella sua foga di salvaguardare l'impianto della direttiva 2008/115/CE da eventuali disfunzioni, sembra trascurare il fatto che lo strumento in questione preveda una scansione in più fasi, ispirata al principio di proporzionalità, in cui la regola generale è il rimpatrio volontario del cittadino del paese terzo mediante l'attribuzione di un termine congruo, salva facoltà per gli Stati Membri di astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria in caso di rischio di fuga dell'individuo, alla luce di un esame individuale del singolo caso concreto. Tale regola generale viene invece sostanzialmente sovvertita nel momento in cui la Corte di Giustizia avalla la disciplina italiana che prevede in via 'generale ed astratta' l'espulsione immediata, senza subordinarla alla valutazione del rischio che il migrante irregolare eluda il provvedimento di rimpatrio. La Corte valorizza invece la facoltà di deroga a tale regola attribuita agli Stati Membri dalla direttiva, trascurando di considerare che questa risulta utilizzabile solo dopo un esame della singola fattispecie concreta (73).

Queste considerazioni problematiche trovano uno sbocco nella successiva pronuncia della Corte di Giustizia dell'Unione europea, l'ordinanza resa relativamente al caso Mbaye, in cui maggiore attenzione è dedicata al diritto del cittadino di un paese terzo di ottenere un termine per la partenza volontaria. I giudici affermano che la sostituzione della pena pecuniaria con l'espulsione immediata, implicando la perdita del periodo per la partenza volontaria, è compatibile con il diritto europeo solo se la situazione dell'interessato corrisponde a quella tipizzata dalla direttiva: se dall'esame del caso concreto risulta che sussiste un rischio reale di fuga dell'interessato al fine di sottrarsi all'esecuzione del rimpatrio, allora è possibile che la pena pecuniaria sia commutata nell'espulsione immediata (74).

La Corte di Giustizia continua poi la propria analisi in Sagor soffermandosi sulla compatibilità dell'altra sanzione sostitutiva che può essere comminata dal giudice italiano in luogo della pena pecuniaria, ovvero l'obbligo di permanenza domiciliare. Tale sanzione sostitutiva, già in astratto e in sé e per sé considerata, risulta platealmente incompatibile con l'obiettivo dell'allontanamento del soggetto straniero: "è evidente che irrogare ed eseguire una pena di permanenza domiciliare nel corso della procedura di rimpatrio prevista dalla direttiva 2008/115 non contribuisce alla realizzazione dell'allontanamento che detta procedura persegue, ossia al trasporto fisico dell'interessato fuori dello Stato membro in parola". Si aggiunge poi che "l'obbligo di permanenza domiciliare è idoneo a ritardare e, quindi, ad ostacolare quelle misure, come l'accompagnamento alla frontiera e il rimpatrio forzato per via aerea, che contribuiscono, invece, alla realizzazione dell'allontanamento" (75).

Il ruolo di 'giurisdizione delle libertà' della Corte di Giustizia esce decisamente incrinato dall'esame di questa giurisprudenza: in tutte le ipotesi evidenziate, l'incompatibilità con il corpus normativo europeo di discipline nazionali di non particolare favor per il migrante discende dal fatto che tali normative vanificano l'obiettivo della efficace gestione del immigrazione e del celere rimpatrio del cittadino del paese terzo. La libertà del migrante non è direttamente protetta dalla Corte: essa risulta meramente tutelata in via d'occasione e di incidente, poiché le modalità preferibili con cui il rimpatrio dello straniero deve essere eseguito sono - da un punto di vista dell'efficienza - quelle che non prevedono la detenzione e dunque la limitazione della libertà personale dell'individuo (76).

Infine, la vera e propria 'prova del nove' del modus argomentandi della Corte di Giustizia è data dall'esame delle risposte a quei quesiti maggiormente problematici sulla compatibilità di quelle normative nazionali che sanzionano con la detenzione il migrante irregolare, una volta che sia stata portata a termine senza alcun risultato la scansione procedurale del rimpatrio delineata dal Legislatore europeo, il che vale a dire, dopo il fallimento della procedura di rimpatrio. La Corte del Lussemburgo afferma che, quando la procedura europea di rimpatrio è stata eseguita (eventualmente anche disponendo il trattenimento in funzione dell'allontanamento del migrante) senza che tuttavia sia stato possibile rimpatriare il soggetto, eventuali sanzioni penali detentive comminate al migrante a motivo della sua irregolare presenza nel territorio dello Stato Membro sono legittime, non incontrando più la scure del pregiudizio all'efficacia della direttiva. Venendo meno il rischio che tali normative pregiudichino l'effetto utile dello strumento normativo europeo, ne consegue la piena ammissibilità della detenzione del migrante irregolare. A livello concettuale dunque il ragionamento giuridico della Corte consente e quasi avalla uno status quo ben lontano dalla piena tutela e salvaguardia dei diritti del soggetto straniero: l'esito perverso cui l'orientamento giurisprudenziale della Corte può condurre è quello di legittimare privazioni cospicue della libertà individuale, inizialmente sotto il profilo funzionale al rimpatrio, per una durata anche pari a diciotto mesi; in seconda battuta, nel caso in cui non sia stato possibile dare luogo al rimpatrio, con una detenzione comminata in qualità di sanzione penale. Quid iuris (humanis)?

2.2.2. Il caso del trattenimento ai fini dell'allontanamento: tutela contenuta dei diritti da Kadzoev a Mukarubega

Molte delle sentenze della Corte di Giustizia in merito all'interpretazione della direttiva rimpatri dedicano ampio spazio alla disciplina del trattenimento; tra queste, occupa un posto privilegiato la sentenza Kadzoev, la prima pronuncia in ordine cronologico resa dalla Corte di Giustizia sulla direttiva rimpatri (77). Tale sentenza, che trae origine da un rinvio pregiudiziale del Tribunale amministrativo di Sofia, è innanzitutto importante perché permette di cogliere un approccio del Giudice del Lussemburgo maggiormente incentrato sui diritti fondamentali dei migranti, ovvero su quella componente concettuale della direttiva rimpatri che invece rimane sullo sfondo delle argomentazioni delle sentenze sopra esaminate. Il precipitato concreto della sentenza Kadzoev è quello di avvalorare la natura eccezionale dell'istituto del trattenimento nell'economia generale della direttiva europea; eccezionalità che si riverbera nell'interpretazione dell'istituto stesso, che deve essere rigorosa e restrittiva, in coerenza con il fatto che l'istituto dà luogo a una limitazione di un diritto fondamentale della persona.

Uno degli aspetti affrontati nella pronuncia in esame riguarda la durata massima della "detenzione amministrativa": indubbiamente molti degli strali lanciati contro la direttiva della vergogna riguardano la facoltà, per gli Stati Membri, di disporre la detenzione dello straniero per un arco temporale piuttosto cospicuo, fino a un massimo diciotto mesi. La Corte, chiamata nella vicenda in questione ad affrontare un problema prettamente tecnico-giuridico di (lato sensu) successioni di leggi nel tempo non espressamente disciplinato nella direttiva, interpreta teleologicamente la disposizione che fissa in diciotto mesi la durata massima del trattenimento: questa persegue lo scopo di garantire che in ogni caso la costrizione della libertà personale ai fini dell'allontanamento non possa eccedere tale limite temporale. Pertanto, quando le autorità nazionali competenti devono calcolare il periodo di tempo che un cittadino di un paese terzo ha trascorso in stato di trattenimento devono tenere in considerazione anche i periodi di privazione della libertà personale subiti prima che la disciplina della direttiva rimpatri fosse applicabile (come nel caso di specie); operando diversamente l'obiettivo della norma risulterebbe frustrato poiché verrebbero legittimati trattenimenti ai fini dell'allontanamento di durata ben superiore ai diciotto mesi totali (78).

Un'interpretazione analoga è data all'altra questione sollevata dal giudice bulgaro relativamente all'opportunità di considerare, ai fini del computo del periodo trascorso in stato di trattenimento, l'arco temporale in cui l'esecuzione del decreto di espulsione sia sospesa a causa della sua impugnazione ad opera dell'interessato. Anche in questo caso la Corte è di fronte ad una lacuna poiché la direttiva non prevede alcuna interruzione della decorrenza del trattenimento dovuta alla sospensione dell'esecuzione dell'ordine di allontanamento. La Corte di Lussemburgo ritiene che il periodo di trattenimento (comunque subito dal cittadino del paese terzo) nel corso della verifica giurisdizionale della legittimità del provvedimento di allontanamento debba essere computato ai fini del calcolo della durata massima del trattenimento stesso: in caso contrario, precisa la Corte di Giustizia, "la durata del trattenimento ai fini dell'allontanamento potrebbe variare, all'occorrenza anche considerevolmente, da un caso all'altro in uno stesso Stato membro oppure da uno Stato membro all'altro, a seconda delle particolarità e delle specifiche circostanze delle procedure giudiziarie nazionali, il che contrasterebbe con la finalità perseguita dall'art. 15, n. 5 e n. 6, della direttiva 2008/115, che consiste nel garantire una comune durata massima del trattenimento negli Stati membri" (79).

Anche se dal tenore dell'argomentazione richiamata la Corte di Giustizia sembra sempre tenere ben presenti le esigenze di integrazione ed armonizzazione comunitaria, la Corte dell'Unione europea è consapevole che tra gli interessi in gioco vi è un diritto fondamentale, quale la libertà personale dell'individuo. Nel prosieguo della pronuncia, infatti, la Corte si lascia andare ad un paragone con la propria sentenza Petrosian, la quale dispone la sospensione della decorrenza del termine utile per realizzare il trasferimento del richiedente asilo verso lo Stato Membro competente a motivo del ricorso giurisdizionale dell'interessato contro il provvedimento con cui lo Stato declina la propria competenza ad esaminare la domanda di protezione internazionale. La Corte precisa che le due decisioni non sono comparabili poiché il termine di diciotto mesi in discussione nel caso Kadzoev serve a delimitare la facoltà degli Stati Membri di comprimere la libertà del cittadino di un paese terzo nell'ambito della politica europea di rimpatri e dunque ha una funzione di garanzia: ne consegue l'impossibilità di aggirare o privare di sostanza la sua natura tassativa (80). Tutto questo viene ribadito dal Giudice di Lussemburgo nel momento in cui si precisa che in ogni caso, nel momento in cui siano oltrepassati i diciotto mesi globali del trattenimento, il rilascio del cittadino dello Stato terzo deve essere immediato. Significa dunque che, una volta spirato tale termine, non si pone nemmeno il problema della sussistenza o meno della condizione (legittimante il trattenimento) della "ragionevole prospettiva di allontanamento" (81): una volta oltrepassati i diciotto mesi neanche esigenze di ordine pubblico o di pubblica sicurezza possono determinare la possibilità di prolungare ulteriormente il trattenimento a titolo di rimpatrio (82).

Un'altra sentenza che interviene a precisare i confini del trattenimento e che può essere collocata nello stesso solco di Kadzoev, in cui il ragionamento della Corte risulta più direttamente incentrato sui diritti dei migranti, è la sentenza Madhi del giugno 2014 (83). In primo luogo, deve notarsi che la pronuncia de qua, nell'affrontare la questione di compatibilità della normativa bulgara, fa espresso riferimento alla direttiva 2008/115/CE e anche alla Carta di Nizza. La Corte di Giustizia raccoglie infatti il riferimento fatto dal giudice remittente, anche in questo caso il Tribunale Amministrativo di Sofia, che nell'effettuare il rinvio richiama espressamente gli articoli 6 (Diritto alla libertà e sicurezza) e 47 (Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale) della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea: la pronuncia, dunque, sembra andare verso una linea concettuale in cui la dimensione di tutela dei diritti umani dei migranti viene maggiormente valorizzata.

Il giudice europeo chiarifica alcune questioni in merito alle garanzie che devono trovare applicazione nel dispiegarsi del procedimento di allontanamento del cittadino del paese terzo. Secondo la Corte infatti, poiché la direttiva richiede per il provvedimento che dispone il trattenimento del migrante forma scritta ed enunciazione delle motivazioni in fatto ed in diritto su cui la decisione si fonda, tali forme di garanzia devono essere fornite anche rispetto agli altri provvedimenti riguardanti le sorti del trattenimento, come ad esempio la proroga straordinaria che la direttiva rimpatri autorizza al sussistere di determinate condizioni (84).

La necessità che i citati provvedimenti abbiano forma scritta e siano esaustivi in merito alle motivazioni che hanno condotto alla loro adozione è collegata dalla Corte alla propria giurisprudenza in materia di diritti fondamentali, che viene infatti richiamata nel corpo della pronuncia: "l'osservanza dell'obbligo di comunicare i motivi [del provvedimento che dispone il trattenimento] è necessaria sia per consentire al cittadino di un paese terzo interessato di difendere i propri diritti nelle migliori condizioni possibili e di decidere, con piena cognizione di causa, se sia utile adire il giudice competente, sia per consentire pienamente a quest'ultimo di esercitare il controllo della legittimità della decisione di cui trattasi". Significativamente, la Corte prosegue affermando che "ogni diversa interpretazione dell'articolo 15, paragrafi 2 e 6, della direttiva 2008/115 produrrebbe l'effetto di rendere più difficile, per un cittadino di un paese terzo, contestare la legittimità di una decisione di trattenimento prolungato adottata nei suoi confronti che non rimettere in discussione quella di una decisione iniziale di trattenimento, con conseguente lesione del diritto fondamentale ad un'effettiva tutela giurisdizionale" (85).

La decisione tuttavia tralascia il profilo dell'articolo 6 della Carta di Nizza: la Corte non collega mai direttamente la necessità di un'interpretazione rafforzativa delle garanzie (come quelle in punto di effettività della tutela e controllo giurisdizionale del trattenimento) al fatto che l'istituto rappresenta una compressione della libertà personale del migrante.

La Corte va poi a rafforzare ulteriormente la dimensione del controllo giurisdizionale sul trattenimento, idea 'garantista' per eccellenza (86): afferma infatti che a fronte di una proroga della "detenzione amministrativa" del migrante, è necessario che la competente autorità giudiziaria debba poter estendere la propria valutazione al merito della questione. In particolare, dunque, il giudice deve poter valutare se la proroga del trattenimento ai fini dell'allontanamento risulta necessaria alla luce della pertinente normativa; ovvero poter disporre la sostituzione del trattenimento con una misura meno affittiva, ove siano sopravvenute circostanze tali da rendere sufficiente il ricorso ad una misura coercitiva meno limitativa della libertà personale del soggetto; ovvero poter ordinare l'immediato rilascio del soggetto migrante. Una simile ricostruzione della natura del controllo giurisdizionale e della sua ampiezza è del resto coerente con il carattere eccezionale dell'istituto ed in armonia con i principî generali che sembrano informarne la disciplina. Infatti, dare un senso contrario a questo silenzio della direttiva, priverebbe le disposizioni di cui al quarto e sesto punto dell'articolo 15 del loro effetto utile e svuoterebbe la sostanza del previsto controllo giurisdizionale (87).

Un'altra sentenza della Corte di Lussemburgo che interviene sul tema dei diritti dei migranti con specifico riguardo al trattenimento, è la pronuncia G. e R. (88). Nel caso di specie, i due ricorrenti, entrambi sottoposti a trattenimento, si vedono disposta una proroga della misura, senza che però fossero stati sentiti in merito all'opportunità del suo prolungamento. Per il diritto nazionale olandese, la mancata audizione dell'interessato nel caso di specie integra gli estremi di una violazione del diritto di difesa: tale violazione, pur essendo stata accertata dalle competenti autorità giurisdizionali, non è però stata accompagnata dall'annullamento del provvedimento di trattenimento, nonostante questo fosse manifestamente viziato. Con la questione pregiudiziale che viene rimessa alla Corte si domanda se la direttiva 2008/115/CE implichi che il trattenimento debba immediatamente cessare nel momento in cui il provvedimento che lo dispone sia stato adottato in violazione del diritto di difesa dell'interessato, ovvero se sia possibile che il provvedimento non venga annullato o comunque continui a produrre i propri effetti se la misura è ritenuta giustificata dal giudice nazionale competente (89). La Corte è di fronte all'ennesima lacuna poiché, relativamente al provvedimento che dispone la proroga del trattenimento, la direttiva non specifica "se e a quali condizioni debba essere garantito il rispetto del diritto dei cittadini di un paese terzo di essere sentiti né quali conseguenze debbano trarsi dalla violazione di tale diritto, fatta eccezione per l'obbligo generale di rimessione in libertà nel caso in cui il trattenimento non risulti legittimo" (90).

È necessario dunque individuare le linee guida che devono ispirare l'azione degli Stati nel fissare le condizioni alle quali occorre garantire il rispetto del diritto di essere sentiti dei cittadini di paesi terzi e le conseguenze della violazione di tale diritto: queste sono il sistema della direttiva 2008/115 e la giurisprudenza della Corte di Giustizia in merito al diritto di difesa (91).

Venendo dunque alla natura e alla portata dei diritti fondamentali dell'individuo, la Corte precisa che il diritto di essere sentiti nel corso del procedimento è qualificabile come uno dei plurimi aspetti inerenti al diritto di difesa e che costituisce una prerogativa essenziale dell'individuo, riconosciuto in quanto tale dai principî generali del diritto dell'Unione, e, soprattutto, garantito nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (92). Tuttavia, salvo un ristretto nucleo di eccezioni, i diritti fondamentali non sono configurabili come prerogative assolute, ma possono soggiacere a restrizioni "a condizione che queste rispondano effettivamente agli obiettivi di interesse generale" e "non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti". Si tratta dunque della stessa linea argomentativa riscontrabile nelle prime sentenze sui diritti fondamentali degli anni Settanta prima dell'adozione di un Bill of Rights europeo, quando la tutela dei diritti era scopo del tutto estraneo alla missione delle istituzioni europee e caratterizzato da un approccio strettamente funzionalista agli obiettivi della Comunità. Da questa sentenza, nonostante il richiamo, invero piuttosto generico: non si specifica neanche quale sia l'articolo della CDFUE che contenga la previsione del diritto di difesa, la Carta di Nizza non riveste un ruolo di primo piano nelle argomentazioni dei giudici, che preferiscono rivolgersi all'alveo dei principî generali del diritto UE.

Venendo alla risoluzione della controversia specifica, non sorprende dunque che la Corte ricordi come nel diritto dell'Unione la violazione del diritto di essere sentiti nell'ambito di un procedimento amministrativo determini l'annullamento del provvedimento finale solo se, in mancanza di tale irregolarità, il procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso (93).

Non ogni irregolarità concernente il diritto di difesa costituisce di per sé una violazione di tale diritto che sfocia nell'annullamento del provvedimento di trattenimento e, nel caso di specie, nel rilascio del cittadino terzo interessato (94). Rebus sic stantibus, l'autorità giudiziaria si trova nella posizione idonea e ideale per discernere la natura più o meno sostanziale delle violazioni del diritto di difesa e le relative conseguenze. Far discendere da ogni indiscriminata violazione del diritto ipso iure l'annullamento del provvedimento con cui si dispone il trattenimento dello straniero infatti contrasta con il raggiungimento dello scopo della direttiva e ne vanifica l'effetto utile: si pensi a quelle ipotesi in cui l'irregolarità determini l'annullamento del provvedimento di trattenimento altrimenti legittimo (95).

La sentenza Mukarubega si pone nello stesso solco della giurisprudenza G. e R. cui fa infatti esplicito richiamo dato che le questioni affrontate sono sostanzialmente analoghe (96). La Corte di Giustizia si trova ad affrontare anche in questo caso un vuoto normativo della direttiva sulle garanzie procedurali in tema di contraddittorio poste a favore del migrante soggetto a rimpatrio. La Corte di Lussemburgo segue un approccio argomentativo di tipo logico-sistematico e parte da una ricostruzione del diritto al contraddittorio nel sistema dell'Unione per poi rapportarlo alle esigenze specifiche della direttiva rimpatri, riprendendo quasi pedissequamente quanto statuito nella pronuncia G. e R. La questione riguarda precipuamente le violazioni del diritto al contraddittorio verificatesi nel corso della procedura di rimpatrio; nel caso di specie la ricorrente lamentava di non essere stata sentita in merito alla irregolarità del proprio soggiorno, condizione che è il fondamento logico dell'allontanamento dal territorio. La Corte adotta una linea interpretativa che valorizza l'efficienza del sistema: nel caso di specie la ricorrente ha già fatto valere in maniera utile le proprie osservazioni in merito alla irregolarità del proprio soggiorno in un'altra sede rispetto alla procedura di rimpatrio (in una precedente procedura in materia di asilo), pertanto la violazione dell'obbligo di ascoltarla in vista dell'adozione della decisione di rimpatrio non ha una portata sostanziale. Il diritto di essere ascoltati prima della decisione di rimpatrio non può essere strumentalizzato per riaprire indefinitamente la procedura amministrativa e lucrare l'allontanamento nel tempo del rimpatrio: ciò determinerebbe infatti un'alterazione dell'equilibrio tra il diritto fondamentale dell'interessato di essere ascoltato prima dell'adozione di una decisione che gli arreca pregiudizio e l'obbligo degli Stati Membri di lottare contro l'immigrazione clandestina (97).

2.3. Un confronto

Il confronto degli interventi giurisdizionali delle due Corti europee relativamente al caso del trattenimento del migrante, e segnatamente sotto il profilo della tutela della sua libertà personale da indebite intrusioni, mostra un certo squilibrio e disallineamento tra le posizioni delle due istanze giurisdizionali.

Ex parte CEDU, infatti, possiamo riscontrare un'evoluzione del sindacato che, anche mediante la valorizzazione della natura di strumento vivente della Convenzione e dell'evoluzione delle prassi degli Stati facenti parte del circuito della Grande Europa, amplifica il controllo sul rispetto della libertà e sicurezza personale del migrante: si pensi ai numerosi casi in cui il test di arbitrarietà ha condotto alla condanna degli Stati convenuti sotto disparati profili e in cui la Corte tutela la libertà personale cercando di ridurre al minimo le interferenze - come nei casi Raza c. Bulgaria e Mikolenko c. Estonia.

Ex parte UE, invece, non è riscontrabile una tendenza giurisprudenziale comparabile a quella della Corte EDU; anzi, dall'esame complessivo delle pronunce il ruolo di garante dei diritti della Corte di Giustizia non esce particolarmente enfatizzato. Nonostante la tendenza della Corte all'utilizzo di "due pesi e due misure" relativamente alla valutazione del rispetto dei diritti fondamentali, ovvero giudizi più rigorosi e stringenti nei confronti delle normative degli Stati Membri rispetto agli atti direttamente promananti dalle istituzioni europee (98), sembra latitare la volontà di assumere il ruolo di giurisdizione di quei diritti e quelle libertà lontane e non direttamente collegate agli obiettivi primari dell'Unione, come nel caso in questione.

Ad esempio, nelle pronunce che anche hanno riverberato "effetti positivi" in punto di tutela della libertà personale negli ordinamenti nazionali - id est quelle relativamente all'impiego dello strumento penalistico rispetto alla repressione dell'immigrazione irregolare - la Corte non si riferisce mai alle rilevanti disposizioni della Carta di Nizza, ma il suo giudizio è calibrato sull'efficienza delle politiche - securitarie - dell'Unione in materia di gestione dei flussi migratori. L'ottica della Corte del Lussemburgo è più che sbilanciata in senso contrario ai diritti fondamentali; essi non trovano proprio spazio nelle sentenze della Corte, anche solo a livello argomentativo.

Nelle altre pronunce sul trattenimento, anche quelle in cui si fanno riferimenti più diretti alla libertà e sicurezza personale del migrante sottoposto a trattenimento - si pensi alla sentenza Kadzoev - la Corte tiene sempre ben presenti le esigenze di uniformazione dei diritti nazionali degli Stati Membri e sembra piuttosto assumere il ruolo di garante dell'integrazione europea. La timidezza della Corte nel riferirsi alla Carta sembra minore nel momento in cui essa deve riferirsi a quei diritti "accessori" e procedurali - si pensi al diritto al contraddittorio e all'effettività della tutela giurisdizionale -, in funzione strumentale alla tutela della libertà del migrante; tuttavia, anche la loro applicazione risulta subordinata ad esigenze di 'mantenimento' del sistema rimpatri.

La deferenza verso l'atto legislativo DCE 2008/115 - che, si ricordi, ha natura compromissoria e la cui adozione è indubbiamente frutto di un complesso iter - unita alla "vistosa assenza" dei riferimenti alla tutela della libertà e sicurezza personale del migrante, come sancito all'articolo 6 CDFUE, devono probabilmente essere ascritti al timore della Corte di Giustizia di eventuali reazioni e ritorsioni degli Stati Membri rispetto a quelle che potrebbero essere percepite come indebite intrusioni nella propria sovranità in materia di immigrazione.

3. La tutela della vita privata e familiare dei migranti

È noto che la 'famiglia' è entità metagiuridica, che esiste a prescindere da una sua normativizzazione. Il lascito ha radici antiche, basti pensare che il sostrato da cui prende le mosse l'indagine del Τα πολιτικα è proprio la famiglia, che Aristotele vede alla stregua di una struttura a formazione spontanea, base della comunità ellenica (99).

Da tale natura, discendono tensioni nella regolamentazione della famiglia come istituto: a tale proposito sono ancora attuali le parole di Arturo Carlo Jemolo secondo cui la famiglia è radicata nei sentimenti, è "isola che il mare del diritto può solo lambire". Tali tensioni e difficoltà, esacerbate dal fenomeno migratorio, si rovesciano inevitabilmente sul livello applicativo-giurisdizionale: la necessità e l'importanza della tutela della famiglia si scontrano con la molteplicità di forme che essa può assumere e con le diverse esigenze che si accompagnano a distinti modelli, anche culturali.

In particolare, uno dei temi che maggiormente assume rilievo relativamente ai migranti è quello della tutela dell'unità familiare esterna ovvero la garanzia del mantenimento o del rafforzamento della vicinanza fisica dei membri della famiglia (100): in questo senso tale diritto è configurabile come una "situazione giuridica soggettiva diversificata in senso 'bicefalo' rispetto al ricongiungimento e rispetto all'espulsione" (101). In quest'ultima ipotesi - si pensi ad un ordine di allontanamento che colpisca lo straniero la cui famiglia sia radicata nel territorio dello Stato che esso deve abbandonare - per dare tutela all'interesse di tipo 'oppositivo' del soggetto serve un non facere dello Stato, - astenersi dall'eseguire l'allontanamento dello straniero dal territorio -. Relativamente al ricongiungimento familiare - si faccia l'ipotesi del migrante legalmente e stabilmente risiedente in Europa che desidera riunirsi con i propri familiari - per dare tutela all'interesse 'pretensivo' del soggetto serve un facere dello Stato - consentire l'ingresso e il soggiorno ai familiari del migrante legalmente soggiornante -.

Nel concreto le difficoltà in punto di tutela dell'unità familiare del migrante sorgono poiché, come risulta evidente sempre da tali esempi, la garanzia di tale diritto può scontrarsi con opposti e consistenti interessi dello Stato, quali l'interesse al controllo dei flussi migratori e la tutela dell'ordine pubblico - si pensi al caso in cui l'espulsione consegua alla commissione di un reato -.

In linea generale, non solo le normative nazionali in merito all'ingresso e al soggiorno degli stranieri sono piuttosto rigorose e restrittive - e anche l'allontanamento dal territorio è eventualità piuttosto frequente -, ma gli Stati tendono a disciplinare in maniera altrettanto rigorosa e restrittiva anche l'istituto del ricongiungimento familiare per evitarne strumentalizzazioni e distorsioni, in considerazione del fatto che tale possibilità costituisce molto spesso l'unico mezzo per perseguire il fine di evitare l'ingresso e il soggiorno irregolare nel territorio. La conseguenza è, ancora una volta, che risulta assolutamente centrale il margine di intervento giurisdizionale ad corrigendum di eventuali rigorismi legislativi che, nel segno della tutela del superiore interesse pubblico, determinino una eccessiva compressione del diritto all'unità familiare.

3.1. La tutela della vita familiare nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo

L'articolo 8 CEDU vincola gli Stati parte della Convenzione al rispetto della vita privata, della vita familiare, del domicilio e della corrispondenza dell'individuo: esso dunque seleziona quattro distinte sfere dell'autonomia privata cui attribuisce tutela. La disposizione prosegue disponendo la clausola limitativa di tale diritto: elenca infatti le legittime interferenze statali negli ambiti dell'autonomia individuale protetti, che sono quelle previste dalla legge e aventi natura di misura necessaria, in una società democratica, alla salvaguardia della sicurezza nazionale, della pubblica sicurezza, del benessere economico del paese, della difesa dell'ordine e prevenzione dei reati, della protezione della salute o della morale, infine della protezione dei diritti e delle libertà altrui.

La valutazione con cui la Corte EDU procede al controllo del rispetto del diritto in questione è articolata in due momenti essenziali, coerentemente alla formulazione dell'articolo 8 CEDU: una volta accertata la sussistenza di uno dei "beni giuridici" protetti da tale norma, la Corte va a valutare la consistenza e soprattutto, la legittimità delle interferenze in tale "bene", sottoponendo le misure statali ad un test di proporzionalità. Partendo da tale scansione concettuale, la Corte di Strasburgo ha sviluppato la propria giurisprudenza sull'articolo 8 CEDU, che tuttavia, soprattutto nel caso dei migranti e della tutela della loro vita privata e familiare, ha un andamento ondivago in cui si rincorrono oscillazioni e variazioni sul tema (102).

In ogni caso, da un esame globale di tale corpus giurisprudenziale, è possibile individuare una progressiva evoluzione della tutela accordata dal Giudice Europeo all'unità familiare del migrante e, in alcuni casi, cambiamenti invero significativi: rispetto alle prime pronunce è indubbio che lo scrutinio della Corte, inizialmente piuttosto debole, si sia rafforzato, avendo soprattutto riguardo per l'interesse del minore eventualmente coinvolto nel caso. Inizialmente, invece, l'approccio della Corte EDU si caratterizzava per una impostazione restrittiva e fortemente incentrata sulla valorizzazione del margine di apprezzamento degli Stati: le maglie dello scrutinio della Corte erano dunque alquanto ampie e le autorità nazionali godevano della più ampia discrezionalità nel contemperamento degli interessi del singolo e di quelli della comunità. Non è un caso infatti che l'entrata in campo della Corte europea di Strasburgo in problematiche in cui si intrecciano la tutela della vita personale e familiare e la disciplina dell'immigrazione sia piuttosto recente, poiché per lungo tempo, in linea con i principî consolidati del diritto internazionale, tali tematiche erano ritenute di esclusiva spettanza degli Stati nazionali (103). Nel 1985, esaminando il primo ricorso che avesse oltrepassato il filtro della Commissione, la valenza politica e anche la sensibilità della materia erano ben presenti alla Corte, tanto da condurla a fare un'apposita premessa all'analisi del caso concreto: la Corte "mette le mani avanti" rilevando di trovarsi ad affrontare problematiche ove sono coinvolti, oltre a profili inerenti alla tutela della vita familiare, anche aspetti della disciplina dell'immigrazione, materia regolata con piena sovranità dagli Stati nazionali (104).

In linea generale, la tendenza del giudice di Strasburgo relativamente alla tutela dell'unità familiare dei migranti sembra atteggiarsi diversamente a seconda della situazione concreta: la protezione è più estesa nei casi in cui il soggetto straniero si trovi già nel territorio - si pensi ai casi di allontanamento di stranieri di seconda generazione o di persone perfettamente integrate e prive di legami con il paese di origine (105) - mentre il bilanciamento con l'interesse pubblico risulta più severo nelle ipotesi di ricongiungimento familiare; tuttavia, in quest'ultimo caso, i giudizi della Corte sono particolarmente cauti quando il caso coinvolga un minore, il cui interesse guida l'atteggiarsi concreto del bilanciamento.

Scendendo più nel dettaglio della giurisprudenza della Corte EDU, un primo aspetto positivo della tutela fornita dalla Corte riguarda l'individuazione delle nozioni di 'vita privata' e 'vita familiare' del migrante, ovvero il primo momento su cui si incentra la valutazione giudiziale sul rispetto dell'articolo 8 CEDU (106). Per quanto riguarda la nozione di 'vita familiare', nozione interpretata autonomamente dai giudici e in maniera evolutiva, ricomprende la 'famiglia nucleare' e la convivenza more uxorio; mentre il legame con parenti meno prossimi riceve tutela solo in presenza di una relazione di dipendenza, ad esempio economica (107). Queste restrizioni sono però contemperate dallo sviluppo della nozione di 'vita privata' e dalla tutela offerta alle relazioni sociali sviluppate nel paese ospitante dai migranti integrati o di "lungo periodo" (108).

Per quanto riguarda il secondo momento di valutazione sul rispetto dell'articolo 8 CEDU, non vi è dubbio che l'allontanamento dal territorio e il diniego di un permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare costituiscano interferenze nella vita privata e familiare dei migranti; infatti il momento centrale dei giudizi della Corte è quello in cui si applica il test di proporzionalità al fine di valutare la legittimità dell'interferenza. In entrambe le ipotesi la Corte procede contemperando l'interesse del singolo con quello della comunità, tuttavia, soprattutto nei primi casi, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo circa i casi di ricongiungimento familiare è più rigorosa, come si nota dalla scrupolosa presa in considerazione di aspetti, anche molto specifici, delle circostanze concrete dei casi che essa si trova a dover affrontare (109). Ad esempio in Abdulazis, Cabales e Balkandali c. Regno Unito nel 1985 (110), nell'affrontare il mancato riconoscimento del diritto al ricongiungimento familiare di alcune donne, legalmente residenti nel Regno Unito, con i propri mariti, cittadini stranieri, la Corte nega la sussistenza della violazione poiché non risulta che la vita familiare delle ricorrenti potesse essere mantenuta esclusivamente nel Regno Unito e non anche nel loro paese di origine o in quello dei loro coniugi (111). La Corte di Strasburgo in quest'ipotesi quasi lesina la garanzia dell'unità familiare, dando luogo ad una valutazione circa la proporzionalità della misura piuttosto blanda.

Questa linea giurisprudenziale è riscontrabile anche in successive pronunce dalla Corte, tra cui spicca - in negativo - il caso Gul, riguardante il ricongiungimento familiare di un cittadino di origine turca, residente in Svizzera sulla base di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, con il figlio minore nato e cresciuto in Turchia. La Corte, nel valutare le circostanze nel caso concreto, nota che la separazione del ricorrente con il figlio e l'allentamento dell'unità familiare è dovuta in prima battuta alla decisione di lasciare la Turchia per la Svizzera imputabile al ricorrente stesso; in ogni caso, entrambi i genitori del minore si sono spesso recati in Turchia a visitarlo e, soprattutto, sono residenti nello Stato elvetico sulla base di un permesso temporaneo cui non consegue alcun diritto al ricongiungimento familiare alla stregua della normativa interna (112). Pertanto, nonostante la consistenza e l'apprezzabile durata nel tempo del soggiorno dei ricorrenti in Svizzera e la conseguente difficoltà di un cambiamento di vita imposto dal ritorno nel paese di origine, "there are, strictly speaking, no obstacles preventing them from developing family life in Turkey; that possibility is all the more real because Ersin [i.e. il figlio minore] has always lived there and has therefore grown up in the cultural and linguistic environment of his country" (113).

Molte sono state le decisioni della Corte che si sono poste nel solco della sentenza Gul, come la sentenza Ahmut c. Paesi Bassi in cui la Corte ha applicato i medesimi principî (114). Nel caso di specie il ricorrente Salah Ahmut, cittadino marocchino ormai seminaturalizzato olandese, si vedeva negato il ricongiungimento familiare con il proprio figlio minore, nato in Marocco e lì cresciuto dalla madre, che era nel frattempo venuta a mancare. La Corte non riscontra alcuna violazione dell'articolo 8 CEDU da parte dei Paesi Bassi: in primo luogo, si considera che il minore ha vissuto per tutta la sua vita nel paese di origine, con cui presenta dunque forti e stretti legami e in cui risiedono anche altri suoi familiari, come la nonna paterna, i fratelli e alcuni zii, che dunque potrebbero avere cura di lui. In secondo luogo la Corte osserva quasi severamente che il distacco tra padre e figlio è imputabile alla libera decisione del primo di abbandonare il Marocco per stabilirsi in Europa: inoltre, il ricorrente ha mantenuto la propria cittadinanza marocchina pertanto "it therefore appears that Salah Ahmut is not prevented from maintaining the degree of family life which he himself had opted for when moving to the Netherlands in the first place, nor is there any obstacle to his returning to Morocco" (115). La consistenza della vita familiare che il ricorrente ha liberamente scelto di avere con la sua decisione di migrare non è minimamente intaccata dal diniego delle autorità olandesi di concedere il permesso di soggiorno per il figlio.

Il punto di snodo nell'evoluzione della Corte è rappresentato dalla sentenza Sen c. Paesi Bassi, in cui si riconosce la violazione del diritto convenzionale e si dà luogo a un diretto confronto con il precedente costituito dalla vicenda Ahmut. Il caso riguarda il diniego di un permesso di soggiorno a titolo di ricongiungimento familiare per la figlia minore di due cittadini turchi, entrambi legalmente residente nei Paesi Bassi, che era stata affidata alle cure dei parenti nel paese di origine. Il caso, secondo i giudici europei, differisce sostanzialmente dagli altri affrontati in precedenza perché sussistono degli ostacoli affinché la vita familiare possa essere condotta nel paese di origine: nel corso del soggiorno dei due coniugi in Europa infatti la famiglia si è allargata con la nascita di altri due figli, i quali sono del tutto estranei all'ambiente culturale e sociale turco, avendo sempre vissuto in Olanda e qui frequentando le scuole. In un simile quadro generale, dunque, il mezzo più adeguato a permettere lo sviluppo della vita familiare è che alla minore sia garantito il soggiorno nel territorio del paese ospitante, non risultando opportuno lo sradicamento degli altri figli minori della coppia per trasferirsi nel paese di origine (116).

Nel corpo della sentenza, vi sono anche altre affermazioni degne di rilievo, che travalicano la dimensione della singola vicenda stessa: la scelta dei genitori di lasciare i figli nel paese di origine non è sempre una decisione definitiva e tanto meno è interpretabile come una volontà di abbandono del minore (117). Si è detto infatti che "la Corte, quando il più delle volte riscontra che il rifiuto dell'ingresso del minore non rappresenta una violazione dell'art. 8 CEDU, sembra voler sostenere che il genitore si è disinteressato del figlio abbandonandolo ad altri e non può a distanza di tempo reclamare che non ricongiungerlo rappresenta una violazione del diritto al rispetto della vita familiare, in quanto una vita familiare, intesa come unione e comunione di vita, non è mai esistita, o non esiste da molto tempo, e ciò per una sua scelta" (118). La Corte sembra trascurare di considerare che la difficile scelta del genitore migrante potrebbe avere natura di "scelta temporanea, dettata dall'esigenza di costruirsi una posizione nel Paese di accoglienza per poi riunire la famiglia, oppure di una decisione derivante dall'impossibilità di portare con sé il figlio perché, ad esempio, si è separati dal coniuge al quale il minore è affidato" (119). A partire da questa sentenza, la Corte dà luogo dunque a valutazioni più stringenti in merito al ricongiungimento familiare, soprattutto quando l'interesse degli Stati nella gestione delle migrazioni si scontra con l'interesse del minore.

Una medesima evoluzione è rinvenibile anche relativamente alla tutela dell'unità familiare accordata nei casi di espulsione dal territorio del migrante, anche se la giurisprudenza in questo settore è indubbiamente caotica nonostante i tentativi di renderla più organica - e prevedibile - da parte della stessa Corte europea di Strasburgo (120). In merito alle espulsioni dello straniero per ordine pubblico a partire dalla seconda metà degli anni Novanta si era registrata una serie di decisioni in cui si ritiene prevalente l'interesse dello Stato alla repressione e prevenzione dei reati (121). Tuttavia, da alcuni anni la Corte va nel senso di una valutazione più attenta alle prerogative connesse alla vita privata e familiare del migrante e più rigido sulla proporzionalità della misura (122).

In realtà, le decisioni maggiormente garantiste rispetto all'unità familiare sono riscontrabili in quei casi in cui la decisione di allontanare il migrante dal territorio sia conseguenza delle regole in merito all'ingresso e soggiorno degli stranieri: si tratta dunque di casi in cui il contrapposto interesse dello Stato è quello inteso a controllare i flussi migratori in funzione della promozione del benessere economico del Paese. La Corte di Strasburgo tende infatti ad accordare tutela in quelle situazioni in cui dal mancato rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno al migrante già presente sul territorio derivi l'impossibilità di mantenere una relazione con i propri figli minori.

A tale proposito, uno dei casi paradigmatici è rappresentato dalla sentenza Rodrigues da Silva e Hoogkamer c. Paesi Bassi (123). La Corte si trova ad affrontare una complicata vicenda in cui le autorità olandesi rifiutano di concedere un permesso di soggiorno alla ricorrente, cittadina brasiliana, madre di una bambina nata in Olanda da padre olandese e a costui legalmente affidata in seguito a un tortuoso iter giudiziario. La Corte esamina le circostanze concrete e prende atto che la minore ha un rapporto molto forte con la madre la quale trascorre con la figlia gran parte del tempo. L'espulsione verso il Brasile della madre e la conseguente separazione dalla figlia darebbero luogo alla rottura di tale legame, rendendo impossibile il mantenimento del rapporto familiare: alla luce delle gravi conseguenze derivanti dall'allontanamento sia per la madre sia per la figlia, la Corte ha ritenuto che il benessere economico del paese non potesse prevalere sui diritti derivanti dall'articolo 8 CEDU, in particolare sull'interesse del minore a mantenere una relazione con entrambi i genitori (124).

La grande rilevanza della sentenza in questione deriva dal fatto che la Corte riscontra la violazione dell'articolo 8 CEDU, nonostante il fatto che la ricorrente non avesse mai proceduto a regolarizzare la propria permanenza nei Paesi Bassi, neanche quando ne aveva titolo (125), andando oltre i propri precedenti in cui, a parità di situazioni, tutela era stata accordata a quei ricorrenti regolarmente residenti sul territorio che avessero perso il titolo di soggiorno in seguito allo scioglimento del rapporto di coniugio (126).

Tale orientamento è stato adottato anche in un'altra sentenza più recente, in cui la Corte amplifica la tutela del superiore interesse del minore, ovvero nel caso Nunez c. Norvegia (127). Il ricorso riguarda la revoca del permesso di soggiorno e la conseguente espulsione dal territorio norvegese di una cittadina dominicana, la quale vive da tempo in Norvegia insieme alle sue due figlie, cittadine straniere anch'esse. Le complicazioni derivano dal fatto che la ricorrente, giunta nel paese ospitante con un visto turistico, era stata inizialmente espulsa per motivi di ordine pubblico, avendo commesso un furto; la stessa poi aveva violato il divieto biennale di reingresso rientrando in Norvegia con documenti falsi e riuscendo a regolarizzare la propria permanenza. Le autorità norvegesi, avvedutesi della violazione del divieto da parte della ricorrente, revocano il permesso di soggiorno alla donna e le indirizzano un provvedimento di espulsione e divieto biennale di reingresso nel territorio. La ricorrente, esauriti i rimedi interni e soddisfatte le altre condizioni, adisce la Corte europea allegando la violazione dell'articolo 8 CEDU, in quanto l'esecuzione dell'ordine medesimo avrebbe comportato la sua separazione dalle due figlie minori, che sarebbero restate in Norvegia affidate al padre ivi regolarmente residente. Il giudizio della Corte è molto severo relativamente alla condotta della ricorrente Nunez: in primo luogo, nonostante la regolamentazione norvegese in materia di immigrazione non criminalizzi l'irregolarità del soggiorno, ma sia incentrata su sanzioni di tipo amministrativo, la ricorrente ha conseguito i permessi di soggiorno e di lavoro sulla base di false generalità e false attestazioni; la ricorrente del pari non presenta alcun legame con il paese ospitante, essendo nata e cresciuta nella Repubblica Dominicana (128). Nonostante tutto ciò la Corte prosegue nella propria analisi, con particolare riguardo al children's best interest: nel valutare la sussistenza di violazioni dell'articolo 8 CEDU, si deve avere riguardo non solo alla vita della ricorrente, ma anche alla prospettiva dei minori.

Le figlie della ricorrente, nate e cresciute in Norvegia, sono sempre state accudite dalla madre ed erano affidate a questa fino al provvedimento di espulsione, a seguito del quale l'affidamento è stato conseguito dal padre. Nonostante la disponibilità del padre delle minori ad incentivare i rapporti tra la ricorrente e le figlie, la Corte non può fare a meno di notare che a causa del divieto di reingresso biennale conseguente al nuovo provvedimento di espulsione, è altamente probabile che le minori non possano avere contatti per almeno due anni con la madre e anche al termine di tale periodo non vi è alcuna sicurezza che questa possa ritornare in Norvegia stabilmente. Whether their separation would be permanent or temporary is in the realm of speculation, osserva la Corte di Strasburgo. Infatti, la Corte arriva a dichiarare che l'espulsione della ricorrente e il divieto biennale di reingresso costituiscono nel caso di specie una violazione dell'articolo 8 CEDU: le autorità nazionali hanno fallito nel trovare il giusto contemperamento tra le esigenze pubbliche di controllo dell'immigrazione e l'interesse dei minori coinvolti a mantenere una vita familiare (129).

3.2. Strumenti normativi a tutela del diritto alla vita privata e familiare dei migranti: il diritto al ricongiungimento familiare nella legislazione dell'Unione europea

Il "diritto al rispetto della vita familiare" è racchiuso nella crisalide dell'articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e, con formulazione sostanzialmente invariata, dell'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Nel Bill of Rights troviamo anche un articolo dedicato ai "Diritti del minore" in cui si afferma che "in tutti gli atti relativi ai minori, l'interesse superiore del minore deve essere considerato preminente" e che "il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse" (130).

La normativa di rango secondario dell'Unione europea che, più o meno direttamente, concerne tali aspetti è essenzialmente quella inerente al diritto al ricongiungimento familiare: la direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio "relativa alla diritto dei cittadini dell'unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio dell'Unione" (131); la direttiva 2003/86/CE del Consiglio "relativa al diritto al ricongiungimento familiare"; la direttiva 2003/109/CE del Consiglio "relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo", come modificata dalla direttiva 2011/51/UE del Parlamento europeo e del Consiglio che ne ha ampliato l'ambito di applicazione ai beneficiari di protezione internazionale. Il Legislatore europeo, ben consapevole che tali tematiche sono suscettibili di incidere nei diritti fondamentali della persona, si è premurato di ufficializzare nei consueti stilemi che le direttive rispettano i diritti fondamentali, come derivanti dalla CEDU, dai principî generali del diritto UE nonché come sanciti all'interno della Carta di Nizza.

Senza scendere in un dettagliato esame dell'armamentario normativo in questione, è possibile affermare che la disciplina europea dell'istituto del ricongiungimento familiare viene declinata dal Legislatore in una pluralità di distinti regimi, come del resto è intuibile anche in considerazione del fatto che sono stati adottati più strumenti diversi e separati tra loro. Il discrimen alla cui stregua viene effettuata tale distinta modulazione del diritto al ricongiungimento familiare risulta essere il soggetto cui il diritto fa riferimento (132): è infatti opportuno effettuare una macrodistinzione tra il ricongiungimento familiare del cittadino europeo e il ricongiungimento del cittadino di un paese terzo legalmente soggiornante all'interno del territorio UE; all'interno di quest'ultima ipotesi, poi, sono possibili anche ulteriori differenziazioni, ad esempio incentrate sull'esistenza di accordi tra l'Unione e il Paese di origine dello straniero, ovvero sul suo status di soggiornante di lungo periodo. La differenziazione del regime giuridico del ricongiungimento a seconda del soggetto titolare ha ricevuto l'avallo astratto ad opera della Corte europea di Strasburgo: la differenziazione di trattamento tra cittadini degli Stati Membri dell'UE e cittadini di paesi terzi nella normativa europea non costituisce una discriminazione vietata alla luce dell'articolo 14 CEDU, poiché si fonda su un motivo oggettivo e ragionevole, avendo gli Stati dato vita ad un ordinamento giuridico proprio e altresì istituito la 'cittadinanza europea' (133).

Per quanto riguarda la direttiva 2004/38/CE, è evidente che il diritto al ricongiungimento del cittadino europeo assume rilevanza pratica nel momento in cui la persona per cui si richieda il soggiorno a titolo di ricongiungimento sia un cittadino di uno Stato non facente parte dell'Unione europea, altrimenti potendo usufruire il familiare europeo del proprio diritto alla libera circolazione (134). Soprattutto, come lo stesso nomen iuris della direttiva citata rileva, le norme ivi contenute trovano applicazione nel momento in cui il cittadino dell'Unione si rechi o soggiorni in uno Stato Membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza. Pertanto il presupposto applicativo su cui il ricongiungimento familiare con il cittadino dell'Unione si fonda è l'esercizio del diritto alla libera circolazione all'interno dello spazio giuridico europeo: fuori da questa ipotesi, si versa in una situazione di vuoto normativo in cui altre e diverse esigenze di tutela hanno trovato sbocco nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Per quanto riguarda il secondo strumento normativo, la direttiva 2003/86/CE riguarda direttamente l'istituto del ricongiungimento familiare dei cittadini provenienti da paesi terzi. I soggiornanti - ovvero i cittadini extra UE, che risiedono legalmente in uno degli Stati Membri da almeno un anno e che hanno una possibilità reale di conseguire un diritto di soggiorno permanente - hanno il diritto di ottenere il ricongiungimento con il proprio coniuge, con i figli minorenni ovvero i figli non sposati, anche di uno solo dei genitori della coppia, che abbiano un'età inferiore a quella in cui si diventa legalmente maggiorenni nello Stato UE ospitante. La direttiva si segnala negativamente sotto una pluralità di profili, tanto da essere stata oggetto di un ricorso - rigettato - per annullamento proposto dal Parlamento europeo per violazione del diritto fondamentale alla vita privata e familiare. Relativamente a questo strumento può dunque osservarsi che tali molteplici criticità offrono uno spazio di cui la Corte di Giustizia dell'Unione può attivamente fruire per rafforzare ed ampliare la tutela della vita familiare dei cittadini non europei.

La direttiva 2003/109/CE ha come scopo principale quello di armonizzare le normative degli Stati Membri relativamente al conferimento di un particolare status per il cittadino di un paese terzo - ovvero quello di soggiornante di lungo periodo - e i diritti che ne conseguono. L'ideologia veicolata della direttiva è quello di diminuire le differenze di "status giuridico" tra cittadini europei e cittadini terzi, soprattutto nel caso in cui questi ultimi risiedano regolarmente e stabilmente all'interno del territorio UE: in queste ipotesi è opportuno che sia garantita una serie di diritti uniformi e quanto più simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell'Unione europea (135). La direttiva prevede dunque nel dettaglio le condizioni e la procedura per conseguire formalmente il titolo di soggiornante di lungo periodo e le prerogative connesse tra cui è centrale il riconoscimento di un frammento di libera circolazione all'interno dell'Unione, subordinato a determinate condizioni (136). Pertanto, è necessario altresì disciplinare il ricongiungimento familiare del cittadino terzo soggiornante di lungo periodo che abbia esercitato il diritto alla circolazione all'interno dell'Unione, secondo le condizioni e le limitazioni previste dalla direttiva 2003/109/CE. La direttiva prevede innanzitutto un'ipotesi di favor rispetto all'ordinario regime previsto per i cittadini terzi: se la famiglia era già unita nel primo Stato membro, i "familiari" del soggiornante a norma della direttiva 2003/86/CE sono autorizzati ad accompagnare o raggiungere il soggiornante di lungo periodo; il ricongiungimento con membri del nucleo familiare "allargato", cioè non ricompresi nell'elenco di tale direttiva, può tuttavia essere autorizzato dal Stato Membro ospitante. Infine, la direttiva prevede che se la famiglia non era già unita nel primo Stato Membro, si applicano le disposizioni "ordinarie" sul ricongiungimento familiare del cittadino terzo.

Concludendo, è possibile affermare che la consistenza della tutela della vita familiare dei cittadini terzi offerta dal Legislatore europeo è direttamente proporzionale alla regolarità, durata e stabilità del soggiorno di questi.

Seguendo lo scheletro delle distinzioni così enunciate, è possibile procedere ad un esame delle pronunce della Corte di Giustizia dell'Unione in merito al diritto al ricongiungimento familiare e, più in generale, al suo approccio alle problematiche connesse alla tutela della vita familiare, per saggiare la volontà della Corte di annullare le distanze irrazionali esistenti tra le "classi" di cittadini e misurare la capacità della Corte di Giustizia di porsi come una giurisdizione dei diritti umani che, in quanto tali, sono universali.

3.2.1. La tutela del diritto al ricongiungimento nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: i cittadini europei

Per quanto riguarda il diritto al ricongiungimento familiare del cives europeo, un primo rafforzamento della tutela è operato dalla Corte del Lussemburgo in riferimento ai cittadini europei economicamente attivi nella sentenza Metock (137), che costituisce la prima pronuncia resa dal giudice europeo in seguito all'adozione della normativa di riordino del 2004. La questione che la Corte si trova ad affrontare riguarda il diniego, ad opera delle competenti autorità ministeriali irlandesi, di un permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare ad un cittadino terzo coniugato con un cittadino dell'Unione che aveva esercitato il proprio diritto alla libera circolazione. La ratio del rifiuto è la insussistenza di uno specifico presupposto richiesto dal diritto irlandese a tale fine, ovvero il previo soggiorno legale del cittadino di un paese terzo nel territorio dell'Unione. La pronuncia Metock si segnala inoltre per offrire l'esempio di un espresso revirement all'interno della giurisprudenza della Corte di Giustizia; la Corte si era infatti già trovata ad affrontare una questione analoga precedentemente all'adozione della direttiva 2004/38/CE e aveva sostenuto che per poter fruire del diritto al ricongiungimento con un familiare extra-UE, tale familiare dovesse già essere legalmente soggiornante nel territorio UE. Il ricongiungimento familiare non doveva infatti diventare il "cavallo di Troia" con cui sviare l'applicazione della normativa statale in materia di ingresso e soggiorno sul territorio, bensì lo strumento congeniale alla garanzia della libertà di circolazione dei lavoratori all'interno della dimensione europea: al fine di realizzare quest'ambizioso obiettivo, la Corte è consapevole della necessità di doversi adoprare per eliminare gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione, tra cui l'impossibilità di mantenere vivi i legami familiari. Tuttavia, nell'argomentazione della Corte di Giustizia è evidente che mancando ab origine la possibilità per i coniugi di vivere legalmente insieme nello Stato Membro di cittadinanza del cives europeo, l'impossibilità di dare luogo al ricongiungimento familiare non costituisce ostacolo all'esercizio della libera circolazione ed è priva di 'efficacia dissuasiva' (138).

Dunque, quest'approccio formalistico - i soggiorni irregolari non esistono o comunque non possono essere presi in considerazione al fine di garantire, se non la vita familiare, almeno la libera circolazione all'interno dello spazio giuridico europeo -, in cui è manifesta la funzionalizzazione del diritto al ricongiungimento familiare alla mobilità dei cittadini europei, viene definitivamente rovesciato dalla Corte in Metock (139). La Corte in primo luogo rileva che, come nel quadro normativo previgente, anche nel nuovo assetto giuridico non è previsto alcunché relativamente alla regolarità o irregolarità del soggiorno dei cittadini di paesi terzi familiari di un cittadino UE (140). Dopo aver così legittimato la propria intrusione giurisdizionale nel tessuto legislativo, viene evidenziato come il previgente orientamento necessiti di una revisione, in considerazione del fatto che la direttiva è espressamente volta ad eliminare gli ostacoli all'esercizio delle libertà fondamentali previste nel trattato, tra cui si colloca l'impossibilità per il cives UE di condurre una normale vita familiare nello Stato Membro ospitante. Ipotesi appunto concretizzata dal diniego, da parte dello Stato membro ospitante, di riconoscere i diritti di ingresso e soggiorno ai familiari extra-UE a motivo della mancanza del loro previo soggiorno legale nel territorio di un altro Stato Membro.

Adottando sempre un approccio che muove dalla valorizzazione del diritto al ricongiungimento come corollario e proiezione della libera circolazione dei cittadini UE, la Corte fa cadere l'interpretazione formalistica di ciò che effettivamente può costituire ostacolo all'esercizio di tale libertà (141). Di conseguenza, "la direttiva 2004/38 attribuisce a qualsiasi cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino dell'Unione ai sensi prescritti dalla direttiva, il quale accompagna o raggiunge il citato cittadino dell'Unione in uno Stato membro diverso dallo Stato membro di cui egli ha la cittadinanza, diritti di ingresso e soggiorno nello Stato membro ospitante, a prescindere dal fatto che il detto cittadino di un paese terzo abbia già soggiornato legalmente, o meno, in un altro Stato membro" (142).

La pronuncia Metock va dunque a precisare i contorni della normativa secondaria sul diritto di circolazione e soggiorno del cittadino dell'Unione, prevedendo sostanzialmente un diritto di soggiorno a titolo di ricongiungimento con il familiare economicamente attivo di cittadinanza europea nel momento in cui il cittadino di un paese terzo varchi la frontiera esterna, indipendentemente dalla regolarità o meno della sua presenza sul territorio dell'UE.

La Corte di Giustizia ha dato luogo ad un rafforzamento di tutela, andando oltre la specifica cornice legislativa dell'esercizio del diritto alla libera circolazione e smaterializzando progressivamente il legame tra l'esercizio di tale libertà e il diritto al ricongiungimento familiare. Tuttavia, la Corte stenta a riportare il ricongiungimento nel suo alveo naturale dei diritti fondamentali, sotto l'etichetta della vita privata e familiare, poiché esso viene invece rapportato dal giudice europeo alla nozione di cittadinanza dell'Unione. Non si tratta di un'opzione neutra a favore di un fondamento concettuale a discapito di un altro: a seconda del metro di giudizio prescelto infatti effetti positivi in termini di tutela possono riverberarsi in maniera più o meno consistente. La garanzia offerta dalla Corte di Giustizia, incentrata sull'elaborazione concettuale della nozione di 'cittadinanza dell'Unione' esaspera anziché attenuare la distinzione tra "classi" di cittadini e tutela della vita familiare. A tale proposito, vi sono due sentenze fondamentali, ancorché riguardanti ipotesi diverse e anche cronologicamente lontane nel tempo: si tratta dei celebri casi Chen (143) e Zambrano (144).

La prima sentenza è una vera e propria pietra miliare in cui la Corte di Lussemburgo inaugura la linea interpretativa in materia di ricongiungimento il cui perno è lo status di cittadino dell'Unione. Il caso che viene affrontato presenta indubbiamente dei risvolti problematici sotto più punti di vista: da una parte infatti è coinvolta una minore poco più che neonata - affettuosamente chiamata dai giudici con il nome di battesimo, Catherine -, dall'altra si staglia la sagoma minacciosa dell'"abuso del diritto". Catherine, figlia di genitori cinesi soggiornanti nel Regno Unito, viene consapevolmente fatta nascere in Irlanda quindi, sulla base dello ius soli che governa le regole sull'attribuzione della cittadinanza nella Repubblica irlandese, essa è cittadina europea. Il Regno Unito, tuttavia, nega il soggiorno a madre e figlia, sulla base del fatto che la minore non sta affatto esercitando il proprio diritto alla libera circolazione (145).

L'analisi della Corte muove dalla premessa per cui lo status di cittadino UE è ormai destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati Membri e come tale deve essere interpretato in modo tale che non risultino pretermesse le prerogative che vi si fondano, incluso dunque il diritto di soggiorno negli Stati Membri dell'Unione diversi da quello di origine: non vi è alcun dubbio sulla sussistenza di tale diritto in capo a Catherine (146). La parte più interessante della pronuncia è però quella che riguarda il diritto di soggiorno della madre della minore: una volta affermata l'applicabilità ratione materiae e ratione personae della direttiva 2004/38/CE, infatti, è fuor di dubbio che tale normativa, nel disciplinare il ricongiungimento con gli ascendenti, ammetta tale possibilità relativamente ai soli ascendenti che siano "a carico" del cittadino europeo. La vicenda della famiglia Chen presenta invece la situazione radicalmente opposta poiché è il cittadino dell'Unione europea ad essere a carico dell'ascendente: la madre di Catherine che non ha alcun diritto di soggiorno secondo quanto previsto nella direttiva 2004/38/CE. Tuttavia, nota la Corte, "il rifiuto di consentire al genitore, cittadino di uno Stato Membro o terzo, che ha effettivamente la custodia di un figlio (il quale fruisce di un diritto di soggiorno), di soggiornare con tale figlio nello Stato membro ospitante priverebbe di qualsiasi effetto utile il diritto di soggiorno del cittadino UE. È chiaro infatti che il godimento del diritto di soggiorno da parte di un infante implica necessariamente che tale infante abbia il diritto di essere accompagnato dalla persona che ne garantisce effettivamente la custodia; è necessario dunque che tale persona possa risiedere nello Stato membro ospitante. In definitiva quando lo status di cittadinanza UE e previsioni di diritto derivato conferiscono al cittadino minorenne in tenera età un diritto di soggiorno a tempo indeterminato nello Stato Membro ospitante, tali stesse disposizioni consentono al genitore che ne ha effettivamente la custodia di soggiornare anch'egli nello Stato" (147).

L'effetto prodotto dalla Corte è dunque quello di amplificare la dimensione letterale della disposizione, permettendo il ricongiungimento del cittadino UE anche in un'ipotesi non strettamente prevista dalla normativa secondaria e in cui l'elemento della libera circolazione, pur se presente, risulta in un certo qual modo smaterializzato ed attenuato.

La sentenza Zambrano determina la definitiva attenuazione dell'elemento "transfrontaliero" privilegiando la diversa nozione di status di cittadino dell'Unione europea, in perfetta coerenza con le basi gettate nella sentenza Chen: la Corte estende la propria competenza in casi che, tradizionalmente, sarebbero stati considerati come questioni puramente interne. La vicenda Zambrano prende le mosse dalla migrazione di una famiglia colombiana - madre, padre e figlio- in Belgio; successivamente, nel corso di un arco temporale piuttosto esteso in cui la presenza del ricorrente e della sua famiglia sul territorio dello Stato ospitante va radicandosi, la famiglia si allarga e, in applicazione della legge belga, i due nuovi nati acquistano la cittadinanza del Belgio e dunque dell'Unione. Lo spunto per la proposizione della questione pregiudiziale da parte del Tribunal du travail di Bruxelles è offerta proprio dalla sentenza Chen, dell'estensione del cui principio fondante il giudice del rinvio domanda, in definitiva, la legittimità. Il giudice a quo chiede se dalle disposizioni del Trattato sulla cittadinanza dell'UE, anche alla luce delle specifiche previsioni contenute nella Carta di Nizza, possa derivare un diritto di soggiorno per l'ascendente, cittadino di uno Stato terzo, che si faccia carico dei propri figli in tenera età, cittadini dell'Unione, nello Stato membro di cui questi ultimi hanno la cittadinanza e dove essi risiedono. Esclusa la pertinenza della direttiva 2004/38/CE che riguarda i cittadini europei economicamente attivi - anche in senso lato, come visto in Chen -, la Corte incentra la propria valutazione nuovamente sulla cittadinanza europea la quale, in virtù del ruolo fondamentale che essa riveste nel sistema Europa, risulta inconciliabile con quei provvedimenti interni che abbiano l'effetto di privare i cittadini dell'Unione del godimento reale ed effettivo dei diritti attribuiti dal loro status di cittadini dell'Unione. Dal diniego di soggiorno per il genitore del minore cittadino europeo deriva infatti che il suddetto minore si troverà costretto ad abbandonare il territorio dell'Unione per accompagnare il genitore. Questa situazione, viene tipizzata dalla Corte come un caso in cui un cittadino dell'Unione si troverebbe, di fatto, nell'impossibilità di godere realmente dei diritti attribuiti dal suo status (148).

La Corte dunque ha operato un salto logico ulteriore rispetto alle previsioni di diritto secondario UE, arrivando ad enunciare un diritto di soggiorno per il cittadino di un paese terzo familiare di un cittadino di uno Stato membro, facendo leva sull'esigenza di non compromettere l'efficacia pratica della cittadinanza dell'Unione e delle prerogative che vi sono connesse. La portata estensiva dell'operazione è evidente perché il giudice dell'Unione entra in un campo riservato alla competenza degli Stati Membri, ovvero la disciplina dell'ingresso e del soggiorno di cittadini terzi, in particolare fuori dal campo applicativo delle direttiva 2003/86/CE e 2004/38/CE (149). Il criterio della privazione del nucleo essenziale dei diritti del cittadino dell'UE ha, in sé e per sé, grandi potenzialità espansive, come dimostra la cascata di rinvii pregiudiziali volti ad ottenere una pronuncia dalla portata analoga a Zambrano, a volte anche forzando gli elementi di collegamento con il diritto europeo al fine di ottenerne l'applicazione (150).

La Corte ha precisato i contorni del "godimento effettivo del nucleo essenziale dei diritti della cittadinanza UE" nelle successive pronunce, specificando come questo costituisca un criterio particolare e avente natura eccezionale e andando sostanzialmente a circoscrivere la portata del principio: dall'esame della giurisprudenza successiva sembra che i diritti del cittadino UE che non devono essere pregiudicati dalle misure nazionali siano essenzialmente le quattro libertà fondamentali che storicamente hanno concorso alla creazione della Comunità, soprattutto quella di circolazione e soggiorno all'interno dello spazio europeo.

In primo luogo, la sussistenza del pregiudizio al nucleo essenziale dei diritti è riferita dalla Corte a quei casi in cui il cittadino dell'Unione - in particolare a causa della giovane età- si trova "obbligato, di fatto, a lasciare il territorio non solo dello Stato membro di cui è cittadino, ma anche quello dell'Unione considerato nel suo complesso" (151). Un'applicazione concreta della specificazione è quella del caso Alokpa (152), riguardante il diniego di soggiorno in Lussemburgo per una cittadina togolese, avente a proprio carico due figli minori, di cittadinanza francese ma nati in Lussemburgo. La Corte affrontando la questione rileva che non sussiste il rischio che i minori cittadini UE siano costretti a lasciare il territorio dell'Unione nel suo insieme, poiché la ricorrente, in qualità di madre di due cittadini francesi di cui ha la custodia effettiva ed esclusiva, potrebbe godere di un diritto derivato ad accompagnarli e a soggiornare con loro sul territorio francese (153).

Il caso McCarthy (154), invece, offre un'occasione di riflessione in merito ad uno degli aspetti problematici che derivano dalla scelta della Corte di incentrare le proprie valutazioni in merito a casi concernenti l'unità familiare sul metro di giudizio "cittadinanza UE", ovvero il caso delle "discriminazioni a rovescio". La ricorrente, nata e sempre vissuta in Inghilterra, intendeva valersi della propria doppia cittadinanza - irlandese e inglese - per poter richiedere un'autorizzazione al soggiorno nel territorio del Regno Unito, in modo tale da poter far in seguito conseguire un'autorizzazione al soggiorno a titolo di ricongiungimento familiare anche al proprio coniuge, cittadino giamaicano, irregolarmente presente nel territorio inglese. La Corte nega ovviamente la sussistenza del pregiudizio al godimento effettivo del nucleo dei diritti di cittadinanza europea poiché la ricorrente gode di un diritto di soggiorno incondizionato nel Regno Unito, in quanto possiede la cittadinanza di tale paese: è dunque impossibile che sia obbligata dalle autorità ad abbandonare il territorio dell'Unione (155). Il chiaro pregiudizio alla vita familiare della ricorrente, derivante dall'espulsione del proprio coniuge, non è minimamente preso in considerazione dalla Corte: se ne deduce che evidentemente il diritto fondamentale di cui all'articolo 7 CDFUE non rientra tra quei diritti connessi allo status di cittadino europeo presi in considerazione dal test Zambrano.

Un ulteriore conferma è riscontrabile nella sentenza Dereci in cui si riuniscono una pluralità di questioni pregiudiziali rimesse dal Verwaltungsgericht austriaco riguardanti la situazione di cittadini di paesi terzi, familiari di cittadini austriaci che non hanno esercitato il diritto alla libera circolazione dell'Unione e a cui, alla stregua del diritto interno, viene negato il permesso di soggiorno. La Corte, dopo aver ribadito la natura eccezionale dell'operazione con cui si fa leva sull'effetto utile della cittadinanza dell'Unione al fine di garantire un diritto di soggiorno al cittadino terzo, circoscrive ulteriormente il "principio Zambrano" affermando che "la mera circostanza che possa apparire auspicabile al cittadino di uno Stato membro, per ragioni economiche o per mantenere l'unità familiare nel territorio dell'Unione, che i suoi familiari, che non possiedono la cittadinanza di uno Stato membro, possano soggiornare con lui nel territorio dell'Unione, non basta di per sé a far ritenere che il cittadino dell'Unione sarebbe costretto ad abbandonare il territorio dell'Unione qualora un tale diritto [di soggiorno] non fosse concesso" (156). Dal tenore di quest'affermazione si evince chiaramente che il criterio enunciato dalla Corte non è utilizzato in funzione strumentale alla tutela dell'unità familiare ed in questo senso vanno anche le successive precisazioni fornite dal giudice europeo (157).

Infatti, quando la Corte si trova di fronte a casi in cui è impossibile garantire il diritto al ricongiungimento familiare come diritto corollario della cittadinanza dell'Unione, si rivolge, invero timidamente, all'alveo proprio e originario del ricongiungimento, ovvero il diritto fondamentale alla tutela della vita privata e familiare: tuttavia non lo fa direttamente, ma rimette le valutazioni sul suo rispetto al giudice nazionale (158). In Dereci, ad esempio, dopo aver escluso la possibilità di garantire un diritto di soggiorno ai ricorrenti cittadini terzi alla stregua del test Zambrano, la Corte di Giustizia è pronta ad indicare come possano ben sussistere altri fondamenti per la concessione di un diritto di soggiorno che il giudice nazionale a quo non può trascurare: in particolare il diritto fondamentale relativo alla tutela della vita familiare.

Il giudice nazionale dovrà valutare se il diniego di un permesso di soggiorno ai ricorrenti sia in contrasto con l'articolo 7 della Carta di Nizza, solo ove le posizioni dei ricorrenti siano soggette al diritto dell'Unione, conformemente al campo applicativo della stessa (art. 51 CDFUE); in caso contrario, la medesima valutazione dovrà essere condotta sotto la luce dell'articolo 8 CEDU (159).

3.2.2. Segue: i cittadini di un paese terzo legalmente soggiornanti

La direttiva 2003/86/CE, adottata a seguito di un complesso iter politico-giuridico il 22 settembre 2003, disciplina il ricongiungimento familiare dei cittadini migranti nel territorio dell'Unione. La vetustà dello strumento e le sue molteplici criticità, messe in evidenza da più parti, fanno dubitare della sua consonanza e rispondenza, nel nuovo quadro giuridico del Trattato di Lisbona, alla politica comune dell'immigrazione. Le critiche mosse allo strumento attengono eminentemente a due profili: da una parte, infatti, la trama della direttiva delinea un diritto al ricongiungimento familiare del migrante sottoposto a deroghe, condizioni e opzioni per gli Stati Membri tanto numerose che il livello di armonizzazione che lo strumento è stato in grado di raggiungere è quasi nullo; autorizzando così il mantenimento di normative molto diverse tra loro si è determinato anche l'indirizzamento dei flussi migratori verso gli Stati Membri aventi le discipline meno rigorose. Dall'altra parte, alcune delle deroghe e delle facoltà di cui gli Stati Membri possono valersi hanno consistenza tale da mettere in dubbio l'effettività del diritto al ricongiungimento dei cittadini dei paesi terzi, e questo nonostante la direttiva 2003/86/CE specificatamente rispetti "i diritti fondamentali ed i principi riconosciuti in particolare nell'articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea".

Diversamente dalla direttiva 2004/38/CE, infatti, qui il Legislatore europeo è consapevole del fatto che "il ricongiungimento familiare è uno strumento necessario per permettere la vita familiare" e che "le misure in materia di ricongiungimento familiare dovrebbero essere adottate in conformità con l'obbligo di protezione della famiglia e di rispetto della vita familiare che è consacrato in numerosi strumenti di diritto internazionale" (160).

Proprio a causa del giudizio negativo sulla forma e sul contenuto della direttiva, risulta centrale il ruolo della Corte di Giustizia in merito al controllo di compatibilità delle normative nazionali attuative con il parametro della tutela dei diritti umani. Al giudice di Lussemburgo viene dunque offerta l'occasione di dimostrare di saper prendere i diritti sul serio. La prima prova in tale senso è invero deludente: chiamata a giudicare la direttiva alla luce delle norme internazionali a tutela della vita familiare nella cornice di un ricorso interistituzionale di annullamento, la Corte è rimasta suo malgrado schiacciata dal peso politico della questione immigrazione (161). Nella sentenza Parlamento europeo c. Consiglio (162) la Corte si trova ad affrontare la questione dell'annullamento di alcune disposizioni della direttiva sul ricongiungimento familiare, in particolare le disposizioni concernenti il trattamento dei minori (163) e la previsione di lunghi archi temporali necessari prima che sia possibile presentare la domanda di ricongiungimento o comunque intercorrenti tra la domanda e la concessione del relativo permesso di soggiorno (164). Il Parlamento europeo sollecita l'annullamento di tali disposizioni, ritenendole contrastanti con i diritti fondamentali, "in particolare il diritto alla vita familiare ed il diritto di non discriminazione, quali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri dell'Unione europea, quali principi generali del diritto comunitario che l'Unione è tenuta a rispettare in applicazione dell'art. 6, n. 2, UE, al quale fa rinvio l'art. 46, lett. d), UE per quanto concerne l'azione delle istituzioni". Si noti che il Parlamento fa specifico riferimento a "il diritto al rispetto della vita familiare, sancito dall'art. 8 della CEDU, interpretato dalla Corte come comprensivo parimenti del diritto al ricongiungimento familiare". Tra l'altro, pur essendo ancora la Carta di Nizza fondamentalmente priva di rilevanza giuridica ufficiale, si ricorda che "lo stesso principio è stato ripreso all'art. 7 della Carta", la quale è "un elenco dei diritti fondamentali esistenti, ancorché priva di effetti giuridici vincolanti" e che essa costituisce in ogni caso "un indice utile ai fini dell'interpretazione delle disposizioni della CEDU" (165).

La Corte non dà luogo all'annullamento delle disposizioni impugnate, ma rigetta il ricorso concedendo il proprio imprimatur alla legislazione europea in questione: non sussiste violazione del diritto alla vita familiare e della tutela del minore, in quanto la direttiva consente ampiamente un'interpretazione ed applicazione conforme a tali diritti fondamentali da parte degli Stati Membri e dei loro agenti (166). La direttiva non contrasta astrattamente con i diritti fondamentali, in particolare con l'articolo 8 CEDU, perché non impedisce che le normative di attuazione e la loro concreta applicazione siano rispettose di tali prerogative.

Come messo in luce da Adelina Adinolfi, tale conclusione suscita non poche perplessità: da una parte infatti affidare "agli Stati membri il compito di provvedere ad una 'interpretazione adeguatrice' della direttiva" pregiudica ulteriormente "l'obiettivo di un'armonizzazione sia pur minima prevista dalla stessa direttiva"; dall'altra, "tale orientamento sembra ridurre il ruolo del legislatore comunitario nell'assicurare il rispetto dei diritti fondamentali giacché, in definitiva, qualora la normativa comunitaria non precluda agli Stati membri la possibilità di un'interpretazione conforme a tali diritti, essa non potrebbe configurarsi come illegittima" (167).

Se è pacifico che gran peso nel giungere a tale conclusione sia stato dato dalla Corte a considerazioni di opportunità e di politica giudiziaria - lo strumento normativo in questione non aveva avuto una gestazione facile e la sua natura compromissoria era ben nota -, questa sorta di excusatio non petita (168) non vale comunque ad allontanare un'ombra sul volto della Corte e sul suo ruolo di garante dei diritti e delle libertà della Piccola Europa (169).

Tra le pronunce con cui la Corte del Lussemburgo ha precisato la dimensione effettiva delle prescrizioni della direttiva 2003/86/CE, vi è la celebre sentenza Chakroun (170), in cui si tenta di meglio delimitare i contorni non troppo definiti del rapporto tra la disciplina del ricongiungimento familiare dei cittadini terzi e i generali obblighi di rispetto dei diritti dell'uomo. Nell'affrontare la questione concreta, riguardante l'interpretazione di una disposizione che prevede la facoltà per gli Stati Membri di richiedere che, al momento della presentazione della domanda di ricongiungimento, la persona che ha presentato la richiesta dimostri la disponibilità da parte del soggiornante di "risorse stabili e regolari, sufficienti per mantenere se stesso e i suoi familiari senza ricorrere al sistema di assistenza sociale dello Stato membro interessato" (171), la Corte fornisce delle importanti linee direttive agli Stati Membri in merito all'attuazione e interpretazione della disciplina ivi prevista. Si ricorda infatti che l'autorizzazione al ricongiungimento familiare costituisce la regola generale, pertanto tutte le deroghe - tra cui anche l'art. 7, n. 1 c) - che, pur consentite agli Stati dalla direttiva, hanno l'effetto di rendere più gravoso l'accesso al diritto, devono essere interpretate restrittivamente. I margini di manovra discrezionali lasciati agli Stati, in virtù della stretta connessione intercorrente tra il ricongiungimento e la prerogativa statale di decidere circa l'ammissione sul proprio territorio, non possono essere esercitati in modo tale da pregiudicare l'obiettivo che la direttiva persegue ed il suo effetto utile, ovvero di favorire il ricongiungimento familiare. Ciò significa che nel momento in cui la direttiva permette agli Stati Membri di tener conto, nel valutare la rispondenza delle risorse del soggiornante alle condizioni previste in 7.1 c), della soglia minima delle retribuzioni e delle pensioni nazionali, è necessario considerare che in generale l'estensione dei bisogni può variare molto a seconda degli individui: pertanto la disposizione deve essere interpretata nel senso che gli Stati membri possono indicare una certa somma come importo di riferimento nel valutare se il cittadino dispone effettivamente di risorse stabili e regolari per se stesso e i familiari senza ricorrere al sistema di assistenza sociale dello Stato Membro, ma non nel senso che essi possano imporre un importo di reddito minimo al di sotto del quale qualsiasi ricongiungimento familiare sarebbe respinto, a prescindere da un esame concreto della situazione di ciascun richiedente (172). Significa dunque che non potrà essere negato il permesso di soggiorno ove le risorse stabili e regolari siano sussistenti ma sussiste la mera eventualità che, a causa della consistenza concreta di tale reddito, il cittadino o il suo familiare debbano ricorrere all'assistenza sociale 'speciale' per far fronte a necessità straordinarie o impreviste, per provvedere a spese di sostentamento particolari e individualmente stabilite, a sgravi fiscali accordati da amministrazioni locali sulla base del reddito o a provvedimenti di sostegno del reddito nell'ambito della politica comunale per i redditi minimi.

Su di un piano più generale, la Corte comunque avalla una tipologia di interpretazione dello strumento normativo che sia quanto più possibile in linea con i diritti fondamentali: del resto la pronuncia viene resa nel 2010, quando dunque ormai la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione ha conquistato uno spazio "ufficiale" tra le fonti del diritto europeo. I giudici ricordano che "dal secondo 'considerando' della direttiva risulta che le misure in materia di ricongiungimento familiare dovrebbero essere adottate in conformità con l'obbligo di protezione della famiglia e di rispetto della vita familiare che è consacrato in numerosi atti di diritto internazionale. Infatti, la direttiva rispetta i diritti fondamentali ed osserva i principi riconosciuti in particolare nell'art. 8 della CEDU e dalla Carta. Ne consegue che le disposizioni della direttiva, e, in particolare, il suo art. 7, n. 1, parte iniziale e lett. c), devono essere interpretate alla luce dei diritti fondamentali e, più particolarmente, del diritto al rispetto della vita familiare sancito sia dalla CEDU sia dalla Carta".

Un sentenza molto importante relativamente alla tutela della vita familiare del cittadino di un Paese terzo è poi la sentenza O. e S., concernente una vicenda piuttosto complessa (173). La Corte infatti è chiamata a pronunciarsi in merito al ricongiungimento familiare rispetto ad una famiglia ricostituita: nel caso di specie costituita da cittadini di un paese terzo, madre, padre, figlio minore, in cui vi è anche un altro figlio, nato da precedente matrimonio di uno dei coniugi, avente cittadinanza europea e affidato alle cure del genitore straniero. Il quesito che viene posto al giudice europeo è se le norme del Trattato sulla cittadinanza europea, nella lettura data dalla Corte, abbiano delle conseguenze specifiche in tema di soggiorno per ricongiungimento di un cittadino di un paese terzo, che abbia l'intenzione di vivere con la propria moglie, anch'essa cittadina di un paese terzo ma legalmente residente nell'Unione e madre di un bambino avente la cittadinanza europea nato da un primo matrimonio, nonché con il figlio nato da tale unione, cittadino di un paese terzo.

Il nesso con la cittadinanza UE, ancorché apparentemente assente - si tratta infatti del ricongiungimento familiare di un cittadino di uno Stato non facente parte dell'Unione ma ivi legalmente residente- è dato dal fatto che nella famiglia ricostituita è presente un minore che ha tale status e che è altresì affidato in via esclusiva alla madre straniera (174). Anche se non è possibile la configurazione di un obbligo giuridico a lasciare il territorio dell'Unione - la madre del minore ha un permesso di soggiorno permanente - la Corte correttamente rileva il carattere amletico della questione, poiché dal momento che la madre straniera ha l'affidamento esclusivo del cittadino dell'Unione in tenera età interessato, "una sua decisione di lasciare il territorio dello Stato membro di cui tale bambino possiede la cittadinanza, al fine di mantenere l'unità familiare, avrebbe l'effetto di privare tale cittadino dell'Unione di qualsivoglia contatto con il proprio padre biologico, nell'ipotesi in cui un tale contatto fosse stato mantenuto sino ad allora". Tuttavia, "qualsiasi decisione di restare nel territorio di detto Stato membro al fine di preservare l'eventuale relazione del cittadino dell'Unione in tenera età con il proprio padre biologico produrrebbe l'effetto di pregiudicare la relazione dell'altro figlio, cittadino di paese terzo, con il proprio padre biologico". La Corte, dà comunque delle indicazioni sull'applicazione del test Zambrano al giudice del rinvio, che deve tenere in considerazione tutte le circostanze del caso concreto: ad esempio, il giudice di Lussemburgo rileva quasi incidentalmente che "sebbene i principi enunciati nella sentenza Ruiz Zambrano siano applicabili soltanto in circostanze eccezionali, non risulta dalla giurisprudenza della Corte che la loro applicazione sia riservata a situazioni in cui esiste un legame biologico tra il cittadino di un paese terzo per il quale si richiede un diritto di soggiorno e il cittadino dell'Unione" (175), così rispondendo alle osservazioni del governo tedesco ed italiano che sottolineavano la necessità della sussistenza di legami di sangue al fine di poter conseguire il diritto di soggiorno derivato di specie (176). L'efficacia pratica della cittadinanza dell'Unione è messa in discussione, infatti, dalla "relazione di dipendenza tra il cittadino dell'Unione in tenera età e il cittadino di un paese terzo al quale è negato un diritto di soggiorno", dal momento che è proprio in virtù di tale dipendenza che il cittadino dell'Unione può essere costretto, di fatto, ad abbandonare il territorio dell'Unione nel suo complesso (177). La Corte lascia comunque trasparire che, nel caso di specie, tale dipendenza non sia riscontrabile; a riprova infatti la Corte indica due diverse lenti sotto cui situazioni simili dovrebbero essere esaminate in sede nazionale: una più tecnica, che è quella della direttiva 2003/86/CE, l'altra, più generale, riguardante il rispetto dei diritti fondamentali dei soggetti coinvolti.

Per quanto riguarda quest'ultima, la Corte fa riferimento al proprio precedente Dereci, in cui si dispone che, in via sussidiaria rispetto all'applicazione del test Zambrano, il giudice a quo non può automaticamente escludere che la concessione del permesso di soggiorno per un cittadino terzo a titolo di ricongiungimento familiare sia dovuta sulla base del fondamento del diritto al rispetto della vita familiare (178).

Sotto questo profilo anche la sentenza O. e S., dunque, si colloca nel solco della reticenza della Corte ad affrontare essa stessa le questioni più sensibili e problematiche, preferendo un "rinvio guidato" al giudice nazionale; tuttavia, essa ha del resto un precipitato positivo in termini generali, poiché la Corte di Giustizia collega direttamente la situazione dei ricorrenti al diritto alla vita familiare, sancito all'art. 7 della Carta di Nizza.

Nell'ambito della medesima sentenza, poi, si è detto che la Corte indica un'ulteriore prospettiva entro cui la situazione della famiglia ricostituita andrebbe esaminata, che è quella della direttiva sul ricongiungimento familiare dei cittadini di un paese terzo, 2003/86/CE.

Dopo averne chiarito l'applicabilità (179), la Corte richiama se stessa, in particolare i principî affermati in Chakroun, e a distanza di quasi tre anni pone nuovamente l'accento sull'importanza dei diritti fondamentali. Le disposizioni nazionali di attuazione della direttiva devono essere lette dal giudice nazionale non solo in modo conforme al diritto dell'Unione, ma anche alla luce del diritto al rispetto della vita familiare e privata, in combinato disposto con l'obbligo di prendere in considerazione l'interesse superiore del bambino, sancito all'articolo 24 CDFUE; fermo restando il fatto che il necessario rispetto di tali diritti non implica che gli Stati membri non dispongano di un potere discrezionale relativamente all'esame delle domande di ricongiungimento familiare. La Corte ammaestra dunque il giudice nazionale, ricordandogli che è essenziale che, in sede di attuazione della direttiva 2003/86 e dell'esame delle domande di ricongiungimento familiare, si proceda a una valutazione equilibrata e ragionevole di tutti gli interessi in gioco, tenendo conto in particolare di quelli dei minori eventualmente coinvolti. Quindi il riferimento ai diritti fondamentali sanciti nella Carta di Nizza ai cittadini non europei viene rafforzato dalla Corte nel corpo della stessa sentenza, ribadendo la necessità di una interpretazione e applicazione conforme a tali principî della direttiva 2003/86/CE.

3.3. Un altro confronto

La seconda area esaminata attiene alla tutela del diritto alla vita familiare, che, relativamente al caso dei migranti, assume un'importanza centrale tra la rosa dei diritti fondamentali della persona.

Per quanto riguarda la giurisprudenza prodotta dalla Corte di Strasburgo sull'articolo 8 CEDU, essa si segnala positivamente rispetto ad entrambe le due declinazioni del diritto all'unità familiare esaminate, ovvero il caso dell'espulsione e del ricongiungimento. In merito alla prima tematica, la Corte ha storicamente prodotto risultati apprezzabili in termini di tutela, come dimostrano alcune sentenze più risalenti nel tempo (180), e con la propria giurisprudenza ha informato le prassi amministrative e giurisprudenziali di larga parte degli Stati europei. Più recentemente, alcune decisioni si segnalano per la garanzia accordata alla vita familiare e al superiore interesse del minore anche a fronte di rilevanti interessi dello Stato, quali il controllo dei flussi migratori e la repressione dell'immigrazione irregolare - si pensi ai casi Nunez c. Norvegia e Rodrigues da Silva e Hoogkamer c. Paesi Bassi -. Inoltre, sempre più frequentemente la Corte di Strasburgo ricorre all'adozione di misure ad interim al fine di bloccare provvedimenti di allontanamento del ricorrente, poiché tali provvedimenti sono in grado di arrecare un pregiudizio irreparabile all'interesse alla vita familiare del ricorrente.

Per quanto riguarda invece la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea relativamente alla tutela della vita familiare, due sono gli aspetti che emergono dall'esame delle sentenze sul ricongiungimento familiare.

La linea interpretativa della Corte di Lussemburgo fondata sulla cittadinanza europea e sul ruolo essenziale che essa ha assunto nell'era post-Lisbona rende evidente come la preoccupazione principale del giudice europeo non sia quella di garantire i diritti fondamentali della persona, ma di tutelare la "creatura Europa": le sentenze che hanno determinato effetti positivi in termini di ricongiungimento del cittadino europeo con familiari di paesi terzi - Zambrano, Chen - costituiscono tasselli di un mosaico da cui emerge la preminenza per gli interessi connessi all'integrazione europea.

In seconda battuta, anche in quei casi in cui emerge che la Corte è consapevole della rilevanza del diritto al rispetto alla vita privata e familiare rispetto alla questione che si trova a dover affrontare, predomina un atteggiamento incentrato sul self-restraint. Il giudice dell'Unione si limita infatti a rilevare l'esistenza e la necessità che, nel caso di specie, il diritto all'unità familiare sia preso in considerazione dal giudice nazionale - si pensi alla sentenza O. e S. in cui la Corte rimette al giudice nazionale finlandese sia l'applicazione del test Zambrano, sia l'applicazione dei diritti fondamentali, siano essi afferenti al sistema CEDU o alla Carta di Nizza -.

In definitiva, nonostante l'attenuazione, a livello pratico, di alcune delle differenze in merito alla tutela della vita familiare delle diverse "classi" di cittadini, l'approccio della Corte di Giustizia è ben lontano da quello di una giurisdizione dei diritti umani.

4. Il corredo di aporie concettuali del Sistema Dublino e la reazione delle Corti

Lo strumento giuridico princeps dedicato ai rifugiati e richiedenti asilo, vero e proprio el clásico normativo, è la Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati e il correlato Protocollo di New York del 1967 (181). Ancorché ormai datato e quasi inadatto a confrontarsi con una situazione in cui l'esodo migratorio -anche a carattere umanitario - è assurto a fenomeno di massa, tale trattato riveste ancora oggi un'importanza cruciale, soprattutto perché grazie all'ampio numero di ratifiche costituisce espressione di principî generalmente riconosciuti ed accettati in materia. In particolare, l'articolo 33 della Convenzione enuncia il cosiddetto principio di non refoulement dei richiedenti asilo, secondo cui è proibito il loro rinvio verso un paese in cui possano subire una lesione dei diritti fondamentali (182).

Nel 'bacino giuridico' della Piccola Europa, la Carta di Nizza richiama espressamente tale Convenzione stabilendo all'articolo 18 che "il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e del protocollo 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato sull'Unione europea e del trattato sul funzionamento dell'Unione europea"; del pari, anche il Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea richiama la Convenzione di Ginevra, precisamente all'articolo 78 TFUE.

Con il Trattato di Amsterdam, infatti, l'Unione europea si è vista attribuita una specifica competenza in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere, oggi confermata e "rafforzata" dal Trattato di Lisbona (183): sulla base del Programma di Tampere, de L'Aja e di Stoccolma, è stata avviata la creazione del cosiddetto "Sistema europeo comune di asilo" (CEAS secondo l'acronimo inglese), mediante l'adozione di una molteplicità di atti normativi. Evidente, dunque, in un settore delicato come quello in questione, l'importanza del riferimento alla Convenzione di Ginevra e più in generale, l'attenzione al rispetto dei diritti umani dei soggetti in cerca di protezione internazionale.

Allo stato attuale l'Unione ha adottato una serie di direttive e regolamenti concernenti in particolare la determinazione dello Stato competente all'esame delle domande di protezione internazionale (Sistema Dublino e Sistema EURO-DAC); procedure di asilo eque ed efficaci (la Direttiva Procedure, ovvero la direttiva 2005/85/CE recentemente rifusa in 2013/32/UE); l'accoglienza dei richiedenti (la Direttiva Accoglienza, ovvero la direttiva 2003/9/CE recentemente rifusa in 2013/33/UE); il riconoscimento dello status di rifugiato (la Direttiva Qualifiche, ovvero la direttiva 2004/83/CE, rifusa in 2011/95/UE).

All'interno di tale insieme giuridico riveste un particolare interesse - in negativo - relativamente al tema dei diritti dei migranti il cosiddetto Sistema Dublino, rispetto al quale è possibile parlare di una vera e propria "stratificazione normativa". Infatti, il vigente Regolamento 604/2013 del 26 giugno 2013 (il cosiddetto "Regolamento Dublino III"), sulla determinazione dello Stato membro dell'UE responsabile dell'esame di una domanda di protezione internazionale e il Regolamento 603/2013 del 26 giugno 2013 per il confronto delle impronte digitali per l'efficace applicazione del "Regolamento Dublino" (il cosiddetto "Regolamento Eurodac II") rappresentano rispettivamente la rifusione del Regolamento n. 343/2003 del Consiglio del 18 febbraio 2003 (184) (il cosiddetto "Regolamento Dublino II") e del Regolamento 2725/2000 del Consiglio dell'11 dicembre 2000 (cosiddetto "Eurodac I") (185).

Il contenuto essenziale del Sistema Dublino è rappresentato da una serie di regole in merito all'individuazione dello Stato competente ad esaminare le domande di protezione internazionale (186): l'UE si è dotata di un meccanismo che, in applicazione di criteri oggettivi e predeterminati, permette di attribuire univocamente la competenza ad esaminare tali richieste ad uno Stato Membro. Pertanto è possibile che, in applicazione di tale meccanismo, uno Stato possa trasferire la responsabilità dell'esame della domanda di asilo (e con essa il richiedente asilo stesso) verso il diverso Stato ritenuto competente (187). La ratio del Sistema risponde a due problematiche emerse nella prassi: da una parte, esso è teso ad arginare il fenomeno dei 'richiedenti in orbita', garantendo così un accesso effettivo alla procedura di esame delle domande di protezione internazionale (188); dall'altra, la normativa è volta a prevenire il fenomeno dell'asylum shopping, ovvero la presentazione di domande multiple e contestuali da parte dello stesso richiedente. Il principio generale immanente che innerva la normativa Dublino è dunque sintetizzabile nell'unicità e nell'univocità: una singola domanda di asilo, esaminata da un singolo Stato Membro (189).

A fini logici e sistematici, è possibile suddividere in due tipologie le problematiche che affliggono l'impianto concettuale del Sistema Dublino (190): vi sono dei vizi tecnico-giuridici, concernenti i concreti e specifici criteri competenziali prescelti dal Legislatore europeo e gli effetti che la loro applicazione produce; in secondo luogo, il Sistema Dublino è afflitto da una forma acuta di formalismo egualitario, dato che la filosofia che lo anima sembra trascurare il fatto che non sempre realtà fattuale e realtà normativa coincidono.

Venendo al primo aspetto problematico, il regolamento Dublino (191) - fonte del diritto dell'Unione che si caratterizza per la sua diretta applicabilità e obbligatorietà in tutti i suoi elementi - dispone una serie di criteri secondo una struttura gerarchica (192). Un primo insieme di regole per la individuazione dello Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale è incentrato sui legami familiari del richiedente in applicazione del "principio dell'unità familiare" (193). Tuttavia, la nozione di 'familiare' rilevante ai fini dell'applicazione del regolamento è piuttosto restrittiva (194) e ciò circoscrive l'utilizzabilità di tali regole. Pertanto, data la sostanziale inutilità pratica del criterio competenziale incentrato sul rilascio di visti e permessi di soggiorno (195), la regola per individuare lo Stato competente ad esaminare una domanda di asilo che incontra un'applicazione pressoché generalizzata è quella incentrata sull'"ingresso o soggiorno illegali" nel territorio UE, che nella logica che alimenta il Sistema Dublino dovrebbe rivestire un ruolo residuale (196). Alla stregua di tale criterio, infatti, lo Stato competente è individuato nello "Stato di primo ingresso", quello in cui il cittadino di un paese terzo ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, la frontiera UE. Si assiste così ad una inversione della realtà fattuale rispetto alla realtà normativa: l'eccezione, l'ipotesi residuale assurge a regola generale nella determinazione dello Stato competente alla disamina della domanda di asilo. L'individuazione dello Stato di primo ingresso è in concreto permessa dall'altro ingranaggio del sistema, ovvero il regolamento EURO-DAC, che istituisce una banca dati generale consultabile da tutti gli 'addetti ai lavori' all'interno dell'UE (197). Pertanto, nel caso in cui il richiedente asilo abbia presentato domanda in uno Stato diverso da quello individuato come competente, è necessario ricorrere ad una complessa procedura di "presa in carico" del migrante (198). Si segnala che nel nuovo regolamento Dublino III, sulla falsariga di quanto disposto in merito al rimpatrio del migrante irregolare nella direttiva 2008/115/CE, si introduce l'istituto del 'trattenimento ai fini del trasferimento' del richiedente protezione internazionale, del tutto in spregio alla posizione di particolare vulnerabilità di quest'ultimo (199).

Venendo agli effetti problematici dell'applicazione dei criteri delineati nello strumento normativo, questi possono essere colti nel momento in cui si tiene presente che lo Stato di primo ingresso non è semplicemente competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale, ma è anche lo Stato in cui, in caso di accoglimento della domanda, il cittadino terzo è destinato obbligatoriamente a soggiornare: la vera e propria pecca giuridica del sistema globalmente considerato è infatti la mancata attribuzione della libertà di circolazione e di soggiorno ai cittadini terzi che si vedano riconosciuta la domanda di protezione internazionale. Dal quadro così delineato, escono sostanzialmente pretermesse le esigenze del singolo connesse ai suoi eventuali legami familiari 'allargati', le esigenze di tipo culturale o anche semplicemente linguistico e, più in generale, la sua volontà - si pensi a tutta una serie di ineludibili considerazioni di tipo pratico e concreto, come ad esempio le prospettive occupazionali che nei diversi Paesi UE possono anche essere fortemente divergenti - (200).

L'insieme di queste anomalie di carattere tecnico-giuridico consente di evidenziare l'altro ordine di problemi che affligge il Sistema Dublino, che è stato sopra definito "formalismo egualitario". Il meccanismo realizzato in seno all'Unione si regge infatti su due presunzioni intimamente connesse tra di loro, le quali solo di recente e solo in parte sono state in qualche modo relativizzate. La prima, evidentemente ed eminentemente smentita dalla realtà, è che tutti gli Stati Membri dell'Unione europea presentino il medesimo standard di protezione sussidiaria (201). In realtà, come è noto, le condizioni di accoglienza (e anche i tassi di accoglimento delle domande di protezione internazionale) cambiano sensibilmente da Stato Membro a Stato Membro. La seconda presunzione riguarda invece la natura di 'paesi sicuri' degli Stati membri UE: nei loro ordinamenti giuridici il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo ed in particolare del divieto di non refoulement è garantito per definizione. L'Unione europea - in cui l'aggettivo 'europea' è espressione di sintesi per indicare superiorità civile e culturale - è infatti fondata su tali valori, come conferma l'esistenza di Costituzioni, tradizioni, strumenti normativi internazionali, e soprattutto il moderno e ad hoc Bill of Rights adottato a Nizza. Prevedo dunque tutelo.

L'inadeguatezza di tale assetto è nitidamente evidenziata nelle parole di Fausto Pocar: "una simile presunzione di conformità degli ordinamenti al rispetto dei diritti dell'uomo risulta basata sulla premessa che la tutela dei diritti umani è un problema essenzialmente normativo, che si risolve con norme comuni, quali la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, e la previsione di giurisdizioni comuni per interpretarle e applicarle" (202). L'esistenza di norme a garanzia dei diritti dell'uomo è infatti condizione necessaria ma non sufficiente, poiché queste risultano inutili nel momento in cui non sono effettivamente applicate. Non è un caso infatti che in sede giurisdizionale, ovvero nel luogo in cui il diritto si trasforma - o almeno dovrebbe - da norma scritta in norma applicata, i giudici abbiano dato luogo ad una critica a queste presunzioni assolute e ad una inibizione degli effetti che queste producono in merito al rispetto dei diritti dei richiedenti asilo. L'evoluzione giurisprudenziale in merito al divieto di tortura, di cui corollario specifico è lo stesso divieto di refoulement, ha così consentito di amplificare la tutela dei diritti dei migranti 'forzati' (i soggetti in cerca di protezione internazionale), correggendo le storture del Sistema Dublino.

La giurisprudenza sui "casi Dublino", avente ad oggetto gli aspetti concernenti i trasferimenti dei richiedenti asilo, riveste un'importanza essenziale ed un ruolo di primo piano anche in considerazione del fatto che la messa in discussione giurisprudenziale del regolamento UE è terreno fertile per lo scontro e la contrapposizione tra la Corte di Strasburgo e la Corte di Lussemburgo. L'esame di tali casi infatti consente di mostrare un vero e proprio gioco di rimandi tra le due Corti, il quale, sfogandosi parzialmente anche sul piano legislativo, ha portato all'adozione dell'attuale regolamento Dublino III, in cui si prevede espressamente che "il trasferimento ai sensi del regolamento non può avere luogo là dove lo Stato che dovrebbe procedere al trasferimento, avendo individuato altro Stato membro competente ai sensi dei criteri oggettivi previsti dal regolamento, abbia motivi per credere che in quello Stato membro vi siano carenze talmente gravi, sistematiche e generalizzate del sistema di accoglienza e delle procedure di accesso alla protezione internazionale da esporre, di per se stesse, il richiedente asilo a un rischio di violazione dei suoi diritti fondamentali".

In questo 'sfondo problematico' di sfida e rivalità tra le due Corti europee, la più decisa opera di censura e 'riscrittura' giurisprudenziale delle aporie del Sistema Dublino è stata effettuata dalla Corte EDU, ovvero la Corte esterna al circuito istituzionale che vanta la paternità della normativa in questione. Il giudice EDU ha infatti sviluppato una propria giurisprudenza che è stata poi, con dei ritagli, ma in maniera quasi passiva, recepita e fatta propria dalla Corte di Giustizia dell'Unione, come è possibile evincere da un riscontro anche solo meramente temporale delle rispettive pronunce (203).

4.1. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sul Sistema Dublino

Il landmark judgment dei "casi Dublino" affrontati dalla Corte europea di Strasburgo è la sentenza M.S.S. contro Belgio e Grecia in cui per prima vengono scardinati i principî del regolamento europeo 343/2003; un'altra pronuncia di rilievo centrale è poi la recente sentenza Tarakhel c. Svizzera, la quale, intervenendo dalla precedente a distanza di poco più di tre anni, amplia e sviluppa ulteriormente la linea interpretativa della Corte EDU.

La sen. M.S.S. c. Belgio e Grecia affronta il caso di un cittadino afgano in cerca di protezione internazionale, il quale, varcata la frontiera europea in Grecia viene arrestato e sottoposto a trattenimento. Il ricorrente viene rilasciato e contemporaneamente si vede notificato un ordine di espulsione; in violazione di tale ordine si reca in Belgio e ivi fa richiesta di protezione internazionale. Dopo un controllo nel sistema EURO-DAC, e conformemente all'allora vigente regolamento Dublino II, le autorità belghe indicano lo Stato greco come competente per l'esame della domanda e iniziano la procedura per realizzare il trasferimento del richiedente. Venendo al merito della pronuncia, il giudizio della Corte è negativo relativamente ad entrambi gli Stati convenuti, rispetto ai quali vengono riscontrate violazioni convenzionali dirette ed indirette. La Grecia è infatti condannata per violazione dell'articolo 3 CEDU - which enshrines one of the most fundamental values of democratic societies (204) - sotto molteplici profili. In primo luogo, lo Stato greco è condannato per aver sottoposto il ricorrente ad una 'detenzione amministrativa' in condizioni palesemente contrastanti con il principio della dignità umana (205). È particolarmente evidente che, nel momento in cui la Corte condanna la Grecia per violazione dell'articolo 3 CEDU sotto lo specifico profilo della detenzione in condizioni inumane e degradanti dei richiedenti asilo - che non sono, nelle parole dei giudici, illegal immigrants - essa evidenzia un problema strutturale del sistema di gestione dei rifugiati in Grecia, con portata più ampia rispetto al singolo caso concreto del ricorrente afgano; un tipo di violazione rispetto alla quale non è da escludersi il ricorso alla procedura della sentenza pilota, se dovesse risultare opportuno in futuro. La Corte poi riscontra un'altra violazione dello stesso articolo, in particolare integrata dalle condizioni inumane e degradanti in cui il ricorrente si è trovato a vivere al termine del trattenimento subito. La Grecia, come gli altri Stati Membri dell'Unione, è espressamente tenuta a fornire un alloggio e a provvedere ai bisogni essenziali dei richiedenti asilo a norma della direttiva 2003/9/CE del Consiglio recante norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati Membri (la cosiddetta "Direttiva accoglienza") (206).

Infine, la Grande Camera sancisce la responsabilità della Grecia per la violazione del diritto del cittadino afgano ad un ricorso effettivo contro l'eventuale decisione di rigetto della propria richiesta di asilo e conseguente provvedimento di espulsione verso il Paese di origine; situazione aggravata dal fatto che in Afghanistan il ricorrente, anche in considerazione della collaborazione prestata all'esercito americano, correva un serio rischio di essere sottoposto a trattamenti contrastanti con l'articolo 3 CEDU (207).

La responsabilità internazionale del Belgio viene affrontata nel prosieguo del ragionamento della Corte, poiché si tratta di una responsabilità da "violazione indiretta" della CEDU e dunque rispetto alla quale la condanna della Grecia è sostrato logico (208). Poiché la questione della sussistenza della responsabilità del Belgio affonda le radici nell'applicazione del Regolamento Dublino, la Corte richiama la propria giurisprudenza Bosphorus e specifica che nel caso di specie non si applica il principio della protezione equivalente ivi sancito: ciò è reso possibile in virtù della clausola di sovranità disposta all'articolo 3.2 del regolamento Dublino II. La clausola, che è la valvola di sfogo del sistema, dispone che ogni Stato Membro può liberamente decidere di avocare a sé la competenza ad esaminare domande di asilo in deroga ai criteri oggettivi del regolamento: ciò significa che la decisione di disporre il trasferimento del ricorrente verso la Grecia si configura non come un atto dovuto, in ottemperanza di un obbligo discendente dal regolamento, bensì come esercizio di un potere discrezionale delle competenti autorità belghe (209). Astraendo dalle parole della Grande Chambre: nel caso in cui vi siano fondati motivi di ritenere che il trasferimento del richiedente, verso lo Stato individuato come competente dal regolamento, lo esponga al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti, lo Stato cui il richiedente si è rivolto deve astenersi dal trasferimento, esercitando la clausola di sovranità. Una volta così precisata la configurabilità della responsabilità dello Stato belga, la Corte dà luogo al revirement rispetto ai propri precedenti giurisprudenziali in cui questioni simili erano state dichiarate inammissibili (210): il Belgio infatti ha disposto il trasferimento del ricorrente verso la Grecia senza effettuare una concreta verifica dell'effettività della legislazione di tale Stato in materia di asilo ed ignorando non solo i reports di numerose NGO's sulle manifeste carenze del sistema greco di accoglimento e trattamento dei rifugiati, ma anche il parere dell'Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite (211).

La pronuncia dunque dispiega un duplice effetto sul piano generale: da una parte, i trasferimenti dei richiedenti asilo verso la Grecia sono virtualmente inibiti dalla Corte, pena una condanna dello Stato Membro (o associato) che vi dia luogo in applicazione del Sistema Dublino; dall'altra, stabilendo che è necessario valutare il rispetto e l'applicazione delle normative formalmente esistenti negli Stati per verificare se il trattamento dei richiedenti asilo sia effettivamente conforme a Convenzione, la Corte relativizza - rectius annulla - la presunzione di tutela dei diritti umani sussistente all'interno dei Paesi UE, perno concettuale del Sistema Dublino (212).

Successivamente alla pronuncia M.S.S. infatti, una volta aperta una breccia nel muro del regolamento europeo, molteplici ricorsi sono stati presentati alla Corte di Strasburgo al fine di dimostrare che il trasferimento disposto verso un altro dei Paesi-confine dell'Europa - l'Italia - costituisce una violazione dell'articolo 3 CEDU (213). L'esito finale di tale "filone" di casi proposti contro l'Italia è la recente sentenza della Grande Camera Tarakhel c. Svizzera (214), cherappresenta lo sviluppo ulteriore delle affermazioni di principio contenute in M.S.S. La pronuncia in esame, pur formalmente avendo come "destinatario istituzionale" la Confederazione svizzera, ha in realtà un carattere monitorio nei confronti dello Stato italiano: la Corte ha infatti sancito che l'applicazione del regolamento Dublino e il trasferimento dei richiedenti asilo in Italia, senza opportune garanzie, può costituire, in certi casi, violazione dell'articolo 3 CEDU.

La Corte di Strasburgo segue il sentiero tracciato in M.S.S.: "in order to examine this complaint the Court considers it necessary to follow an approach similar to that which it adopted in the M.S.S. judgment in which it examined the applicant's individual situation in the light of the overall situation prevailing in Greece at the relevant time". È necessario esaminare il caso particolare e individuale alla luce della generale situazione esistente in Italia: quest'inciso riassume la natura quasi ibrida della Corte, divisa tra una vocazione costituzionale - evidente nel momento in cui le sue analisi si riferiscono alla situazione generale, come il giudizio complessivo sul sistema di accoglimento dei rifugiati - e il proprio innato ruolo di istanza dedicata alla individual justice.

Coerentemente con tale premessa, l'analisi della Corte si sofferma in prima battuta sulle condizioni generali - strutturali - del sistema italiano di accoglienza facendo anche in questo caso riferimento ai documenti prodotti dallo United Nations High Commissioner on Refugees e dallo Human Rights Commissioner. La Corte, avuto riguardo alle tre condizioni chiave di "lentezza della procedura di identificazione", "capacità di accoglienza del sistema" e "condizioni di accoglienza", statuisce che, pur sussistendo dei punti critici (in particolare relativamente ad un sovraffollamento delle strutture destinate ai richiedenti asilo (215) e alcune problematiche in merito ad accoglienza e trattamento (216)) l'attuale situazione italiana non può essere assimilata alla situazione esistente in Grecia al momento del caso M.S.S. (217).

Tuttavia, anche se l'Italia non versa in una situazione endemica di violazione dei diritti dei richiedenti asilo tale da rendere il loro trasferimento in applicazione del regolamento Dublino tout court convenzionalmente illegittimo, non è possibile escludere che vi sia un rischio concreto che un certo qual numero di richiedenti asilo sia privato di un alloggio o costretto in una struttura insalubre e sovraffollata (218). Perciò, la Corte passa all'analisi del secondo aspetto che essa deve considerare, ovvero la situazione particolare dei ricorrenti, cioè una famiglia afgana in cui sono presenti ben sei figli minori. In questo caso emerge la vocazione naturale della Corte alla 'giustizia del caso concreto' poiché si mettono in luce le circostanze significative di cui si deve tenere conto nel valutare la sussistenza del rischio che i ricorrenti siano sottoposti ad un trattamento degradante ai sensi dell'articolo 3 CEDU: il caso di specie riguarda dei soggetti in una posizione di particolare vulnerabilità, quali i migranti forzati ("asylum seekers are a particularly underprivileged and vulnerable population group"); vulnerabilità amplificata poiché si tratta di una famiglia con numerosi minori a carico. Pertanto, la Corte statuisce che in una simile situazione è necessario che le competenti autorità svizzere si assicurino, richiedendo a tale fine specifiche garanzie concrete ai propri omologhi italiani, che i ricorrenti siano accolti in una struttura compatibile con le esigenze dei figli minori e che l'unità del nucleo familiare sia salvaguardata, pena una violazione dell'articolo 3 CEDU (219).

La sentenza Tarakhel ha anch'essa un precipitato di respiro generale: gli Stati, prima di procedere ad un "trasferimento Dublino" verso un paese di "destinazione" rispetto al quale sussistono dei dubbi in merito al trattamento conforme a Convenzione dei richiedenti asilo, dovranno ottenere informazioni dettagliate e ufficiali dalle competenti autorità di tali paesi relativamente alla presa in carico effettiva del richiedente asilo. In ogni caso, il sostrato che permette il funzionamento del meccanismo Dublino esce nuovamente incrinato dal giudizio della Corte: si tratta dell'ennesima critica alla presunzione dell'uniformità di standard di tutela dei diritti dei rifugiati nel territorio europeo.

4.2. La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul Sistema Dublino

La pronuncia copernicana della Corte di Strasburgo M.S.S., resa nel gennaio 2011, è stata seguita da una pronuncia analoga della Corte di Giustizia dell'Unione europea, con cui il Giudice di Lussemburgo apparentemente si adegua alla posizione espressa in ambito CEDU. Si tratta della sentenza N.S. (220), resa alla fine del dicembre 2011, in cui la Corte di Lussemburgo dà risposta alle questioni pregiudiziali sollevate nell'ambito di alcune controversie tra le autorità del Regno Unito e dell'Irlanda e alcuni richiedenti asilo, i quali dovevano essere trasferiti in Grecia in applicazione del regolamento 343/2003, Dublino II.

La Corte, nell'affrontare in modo congiunto una pluralità di questioni pregiudiziali affini, prende atto della innegabile discrasia tra realtà normativa e realtà sostanziale: il Sistema europeo comune di asilo, di cui componente essenziale è il Sistema Dublino, si fonda sulla presunzione che il trattamento dei richiedenti asilo in ciascun Stato Membro UE sia conforme a quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra, dalla CEDU e dalla stessa Carta di Nizza; tuttavia, "non si può escludere che tale sistema incontri, in pratica, gravi difficoltà di funzionamento in un determinato Stato membro, cosicché sussista un rischio serio che un richiedente asilo sia, in caso di trasferimento verso detto Stato membro, trattato in modo incompatibile con i suoi diritti fondamentali" (221).

La Corte prende atto del fatto che "la presunzione che i richiedenti asilo saranno trattati in maniera conforme ai diritti dell'uomo", il sostrato logico del Sistema Dublino, deve essere considerata relativa: "il diritto dell'Unione osta all'applicazione di una presunzione assoluta secondo la quale lo Stato membro che l'art. 3, n. 1, del regolamento n. 343/2003 designa come competente rispetta i diritti fondamentali dell'Unione" (222).

Nonostante questo, occorre distinguere, poiché non ogni violazione di un diritto fondamentale da parte dello Stato membro competente "si riverbera sugli obblighi degli altri Stati membri di rispettare le disposizioni del regolamento n. 343/2003" (223): la Corte infatti rileva come gli interessi in gioco, che si scontrano con i diritti dei richiedenti asilo, siano niente meno che "la ragion d'essere dell'Unione e la stessa realizzazione dello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia, e più in particolare, del sistema europeo comune di asilo" (224).

La preoccupazione della Corte è dunque quella di tamponare gli effetti negativi di un rispetto generalizzato dei diritti fondamentali (valore su cui l'Unione europea dovrebbe essere fondata!) che potrebbero riverberarsi negativamente in punto di efficienza del Sistema europeo comune di asilo.

Se ogni minima violazione dei diritti dei richiedenti asilo (in particolare in conformità a quanto disposte nelle direttive Procedure, Accoglienza e Qualifiche) conducesse al necessario esito della disapplicazione del regolamento Dublino, il risultato sarebbe quello di introdurre "un criterio supplementare di esclusione [della competenza] in base al quale violazioni minime dei diritti, commesse in un determinato Stato membro, potrebbero avere l'effetto di esonerare quest'ultimo dagli obblighi che derivano da detto regolamento". Risulta evidente per la Corte di Giustizia dell'Unione che "una tale conseguenza svuoterebbe detti obblighi del loro contenuto e comprometterebbe la realizzazione dell'obiettivo di designare rapidamente lo Stato membro competente ad esaminare una domanda di asilo presentata nell'Unione" (225).

La linea di demarcazione per discernere le 'violazioni dei diritti umani rilevanti' che possono portare alla sospensione dell'attuazione del meccanismo del Sistema Dublino non è precisata dalla Corte, che si limita a indicare una singola ipotesi in cui il trasferimento del richiedente asilo risulta incompatibile con i vincoli derivanti dalla Carta di Nizza. Questa in particolare è l'ipotesi limite "in cui si abbia motivo di temere seriamente che nello Stato membro competente sussistano carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo, che implichino un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell'art. 4 della Carta, dei richiedenti asilo trasferiti nel territorio di questo Stato membro" (226). In tale ipotesi, al fine di permettere all'Unione e ai suoi Stati membri di rispettare i loro obblighi di tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo, gli Stati membri sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo Stato membro competente ai sensi del regolamento n. 343/2003.

La pronuncia costituisce una ratifica circoscritta, ad opera di un organo afferente al circuito istituzionale UE, della censura esterna mossa al Sistema Dublino. In questo modo la Corte del Lussemburgo evita di porsi in contrasto con la Corte di Strasburgo, recuperando parte delle affermazioni contenute nel "precedente" esterno M.S.S., che viene infatti espressamente richiamato all'interno della stessa sentenza N.S. (227).

Tuttavia le due pronunce non sembrano perfettamente allineate, poiché dal tenore delle affermazioni della Corte di Giustizia risulta un'unica legittima ipotesi di disapplicazione del Sistema Dublino: quella estrema in cui lo Stato Membro UE verso cui il richiedente asilo deve essere trasferito si trovi in una situazione di nota carenza sistemico-strutturale della procedura di asilo e delle condizioni di accoglienza. Le violazioni minime non portano alla sospensione del meccanismo; e con violazioni minime si deve probabilmente intendere tutte le violazioni non macroscopiche. Rispetto al tenore delle pronunce della Corte di Strasburgo, dunque, quello che rimane sullo sfondo è la necessaria valutazione, caso per caso, della situazione particolare del richiedente asilo alla luce della situazione generale: come la Corte EDU ha recentemente dimostrato nel caso Tarakhel, pur in assenza di una situazione di violazione dei diritti fondamentali dei rifugiati a tal punto endemica nel paese di destinazione, vi sono casi in cui il trasferimento del richiedente asilo può ugualmente implicare la violazione delle fondamentali prerogative dell'individuo fino ad integrare gli estremi del trattamento disumano e degradante.

Un'ulteriore elemento di diversità delle linee giurisprudenziali delle due corti è riscontrabile relativamente alla difforme valorizzazione della "clausola di sovranità" prevista nell'impianto Dublino. La Corte di Strasburgo interpreta tale possibilità normativa offerta agli Stati come la valvola di sfogo che permette di distinguere tra un atto di stretta applicazione di una normativa cogente di matrice sovranazionale e un atto discrezionale - così legittimando il proprio sindacato sull'attività degli Stati Membri dell'Unione -; mentre nulla di tutto ciò può essere riscontrato nella sentenza N.S. della Corte di Giustizia dell'Unione europea. Anzi, la Corte di Giustizia, nella successiva sentenza Puid (228) effettua delle affermazioni molto nette al proposito. I giudici infatti statuiscono in maniera molto precisa che non esiste alcun obbligo per lo Stato di esercitare la propria sovranità avocando a sé l'esame di una domanda di asilo che, in applicazione dei criteri competenziali ordinari, spetterebbe ad un diverso Stato, anche quando questo versi in una situazione di violazione dell'articolo 4 della Carta di Nizza. Specularmente, non esiste alcun diritto soggettivo del richiedente asilo ad esigere che lo Stato eserciti la clausola di sovranità ed esamini esso stesso la propria domanda di protezione internazionale. L'impossibilità di trasferire il richiedente verso lo Stato membro individuato come competente, infatti, "impone allo Stato membro che doveva effettuare tale trasferimento di proseguire l'esame dei criteri per verificare se uno di tali criteri consenta di identificare un altro Stato membro come competente a esaminare la domanda di asilo", fino all'ultimo criterio residuale alla cui stregua lo Stato competente è quello in cui per primo il richiedente ha presentato la domanda (229). La preoccupazione della Corte è dunque quella di mantenere in funzione il meccanismo delineato in Dublino, che deve dunque seguire il proprio corso, pena la neutralizzazione del sistema stesso. L'unica eccezione all'applicazione rigorosa della gerarchia di criteri che viene individuata è quella in cui lo Stato membro nel quale si trova il richiedente asilo aggravi una situazione di violazione dei diritti fondamentali di tale richiedente con una procedura di determinazione dello Stato membro competente che abbia durata irragionevole. Solo in quest'ultima ipotesi, non molto netta e del resto solo "eventualmente e all'occorrenza", "detto Stato è tenuto a esaminare esso stesso la domanda conformemente alla clausola di sovranità" (230).

4.3. L'ultimo confronto

In merito alla giurisprudenza in materia di diritti dei richiedenti asilo e Sistema Dublino, il confronto delle distinte posizioni delle due Corti europee è agevole e non forzato: le due giurisdizioni infatti affrontano la medesima questione, arrivando però a conclusioni ben diverse.

Nel sistema CEDU il diritto di asilo non è garantito in sé poiché né la Convenzione né i Protocolli contengono previsioni in merito ai rifugiati e ai richiedenti asilo (231); in ogni caso la Corte ha ricavato in via giurisprudenziale, mediante l'impiego delle proprie peculiari tecniche interpretative, limiti al potere degli Stati parte di allontanare gli stranieri (indipendentemente dalla loro natura di rifugiati o meno) verso Paesi "a rischio" (232).

La Carta di Nizza, per contro, prevede sia il diritto di asilo (art. 18 CDFUE) sia, più in generale, un dovere di protezione in caso di allontanamento, espulsione ed estradizione (art. 19 CDFUE), che, come illustrato dalla stessa Spiegazione della disposizione, rappresenta una positivizzazione proprio della giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo (233).

Eppure, nonostante l'abbondanza di fonti e la ridondanza di disposizioni testuali, secondo la Corte di Giustizia dell'Unione europea nello scontro tra i diritti dei richiedenti asilo - diritti che coinvolgono valori quali la dignità umana - e la "ragion d'essere dell'Unione", lo Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia, la tutela dei diritti fondamentali può prevalere solo eccezionalmente, e cioè quando sussiste un serio timore di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza nello Stato Membro UE di destinazione del richiedente; carenze tali da determinare un trattamento inumano o degradante.

La Corte europea dei diritti dell'uomo, invece, nonostante la vetustà e l'esiguità del proprio catalogo, è ferma nell'affermare la prevalenza del dovere che grava sulle Alte Parti Contraenti di non allontanare i richiedenti verso Stati, - siano Membri della Piccola Europa, della Grande Europa o Stati altri - in cui esiste un rischio serio di essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti.

Il problema centrale è la diversità di prospettiva da cui le due istanze muovono: la Corte di Strasburgo richiede che, prima di disporre il trasferimento verso lo Stato competente, le autorità nazionali valutino il rispetto dei diritti dei richiedenti asilo, con attenzione tanto alla situazione generale tanto al caso particolare; la Corte dell'Unione europea è tesa alla conservazione del Sistema europeo di asilo, che si fonda sulla reciproca fiducia tra gli Stati Membri, e pertanto le eccezioni al funzionamento del sistema sono rigorosamente circoscritte.

La riprova dell'incompatibilità delle due visioni può essere letta in un passaggio del parere 2/13 della Corte di Giustizia, con cui si è sostanzialmente bloccato il processo dell'adesione dell'UE alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. All'interno dei numerosi motivi che rendono incompatibile l'Accordo di Adesione con il Trattato sull'Unione europea, alcuni passaggi sono perfetta sintesi del contrasto sopra rilevato: "occorre ricordare che il principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri riveste, nel diritto dell'Unione, un'importanza fondamentale, dato che consente la creazione e il mantenimento di uno spazio senza frontiere interne. Orbene, tale principio impone a ciascuno di detti Stati, segnatamente per quanto riguarda lo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia, di ritenere, tranne in circostanze eccezionali, che tutti gli altri Stati membri rispettano il diritto dell'Unione e, più in particolare, i diritti fondamentali riconosciuti da quest'ultimo". Gli Stati Membri sono "tenuti a presumere il rispetto dei diritti fondamentali da parte degli altri Stati membri, sicché risulta ad essi preclusa, salvo casi eccezionali, quella di verificare se tale altro Stato membro abbia effettivamente rispettato, in un caso concreto, i diritti fondamentali garantiti dall'Unione". L'approccio della Corte di Strasburgo, come enunciato in M.S.S. e come concretamente applicato nel caso Tarakhel, ovvero l'esigenza che uno Stato Membro UE verifichi il rispetto dei diritti fondamentali da parte di un altro Stato Membro "ancorché il diritto dell'Unione imponga la fiducia reciproca tra tali Stati membri", compromette non solo l'autonomia del diritto dell'Unione - motivo che rende incompatibile l'accordo di adesione con i trattati -, ma mina le fondamenta dell'organizzazione internazionale stessa, il suo equilibrio (234).

Note

1. E. Santoro, "Democrazia, migrazioni e società multiculturali", in S. Mezzadra, M. Ricciardi, Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, Ombre Corte, Verona 2013, pag. 156.

2. Sen. Riad e Idiab c. Belgio, 24 gennaio 2008, n. 29787/03, n. 29810/03, par. 94. Si ricorda poi l'antenato storico sen. U.S. Supreme Court Nishimura Ekiu v. United States et al., 18 gennaio 1892 in cui "it is an accepted maxim of international law that every sovereign nation has the power, as inherent in sovereignty, and essential to self-preservation, to forbid the entrance of foreigners within its dominions, or to admit them only in such cases and upon such conditions as it may see fit to prescribe".

3. "L'internazionalizzazione dei diritti umani e la costituzionalizzazione dei diritti fondamentali costituiscono un autentico mutamento di paradigma rispetto al passato, segnano una netta cesura con le esperienze giuridiche precedenti e instillano dubbi sulla legittimità di trattamenti (più o meno odiosamente) discriminatori (quando non vessatori) nei riguardi dei migranti" D. Loprieno, "I campi per gli stranieri", in S. Gambino, G. D'Ignazio (a cura di), Immigrazione e diritti fondamentali. Fra costituzioni nazionali, Unione europea e diritto internazionale, Giuffrè Editore, Milano 2010, pag. 528. Ancora, "la sovranità statale in materia di immigrazione ha subito un ridimensionamento con l'emergere, nel secondo dopoguerra, del movimento a favore dei diritti umani" G. Castaldi, "Espulsione degli Stranieri e protezione della vita familiare nella prassi degli organi internazionali di controllo sui diritti umani", in R. Pisillo Mazzeschi, P. Pustorino, A. Viviani (a cura di), Diritti umani degli immigrati. Tutela della famiglia e dei minori, Editoriale Scientifica, Napoli, 2010, pag. 135.

4. "La tensione tra diritti ed esigenze di controllo delle frontiere è evidentemente una costante del discorso sull'allontanamento dello straniero che rimanda alla difficile saldatura tra le pretese di politiche particolaristiche tese a salvaguardare la sovranità statale nel controllo del territorio e l'universalismo dei diritti". A. Romano, "Rimpatrio e libertà personale dei migranti tra normativa italiana e direttiva 2008/115/CE: note al caso El Dridi", in Giurisprudenza Costituzionale, 2/2012, pag. 1495, nota n. 11.

5. "Le politiche di gestione dei fenomeni in parola, lungi dal tradursi in scelte date ed agevolmente individuabili, anche sulla scorta di un mero recepimento di soluzioni proprie dell'esperienza di altri ordinamenti, riflettono più in generale una difficoltà di fondo, consistente nell'ardua ricerca del giusto contemperamento tra le esigenze di tutela della sicurezza pubblica, da un lato, e la garanzia del rispetto dei diritti fondamentali del migrante dall'altro". R. Croce, "L'espulsione amministrativa dello straniero", in F. Angelici, M. Benvenuti, A. Schillaci, Le nuove frontiere del diritto dell'immigrazione: integrazione, diritti, sicurezza. Atti del Convegno di Roma 2-3 febbraio 2011, Jovene editore, Napoli 2011, pag. 213.

6. "Una volta che si è ammessa l'esistenza della prerogativa sovrana sui confini, quali misure sono legittime per garantire il livello desiderato di controllo dell'accesso al territorio? Di quali diritti gode il migrante fermato alla frontiera o intercettato in condizione di irregolarità sul territorio dello Stato? Una volta ammesso che non esiste un diritto alla libera circolazione, è possibile sostenere che l'affermazione della prerogativa sovrana trasforma lo straniero, ed il migrante irregolare in particolare, in un soggetto abbandonato all'arbitrio del potere sovrano e privo di tutele giuridiche?" G. Campesi, "Le libertà degli stranieri. La detenzione amministrativa nel diritto internazionale e dell'Unione europea", in Politica del diritto, XLIII, 2-3, pag. 339.

7. "Nella nostra società occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con un potere inglobante - seppur discontinuo - più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell'impedimento allo scambio sociale e all'uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell'istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d'acqua, foreste e brughiere". E. Goffman, Asylums, Einaudi, Torino 2003.

8. A. Bascherini, Immigrazione e diritti fondamentali. L'esperienza italiana tra storia costituzionale e prospettive europee, Jovene Editore, Napoli 2007, pag. 210.

9. A livello di disciplina europea, è possibile parlare di trattenimento del migrante sottoposto a procedura di rimpatrio, (che è l'ipotesi che sarà oggetto di trattazione specifica nel prosieguo del lavoro), la quale si fonda specificatamente sullo strumento normativo della direttiva 2008/115/CE, nonché di trattenimento del richiedente asilo, sulla base della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio "recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale" (ovvero la nuova "direttiva accoglienza"). Relativamente a quest'ultima ipotesi, è da notare che il trattenimento viene espressamente qualificato come "il confinamento del richiedente [protezione internazionale], da parte di uno Stato membro, in un luogo determinato, che lo priva della libertà di circolazione" (articolo 2, lett. h)); detto trattenimento è poi disciplinato all'articolo 8 della menzionata direttiva; articolo 9 (garanzie per i richiedenti trattenuti), articolo 10 (condizioni del trattenimento) e articolo 11 (trattenimento di persone vulnerabili e di richiedenti con esigenze particolari).

10. A. Natale, C. Renoldi, "La tutela dei diritti e i paradossi del diritto. La direttiva rimpatri, l'Italia e la libertà dei migranti", in Questione Giustizia n. 5/2011, pag. 7.

11. "Pur essendo stata ormai chiarita la natura detentiva dei centri per stranieri, il legame con la prerogativa sovrana sembra ancora oggi collocare la detenzione amministrativa dei migranti e dei richiedenti asilo in una sfera di legalità eccezionale dove i limiti ordinari all'uso del potere detentivo previsti dalle principali costituzioni democratiche non si applicano. In questo senso ha ragione Galina Cornelisse laddove sostiene che la detenzione amministrativa degli stranieri rappresenti oggigiorno un autentico vicolo cieco della tutela dei diritti umani poiché riflette la nostra maniera di intendere la sovranità territoriale dell Stato, e il suo legittimo potere di usare la forza per proteggere i confini, come un dato naturale". G. Campesi, op. cit..

12. A. Bascherini, op. cit., pag. 213.

13. "The legitimacy of pre-removal detention, as authorised by the EU Return Directive, depends upon judicial control as the ultimate guarantor that detention will be as short as possible and be maintained only for the purpose of removal. The judiciary is thus challenged to ensure that detention is necessary and proportional in its application. The project CONTENTION (CONtrol of deTENTION) examines the different dimensions of the lawfulness of detention with differing practices and differing forms of implementation at national and European level" tratto dalla presentazione dell'omonimo progetto, reperibile al sito Contention.

14. Sen. Engel e al. c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, nn. 5100/71; 5101/71; 5102/71 5354/72; 5370/72, in cui al par. 58 "in proclaiming the 'right to liberty', paragraph 1 of Article 5 is contemplating individual liberty in its classic sense, that is to say the physical liberty of the person. Its aim is to ensure that no one should be dispossessed of this liberty in an arbitrary fashion. As pointed out by the Government and the Commission, it does not concern mere restrictions upon liberty of movement. This is clear both from the use of the terms 'deprived of his liberty', 'arrest' and 'detention', which appear also in paragraphs 2 to 5, and from a comparison between Article 5 and the other normative provisions of the Convention and its Protocols".

15. L'articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo riguarda specificatamente la libertà personale, che è il vero e proprio "bene giuridico" protetto dalla norma internazionale in questione. L'articolo, dopo aver solennemente sancito il diritto alla libertà personale e alla sicurezza dell'individuo, indica le modalità con cui legittimamente tale diritto può essere intaccato. In sintesi, la norma convenzionale prescrive che la privazione di libertà debba corrispondere a una delle ipotesi tassativamente elencate; debba essere conforme alla legge che la prescrive e disciplina; debba essere infine legittima, cioè non arbitraria. Quest'ultimo aspetto, secondo quanto affermato dalla Corte EDU, deve essere inteso nel senso che la privazione della libertà deve rispondere a "ragioni plausibili", criteri che "all'osservazione di un soggetto esterno, rendano verosimile la giustificazione della restrizione della libertà" (sen. Fox, Campell and Hartley c. Regno Unito, 30 agosto 1990, nn. 12244/86; 12245/86; 12383/86).

16. Ex multis e ad exemplum: sen. Al Nashif c. Bulgaria, 20 giugno 2002, n. 50963/99, par. 114 in cui "the Court observes that no right of an alien to enter or to reside in a particular country is as such guaranteed by the Convention. As a matter of well-established international law and subject to its treaty obligations, a State has the right to control the entry of non-nationals into its territory"; cfr. supra nota 2.

17. Sen. GC Saadi c. Regno Unito, 29 gennaio 2008, n. 13229/03 par. 64.

18. Il rule of law, che è una delle colonne portanti del meccanismo incentrato sul Consiglio d'Europa, permea ed innerva tutto il tessuto convenzionale; dunque la Corte, sotto il profilo del controllo del rispetto del diritto nazionale, si ritiene competente anche a valutare la "qualità del diritto nazionale". Quando si fa questione di un bene fondamentale come la libertà personale, le disposizioni che ammettono la sua restrizione non devono semplicemente essere scritte, ma devono altresì essere accessibili e sufficientemente precise, in modo tale da consentire una piena autodeterminazione degli individui e di rendere possibile la previsione delle conseguenze di determinati comportamenti. Ex multis e ad exemplum: sen. Kaya c. Romania, 12 ottobre 2006, n. 33970/05, par. 19 ("la Cour rappelle qu'en exigeant que toute privation de liberté soit effectuée 'selon les voies légales', l'article 5 § 1 impose, en premier lieu, que toute arrestation ou détention ait une base légale en droit interne. Toutefois, ces termes ne se bornent pas à renvoyer au droit interne; ils concernent aussi la qualité de la loi; ils la veulent compatible avec la prééminence du droit, notion inhérente à l'ensemble des articles de la Convention. Pareille qualité implique qu'une loi nationale autorisant une privation de liberté soit suffisamment accessible et précise afin d'éviter tout danger d'arbitraire"); sen. Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, n. 19776/92 par. 50 (" [...] where the 'lawfulness' of detention is in issue, including the question whether 'a procedure prescribed by law' has been followed, the Convention refers essentially to national law and lays down the obligation to conform to the substantive and procedural rules of national law, but it requires in addition that any deprivation of liberty should be in keeping with the purpose of Article 5, namely to protect the individual from arbitrariness. [...] In order to ascertain whether a deprivation of liberty has complied with the principle of compatibility with domestic law, it therefore falls to the Court to assess not only the legislation in force in the field under consideration, but also the quality of the other legal rules applicable to the persons concerned. Quality in this sense implies that where a national law authorises deprivation of liberty - especially in respect of a foreign asylum-seeker - it must be sufficiently accessible and precise, in order to avoid all risk of arbitrariness. These characteristics are of fundamental importance with regard to asylum-seekers at airports, particularly in view of the need to reconcile the protection of fundamental rights with the requirements of States' immigration policies"); sen. Dougoz c. Grecia, 6 marzo 2001, n. 40907/98, par. 55; sen. Mohd c. Grecia, 27 aprile 2006, n. 11919/03, par. 24.

19. Ex multis e ad exemplum: sen. Winterwerp c. Paesi Bassi, 24 ottobre 1979, n.6301/73, par. 37 in cui "in any event, sub-paragraph (e) of Article 5 para. 1 obviously cannot be taken as permitting the detention of a person simply because his views or behaviour deviate from the norms prevailing in a particular society. To hold otherwise would not be reconcilable with the text of Article 5 para. 1 which sets out an exhaustive list of exceptions calling for a narrow interpretation. Neither would it be in conformity with the object and purpose of Article 5 para. 1, namely to ensure that no one should be dispossessed of his liberty in an arbitrary fashion. Moreover, it would disregard the importance of the right to liberty in a democratic society"; sen. Amuur c. Francia, cit., par. 50; sen. Witold Litwa c. Polonia, 4 aprile 2000, n. 26629/95, par. 78.

20. Ex multis e ad exemplum: sen. Khodzhayev c. Russia, 12 maggio 2010, n. 52466/08, par. 135 in cui "although it is in the first place for the national authorities, notably the courts, to interpret and apply domestic law, under Article 5 § 1 failure to comply with domestic law entails a breach of the Convention and the Court can and should therefore review whether this law has been complied with"; sen. Abdolkhani e Karimnia c. Turchia, 22 settembre 2009, n. 30471/08, par. 133-135; sen. S. D. c. Grecia, 11 giugno 2009, n. 53541/07, par, 62-67; sen. Shchebet c. Russia, 12 giugno 2008, n. 16074/07, par. 68; sen. Galliani c. Romania, 10 giugno 2008, n. 69273/01, par. 47; sen. Sadaykov c. Bulgaria, 22 maggio 2008, n.75157/01, par. 25; sen. Hussain c. Romania, 14 febbraio 2008, n.12338/02, par. 94; sen. Garabayev c. Russia, 7 giugno 2007, n. 38411/02, par. 88; sen. John c. Grecia, 10 maggio 2007, n.199/05, par. 33 e ss.

21. Si tratta della sen. Seferovic c. Italia, 8 febbraio 2011, n.12921/04 in cui ai par. 39 e ss. "la Corte osserva anzitutto che la ricorrente è stata collocata nel centro di permanenza temporanea l'11 novembre 2003 e che il provvedimento che disponeva il suo trattenimento è stato convalidato dal giudice competente. Tuttavia, il 24 dicembre 2003, il tribunale di Roma ha dichiarato nulli i decreti di espulsione e di trattenimento in quanto viziati da illegalità. Tra i motivi dell'annullamento vi è il fatto che, conformemente all'articolo 19 della legge sull'immigrazione n. 286 del 1998, la ricorrente non poteva essere oggetto di espulsione poiché aveva dato alla luce il suo ultimogenito il 26 settembre 2003, e ciò indipendentemente dal fatto che il neonato fosse deceduto. Pertanto, ai sensi del diritto interno, le autorità non avevano il potere di disporre la detenzione della ricorrente. Inoltre, le autorità nazionali erano a conoscenza del fatto che la ricorrente aveva recentemente partorito. Tenuto conto di questi elementi, la Corte considera che la situazione in oggetto si traduce in una irregolarità grave e manifesta ai sensi della sua giurisprudenza. In queste circostanze, la Corte conclude che la detenzione della ricorrente ai fini della sua espulsione non sia stata conforme alle vie legali. Pertanto, vi è stata violazione dell'articolo 5 § 1 f) della Convenzione".

22. Alludiamo a sen. Hokic e Hrustic c. Italia, 1 dicembre 2009, n. 3449/05 in cui al par. 23 e ss. "nel presente caso, la Corte deve basarsi sulla questione di sapere se l'ordine di arresto del questore di Roma fondato sui decreti di espulsione costituiva una base legale per la privazione di libertà dei ricorrenti fino all'annullamento di detti decreti. La sola circostanza che tali decreti siano stati successivamente annullati non vizia, come tale, la legalità della detenzione per il periodo precedente. Per determinare se l'articolo 5 § 1 della Convenzione sia stato rispettato, è opportuno fare una distinzione fondamentale tra i titoli di detenzione manifestamente invalidi - per esempio, quelli che sono emessi da un tribunale al di fuori della sua competenza - e i titoli di detenzione che sono prima facie validi ed efficaci fino al momento in cui sono annullati da un'altra giurisdizione interna. Nel caso di specie, non è stato dedotto che il questore di Roma abbia agito al di fuori delle sue competenze. Ai sensi del diritto interno, aveva il potere di arrestare i ricorrenti. I decreti di espulsione sono stati annullati unicamente perché il giudice di pace ha constatato, nel corso del procedimento, che i ricorrenti erano nei fatti stati titolari di un permesso di soggiorno ma che dopo la sua scadenza, in difetto del suo rinnovo, essi soggiornavano irregolarmente sul territorio italiano. La Corte ritiene che tale situazione non si inquadra in un'irregolarità grave e manifesta ai sensi della sua giurisprudenza. La Corte non ritiene che le autorità abbiano agito in malafede o che non si siano impegnate ad applicare correttamente la legislazione pertinente. Chiaramente, un malinteso ha indotto le autorità interne a temere che i ricorrenti avessero sempre avuto una situazione irregolare. Questo non significa, comunque, che la detenzione fosse illegale o che il provvedimento che ordinava la privazione di libertà fosse invalido o che i decreti di espulsione sui quali tale provvedimento si basava fossero prima facie invalidi. In tali circostanze, la Corte non potrebbe concludere che la detenzione dei ricorrenti in vista della loro espulsione non era conforme ai modi previsti dalla legge o che fosse stata o altrimenti contraria all'articolo 5 § 1 della Convenzione. Ne consegue che questa parte del ricorso è manifestamente infondata e deve essere rigettata conformemente all'articolo 35 § 3 e 4 della Convenzione".

23. La nozione di arbitrarietà applicata alle ipotesi previste nei sottoparagrafi (b), (d) ed (e) implica che si valuti anche se la detenzione era necessaria per raggiungere l'obiettivo dichiarato. La detenzione di un individuo è infatti una misura così grave che si giustifica solo in ultima istanza, quando altre misure meno severe sono state prese in considerazione e ritenute insufficienti a salvaguardare l'interesse individuale o pubblico che esige la detenzione della persona coinvolta. Ex multis e ad exemplum: sen. Witold Litwa c. Polonia, cit., par. 78; sen. Hilda Hafsteinsdóttir c. Islanda, 8 giugno 2004, n. 40905/98, par. 51; sen. Enhorn c. Svezia, 25 gennaio 2005, n. 56529/00, par. 44.

24. Ex multis e ad exemplum: sen. Seferovic c. Italia, cit., in cui al par. 37 " [...] La Corte ricorda infine che la conformità all'articolo 5 § 1 presuppone un legame 'tra, da una parte, il motivo addotto per la privazione di libertà autorizzata e, dall'altra, il luogo e il regime di detenzione'. Tale disposizione non esige che la detenzione di una persona contro la quale è in corso una procedura di espulsione sia considerata ragionevolmente necessaria, per esempio per impedirle di commettere un reato o di darsi alla fuga; a questo riguardo, l'articolo 5 par. 1 f) non prevede la stessa protezione rispetto all'articolo 5 par. 1 c). Per non essere tacciata di arbitrio, l'applicazione di tale misura di detenzione deve dunque essere fatta in buona fede; essa deve anche essere strettamente legata allo scopo che consiste nell'impedire a una persona di introdursi irregolarmente nel territorio nazionale; inoltre, il luogo e le condizioni di detenzione devono essere adeguati; infine, la durata della detenzione non deve eccedere il termine ragionevole necessario per raggiungere lo scopo perseguito"; Sen. Abdolkhani e Karimnia c. Turchia, cit., par. 129 in cui "article 5 § 1(f) does not require the detention to be reasonably considered necessary, for example to prevent the individual from committing an offence or fleeing. Any deprivation of liberty under the second limb of Article 5 § 1(f) will be justified as long as deportation or extradition proceedings are in progress. However, if such proceedings are not prosecuted with due diligence, the detention will cease to be permissible under Article 5 § 1(f)".

25. Sen. GC Chahal c. Regno Unito, 15 novembre 1996, n. 22414/93 in cui, al par. 112: "article 5 para. 1 (f) does not demand that the detention of a person against whom action is being taken with a view to deporation be reasonably considered necessary, for example to prevent his committing an offende or fleeing; in this respect Aricle 5 para. 1 (f) provedes a different level of protection from Article 5 para. 1 (c). Indeed, all that is required under this provision is that 'action is being taken with a view to deportation'. It is therefore immaterial, for the purposes of Article 5 para. 1 (f), whether the underlying decision to expel can be justified under national or Convention law". Si ricorda altresì la sen. Hussain c. Romania, cit., par. 87; sen. GC Slivenko c. Lettonia, 9 ottobre 2003, n. 48321/99, par. 146; sen. Conka c. Belgio, 5 febbraio 2002, n.51564/99, par. 38.

26. Sen. Saadi c. Regno Unito, cit. par. 73.

27. Direttiva 2008/115/CE, la quale si applica a tutti gli Stati Membri della Piccola Europa (con l'eccezione del Regno Unito e dell'Irlanda), e anche ad altri Stati formalmente estranei all'organizzazione internazionale, ma partecipanti all'acquis Schengen, di cui la direttiva costituisce uno sviluppo (Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera), in conformità a quanto specificato ai Considerando nn. 26 e ss della direttiva. In ogni caso, la direttiva sarà oggetto di specifica analisi infra al par. 2.2 "La direttiva 2008/115/CE come occasione di pronuncia della Corte di Giustizia dell'Unione europea".

28. Sen. Raza c. Bulgaria, 11 febbraio 2010, n. 31465/08, par 74, in cui "it is true Mr Raza did not spend such a long time in detention as the applicants in certain other cases, such as Chahal. However, Mr Chahal's deportation was blocked, throughout the entire period under consideration, by the fact that proceedings were being actively and diligently pursued with a view to determining whether it would be lawful and compatible with the Convention to proceed with his deportation. By contrast, the delay in the present case was not at all due to the need to wait for the courts to determine the legal challenge brought by Mr Raza against his deportation. Indeed, his request for a stay of the enforcement of the expulsion order was denied as early as 7 December 2006, and the Government conceded that the only reason for the delay was the failure to secure the necessary travel documents from the Pakistani authorities. It should also be observed that after his release on 15 July 2008 Mr Raza was placed under an obligation to report to his local police station at regular intervals. This shows that the authorities had at their disposal measures other than the applicant's protracted detention to secure the enforcement of the order for his expulsion. Lastly, the Court notes that after the events in issue in the present case Bulgarian law was changed, in line with the recent European Union Directive 2008/115/EC on common standards and procedures in Member States for returning illegally staying third-country nationals, and now provides that in situations akin to Mr Raza's, where deportation is blocked by the failure of a third country to deliver the necessary travel documents, detention cannot exceed eighteen months. Mr Raza's detention was markedly longer. In view of the foregoing, the Court concludes that the grounds for Mr Raza's detention - action taken with a view to his deportation - did not remain valid for the whole period of his detention due to the authorities' failure to conduct the proceedings with due diligence. There has therefore been a violation of Article 5 § 1 of the Convention".

29. Sen. Bozano c. Francia, 18 dicembre 1986, n. 9990/82, par. 60 in cui: "viewing the circumstances of the case as a whole and having regard to the volume of material pointing in the same direction, the Court consequently concludes that the applicant's deprivation of liberty in the night of 26 to 27 October 1975 was neither 'lawful', within the meaning of Article 5 § 1 (f), nor compatible with the 'right to security of person'. Depriving Mr. Bozano of his liberty in this way amounted in fact to a disguised form of extradition designed to circumvent the negative ruling of 15 May 1979 by the Indictment Division of the Limoges Court of Appeal, and not to 'detention' necessary in the ordinary course of 'action ... taken with a view to deportation'. The findings of the presiding judge of the Paris tribunal de grande instance - even if obiter - and of the Limoges Administrative Court, even if that court had only to determine the lawfulness of the order of 17 September 1979, are of the utmost importance in the Court's view; they illustrate the vigilance displayed by the French courts. There has accordingly been a breach of Article 5 § 1 (art. 5-1) of the Convention".

30. Sen. Eshonkulov c. Russia, 15 gennaio 2015, n. 68900/13, par. 65 in cui "in so far as the applicant claimed that the real purpose of the expulsion proceedings was to keep him in custody pending the outcome of the extradition proceedings, the Court reiterates that detention may be unlawful if its stated purpose differs from the real one. The Court reiterates that in Azimov, it found that a decision ordering the applicant's detention pending expulsion had served to circumvent the maximum time-limits laid down in the domestic law for detention pending extradition and that there was evidence of a recurrent practice of Russian authorities to use the expulsion procedure instead of extradition. The applicant's situation was substantially similar to that of Mr Azimov: the maximum time-limit authorised under the Russian law in the extradition proceedings expired five days after the extradition request had been granted and his further detention in the framework of the extradition proceedings was legally impossible. Having regard to further evidence which the applicant's submitted in support of his claim of an administrative practice of substituting expulsion for extradition, such as the unpublished order of the Moscow Region prosecutor, no. 86/81 of 3 July 2009, the existence and content of which the Government did not dispute, the Court considers it plausible that the new ground for detention (the expulsion decision) was cited primarily to circumvent the requirements of the domestic law which set a maximum time-limit for the extradition detention. The Court reiterates in this respect 'detention under Article 5 § 1 (f) must be carried out in good faith' and 'must be closely connected to the ground of detention relied on by the Government'. It appears that those two conditions have not been met in the present case, at least during the period when the applicant's extradition proceedings were still pending, and probably even after they were over".

31. Sen. Conka c. Belgio, cit., par. 42: "the Court reiterates that the list of exceptions to the right to liberty secured in Article 5 § 1 is an exhaustive one and only a narrow interpretation of those exceptions is consistent with the aim of that provision. In the Court's view, that requirement must also be reflected in the reliability of communications such as those sent to the applicants, irrespective of whether the recipients are lawfully present in the country or not. It follows that, even as regards overstayers, a conscious decision by the authorities to facilitate or improve the effectiveness of a planned operation for the expulsion of aliens by misleading them about the purpose of a notice so as to make it easier to deprive them of their liberty is not compatible with Article 5".

32. Sen. Mikolenko c. Estonia, cit., par. 64 e ss: "the Court observes that the applicant's detention with a view to expulsion was extraordinarily long. He was detained for more than three years and eleven months. While in the beginning of his detention the domestic authorities took steps to have documents issued to him, it must have become clear quite soon that these attempts were bound to fail as the applicant refused to co-operate and the Russian authorities were not prepared to issue him documents in the absence of his signed application, or to accept a temporary travel document the Estonian authorities were ready to issue. Indeed, the Russian authorities had made their position clear in both respects by as early as June 2004. Thereafter, although the Estonian authorities took repeated steps to solve the situation, there were also considerable periods of inactivity. In particular, the Court has been provided with no information on whether any steps with a view to the applicant's deportation were taken from August 2004 to March 2006.What is more, the applicant's expulsion had become virtually impossible as for all practical purposes it required his co-operation, which he was not willing to give. While it is true that States enjoy an 'undeniable sovereign right to control aliens' entry into and residence in their territory', the aliens' detention in this context is nevertheless only permissible under Article 5 § 1 (f) if action is being taken with a view to their deportation. The Court considers that in the present case the applicant's further detention cannot be said to have been effected with a view to his deportation as this was no longer feasible. It is true that at some point the Estonian authorities could legitimately have expected that the applicant could be removed on the basis of the EU-Russia readmission agreement once it entered into force, as under this agreement the Russian authorities were required to issue travel documents to persons to be readmitted irrespective of their will. However, the agreement entered into force only on 1 June 2007, which was about three years and seven months after the applicant was placed in detention. In the Court's opinion the applicant's detention for such a long time even if the conditions of detention as such were adequate could not be justified by an expected change in the legal circumstances".

33. Ex multis e ad exemplum: sen. Quinn c. Francia, 22 marzo 1995, n. 18580/91, par. 48 ("the Court notes nevertheless that the applicant's detention with a view to extradition was unusually long. He was detained in connection with the extradition proceedings from 4 August 1989 to 10 July 1991, almost two years. Thereafter he served the sentence imposed by the Paris Court of Appeal until 24 September 1992, on which date he was surrendered to the Swiss authorities pursuant to the order of 24 January 1991. It is clear from the wording of both the French and the English versions of Article 5 para. 1 (f) that deprivation of liberty under this sub-paragraph will be justified only for as long as extradition proceedings are being conducted. It follows that if such proceedings are not being prosecuted with due diligence, the detention will cease to be justified under Article 5 para. 1 (f). The Court notes that, at the different stages of the extradition proceedings, there were delays of sufficient length to render the total duration of those proceedings excessive: the first decision on the merits, a preliminary decision, was given on 2 November 1989, three months after the applicant had been placed in detention pending extradition, and the extradition order was not made until 24 January 1991, ten months after the Indictment Division's favourable opinion. The remedies of which Mr Quinn availed himself over this period did not significantly delay the proceedings. The detention with a view to extradition continued until 10 July 1991, well after the adoption of the extradition order, as the applicant's surrender to the Swiss authorities was postponed, in accordance with Article 19 para. 1 of the European Convention on Extradition, on account of the criminal proceedings conducted in France at the same time. It is not the Court's role to determine what measures the national authorities should have taken in these circumstances to ensure that the detention pending extradition, which had already exceeded a reasonable time by 24 January 1991, did not last even longer, especially in view of the fact that such detention could not be deducted from the sentence imposed in France. There has accordingly been a violation of Article 5 para. 1 of the Convention on this point too"); sen. Kolompar c. Belgio 24 settembre 1992, n. 11613/85, par. 36.

34. Ex multis e ad exemplum: sen. Tabesh c. Grecia, 26 novembre 2009, n. 8256/07, par. 55 e ss.; sen. Bordovskiy c. Russia, 8 febbraio 2005, n.49491/99, par 50; sen. Singh c. Repubblica Ceca 25 gennaio 2005, n. 60538/00, par 62 e ss.

35. Sen. Chahal c. Francia, cit. par. 117.

36. Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 "recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare". Le critiche sono piovute numerose su tale strumento normativo, in particolare a causa della prevalenza accordata alle esigenze securitarie e di controllo dei flussi migratori; critiche mosse dalla comunità politica (si può ricordare il giudizio severo dei leader dei paesi latinoamericani), dalle organizzazioni internazionali governative e non governative in materia di diritti umani, dalla società civile e anche dalla comunità scientifica. A. Algostino, "La direttiva 'rimpatri': la fortezza Europa alza le mura", in Forum di Quaderni Costituzionali; C. Favilli, "La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di paesi terzi", in Osservatorio sulle fonti, 2/2009.

37. Considerando n. 4 della direttiva 2008/115/CE.

38. Considerando n. 2 della direttiva 2008/115/CE.

39. Articolo 2 TUE.

40. Art. 3 DCE 2008/115.

41. G. Cornelisse, "Case C-357/09 PPU, proceedings concerning Said Shamilovich Kadzoev (Huchbarov), Judgement of the European Court of Justice (Grand Chamber) of 30 November 2009", in Common Market Law Review, 2011, pagg. 927 e ss.

42. Art. 15.1: salvo se nel caso concreto possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive, gli Stati membri possono trattenere il cittadino di un paese terzo sottoposto a procedure di rimpatrio soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l'allontanamento, in particolare quando:

  1. sussiste un rischio di fuga o
  2. il cittadino del paese terzo evita od ostacola la preparazione del rimpatrio o dell'allontanamento.

43. Art. 15.2: il trattenimento è disposto dalle autorità amministrative o giudiziarie.

Il trattenimento è disposto per iscritto ed è motivato in fatto e in diritto.

Quando il trattenimento è disposto dalle autorità amministrative, gli Stati membri:

  1. prevedono un pronto riesame giudiziario della legittimità del trattenimento su cui decidere entro il più breve tempo possibile dall'inizio del trattenimento stesso,
  2. oppure accordano al cittadino di un paese terzo interessato il diritto di presentare ricorso per sottoporre a un pronto riesame giudiziario la legittimità del trattenimento su cui decidere entro il più breve tempo possibile dall'avvio del relativo procedimento. In tal caso gli Stati membri informano immediatamente il cittadino del paese terzo in merito alla possibilità di presentare tale ricorso.

Il cittadino di un paese terzo interessato è liberato immediatamente se il trattenimento non è legittimo.

44. Art. 15.1 (alinea finale): il trattenimento ha durata quanto più breve possibile ed è mantenuto solo per il tempo necessario all'espletamento diligente delle modalità di rimpatrio.

45. Art. 15.5: il trattenimento è mantenuto finché perdurano le condizioni di cui al paragrafo 1 e per il periodo necessario ad assicurare che l'allontanamento sia eseguito. Ciascuno Stato membro stabilisce un periodo limitato di trattenimento, che non può superare i sei mesi.

Art. 15.6: gli Stati membri non possono prolungare il periodo di cui al paragrafo 5, salvo per un periodo limitato non superiore ad altri dodici mesi conformemente alla legislazione nazionale nei casi in cui, nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, l'operazione di allontanamento rischia di durare più a lungo a causa:

  1. della mancata cooperazione da parte del cittadino di un paese terzo interessato, o
  2. dei ritardi nell'ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi.

46. Art. 15.4: quando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi o che non sussistono più le condizioni di cui al paragrafo 1, il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata.

Art. 15.5: il trattenimento è mantenuto finché perdurano le condizioni di cui al paragrafo 1 e per il periodo necessario ad assicurare che l'allontanamento sia eseguito.

47. Art. 16: il trattenimento avviene di norma in appositi centri di permanenza temporanea. Qualora uno Stato membro non possa ospitare il cittadino di un paese terzo interessato in un apposito centro di permanenza temporanea e debba sistemarlo in un istituto penitenziario, i cittadini di paesi terzi trattenuti sono tenuti separati dai detenuti ordinari.

I cittadini di paesi terzi trattenuti hanno la possibilità - su richiesta - di entrare in contatto, a tempo debito, con rappresentanti legali, familiari e autorità consolari competenti.

Particolare attenzione è prestata alla situazione delle persone vulnerabili. Sono assicurati le prestazioni sanitarie d'urgenza e il trattamento essenziale delle malattie.

I pertinenti e competenti organismi ed organizzazioni nazionali, internazionali e non governativi hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea di cui al paragrafo 1, nella misura in cui essi sono utilizzati per trattenere cittadini di paesi terzi in conformità del presente capo. Tali visite possono essere soggette ad autorizzazione.

I cittadini di paesi terzi trattenuti sono sistematicamente informati delle norme vigenti nel centro e dei loro diritti e obblighi. Tali informazioni riguardano anche il loro diritto, ai sensi della legislazione nazionale, di mettersi in contatto con gli organismi e le organizzazioni di cui al paragrafo 4.

48. Art. 18: nei casi in cui un numero eccezionalmente elevato di cittadini di paesi terzi da rimpatriare comporta un notevole onere imprevisto per la capacità dei centri di permanenza temporanea di uno Stato membro o per il suo personale amministrativo o giudiziario, sino a quando persiste la situazione anomala detto Stato membro può decidere di accordare per il riesame giudiziario periodi superiori a quelli previsti dall'articolo 15, paragrafo 2, terzo comma, e adottare misure urgenti quanto alle condizioni di trattenimento in deroga a quelle previste all'articolo 16, paragrafo 1, e all'articolo 17, paragrafo 2.

Nulla nel presente articolo può essere interpretato nel senso che gli Stati membri siano autorizzati a derogare al loro obbligo generale di adottare tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi ad essi incombenti ai sensi della presente direttiva.

All'atto di ricorrere a tali misure eccezionali, lo Stato membro in questione ne informa la Commissione. Quest'ultima è informata anche non appena cessino di sussistere i motivi che hanno determinato l'applicazione delle suddette misure eccezionali.

È stato notato come, nonostante le "precauzioni" del Legislatore europeo, una simile disposizione favorisca "l'associazione tra fenomeno criminale ed immigrazione irregolare e non considera che le esigenze dei trattenuti - in particolare modo di quelli rientranti nella categoria delle cd. Persone vulnerabili - sono completamente distinte da quelle dei detenuti e richiederebbero la presenza di operatori la cui formazione è evidentemente diversa da quella ricevuta dal personale penitenziario". M. Borraccetti, "Il rimpatrio di cittadini irregolari: armonizzazione (blanda) con attenzione (scarsa) ai diritti delle persone", in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 1/2010, pag. 38.

49. Art. 17: i minori non accompagnati e le famiglie con minori sono trattenuti solo in mancanza di altra soluzione e per un periodo adeguato il più breve possibile.

Le famiglie trattenute in attesa di allontanamento usufruiscono di una sistemazione separata che assicuri loro un adeguato rispetto della vita privata.

Ai minori trattenuti è offerta la possibilità di svolgere attività di svago, tra cui attività di gioco e ricreative consone alla loro età e, in funzione della durata della permanenza, è dato accesso all'istruzione.

Ai minori non accompagnati è fornita, per quanto possibile, una sistemazione in istituti dotati di personale e strutture consoni a soddisfare le esigenze di persone della loro età.

L'interesse superiore del bambino costituisce un criterio fondamentale per il trattenimento dei minori in attesa di allontanamento.

50. A. Romano, op. cit., pag. 1492.

51. F. Spitaleri, "L'interpretazione della direttiva rimpatri tra efficienza del sistema e tutela dei diritti dello straniero", in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, XV, 1-2013, pagg. 16-17.

52. Sen. CG El Dridi, 28 aprile 2011, C-61/11 PPU. La Corte di Giustizia valuta alcune disposizioni del Testo Unico sull'Immigrazione (d. lgs 25 luglio 1998, n. 286) come modificato dalla legge 24/2009 (il cosiddetto "Pacchetto Sicurezza") e afferma l'incompatibilità con il diritto europeo della norma che sancisce la reclusione del migrante per violazione dell'ordine di allontanamento del questore: secondo il meccanismo disposto dall'art. 14, comma 5-ter e 5-quater infatti, lo straniero che, colpito da un ordine di espulsione, continui a soggiornare sul territorio nazionale, è punibile con reclusione da uno a cinque anni; una volta espiata la pena, il migrante è destinatario di un altro ordine di espulsione che, se nuovamente disatteso, può dare luogo alla sanzione punitiva. Tra i commenti a tale sentenza, ex multis e ad exemplum: C. Amalfitano, "La reclusione degli immigrati irregolari per violazione dell'ordine di allontanamento del questore non è compatibile con le prescrizioni della c.d. direttiva rimpatri", in Cassazione Penale, fasc. 7-8/2011; A. di Martino, R. Raffaelli, "La libertà di Bertoldo: 'direttiva rimpatri' e diritto penale italiano", in Diritto Penale Contemporaneo.

53. Sen. CG Achughbabian, 6 dicembre 2011, C-329/11 PPU con cui la Corte di Giustizia valuta la compatibilità con la direttiva rimpatri di alcune disposizioni del Codice francese dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri e del diritto d'asilo (Ceseda). In particolare, vengono esaminati l'art. 621.1 che punisce con le pene congiunte della reclusione e dell'ammenda lo straniero che sia entrato o abbia soggiornato in Francia in assenza dei documenti o dei visti richiesti, o che, se maggiorenne, vi si sia trattenuto per un periodo superiore a tre mesi senza munirsi del permesso di soggiorno.

L. D'Ambrosio, "Se una notte d'inverno un sans papiers: la Corte di Giustizia dichiara il reato di ingresso e soggiorno irregolare 'conforme' e 'non conforme' alla direttiva rimpatri", in Diritto Penale Contemporaneo.

54. Sen. CG Sagor, 6 dicembre 2012, C-430/11 in cu la Corte di Giustizia valuta la compatibilità con la direttiva rimpatri dell'art. 10 bis del Testo Unito sull'Immigrazione italiano, riguardante il reato di ingresso e soggiorno illegale sul territorio, in combinato con altre disposizioni del decreto legislativo n. 286/1998, (in particolare l'art. 16) e del decreto legislativo 274/2000 sulla competenza penale del giudice di pace.

55. La Corte di Giustizia, ex articolo 99 del proprio regolamento di procedura, si pronuncia con ordinanza motivata quando la risposta ad una questione pregiudiziale può chiaramente essere desunta dalla propria giurisprudenza, su proposta del relatore e sentito l'Avvocato Generale. L'ordinanza Mbaye, 21 marzo 2013, C-522/11 fa specificatamente riferimento alla sen. Sagor, ed infatti la questione proposta dal giudice italiano riguarda anche in questo caso l'articolo 10 bis, in combinato con altre disposizioni del decreto legislativo n. 286/1998.

56. Nel commentare la sen. El Dridi, Andrea Natale e Carlo Renoldi affermano che "non [è] una decisione buonista, dunque, diversamente da come è stata invece percepita nel nostro Paese. Al contrario, con essa la Corte di giustizia rende manifesto che la normativa europea in materia di immigrazione non è animata da pregiudiziali e ideologiche intenzioni umanitarie (né può essere interpretata come tale) bensì dal concreto intento di dare effettività alle decisioni di rimpatrio. Pur non trascurando, come proprio oggetto di tutela, il concomitante obiettivo preso in considerazione dal legislatore comunitario - e cioè la libertà del cittadino di Paese terzo- la Corte tuttavia lo lascia, per così dire, sullo sfondo della propria ratio decidendi". A. Natale, C. Renoldi, op. cit., pag. 14.

57. "Se gli obiettivi della direttiva consistono [...] nel raggiungimento di una politica efficace in materia di rimpatrio e nella corrispondente tutela dei diritti fondamentali e della dignità dei migranti, indubbiamente la pronuncia della Corte di Giustizia [i.e. la sen. El Dridi], nel profilare il contrasto tra la normativa interna e quella comunitaria, tende soprattutto a mettere in luce il primo aspetto, rilevando, in sostanza, che è innanzitutto l'efficacia del sistema di rimpatrio previsto dalla direttiva ad essere compromessa". A. Romano, op. cit., pag. 1495.

58. Sen. CG El Dridi, cit. par 53 e ss.: "occorre tuttavia rilevare che, se è vero che la legislazione penale e le norme di procedura penale rientrano, in linea di principio, nella competenza degli Stati membri, su tale ambito giuridico può nondimeno incidere il diritto dell'Unione (v. in questo senso, in particolare, sen. Casati, 11 novembre 1981, C-203/80; sen. Cowan, 2 febbraio 1989, C-186/87; sen. Lemmens, 16 giugno 1998 C-226/97). Di conseguenza, sebbene né l'art. 63, primo comma, punto 3, lett. b), CE - disposizione che è stata ripresa dall'art. 79, n. 2, lett. c), TFUE - né la direttiva 2008/115, adottata in particolare sul fondamento di detta disposizione del Trattato CE, escludano la competenza penale degli Stati membri in tema di immigrazione clandestina e di soggiorno irregolare, questi ultimi devono fare in modo che la propria legislazione in materia rispetti il diritto dell'Unione. In particolare, detti Stati non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare così quest'ultima del suo effetto utile. Infatti, ai sensi rispettivamente del secondo e del terzo comma dell'art. 4, n. 3, TUE, gli Stati membri, in particolare, 'adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione' e 'si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione', compresi quelli perseguiti dalle direttive".

59. La disposizione in questione è precisamente l'articolo 14 comma 5ter del Testo Unico sull'Immigrazione (d. lgs 25 luglio 1998, n. 286) come modificato dalla legge 24/2009 (il cosiddetto "Pacchetto Sicurezza") che puniva il reato di inottemperanza all'ordine di allontanamento disposto dal questore con la reclusione da uno a quattro anni.

60. Sen. CG El Dridi, cit., par. 34 e ss.: "occorre del pari rilevare che la direttiva 2008/115 stabilisce con precisione la procedura che ogni Stato membro è tenuto ad applicare al rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare e fissa la successione delle diverse fasi di tale procedura. In tal senso, l'art. 6, n. 1, di detta direttiva prevede anzitutto, in via principale, l'obbligo per gli Stati membri di adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio sia irregolare. Nell'ambito di questa prima fase della procedura di rimpatrio va accordata priorità, salvo eccezioni, all'esecuzione volontaria dell'obbligo derivante dalla decisione di rimpatrio; in tal senso, l'art. 7, n. 1, della direttiva 2008/115 dispone che detta decisione fissa per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni. Risulta dall'art. 7, nn. 3 e 4, di detta direttiva che solo in circostanze particolari, per esempio se sussiste rischio di fuga, gli Stati membri possono, da un lato, imporre al destinatario di una decisione di rimpatrio l'obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, di prestare una garanzia finanziaria adeguata, di consegnare i documenti o di dimorare in un determinato luogo oppure, dall'altro, concedere un termine per la partenza volontaria inferiore a sette giorni o addirittura non accordare alcun termine".

61. Sen. CG El Dridi, cit., par. 59.

62. Sen.CG Achughbabian, cit. par. 37.

63. Sen. CG Achughbabian, cit. par. 39.

64. Sen. CG Achughbabian, cit. par. 45. La Corte specifica inoltre, ai par. 38 e ss.: "infine, è pacifico che la normativa nazionale oggetto della causa principale, prevedendo la pena della reclusione per il cittadino di un paese terzo che abbia più di 18 anni e soggiorni in modo irregolare in Francia dopo che è scaduto il termine di tre mesi dal suo ingresso nel territorio francese, può comportare la reclusione, mentre, secondo le norme e procedure comuni sancite dagli artt. 6, 8, 15 e 16 della direttiva 2008/115, a tale cittadino di un paese terzo deve essere applicata, in via prioritaria, una procedura di rimpatrio e, per quanto riguarda l'eventuale privazione della libertà, egli può subire tutt'al più un trattenimento. Pertanto, una normativa nazionale come quella oggetto della causa principale è idonea ad ostacolare l'applicazione delle norme e delle procedure comuni stabilite dalla direttiva 2008/115 e a ritardare il rimpatrio, pregiudicando quindi, alla stessa stregua della normativa oggetto della causa sfociata nella citata sentenza El Dridi, l'effetto utile di detta direttiva".

65. Paradosso che consiste nel fatto che "ciò che - oltre i patri confini - costituisce una compressione dei diritti di libertà inaccettabili dalla cultura giuridica più sensibile [i.e. la direttiva rimpatri], in Italia, per un curioso fenomeno di eterogenesi dei fini, assume invece i connotati di una leva attraverso cui ingentilire il nostro diritto dell'immigrazione, con una estensione dell'area delle garanzie poste a tutela dei diritti dei migranti". A. Natale, C. Renoldi, op. cit., pag. 9.

66. A. Romano, op. cit., pag. 1497.

67. Sen. CG Achughbabian, cit., par. 29-30.

68. Si tratta precisamente dell'articolo 10 bis del Testo Unico sull'immigrazione italiano (d. lgs 286/1998) alla cui stregua il reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio è sanzionato con l'ammenda da cinquemila a diecimila euro. L'art. 16 del citato decreto, prevede poi che "il giudice [...], nel pronunciare sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 10 bis [...] può sostituire la medesima pena con la misura dell'espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni [...]". In più, il decreto legislativo n. 274/2000 (sulla competenza penale del giudice di pace in cui rientra anche il reato previsto all'art. 10 bis) prevede all'articolo 55 che "per i reati di competenza del giudice di pace, la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato si converte, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi [...]. Se il condannato non richiede di svolgere il lavoro sostitutivo, le pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità si convertono nell'obbligo di permanenza domiciliare [...]". Tale 'permanenza domiciliare' comporta "l'obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica; il giudice, avuto riguardo alle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato, può disporre che la pena venga eseguita in giorni diversi della settimana ovvero, a richiesta del condannato, continuativamente. La durata della permanenza domiciliare non può essere inferiore a sei giorni né superiore a quarantacinque; il condannato non è considerato in stato di detenzione" (art. 53, d.lgs. citato).

69. Sen. CG Sagor, cit., par 31 (che richiama tra l'altro la sen. CG Achugbaban, cit., par. 28).

70. Tale constatazione è corroborata dal comma 5 dell'articolo 10 bis del d. lgs 286/1998, alla cui stregua il giudice, acquisita la notizia dell'esecuzione dell'espulsione, pronuncia sentenza di non luogo a procedere per il reato de qua.

71. In particolare di quanto enunciato agli artt. 6; 8; 15; 16 della direttiva 2008/115.

72. Sen. CG Sagor, cit., par. 38-39: "è giocoforza constatare che siffatta facoltà non è neanch'essa, di per sé, vietata dalla direttiva 2008/115.Infatti, come avvalorato dalla definizione elastica della nozione di 'decisione di rimpatrio' che compare all'articolo 3, punto 4, di tale direttiva, quest'ultima non osta a che la decisione che impone l'obbligo di rimpatrio sia, in talune ipotesi determinate dallo Stato membro interessato, adottata sotto forma di una pronuncia giudiziaria di carattere penale. Allo stesso modo, nella direttiva 2008/115 nulla osta a che l'allontanamento previsto all'articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva sia realizzato nel contesto di un procedimento penale. Del resto, la circostanza che una pena d'espulsione, come quella prevista dalla disciplina di cui trattasi nel procedimento principale, comporti un obbligo di rimpatrio immediatamente esecutivo e non esiga quindi l'adozione ulteriore di una separata decisione recante allontanamento dell'interessato non è in contrasto neppure con le norme e con le procedure comuni sancite dalla direttiva 2008/115, come attestato dalla formulazione dell'articolo 6, paragrafo 6, di detta direttiva e dal termine 'possono' impiegato all'articolo 8, paragrafo 3, della medesima".

73. Sen. Sagor, cit., par. 40-41: "è pur vero che, come ha osservato la Commissione europea, una pena d'espulsione come quella prevista nella disciplina di cui trattasi nel procedimento principale è caratterizzata dall'assenza di qualsiasi possibilità per l'interessato di vedersi concedere un periodo di tempo per la partenza volontaria ai sensi dell'articolo 7 della direttiva 2008/115. Si deve tuttavia osservare, al riguardo, che il paragrafo 4 di detto articolo 7 consente agli Stati membri di astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria, in particolare, qualora esista il rischio che l'interessato fugga per sottrarsi alla procedura di rimpatrio. Qualsiasi valutazione al riguardo deve fondarsi su un esame individuale della fattispecie in cui è coinvolto l'interessato". Fabio Spitaleri censura la decisione perché "consentendo l'espulsione immediata, senza limitare tale facoltà [alle ipotesi in cu sussiste un concreto rischio di fuga o taluna delle altre circostanze espressamente elencate all'art. 7 della direttiva 2008/115/CE], la legislazione italiana viola in maniera piuttosto evidente il diritto dello straniero alla partenza volontaria. In effetti, la legge non fornisce alcuna specificazione delle condizioni in presenza delle quali il giudice può operare siffatta sostituzione. Secondo la normativa italiana, essa dovrebbe quindi poter essere disposta anche se non sussistono le specifiche circostanze previste dalla direttiva. Quel che dovrebbe essere l'eccezione, nella legislazione italiana è considerata invece la regola". F. Spitaleri, op. cit., pag. 31.

74. Ord. CG Mbaye, cit., par. 32.

75. Sen. CG Sagor, cit., par. 43 e ss.: "tanto dal dovere di lealtà degli Stati membri quanto dalle esigenze di efficacia ricordata dalla direttiva 2008/115 discende che l'obbligo che l'articolo 8 di tale direttiva impone agli Stati membri di procedere all'allontanamento deve essere adempiuto con la massima celerità (sen. Achughbabian, cit., par. 45). È evidente che irrogare ed eseguire una pena di permanenza domiciliare nel corso della procedura di rimpatrio prevista dalla direttiva 2008/115 non contribuisce alla realizzazione dell'allontanamento che detta procedura persegue, ossia al trasporto fisico dell'interessato fuori dello Stato membro in parola. Siffatta pena, pertanto, non integra una 'misura' o una 'misura coercitiva' ai sensi dell'articolo 8 della direttiva 2008/115 (sen. Achughbabian, cit., par. 37). Inoltre, l'obbligo di permanenza domiciliare è idoneo a ritardare e, quindi, ad ostacolare quelle misure, come l'accompagnamento alla frontiera e il rimpatrio forzato per via aerea, che contribuiscono, invece, alla realizzazione dell'allontanamento. Siffatto rischio di pregiudizio alla procedura di rimpatrio sussiste in particolare qualora la disciplina applicabile non preveda che l'esecuzione dell'obbligo di permanenza domiciliare, applicato al cittadino di un paese terzo che si trova in soggiorno irregolare, debba avere fine a partire dal momento in cui sia possibile realizzarne l'allontanamento. Spetta al giudice del rinvio esaminare se esista, nella normativa nazionale, una disposizione che fa prevalere l'allontanamento sull'esecuzione dell'obbligo di permanenza domiciliare. In assenza di siffatta disposizione, occorrerebbe concludere che la direttiva 2008/115 osta a che un meccanismo di sostituzione della pena dell'ammenda con l'obbligo di permanenza domiciliare, del tipo previsto dagli articoli 53 e 55 del decreto legislativo n. 274/2000, sia applicato a cittadini di paesi terzi in soggiorno irregolare".

76. "[...] l'illegittimità dell'incriminazione deriva dal solo contrasto con lo scopo perseguito dalla direttiva: costituisce cioè ostacolo all'instaurazione di un'effettiva politica di espulsione e rimpatrio di stranieri illegalmente soggiornanti sul territorio (di uno Stato) dell'Unione. In tal senso, si potrebbe concludere che la criminalizzazione non è intrinsecamente incompatibile con la direttiva, ma soltanto in quanto si rivela disfunzionale allo scopo di disfarsi dello straniero. Il disvalore della scelta penalistica non è dunque assoluto, ma relativo ai suoi effetti sulla politica comunitaria - e la politica che qui si evoca non è quella della tutela dei diritti fondamentali, bensì l'espulsione di chiunque si trovi illegittimamente sul territorio europeo; a quest'espulsione la tutela dei diritti è strumentale, secondo il veduto principio di graduazione. La Corte, lungi dall'opporre un divieto di criminalizzazione, ammette senz'altro un potere in tal senso, non assoluto ma limitato dalla sua proiezione effettuale: esso non può cioè avere come effetto la mancata esecuzione degli allontanamenti secondo le modalità previste dalla normativa europea. Contrapposta al diritto penale non c'è dunque una libertà, ma un'azione necessitata: l'abbandono del territorio; uscire, andare via, è presupposto e limite della libertà. La volontarietà dell'allontanamento, garantita in modo primario, non è allora espressione di un atto libero, ma modalità di un'azione vincolata". A. di Marino, R. Raffaelli, op. cit., pag. 25.

77. Sen. CG Kadzoev, 30 novembre 2009, C-357/09 PPU. La pronuncia ha oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi degli artt. 68 CE e 234 CE (la causa si è radicata prima dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona) dall'Administrativen sad Sofia-grad. Il caso riguarda la sorte di un individuo, arrestato nel 2006 dalle autorità bulgare nei pressi del confine con la Turchia; costui, destinatario di un ordine di allontanamento, veniva costretto in un Centro di permanenza temporanea secondo quanto previsto dalla vigente normativa nazionale. Nel caso di specie, in cui si intersecano complicate vicende relativamente all'identità stessa del richiedente e plurimi rigetti di domande di asilo (in contrasto con il parere del Centro d'assistenza alle persone sopravvissute alla tortura, dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e di Amnesty International), il trattenimento del Kadzoev presso il Centro di permanenza temporanea si protrae senza interruzione dal 2006 al 2009, arco temporale superiore ai diciotto mesi ammessi dalla direttiva 2008/115/CE, nel frattempo adottata dall'Unione.

78. Sen. CG Kadzoev, cit., par. 35 e ss.: "occorre rilevare che l'art. 15, nn. 5 e 6, della direttiva 2008/115 stabilisce la durata massima del trattenimento ai fini dell'allontanamento. Se il periodo di trattenimento ai fini dell'allontanamento subìto prima che divenisse applicabile il regime previsto dalla direttiva 2008/115 non fosse preso in considerazione ai fini del calcolo della durata massima del trattenimento, le persone che si trovassero in una situazione come quella del sig. Kadzoev potrebbero formare oggetto di un trattenimento che supera i periodi massimi previsti dall'art. 15, nn. 5 e 6, di tale direttiva. Una situazione del genere non sarebbe conforme alla finalità perseguita dalle citate disposizioni della direttiva 2008/115, che consiste nel garantire, in ogni caso, che il trattenimento ai fini dell'allontanamento non ecceda i diciotto mesi. Del resto, l'art. 15, nn. 5 e 6, della direttiva 2008/115 si applica immediatamente agli effetti futuri di una situazione creatasi quando era in vigore la normativa precedente. Si deve pertanto risolvere la prima questione, sub a), dichiarando che l'art. 15, nn. 5 e 6, della direttiva 2008/115 dev'essere interpretato nel senso che la durata massima del trattenimento ivi prevista deve includere il periodo di trattenimento subìto nel contesto di una procedura di allontanamento avviata prima che il regime introdotto da tale direttiva divenisse applicabile".

79. Sen. CG Kadzoev, cit., par. 54.

80. Sen. CG Kadzoev, cit., par. 55 e ss. "questa conclusione non è rimessa in discussione dalla sentenza 29 gennaio 2009 causa C-19/08, Petrosian, richiamata dal governo bulgaro. Infatti, in tale causa, vertente sull'interpretazione del regolamento (CE) del Consiglio 18 febbraio 2003, n. 343, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo, la Corte ha dichiarato che, qualora, nel contesto della procedura di trasferimento del richiedente asilo, la normativa dello Stato membro ricorrente preveda l'effetto sospensivo di un ricorso, il termine di esecuzione del trasferimento di cui all'art. 20, n. 1, lett. d), del citato regolamento decorre non già a partire dalla decisione giurisdizionale provvisoria che sospende l'esecuzione del procedimento di trasferimento, bensì soltanto a partire dalla decisione giurisdizionale che statuisce sulla fondatezza del procedimento e che non può più ostacolare detta esecuzione. Una siffatta interpretazione dell'art. 20, n. 1, lett. d), del regolamento n. 343/2003 non può essere applicata nel contesto dell'interpretazione dell'art. 15, nn. 5 e 6, della direttiva 2008/115. Infatti, mentre il termine oggetto della citata sentenza Petrosian determina il tempo di cui dispone lo Stato membro ricorrente per eseguire il trasferimento del richiedente asilo verso lo Stato membro che è tenuto a rimpatriarlo, le durate massime previste dall'art. 15, nn. 5 e 6, della direttiva 2008/115 mirano a limitare la privazione di libertà di un individuo. Inoltre, questi ultimi termini pongono un limite alla durata del trattenimento ai fini dell'allontanamento e non all'esecuzione della procedura di allontanamento in quanto tale".

81. Sen. CG Kadzoev, cit., par. 60: "è giocoforza rilevare che, quando è raggiunta la durata massima di trattenimento prevista all'art. 15, n. 6, della direttiva 2008/115, non si pone la questione se non esista più una 'prospettiva ragionevole di allontanamento', a norma del n. 4 dello stesso articolo. In un caso del genere, infatti, la persona interessata deve comunque essere immediatamente rimessa in libertà".

82. Sen. CG Kadzoev, cit., par. 68 e ss.: "con tale questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se l'art. 15, nn. 4 e 6, della direttiva 2008/115 consenta, sebbene il periodo massimo di trattenimento previsto dalla direttiva sia scaduto, di non liberare immediatamente l'interessato in quanto egli non è in possesso di validi documenti, tiene un comportamento aggressivo e non dispone di mezzi di sussistenza propri né di un alloggio o di mezzi forniti dallo Stato membro a tale fine. In proposito occorre sottolineare che, come emerge segnatamente dai punti 37, 54 e 61 di questa sentenza, l'art. 15, n. 6, della direttiva 2008/115 non autorizza in nessun caso il superamento del periodo massimo definito in tale disposizione. La possibilità di collocare una persona in stato di trattenimento per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza non può trovare fondamento nella direttiva 2008/115. Pertanto, nessuna delle circostanze richiamate dal giudice del rinvio può costituire, di per sé, un motivo di trattenimento ai sensi delle disposizioni di tale direttiva".

83. Sen. CG Madhi 5 giugno 2014, C-146/14 PPU. La Corte di Giustizia affronta dei quesiti pregiudiziali, proposti dal giudice bulgaro, in merito all'interpretazione della disciplina europea sul 'trattenimento ai fini dell'allontanamento' e le garanzie procedurali e sostanziali che devono essere offerte al cittadino di un paese terzo interessato.

84. Sen. CG Madhi, cit., par. 44: "dall'insieme delle suddette disposizioni deriva che il solo requisito previsto esplicitamente dall'articolo 15 della direttiva 2008/115 per quanto riguarda l'adozione di un atto scritto è quello indicato al paragrafo 2 dell'articolo medesimo, ossia che il trattenimento sia disposto per iscritto e sia motivato in fatto e in diritto. Tale requisito dell'adozione di una decisione scritta deve essere inteso come riferito necessariamente a tutte le decisioni sulla proroga del trattenimento, posto che, da una parte, il trattenimento e la sua proroga presentano una natura analoga, avendo entrambi per effetto di privare della libertà il cittadino del paese terzo interessato al fine di preparare il rimpatrio e/o procedere all'allontanamento, e, dall'altra, in entrambi i casi, tale cittadino deve poter conoscere i motivi della decisione assunta nei suoi confronti".

85. La Corte di Giustizia richiama, tra i propri precedenti, la sen. CG Heylens 15 ottobre 1987 C-222/86, in cui al par. 15 "l'efficacia del sindacato giurisdizionale, che deve poter riguardare la legittimità della motivazione della decisione impugnata, comporta, in via generale, che il giudice adito possa richiedere all'autorità competente la comunicazione di tale motivazione. Ma, trattandosi più specificatamente, [..] di assicurare la tutela effettiva di un diritto fondamentale attribuito dal trattato ai lavoratori della comunità, bisogna anche che questi ultimi possano difendere tale diritto nelle migliori condizioni possibili e che ad essi sia riconosciuta la facoltà di decidere, con piena cognizione di causa, se sia utile per loro adire il giudice. Ne deriva che in una tale ipotesi l'autorità nazionale competente ha l'obbligo di fare loro conoscere i motivi sui quali è basato il suo rifiuto, vuoi nella decisione stessa, vuoi in una comunicazione successiva effettuata su loro richiesta".

86. L'importanza del controllo giurisdizionale sul trattenimento è tanto più necessaria in quei casi in cui gli Stati Membri, nel recepire la direttiva, scelgano di affidare all'autorità amministrativa la competenza a disporre il trattenimento, con conseguente tensione con il principio dell'habeas corpus.

87. Sen. CG Madhi, cit., par. 57 e ss.: "come risulta anche dai considerando 13, 16, 17 e 24 della direttiva 2008/115, ogni trattenimento rientrante in tale direttiva è strettamente disciplinato dalle disposizioni del capo IV di detta direttiva così da garantire, da una parte, il rispetto del principio di proporzionalità con riguardo ai mezzi impiegati e agli obiettivi perseguiti e, dall'altra, il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dei paesi terzi interessati. Come è già stato ricordato supra al punto 43, risulta inoltre chiaramente dal tenore dell'articolo 15, paragrafo 3, della direttiva 2008/115 che il riesame di ogni trattenimento prolungato di un cittadino di un paese terzo deve poter costituire oggetto di sindacato giurisdizionale. Si deve così rilevare che l'autorità giudiziaria che si pronuncia sulla possibilità di prorogare il primo trattenimento deve necessariamente procedere a un controllo del trattenimento stesso, anche nel caso in cui detto controllo non sia esplicitamente richiesto dall'autorità che l'ha adita e anche qualora il trattenimento del cittadino interessato sia già stato oggetto di riesame da parte dell'autorità che ha disposto il primo trattenimento. Tuttavia, l'articolo 15, paragrafo 3, della direttiva 2008/115 non precisa la natura di tale controllo. Occorre quindi ricordare i principi che emergono dal medesimo articolo 15, che trovano applicazione in una procedura come quella oggetto del procedimento principale e che devono, quindi, essere presi in considerazione dall'autorità giudiziaria ai fini del proprio sindacato. In primo luogo, dai requisiti di merito enunciati all'articolo 15, paragrafo 6, della direttiva de qua risulta che il periodo di trattenimento iniziale può essere prorogato soltanto quando, nonostante lo Stato membro interessato abbia compiuto ogni ragionevole sforzo, l'operazione di allontanamento rischia di durare più a lungo a causa o della mancata cooperazione da parte del cittadino di un paese terzo interessato, o dei ritardi nell'ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi. Tale proroga deve essere decisa conformemente alla legislazione nazionale e non può, in nessun caso, essere superiore ad altri dodici mesi. In secondo luogo, occorre leggere l'articolo 15, paragrafo 6, della direttiva medesima, in combinato disposto con il suo articolo 15, paragrafo 4, nel senso che, in assenza di qualsiasi ragionevole prospettiva di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi ovvero laddove siano venuti meno i requisiti previsti dal paragrafo 1 del medesimo articolo 15, il trattenimento del cittadino di un paese terzo interessato non è più giustificato e questi deve essere immediatamente rilasciato". Ancora, ai par. 61-62 "ne consegue che l'autorità giudiziaria chiamata a pronunciarsi su una domanda di proroga del trattenimento deve essere in grado di deliberare su tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti per stabilire se la proroga del trattenimento sia giustificata, alla luce dei requisiti indicati supra ai punti da 58 a 61, il che impone un esame approfondito delle specifiche circostanze del singolo caso. Laddove il trattenimento inizialmente disposto non risulti più giustificato alla luce di tali requisiti, l'autorità giudiziaria competente deve essere in grado di sostituire la propria decisione a quella dell'autorità amministrativa o, se del caso, a quella dell'autorità giudiziaria che ha disposto il trattenimento iniziale e di pronunciarsi sulla possibilità di disporre una misura sostitutiva o il rilascio del cittadino di un paese terzo interessato. A tal fine, l'autorità giudiziaria che si pronunci sulla domanda di proroga del trattenimento deve poter prendere in considerazione sia gli elementi di fatto e le prove assunti dall'autorità amministrativa che ha disposto il trattenimento iniziale sia tutte le osservazioni eventualmente formulate dal cittadino di un paese terzo interessato. Inoltre, essa deve poter ricercare, laddove lo ritenga necessario, tutti gli altri elementi di prova rilevanti ai fini della propria decisione. Ne consegue che i poteri di cui dispone l'autorità giudiziaria nell'ambito di un controllo non possono in nessun caso essere limitati ai soli elementi dedotti dall'autorità amministrativa interessata. Qualsiasi diversa interpretazione dell'articolo 15 della direttiva 2008/115 avrebbe per effetto di privare i paragrafi 4 e 6 di tale articolo del loro effetto utile e svuoterebbe del suo contenuto il controllo giudiziario imposto dal paragrafo 3, secondo periodo, dell'articolo medesimo, compromettendo parimenti, in tal modo, la realizzazione degli obiettivi perseguiti da detta direttiva".

88. Sen. CG G. e R., 10 settembre 2013, C-383/13 PPU. Nella sentenza in esame la Corte continua ad esaminare i profili delle garanzie procedurali che devono essere offerte al cittadino soggetto a procedura di rimpatrio e trattenimento.

89. Secondo la normativa dei Paesi Bassi, infatti, il giudice è competente a determinare quali conseguenze derivino dalla lesione del diritto di difesa, in particolare operando un bilanciamento tra l'interesse del singolo e l'interesse pubblico al rimpatrio; questo perché una volta annullato il provvedimento di trattenimento, non è possibile la rinnovazione dell'atto; pertanto il destinatario del provvedimento caducato dovrà essere immediatamente rilasciato. Sen. CG G. e R., cit., par. 19-20.

90. Sen. CG G. e R., cit., par. 31.

91. Sen. CG G. e R., cit., par. 37.

92. Sen. CG G. e R., cit., par. 33.

93. Sen. CG G. e R., cit., par. 38: "secondo il diritto dell'Unione, una violazione dei diritti della difesa, in particolare del diritto di essere sentiti, determina l'annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso".

94. Sen. CG G. e R., cit., par. 39.

95. Sen. CG G. e R., cit., par. 42-43 in cui "va ricordato infatti che, da un lato, ai sensi del suo considerando 2, la suddetta direttiva mira ad attuare un'efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio fondata su norme comuni, affinché le persone interessate siano rimpatriate in maniera umana e nel rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità. Analogamente, secondo il considerando 13 della stessa direttiva, il ricorso a misure coercitive deve essere espressamente subordinato al rispetto non solo del principio di proporzionalità, ma anche del principio di efficacia per quanto riguarda i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti. Dall'altro lato, l'allontanamento di qualsiasi cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare costituisce una priorità per gli Stati membri, conformemente al sistema della direttiva 2008/115".

96. Sen. CG Mukarubega, 25 giugno 2014, C-166/13.

97. Sen. CG Mukarubega, cit., par. 70-71.

98. Si veda sub Capitolo II "La tutela dei diritti fondamentali nella Piccola Europa", in particolare par. 4.3. "L'applicazione giurisprudenziale della Carta di Nizza".

99. "Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae". Cicero, De officis, I, 54.

"In his most famous book, 'The Social Contract', Jean Jack (sic) Rousseau define family as 'the oldest of all society, and the only natural one'. On the basis of this assumption the great philosopher of the state Hegel higlighted how it is in this very primordial social community that people find their own sense of individual personality and identity, understand who they really are, and then learn how to relate with the external world". C. Berneri, "Protection of Families Composed by EU Citizens and Third-Country Nationals: Some Suggestions to Tackle Reverse Discrimination", in European Journal of Migration and Law, 16 (2014), pag. 250.

100. "La coesione [della famiglia], come tale, dipende da tutta una serie di fattori eterogenei, che possono farsi risalire alla volontà dei suoi componenti o a elementi di ordine oggettivo. L'ampiezza della garanzia dell'unità familiare dipende, allora, dalle scelte di ciascun ordinamento su quali di tali fattori prendere in considerazione e contrastare. Sotto tale punto di vista si può distinguere tra tutela interna ed esterna di tale unità. La tutela interna presuppone l'intervento del diritto in ordine a fattori endogeni alla famiglia e comporta l'incidenza diretta su comportamenti dei suoi membri, con consequenziale limitazione della loro sfera di volontà. La seconda accezione riguarda invece la materiale vicinanza fisica, spostando, appunto, all'esterno l'ambito di incidenza della disciplina e coinvolge problematiche di ponderazione con interessi altri rispetto a quelli della famiglia, connessi all'impatto con sovranità statali differenziate rispetto a quelle di appartenenza dei membri della famiglia". R. Borrello, "Il diritto all'unità familiare nel diritto dell'immigrazione: riflessioni generali di diritto costituzionale interno e comparato" in R. Pisillo Mazzeschi, P. Pustorino, A. Viviani, op. cit., pagg. 43-44.

101. Ibidem, pag. 49.

102. "In questa materia la questione del bilanciamento assume un'importanza sovente decisiva. Nonostante il meritorio tentativo della Corte di enucleare principi generali e criteri astratti per effettuare il test di proporzionalità e rafforzare la prevediblità e la certezza del diritto, la giurisprudenza resta estremamente variegata, in costante evoluzione e fortemente dipendente dalle circostanze del caso concreto". S. Bartole, V. Zagrebelsky, P. De Sena, S. Allegrezza (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, CEDAM, Padova 2012, pag. 343.

103. "The reason why the ECtHR did not want to deal with immigration is because the Council of Europe has always been willing to respect the absolute independence of every single state to control its own borders and, consequently, the entrance, the exit and the expulsion of foreigners". C. Berneri, op. cit., pag. 254.

104. Sen. Abdulazis, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, 28 maggio 1985 n. 9214/80, n. 9474/81, n. 9473/81 sulla quale vedi infra.

105. Anche se la Corte non ritiene vietata in astratto l'espulsione dello straniero stabilmente residente, che sia nato o comunque abbia vissuto la maggior parte della propria vita nel paese ospitante, il giudizio è più rigoroso e si chiede ad esempio una giustificazione grave per la misura di allontanamento. Sen. Maslov c. Austria, 23 giugno 2008, n. 1638/03, par. 75 "in short, the Court considers that for a settled migrant who has lawfully spent all or the major part of his or her childhood and youth in the host country very serious reasons are required to justify expulsion. This is all the more so where the person concerned committed the offences underlying the expulsion measure as a juvenile".

106. "A ricadere nell'ambito di applicazione dell'art. 8 sono non solo le relazioni fondate sul matrimonio [...] ma altresì i legami de facto, sempre che siano comprovati da elementi caratterizzanti quali la coabitazione o la nascita di figli. Considerata meritevole della massima tutela, anche laddove sia venuta meno l'unità della coppia o non vi sia coabitazione, è la relazione tra genitore e figlio, che viene a crearsi con il solo fatto della nascita e solo in circostanze eccezionali può essere spezzata. Né sono tollerabili discriminazioni tra figli legittimi e naturali, anche sulla base dell'art. 14 e, per quegli Stati che l'abbiano ratificato, de Protocollo n. 12. In quanto alla nozione di 'vita privata', essa ricomprende, oltre alla dimensione psico-fisica della persona, all'identità e alla vita sessuale, altresì il diritto di stringere relazioni con i propri simili in qualsiasi ambito, sociale, culturale, professionale". G. Cataldi, "Espulsione degli stranieri e protezione della vita familiare nella prassi degli organi internazionali di controllo sui diritti umani", in R. Pisillo Mazzeschi, P. Pustorino, A. Viviani, op. cit., pagg. 139-140.

107. Ex multis e ad exemplum sen. Onur c. Regno Unito,17 febbraio 2009, n. 27319/07 in cui al par. 45 "the Court does not find, however, that the applicant enjoyed family life with his mother and siblings as he has not demonstrated the additional element of dependence normally required to establish family life between adult parents and adult children".

108. Ex multis e ad exemplum: sen. Uner c. Paesi Bassi, 18 ottobre 2006, n. 46410/99, par. 59 "the Court [...] observes in this context that not all such migrants, no matter how long they have been residing in the country from which they are to be expelled, necessarily enjoy 'family life' there within the meaning of Article 8. However, as Article 8 also protects the right to establish and develop relationships with other human beings and the outside world and can sometimes embrace aspects of an individual's social identity, it must be accepted that the totality of social ties between settled migrants and the community in which they are living constitute part of the concept of 'private life' within the meaning of Article 8. Regardless of the existence or otherwise of a 'family life', therefore, the Court considers that the expulsion of a settled migrant constitutes interference with his or her right to respect for private life. It will depend on the circumstances of the particular case whether it is appropriate for the Court to focus on the 'family life' rather than the 'private life' aspect"; sen. Slivenko c. Lettonia, 9 ottobre 2003, par. 96 (""as regards the facts of the present case, the first applicant arrived in Latvia in 1959, when she was only one month old. Until 1999, by which time she was 40 years of age, she continued to live in Latvia. She attended school there, found employment and married. Her daughter, the second applicant, was born in Latvia in 1981 and lived there until the age of 18, when she was compelled to leave the country together with her mother, having just completed her secondary education. It is undisputed that the applicants left Latvia against their own will, as a result of the unsuccessful outcome of the proceedings concerning the legality of their stay in Latvia. They were thus removed from the country where they had developed, uninterruptedly since birth, the network of personal, social and economic relations that make up the private life of every human being. Furthermore, as a result of the removal, the applicants lost the flat in which they had lived in Riga. In these circumstances, the Court cannot but find that the applicants' removal from Latvia constituted an interference with their 'private life' and their 'home' within the meaning of Article 8 § 1 of the Convention"); sen. C. c. Belgio, 7 agosto 1996, n. 21794/93, par. 25 ("the Court reiterates that the concept of family on which Article 8 is based embraces, even where there is no cohabitation, the tie between a parent and his or her child, regardless of whether or not the latter is legitimate. Although that tie may be broken by subsequent events, this can only happen in exceptional circumstances. In the present case the mere fact that the applicant was imprisoned and subsequently deported or that his son was then taken in by Mr C.'s sister in the Grand Duchy of Luxembourg, which borders on Belgium, do not constitute such circumstances. In addition, Mr C. established real social ties in Belgium. He lived there from the age of 11, went to school there, underwent vocational training there and worked there for a number of years. He accordingly also established a private life there within the meaning of Article 8, which encompasses the right for an individual to form and develop relationships with other human beings, including relationships of a professional or business nature. It follows that the applicant's deportation amounted to interference with his right to respect for his private and family life").

109. La clausola di stile cui la Corte fa seguire l'analisi delle circostanze del caso concreto in materia di ricongiungimento familiare, riscontrabile nella totalità delle pronunce citate nel prosieguo, è la seguente "the present case concerns not only family life but also immigration, and the extent of a State's obligation to admit to its territory relatives of settled immigrants will vary according to the particular circumstances of the persons involved and the general interest". Inoltre "moreover, where immigration is concerned, Article 8 cannot be considered to impose on a State a general obligation to respect the choice by married couples of the country of their matrimonial residence and to authorise family reunion in its territory. In order to establish the scope of the State's obligations, the facts of the case must be considered".

110. Sen. Abdulazis, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, 28 maggio 1985 n. 9214/80, n. 9474/81, n. 9473/81. Si tratta del caso di tre ricorrenti di sesso femminile alle quali il Governo inglese nega il ricongiungimento familiare con i propri mariti, alla stregua della legislazione vigente al tempo. Le violazioni convenzionali prospettate nel caso di specie sono 14 CEDU (discriminazione fondata su sesso, razza e, nel caso della Balkandali, nata nelle colonie inglesi, nascita), 3 CEDU e 8 CEDU, anche in congiunzione con l'articolo 14 CEDU, ed infine 13 CEDU. La Corte nega che la legislazione inglese che impedisce l'ingresso dei coniugi delle ricorrenti nel territorio violi il diritto al rispetto della vita familiare in sé e per sé considerato, tuttavia ritiene che la legislazione abbia natura discriminatoria, permettendo, a parità di condizioni, il ricongiungimento familiare dell'uomo con la propria moglie. La pronuncia offre spunti di riflessione in ordine ad una tendenza pragmatica della Corte, poiché enuncia la responsabilità internazionale del Regno Unito relativamente ad una violazione convenzionale più "neutra" e meno politicamente scottante, rispetto alla disciplina dell'ingresso e soggiorno sul proprio territorio.

111. Sen. Abdulazis, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, cit. par. 68: "the Court observes that the present proceedings do not relate to immigrants who already had a family which they left behind in another country until they had achieved settled status in the United Kingdom. It was only after becoming settled in the United Kingdom, as single persons, that the applicants contracted marriage. The duty imposed by Article 8 cannot be considered as extending to a general obligation on the part of a Contracting State to respect the choice by married couples of the country of their matrimonial residence and to accept the non-national spouses for settlement in that country. In the present case, the applicants have not shown that there were obstacles to establishing family life in their own or their husbands' home countries or that there were special reasons why that could not be expected of them".

112. Sen. Gul c. Svizzera, 19 febbraio 1996, n. 23218/94, par 41 in cui "by leaving Turkey in 1983, Mr Gül caused the separation from his son, [..]. In any event, whatever the applicant's initial reasons for applying for political asylum, the visits he has made to his son in recent years tend to show that they are no longer valid. [...]. In addition, according to the Government, by virtue of a social security convention concluded on 1 May 1969 between Switzerland and Turkey, the applicant could continue to receive his ordinary invalidity pension and half of the supplementary benefit he receives at present in respect of his wife, his son Ersin and his daughter Nursal if he returned to his home country. Mrs Gül's return to Turkey is more problematic, since it was essentially her state of health that led the Swiss authorities to issue a residence permit on humanitarian grounds. However, although her state of health seemed particularly alarming in 1987, when her accident occurred, it has not been proved that she could not later have received appropriate medical treatment in specialist hospitals in Turkey. She was, moreover, able to visit Turkey with her husband in July and August 1995. Furthermore, although Mr and Mrs Gül are lawfully resident in Switzerland, they do not have a permanent right of abode, as they do not have a settlement permit but merely a residence permit on humanitarian grounds, which could be withdrawn, and which under Swiss law does not give them a right to family reunion.

113. Sen. Gul c. Svizzera, cit., par. 42.

114. Sen. Ahmut c. Paesi Bassi, 28 novembre 1996, n. 21702/93. Poi, ex multis e ad exemplum: dec. Lahnifi c. Paesi Bassi, 13 febbraio 2001, n. 39329/98; dec. Adnane c. Paesi Bassi, 6 novembre 2001, n.50568/99; dec. Benamar c. Paesi Bassi, 5 aprile 2005, n. 43786/04.

115. Sen. Ahmut c. Paesi Bassi, cit. par. 70.

116. Sen Sen c. Paesi Bassi, 21 dicembre 2001, n. 31465/96, par 40 in cui "contrairement à ce qu'elle a considéré dans l'affaire Ahmut, la Cour estime qu'il existe toutefois dans la présente affaire un obstacle majeur au retour de la famille Şen en Turquie. Titulaires l'un d'un permis d'établissement et l'autre d'un permis de séjour du fait de son mariage avec une personne autorisée à s'établir aux Pays-Bas, les deux premiers requérants ont établi leur vie de couple aux Pays-Bas, où ils séjournent légalement depuis de nombreuses années et où un second enfant est né en 1990, puis un troisième en 1994. Ces deux enfants ont toujours vécu aux Pays-Bas, dans l'environnement culturel de ce pays et y sont scolarisés. Ils n'ont de ce fait que peu ou pas de liens autres que la nationalité avec leur pays d'origine et il existait donc dans leur chef des obstacles à un transfert de la vie familiale en Turquie. Dans ces conditions, la venue de Sinem aux Pays-Bas constituait le moyen le plus adéquat pour développer une vie familiale avec celle-ci d'autant qu'il existait, vu son jeune âge, une exigence particulière de voir favoriser son intégration dans la cellule familiale de ses parents aptes et disposés à s'occuper d'elle".

117. Un'altra sentenza che si pone sulla scia della giurisprudenza Sen è la sen. Tuquabo-Tekle et al. c. Paesi Bassi, 1 dicembre 2005, n. 60665/00 in cui al par 45: "however, the Court has previously held that parents who leave children behind while they settle abroad cannot be assumed to have irrevocably decided that those children are to remain in the country of origin permanently and to have abandoned any idea of a future family reunion".

118. M. Spatti, I limiti all'esclusione degli stranieri dal territorio dell'Unione europea, Giappichelli, Torino 2010, pag. 177.

119. Ibidem.

120. Dopo aver ricordato la dissenting opinion del giudice Martens nella sen. Boughanemi c. Francia, 24 aprile 1996, n. 22070/93 ("the majority's case-by-case approach is a lottery for national authorities and a source of embarrassment for the Court"), Giuseppe Cataldi richiama le linee-guida elaborate dalla Corte in merito alla tutela della vita privata e familiare dello straniero destinatario di un ordine di espulsione dal territorio, come formalizzate nelle due sentenze Boultif c. Svizzera, 2 agosto 2001, n. 54273/00 e sen. GC Uner c. Paesi Bassi, cit. A fronte delle ipotesi problematiche sopra descritte "oggetto di bilanciamento dovrebbero essere i seguenti fattori: a) il legame con il Paese di accoglienza, che si rinviene nella lunghezza del periodo di residenza, nella solidità dei legami sociali, culturali e familiari ivi instaurati, nella cittadinanza delle persone coinvolte, nella situazione familiare del ricorrente (durata della relazione, nascita di figli, età degli stessi), nella difficoltà che i congiunti - ed in particolare i figli, anche in virtù del principio del 'superiore interesse del minore'- incontrerebbero nel seguire il ricorrente nel Paese di destinazione in caso di allontanamento; b) il legame con il Paese di origine, che può essere desunto dalla familiarità con la lingua e con i luoghi, e dalla presenza di altri familiari; c) la natura e la gravità del reato, il tempo trascorso tra l'ultimo reato commesso e l'ordine di espulsione, oltre che la condotta del ricorrente in tale periodo". G. Cataldi, op. cit., pagg. 141-142.

121. Ex multis e ad exemplum: sen. Boujlifa c. Francia, 21 ottobre 1997, n. 25404/94; sen. Dalia c. Francia, 19 febbraio 1998; sen. Bagli c. Francia, 30 novembre 1999, n. 34374/97; sen. GC Uner c. Paesi Bassi, cit.; sen. Cherif c. Italia, 7 aprile 2009, n. 1860/07. Si segnala a questo proposito la joint dissenting opinion dei giudici Costa, Zupancic e Turmen allegata alla sentenza Uner in cui, ai par. 13 e ss. "hence, the only way in which the finding of a non-violation can possibly be justified, when the "Boultif criteria" - especially in their extended form - are applied, is by lending added weight to the nature and seriousness of the crime. Quite apart from a problem of method (how do we assign relative weight to the various factors on the basis of some ten guiding principles - are we not seeing here the implicit emergence of a method which gives priority to one criterion, relating to the offence, and treats the others as secondary or marginal?), we believe a question of principle to be at stake, on which we should like to conclude. [...] The principle is that of "double punishment", or rather the discriminatory punishment imposed on a foreign national in addition to what would have been imposed on a national for the same offence. We do not agree with the assertion in paragraph 56 that the applicant's expulsion was to be seen as preventive rather than punitive in nature. Whether the decision is taken by means of an administrative measure, as in this case, or by a criminal court, it is our view that a measure of this kind, which can shatter a life or lives - even where, as in this case, it is valid, at least in theory, for only ten years (quite a long time, incidentally) - constitutes as severe a penalty as a term of imprisonment, if not more severe. This is true even where the prison sentence is longer but is not accompanied by an exclusion order or expulsion. That is why some States do not have penalties of this kind specific to foreign nationals, while others have largely abolished them in recent times. For these reasons relating to the Court's reasoning (the application of the "Boultif criteria" to this case) and on a point of principle (our misgivings about any more severe penalty being imposed on a foreign national because he or she has the misfortune to be such), we have been unable to vote with the majority of our colleagues. We truly regret this. True, the Convention is a living instrument which must be interpreted in the light of present-day conditions. But we would have liked to see this dynamic approach to case-law tending towards increased protection for foreign nationals (even criminals) rather than towards increased penalties which target them specifically".

122. Ex multis e ad exemplum: sen. Maslov c. Austria, cit., Radovanovic c. Austria, 22 aprile 2004, n. 42703/98; sen. Yildiz c. Austria, 31 ottobre 2002, n. 37295/97; sen. Ezzouhdi c. Francia, 13 febbraio 2001, n. 47160/99; sen. Omojudi c. Regno Unito, 24 novembre 2009, n. 1820/08.

123. Sen. Rodrigues da Silva and Hoogkamer c. Paesi Bassi, 31 gennaio 2006, n. 50435/99.

124. Sen. Rodrigues da Silva and Hoogkamer c. Paesi Bassi, cit., par. 42 in cui "the Court further notes that, from a very young age, Rachael has been raised jointly by the first applicant and her paternal grandparents, with her father playing a less prominent role. She [...] has very close ties with her. The refusal of a residence permit and the expulsion of the first applicant to Brazil would in effect break those ties as it would be impossible for them to maintain regular contact. Whilst it does not appear that the first applicant has been convicted of any criminal offences, she did not attempt to regularise her stay in the Netherlands until more than three years after first arriving in that country and her stay there has been illegal throughout".

125. Sen. Rodrigues da Silva and Hoogkamer c. Paesi Bassi, par. "although there is no doubt that a serious reproach may be made of the first applicant's cavalier attitude to Dutch immigration rules, this case should be distinguished from others in which the Court considered that the persons concerned could not at any time have reasonably expected to be able to continue family life in the host country. In view of the far-reaching consequences which an expulsion would have on the responsibilities which the first applicant has as a mother, as well as on her family life with her young daughter, and taking into account that it is clearly in Rachael's best interests for the first applicant to stay in the Netherlands, the Court considers that in the particular circumstances of the case the economic well-being of the country does not outweigh the applicants' rights under Article 8, despite the fact that the first applicant was residing illegally in the Netherlands at the time of Rachael's birth. Indeed, by attaching such paramount importance to this latter element, the authorities may be considered to have indulged in excessive formalism. The Court concludes that a fair balance was not struck between the different interests at stake and that, accordingly, there has been a violation of Article 8 of the Convention".

126. Sen. Berrehab c. Paesi Bassi, 21 giugno 1988, n. 10730/84; sen. Ciliz c. Paesi Bassi, 11 luglio 2000, n. 29192/95.

127. Sen. Nunez c. Norvegia, 28 giugno 2011, n. 55597/09.

128. Sen. Nunez c. Norvegia, cit. in cui al par. 71 "if serious or repeated violations of the immigration law were to be met with impunity, it would undermine the public's respect for that law. Since an application for a residence permit would be rejected in the event of failure to meet the conditions for residence, a refusal of such an application would not in itself constitute a sanction for the provision of false information. Therefore, the possibility for the authorities to react with expulsion would constitute an important means of general deterrence against gross or repeated violations of the Immigration Act. In the Court's view, a scheme of implementation of national immigration law which, as here, is based on administrative sanctions in the form of expulsion does not as such raise an issue of failure to comply with Article 8 of the Convention". Poi "she had given misleading information about her identity, her previous stay in Norway and her criminal conviction. By having intentionally done so she had obtained residence and work permits, which were renewed a number of times, then a settlement permit, none of which she had been entitled to. She had thus lived and worked in the country unlawfully throughout and the seriousness of her offences does not seem to have diminished with time". "The Court further observes that when the applicant re-entered Norway in breach of the re-entry ban in July 1996, she was an adult and had no links to the country. Whilst aware that she had re-entered illegally, she married a Norwegian national in October 1996". "Moreover, when the applicant arrived in Norway at the age of twenty-one, she had lived all her life in the Dominican Republic. During her stay in Norway she co-habited from the spring of 2001 to October 2005 with Mr O. who was also a national of her home country. Her links to Norway could hardly be said to outweigh her attachment to her home country and, as noted above, had in any event been formed through unlawful residence and without any legitimate expectation of being able remain in the country".

129. Sen. Nunez c. Norvegia, cit. in cui al par. 86: "having regard to all of the above considerations, notably the children's long lasting and close bonds to their mother, the decision in the custody proceedings, the disruption and stress that the children had already experienced and the long period that elapsed before the immigration authorities took their decision to order the applicant's expulsion with a reentry ban, the Court is not convinced in the concrete and exceptional circumstances of the case that sufficient weight was attached to the best interests of the children for the purposes of Article 8 of the Convention. Reference is made in this context also to Article 3 of the UN Convention on the Rights of the Child, according to which the best interests of the child shall be a primary consideration in all actions taken by public authorities concerning children. The Court is therefore not satisfied that the authorities of the respondent State acted within their margin of appreciation when seeking to strike a fair balance between its public interest in ensuring effective immigration control, on the one hand, and the applicant's need to be able to remain in Norway in order to maintain her contact with her children in their best interests, on the other hand. In sum, the Court concludes that the applicant's expulsion from Norway with a two-year re-entry ban would entail a violation of Article 8 of the Convention".

130. Si veda sub Capitolo II "4.3. Abdicazione definitoria, principî e diritti, le Spiegazioni: le ombre della Carta di Nizza" nonché "4.3.1 Segue: il caso dei diritti della Carta corrispondenti ai diritti della Convenzione europea".

131. Si tratta precisamente della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE.

132. Uno degli elementi che caratterizzano il diritto al ricongiungimento familiare è il fatto che si possono distinguere "soggetti titolari del potere di attivazione dl processo di salvaguardia dell'unità familiare" (nel caso concreto lo sponsor) e "soggetti destinatari di tale potere" (nel caso concreto il familiare che si vede riconosciuto il permesso di soggiorno). R. Borrello, "Il diritto all'unità familiare nel diritto dell'immigrazione: riflessioni generali di diritto costituzionale interno e comparato", in R. Pisillo Mazzeschi, P. Pustorino, A. Viviani, op. cit., pag. 49.

133. Sen. C. c. Belgio, 7 agosto 1996, n. 21794/93, par. 38: "like the Government and the Commission, the Court considers that such preferential treatment is based on an objective and reasonable justification, given that the member States of the European Union form a special legal order, which has, in addition, established its own citizenship. There has accordingly been no violation of Article 14 taken in conjunction with Article 8".

134. "La normativa sul ricongiungimento presenta nella prassi particolare rilevanza qualora il familiare per il quale è richiesto l'ingresso non sia cittadino dell'Unione. Allorché il familiare sia, invece, cittadino di uno Stato membro, il ricongiungimento assume rilevanza pratica solo quando tale cittadino non possieda le condizioni alle quali il dirito 'primario' al soggiorno è subordinato (come può accadere allorché non soddisfi il requisito della disponibilità di risorse economiche sufficienti)". A. Adinolfi "Il ricongiungimento familiare nel diritto dell'UE", in R. Pisillo Mazzeschi, P. Pustorino, A. Viviani, op. cit., pag. 109.

135. Direttiva 2003/109/CE, considerando n. 2.

136. In particolare sub Capo II "Status di soggiornante di lungo periodo in uno Stato membro" della DCE 2003/109.

137. Sen. CG Metock e al. c. Minister for Justice, Equality and Reform, 25 luglio 2008, C-127/08 par. 56 e ss.

138. Sen. GC Secretary of State for the Home Department c. Hacene Akrich, 23 settembre 2003, C-109/01, par. 50 e ss.

139. Nella sen. CG Yunying Jia c. Migrationsverket, 9 gennaio 2007, C-1/05 si gettano le premesse per il revirement.

140. Sen. CG Metock cit., in cui al par. 50 e ss. si legge che "infatti la direttiva 2004/38, ai sensi dell'art. 3, n. 1, della medesima, si applica a qualsiasi cittadino dell'Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché ai suoi familiari, secondo la definizione datane dall'art. 2, punto 2, della medesima direttiva, i quali lo accompagnino o lo raggiungano in questo Stato membro. Ebbene, la definizione di familiari contenuta nell'art. 2, punto 2, della direttiva 2004/38 non pone distinzioni a seconda che essi abbiano già soggiornato legalmente, o meno, in un altro Stato membro. Occorre parimenti sottolineare che gli artt. 5, 6, n. 2, e 7, n. 2, della direttiva 2004/38 concedono il godimento dei diritti di ingresso, di soggiorno sino a tre mesi e di soggiorno per più di tre mesi nello Stato membro ospitante ai cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell'Unione che essi accompagnino o raggiungano in questo Stato membro, senza fare riferimento al luogo o ai presupposti del loro soggiorno precedente all'arrivo nel citato Stato membro. In particolare, l'art. 5, n. 2, primo comma, della direttiva 2004/38 dispone che i cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell'Unione, sono soggetti all'obbligo del visto di ingresso, a meno che essi non siano in possesso di una valida carta di soggiorno, ai sensi dell'art. 10 della medesima direttiva. Dal momento che, come si evince dagli artt. 9, n. 1, e 10, n. 1, della direttiva 2004/38, la carta di soggiorno è il documento che accerta il diritto di soggiorno superiore a tre mesi in uno Stato membro dei familiari di un cittadino dell'Unione che non hanno la cittadinanza di uno Stato membro, la circostanza che il citato art. 5, n. 2, preveda l'ingresso, nello Stato membro ospitante, di familiari di un cittadino dell'Unione sprovvisti di carta di soggiorno pone in evidenza che la direttiva 2004/38 può applicarsi parimenti ai familiari che non soggiornavano già legalmente in un altro Stato membro. Parimenti, l'art. 10, n. 2, della direttiva 2004/38, il quale elenca in via tassativa i documenti che i cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell'Unione, possono essere tenuti a fornire allo Stato membro ospitante al fine di ottenere il rilascio della carta di soggiorno, non prevede la facoltà per lo Stato membro ospitante di esigere documenti che dimostrino un eventuale previo soggiorno legale in un altro Stato membro. Alla luce di ciò, la direttiva 2004/38 dev'essere interpretata nel senso che essa si applica a qualsiasi cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino dell'Unione ai sensi dell'art. 2, punto 2, della detta direttiva, il quale accompagna o raggiunge il cittadino dell'Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui egli ha la cittadinanza, e gli conferisce diritti di ingresso e di soggiorno in questo Stato membro, senza fare distinzioni secondo che il detto cittadino di un paese terzo abbia già soggiornato legalmente, o meno, in un altro Stato membro".

141. Sen. CG Metock, cit., par. 58-59 in cui "è esatto che la Corte ha dichiarato, nei punti 50 e 51 della citata sentenza Akrich, che, per poter godere dei diritti di cui all'art. 10 del regolamento n. 1612/68, il cittadino di un paese terzo, coniuge di un cittadino dell'Unione, deve soggiornare legalmente in uno Stato membro quando il suo spostamento avviene verso un altro Stato membro, in cui il cittadino dell'Unione emigri o sia emigrato. Tuttavia, questa conclusione dev'essere ripensata. Infatti, il godimento di diritti di tal genere non può dipendere da un previo soggiorno legale di un siffatto coniuge in un altro Stato membro. La medesima interpretazione dev'essere adottata, a fortiori, in relazione alla direttiva 2004/38, la quale ha modificato il regolamento n. 1612/68 e abrogato le precedenti direttive in materia di libera circolazione delle persone. Infatti, come risulta dal suo terzo 'considerando', la direttiva 2004/38 ha lo scopo, in particolare, di «rafforzare i diritti di libera circolazione e soggiorno di tutti i cittadini dell'Unione», di modo che questi ultimi non possono trarre diritti da questa direttiva in misura minore rispetto agli atti di diritto derivato che essa modifica o abroga".

142. Nell'argomentazione la Corte si richiama anche ad altre circostanze, in particolare: mancata armonizzazione se gli Stati fossero liberi di esercitare la propria discrezionalità sul punto (par. 67-68 in cui "del resto, riconoscere agli Stati membri una competenza in via esclusiva a concedere o negare l'ingresso e il soggiorno nel loro territorio ai cittadini di paesi terzi, familiari di cittadini dell'Unione, che non abbiano già soggiornato legalmente in un altro Stato membro, avrebbe come conseguenza che la libertà di circolazione dei cittadini dell'Unione in uno Stato membro di cui essi non abbiano la cittadinanza varierebbe da uno Stato membro all'altro, in funzione delle disposizioni di diritto nazionale in materia di immigrazione, dato che alcuni Stati membri autorizzano l'ingresso e il soggiorno dei familiari di un cittadino dell'Unione, mentre altri li negano. Un siffatto risultato sarebbe inconciliabile con l'obiettivo, di cui all'art. 3, n. 1, lett. c), CE, di un mercato interno contrassegnato dall'abolizione, tra Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle persone"); realizzazione di una distinzione di trattamento rispetto al regime previsto dalla direttiva 2003/86/CE del tutto illogica (par. 68 "per di più, l'analisi ricordata nel punto 66 della presente motivazione giungerebbe al risultato paradossale che uno Stato membro sarebbe tenuto ad autorizzare, in forza della direttiva del Consiglio 22 settembre 2003, 2003/86/CE, relativa al diritto al ricongiungimento familiare").

143. Sen. CG Kunqian Catherine Zhu e Man Lavette Chen c. Secretary of State for the Home Department,19 ottobre 2004, C-200/02.

144. Sen. CG Gerardo Ruiz Zambrano c. Office national de l'emploi, 8 marzo 2011, C-34/09.

145. In sintesi, sen. CG Zhu e Chen, cit., "il giudice del rinvio chiede sostanzialmente di sapere se la direttiva 73/148, la direttiva 90/364 o l'art. 18 CE, eventualmente in combinato disposto con gli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), conferiscano, in circostanze come quelle del caso di specie, al cittadino minorenne in tenera età di uno Stato membro a carico di un genitore, a sua volta cittadino di uno Stato terzo, il diritto di soggiornare in un altro Stato membro in cui tale minore è destinatario di servizi di puericultura" (par. 16).

146. Sen. CG Zhou e Chen, cit., par. 25 e ss. Si ricordi inoltre che al par. 40 e ss. "non spetta ad uno Stato membro limitare gli effetti dell'attribuzione della cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza al fine dell'esercizio delle libertà fondamentali previste dal Trattato. Ora, si tratterebbe esattamente di questo se il Regno Unito avesse il diritto di negare ai cittadini di altri Stati membri come Catherine il godimento di una libertà fondamentale garantita dal diritto comunitario per il solo fatto che l'acquisto della cittadinanza di uno Stato membro mira in realtà a procurare ad un cittadino di uno Stato terzo un diritto di soggiorno ai sensi del diritto comunitario. Pertanto, occorre dichiarare che, in circostanze come quelle del caso di specie, l'art. 18 CE e la direttiva 90/364 conferiscono al cittadino minorenne in tenera età di uno Stato membro, coperto da un'adeguata assicurazione malattia ed a carico di un genitore, egli stesso cittadino di uno Stato terzo, le cui risorse siano sufficienti affinché il primo non divenga un onere per le finanze pubbliche dello Stato membro ospitante, un diritto di soggiorno a durata indeterminata sul territorio di quest'ultimo Stato".

147. Sen. CG Zhou e Chen, cit., par. 44 e ss.

148. Sen. CG Zambrano, cit., par. 44 "infatti, si deve tener presente che un divieto di soggiorno di tal genere porterà alla conseguenza che tali figli, cittadini dell'Unione, si troveranno costretti ad abbandonare il territorio dell'Unione per accompagnare i loro genitori. Parimenti, qualora a una tale persona non venga rilasciato un permesso di lavoro, quest'ultima rischia di non disporre dei mezzi necessari a far fronte alle proprie esigenze e a quelle della sua famiglia, circostanza che porterebbe parimenti alla conseguenza che i suoi figli, cittadini dell'Unione, si troverebbero costretti ad abbandonare il territorio di quest'ultima. Ciò posto, detti cittadini dell'Unione si troverebbero, di fatto, nell'impossibilità di godere realmente dei diritti attribuiti dallo status di cittadino dell'Unione".

149. Nella sen. CG Dereci et al., su cui vedi infra, si ricorda che "ai sensi dell'art. 1 [della direttiva 2003/86] il suo scopo è quello di stabilire i requisiti in presenza dei quali può essere esercitato il diritto al ricongiungimento familiare a favore dei cittadini di Stati terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri. Tuttavia, ai sensi dell'art. 3, n. 3, della direttiva 2003/86, quest'ultima non si applica ai familiari di un cittadino dell'Unione" (par. 46-47). La Corte prosegue rilevando che "malgrado la proposta di direttiva del Consiglio relativa al diritto al ricongiungimento familiare [(2000/C 116 E/15), COM (1999) 638 de. - 1999/0258(CNS)], presentata dalla Commissione l'11 gennaio 2000, comprendesse, nella sua sfera d'applicazione, i cittadini dell'Unione che non avessero esercitato il loro diritto alla libera circolazione, tale inclusione è stata tuttavia eliminata durante i lavori preparatori che hanno condotto all'adozione della direttiva 2003/86" (par. 49). Per quanto riguarda invece la direttiva 2004/38/CE, invece, "ai sensi dell'art. 3, n. 1, della medesima, si applica a qualsiasi cittadino dell'Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché ai suoi familiari, secondo la definizione datane dall'art. 2, punto 2, della medesima direttiva, i quali lo accompagnino o lo raggiungano. La Corte ha già avuto occasione di constatare che, conformemente a un'interpretazione letterale, teologica e sistematica di questa disposizione, un cittadino dell'Unione, che non abbia mai fatto uso del suo diritto alla libera circolazione e che abbia sempre soggiornato in uno Stato membro di cui possiede la cittadinanza, non rientra nella nozione di 'avente diritto', ai sensi dell'art. 3, n. 1, della direttiva 2004/38, per cui quest'ultima non gli è applicabile. È stato parimenti constatato che, qualora un cittadino dell'Unione non ricada sotto la nozione di 'avente diritto' ai sensi dell'art. 3, n. 1, della direttiva 2004/38, neppure il suo familiare può ritenersi incluso in tale nozione, dato che i diritti conferiti dalla citata direttiva ai familiari di un avente diritto non sono diritti originari spettanti a tali familiari, bensì diritti derivati, da essi acquisiti nella loro qualità di familiari dell'avente diritto" (par. 53 e ss.).

150. In particolare, le norme del TUE/TFUE in materia di libera circolazione e gli atti adottati in esecuzione delle stesse non possono essere applicati a situazioni che non presentino alcun fattore di collegamento con una qualsiasi delle situazioni contemplate dal diritto dell'Unione e i cui elementi rilevanti restino in complesso confinati all'interno di un unico Stato Membro. Tuttavia, la posizione di un cittadino UE il quale non abbia mai fatto uso della libera circolazione non può essere assimilata, per questa sola ragione, a una situazione puramente interna: lo status di cittadino dell'Unione è volto ad assumere il ruolo di status fondamentale dei cittadini degli Stati Membri. Dunque, in quanto tali, i cittadini dell'Unione possono avvalersi anche nei confronti del proprio Stato Membro di cittadinanza dei diritti connessi a tale status. Ad esempio, il nesso risulta insussistente a parere della Corte nella sen. CG Yoshikazu Iida c. Stadt Ulm, 8 novembre 2012, C-40/11, in cui "la prospettiva puramente ipotetica dell'esercizio del diritto alla libera circolazione non presenta un nesso sufficiente con il diritto dell'Unione tale da giustificare l'applicazione delle sue disposizioni" (par. 77).

151. Così la sen. Murat Dereci, Vishaka Heiml, Alban Kokollari, Izunna Emmanuel Maduike, Dragica Stevic c. Bundesministerium für Inneres, 15 novembre 2011, C-256/11, par. 66 "il criterio relativo alla privazione del nucleo essenziale dei diritti conferiti dallo status di cittadino dell'Unione si riferisce a ipotesi contrassegnate dalla circostanza che il cittadino dell'Unione si trova obbligato, di fatto, ad abbandonare il territorio non solo dello Stato membro di cu è cittadino, ma anche dell'Unione considerata nel suo complesso".

152. Sen. CG Adzo Domenyo Alokpa, Jarel Moudoulou, Eja Moudoulou c. Ministre du Travail, de l'Emploi et de l'Immigration, 10 ottobre 2013, C-86/12.

153. Sen. Alokpa, cit. par. 32 e ss.

154. Sen. CG Shirley McCarthy c. Secretary of State for Home Deparment, 5 maggio 2011, C-434/09.

155. Sn. CG McCarthy, cit., par. 29 "allo stesso modo, la Corte ha altresì constatato che un principio di diritto internazionale, riaffermato all'art. 3 del Protocollo n. 4 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 - del quale non può ritenersi che il diritto dell'Unione disconosca la vigenza nei rapporti tra Stati membri - osta a che uno Stato membro neghi ai propri cittadini il diritto di fare ingresso nel suo territorio e di soggiornarvi a qualunque titolo".

156. Sen. Dereci e al., cit., par. 68.

157. Si veda ad esempio quando affermato nella sen. CG O., S. c. Maahanmuuttovirasto e Maahanmuuttovirasto c. L., 6 dicembre 2012, C-356/11 e C-357/11, su cui infra par. 3.2.2. "Segue: i cittadini di un paese terzo legalmente soggiornanti".

158. "[...] la Cour, après avoir précisé que le problème du maintien de l'unité familiale doit etre abordé dans le cadre des dispositions concernant la protection des droits fondamentaux et, partant, également à la lumiére de ceux consacrés par la Charte, a laissé à la jurisdiction de renvoi le soin d'évaluer si la situation des requérants au principal relevait du champ d'application du droit de l'Union au sens de l'art. 51 de la meme Charte [...] et, par conséquent, de l'art. 7 de cette Charte. On ne peut que partager l'opinion de ceux qui oservent que la Cour, en adoptant une telle attitude, a appliqué un self-restraint peu orthodoxe à l'égard de sa capacité institutionnelle de déterminer elle-meme - sans faire renvoi aux juges nationaux - le champ d'application du droit de l'Union et, partant, des dispositions de la Charte". P. Mengozzi "Complémentarité et coopération entre la Cour de Justice de l'Union européenne et les juges nationaux en matière de séjour dans l'Union des citoyens d'états tiers", in Il diritto dell'Unione europea, pag. 34.

159. Sen. Dereci cit., par. 69 e ss.

160. Considerando n. 2 e 4.

161. La base legale del ricorso era, al tempo, l'articolo 230 TCE, attualmente 263 TFUE.

162. Sen. CG Parlamento europeo c. Consiglio, 27 giugno 2006, C-540/03.

163. All'articolo 4, contenente l'enunciazione dei 'familiari' rispetto ai quali il cittadino di un paese terzo può esercitare il diritto al ricongiungimento, si includono i figli minorenni aventi un'età inferiore a quella in cui si diventa legalmente maggiorenni nello Stato membro interessato, non coniugati. L'ultimo alinea del primo comma dell'articolo dispone tuttavia una deroga fortemente problematica "qualora un minore abbia superato i dodici anni e giunga in uno Stato membro indipendentemente dal resto della sua famiglia, quest'ultimo, prima di autorizzarne l'ingresso ed il soggiorno ai sensi della presente direttiva, può esaminare se siano soddisfatte le condizioni per la sua integrazione richieste dalla sua legislazione in vigore al momento dell'attuazione della presente direttiva" (art. 4, n. 1, ultimo alinea). Lo stesso articolo dispone inoltre che al fine di assicurare una migliore integrazione ed evitare i matrimoni forzati, gli Stati membri possono imporre un limite minimo di età per il soggiornante e il coniuge, che può essere al massimo pari a ventuno anni, perché il ricongiungimento familiare possa aver luogo. Tuttavia, si prevede nuovamente un'altra deroga problematica che va a danno del minore, in quanto "gli Stati membri possono richiedere che le domande riguardanti il ricongiungimento familiare di figli minori debbano essere presentate prima del compimento del quindicesimo anno di età, secondo quanto previsto dalla loro legislazione in vigore al momento dell'attuazione della presente direttiva. Ove dette richieste vengano presentate oltre il quindicesimo anno di età, gli Stati membri che decidono di applicare la presente deroga autorizzano l'ingresso e il soggiorno di siffatti figli per motivi diversi dal ricongiungimento familiare" (art. 4, n. 6).

164. L'articolo 8 prevede infatti che "gli Stati membri possono esigere che il soggiornante, prima di farsi raggiungere dai suoi familiari, abbia soggiornato legalmente nel loro territorio per un periodo non superiore a due anni. In deroga alla disposizione che precede, qualora, in materia di ricongiungimento familiare, la legislazione in vigore in uno Stato membro al momento dell'adozione della presente direttiva tenga conto della sua capacità di accoglienza, questo Stato membro può prevedere un periodo di attesa non superiore a tre anni tra la presentazione della domanda di ricongiungimento ed il rilascio del permesso di soggiorno ai familiari".

165. Sen. CG Parlamento europeo c. Consiglio cit., par. 30 e ss. Il Parlamento si richiama inoltre all'articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, il quale concerne specificatamente i diritti dei minori, richiamandone il secondo e terzo comma alla cui stregua "in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l'interesse superiore del minore deve essere considerato preminente. Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse".

166. Relativamente alla disposizione di cui all'art. 4 n. 1, la sentenza in questone afferma che "non può essere considerato in contrasto con il diritto al rispetto della vita familiare. Infatti, nel contesto della direttiva, che impone agli Stati membri obblighi positivi precisi, la detta disposizione mantiene a favore degli Stati stessi un potere discrezionale limitato, non diverso da quello riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella propria giurisprudenza in materia di diritto al rispetto della vita familiare, ponderando, in ogni singola fattispecie concreta, gli interessi in gioco". Infatti, come previsto dalla stessa direttiva all'art. 5, n. 5 "nell'ambito di tale ponderazione degli interessi gli Stati membri devono tenere nella dovuta considerazione l'interesse superiore del figlio minore" (par. 60 e ss.).

167. A. Adinolfi "Il ricongiungimento familiare nel diritto dell'UE", pag. 132, in R. Pisillo Mazzeschi, P. Pustorino, A. Viviani, Diritti umani e degli immigrati. Tutela della famiglia e dei minori, Napoli, Editoriale Scientifica, 2010.

168. La stessa Corte di Giustizia, nell'avvallare la compatibilità con i diritti fondamentali dell'articolo 8 della direttiva 2003/86/CE afferma che "la coesistenza di situazioni differenti, a seconda che gli Stati membri scelgano di avvalersi o meno della possibilità di imporre un periodo di attesa di due anni, ovvero di tre anni, nel caso in cui la loro legislazione vigente alla data di adozione della direttiva tenga conto della loro capacità di accoglienza, non costituisce altro che l'espressione della difficoltà di procedere ad un ravvicinamento delle legislazioni in un settore che, sino a quel momento, ricadeva unicamente nella competenza degli Stati membri. Come riconosciuto dal Parlamento stesso, la direttiva, nel suo complesso, è importante ai fini dell'attuazione armonizzata del diritto al ricongiungimento familiare. Nella specie, non risulta che il legislatore comunitario abbia oltrepassato i limiti imposti dai diritti fondamentali laddove ha consentito agli Stati membri che disponessero o intendessero adottare una normativa specifica di modulare taluni aspetti del diritto al ricongiungimento" (par. 102).

169. Si tratta di uno di quei casi in cui viene messa in evidenza la ritrosia della Corte a sindacare gli atti politicamente pesanti del Consiglio, su cui si veda sub Capitolo II "La tutela dei diritti fondamentali nella Piccola Europa" in particolare 4.3. "L'applicazione giurisprudenziale della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea".

170. Sen. CG Rhimou Chakroun c. Minister van Buitenlandse Zaken, 4 marzo 2010, C-578/08.

171. Si tratta dell'articolo 7.1 c) della direttiva che prevede anche che "gli Stati membri valutano queste risorse rispetto alla loro natura e regolarità e possono tener conto della soglia minima delle retribuzioni e delle pensioni nazionali, nonché del numero dei familiari".

172. Sen. Chakroun cit., par. 47 e ss.

173. Sen. CG O., S. c. Maahanmuuttovirasto e Maahanmuuttovirasto c. L., 6 dicembre 2012, C-356/11 e C-357/11. Si tratta di una sentenza che affronta congiuntamente questioni pregiudiziali affini sollevate e proposte nell'ambito di più cause: a fini esemplificativi si è prescelta una delle situazioni concrete da cui la vicenda si è originata, assunta a paradigma della questione che la Corte si trova a dover affrontare. Un cittadino ivoriano richiedeva di soggiornare a titolo di ricongiungimento familiare in territorio finlandese, ove risiedono legalmente il proprio coniuge, cittadina ghanese, il figlio minore della coppia di cui entrambi i genitori hanno la cura e il figlio maggiore della coniuge, nato da precedente matrimonio e avente la cittadinanza finlandese. Il competente Maahanmuuttovirasto tuttavia rigetta la domanda di permesso di soggiorno ritenendo che il richiedente non disponga di risorse sufficienti, come richiesto dalla normativa nazionale. Ai par. 21 e ss. della sentenza si legge che "dalla decisione di rinvio emerge che il 1º gennaio 2010 il sig. O. ha sottoscritto un contratto di lavoro della durata di un anno che prevedeva un orario lavorativo di otto ore giornaliere e una retribuzione oraria di EUR 7,50. Tuttavia, egli non ha prodotto documenti comprovanti l'effettiva prestazione lavorativa conformemente a tale contratto. Con decisione del 21 gennaio 2009 il ha respinto la domanda di permesso di soggiorno sottoposta al suo vaglio in ragione del fatto che il sig. O. non disponeva di risorse sufficienti. Esso ha inoltre ritenuto che, nel caso di specie, non sussistesse alcun motivo per derogare al requisito dei mezzi di sussistenza, come consentito dall'articolo 39, paragrafo 1, della legge sugli stranieri in presenza di circostanze eccezionalmente gravi oppure qualora lo richieda l'interesse del figlio".

174. Sen. CG O. e S. cit., par. 51 in cui "per sapere se ai cittadini dell'Unione interessati sia di fatto impossibile esercitare il nucleo essenziale dei diritti attribuiti dal loro status, sono altresì rilevanti la questione dell'affidamento dei figli delle soggiornanti e il fatto che questi figli facciano parte di famiglie ricostituite".

175. Sen. CG O. e S. cit., par. 55.

176. Ciò che semmai importa ed ha delle conseguenze è, infatti, il diritto di soggiorno permanente delle madri dei cittadini dell'Unione in tenera età interessati e il fatto che i cittadini di paesi terzi per i quali si richiede un diritto di soggiorno non siano responsabili dal punto di vista legale, finanziario o affettivo di tali cittadini.

177. Sen.CG O. e S. cit., par. 56.

178. Sen. CG O. e S., cit., par. 59 in cui "qualora tale giudice [i.e. del rinvio] dovesse dichiarare che, nelle circostanze dei procedimenti sottoposti alla sua cognizione, dalle decisioni di diniego dei permessi di soggiorno oggetto dei procedimenti principali non deriva una siffatta privazione, ciò lascerebbe impregiudicate la questione relativa all'esistenza di altri fondamenti, segnatamente nell'ambito del diritto relativo alla tutela della vita familiare, che non consentono di negare un diritto di soggiorno ai sigg. O. e M. Tale questione deve essere affrontata nella cornice delle norme relative alla tutela dei diritti fondamentali e in funzione della loro rispettiva applicabilità".

179. Se. CG O. e S., cit. par. 61 e ss. in cui "anche se tale direttiva non si applica ai 'familiari di un cittadino dell'Unione' (art. 3.3), nel caso di specie le ricorrenti sono cittadine di paesi terzi che risiedono legalmente in uno Stato Membro e chiedono di beneficiare del ricongiungimento familiare. Ad esse deve essere riconosciuta la qualità di 'soggiornanti' (art. 2 c)) e in più i figli di queste e dei loro coniugi sono a loro volta cittadini di un paese terzo. Tenuto conto dell'obiettivo perseguito dalla direttiva 2003/86, che è quello di favorire il ricongiungimento familiare, e della protezione che essa intende concedere ai cittadini terzi, segnatamente ai minori, l'applicazione di tale direttiva non può escludersi per la sola ragione che uno dei genitori di un minore, cittadino di un paese terzo, è anche il genitore di un cittadino dell'Unione, nato da un primo matrimonio".

180. Sen. Moustaquim c. Belgio, 18 febbraio 1991, n. 12313/86; sen. Beljoudi c. Francia, 26 marzo 1992, n. 12083/86; sen. Nasri c. Francia, 13 luglio 1995, n. 19465/92.

181. "La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 e il Protocollo di New York del 1967 rappresentano ad oggi gli unici strumenti internazionali a carattere universale che danno una definizione di rifugiato, stabilendo diritti e doveri dello stesso nei confronti dei Paesi di accoglienza, nonché gli obblighi che gli Stati assumono divenendone parti. La Convenzione definisce la categoria di persone cui gli Stati parte si impegnano ad offrire protezione, tutelandone i diritti, primi fra tutti quello a non essere espulso o respinto, in qualsiasi modo, nel Paese di origine o in un altro Paese in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero a rischio e quello, implicito, ad avere accesso alla procedura per l'accertamento dello status di rifugiato". C. Franchini, "Lo status di rifugiato nella Convenzione di Ginevra del 1951", in C. Favilli, Procedure e garanzie del diritto di asilo, CEDAM, Padova 2011, pag. 73.

182. Articolo 33. Divieto di espulsione e rinvio al confine: nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.

La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese.

Si deve ricordare, tuttavia, che la Convenzione in questione "a differenza, dell'art. 3 della CEDU, il quale [...] opera in relazione a qualsiasi tipologia di rischio per l'incolumità psicofisica dell'individuo nel Paese di destinazione, il divieto di refoulment sancito dall'art. 33 della Convenzione di Ginevra può essere invocato solamente in favore di una persona che soddisfi i requisiti generali di eleggibilità previsti dall'art. 1 della Convenzione stessa (così come modificati dal Protocollo del 1967 per gli Stati che ne sono parte)". A. Saccucci, "Diritto di asilo e Convenzione europea dei diritti umani", in C. Favilli, op. cit., pag. 177.

183. In particolare, il Capo II del Titolo V del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea pone, agli artt. 77-80, le basi legali per l'azione dell'Unione europea in materia di politiche relative ai controllo alle frontiere, all'asilo e all'immigrazione. A livello istituzionale si ricorda che nell'attuale quadro giuridico tale competenza è esercitata in conformità alle regole prescritte nei trattati dal solo Consiglio in congiunzione con il Parlamento Europeo; inoltre è ora sufficiente, al fine di adottare la normativa, la maggioranza qualificata in seno al Consiglio.

184. Il quale a sua volta rappresenta la comunitarizzazione della Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990 per la determinazione dello Stato Membro competente per l'esame di una domanda d'asilo presentata in uno degli Stati facenti parte dell'Unione europea (cosiddetto "Dublino I").

185. "Pur essendo una delle misure più attese del processo di revisione degli strumenti europei in materia di asilo, il regolamento 604/2013 sembra deludere molte delle aspettative sviluppatesi attorno alla sua modifica, rispondendo solo in parte alle critiche sorte nell'applicazione del regolamento 343/2003. Il nuovo strumento, da un lato, presenta sostanziali profili di continuità rispetto alla disciplina preesistente, che, sotto certi aspetti, cristallizzano alcuni difetti congeniti del sistema; dall'altro, esso contiene alcune innovazioni, talora significative, che, tuttavia, non risolvono tutti i profili di criticità del sistema". O. Feraci, "Il nuovo regolamento 'Dublino III' e la tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo", inOsservatorio sulle fonti, 2/2013.

186. Il vigente regolamento Dublino III ha un ambito applicativo più ampio del regolamento Dublino II poiché, come disposto all'art. 1, esso fa riferimento alle 'domande di protezione internazionale' e alle domande presentate da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, compresa la frontiera e le zone di transito.

187. E. Concione, "L'Italia e il trattamento dei richiedenti asilo: sistema di accoglienza e valutazione del rischio", in Giurisprudenza di merito 11/2013, pag. 2419, nota 3.

188. I 'soggetti in orbita' sono quei ricorrenti che, vittime di respingimenti multipli e impossibilitati a presentare domanda di protezione internazionale, versano in una situazione di totale incertezza circa la propria domanda di asilo. L'allestimento di un insieme di criteri competenziali oggettivi ed univoci è inteso a tamponare questa situazione dannosa, facendo sì che sia sempre possibile individuare lo Stato competente e facendo in modo che sia sempre presente una risposta 'normativa' alla richiesta di protezione internazionale da parte dell'Unione europea.

189. Nella sen. CG N.S. c. Secretary of State for the Home Department e M.E. e al. c. Refugee Applications Commissioner and Minister for Justice, Equality and Law Reform, 21 dicembre 2011, C-411/10 e C-493/10CG (sulla quale cfr. infra par. 4.2. "La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul Sistema Dublino"), si afferma infatti che "risulta dall'esame dei testi che istituiscono il sistema europeo comune di asilo che quest'ultimo è stato concepito in un contesto che permette di supporre che l'insieme degli Stati partecipanti, siano essi Stati membri o paesi terzi, rispetti i diritti fondamentali, compresi i diritti che trovano fondamento nella Convenzione di Ginevra e nel Protocollo del 1967, nonché nella CEDU, e che gli Stati membri possono fidarsi reciprocamente a tale riguardo. È proprio in ragione di tale principio di reciproca fiducia che il legislatore dell'Unione ha adottato il regolamento n. 343/2003 [...], al fine di razionalizzare il trattamento delle domande di asilo e di evitare la saturazione del sistema con l'obbligo, per le autorità nazionali, di trattare domande multiple introdotte da uno stesso richiedente, di accrescere la certezza del diritto quanto alla determinazione dello Stato competente a trattare la domanda di asilo e, così facendo, di evitare il forum shopping; tutto ciò con l'obiettivo principale di accelerare il trattamento delle domande nell'interesse tanto dei richiedenti asilo quanto degli Stati partecipanti" (par. 78-79).

190. "Il 'sistema Dublino', che ha nel Regolamento n. 604/2013 del 26 giugno 2013 c.d. Dublino III, il suo perno essenziale, presenta macroscopiche lacune e criticità, sia rispetto alla tutela dei diritti umani sia rispetto alla sua efficacia, ossia al conseguimento degli obiettivi che si propone di perseguire". C. Favilli, "Atti del convegno su il 'Sistema di Dublino' versus la libertà di movimento dei rifugiati in Europa" in I diritti dell'uomo, Cronache e battaglie, 1/2014, pag. 103.

191. Nel prosieguo del testo, lo scopo perseguito è quello di mettere in luce tali profili problematici che riguardano l'impianto concettuale del Sistema Dublino nelle sue varie versioni: pertanto, a fronte del testo generico, nell'apparato critico è possibile trovare i riferimenti normativi specifici in riferimento al regolamento vigente 604/2013 e anche al regolamento 343/2003.

192. Art. 5 Regolamento Dublino II: i criteri per la determinazione dello Stato membro competente si applicano nell'ordine nel quale sono definiti dal presente capo.

Art. 7.1 Regolamento Dublino III: i criteri per la determinazione dello Stato membro competente si applicano nell'ordine nel quale sono definiti dal presente capo.

193. Nel Regolamento Dublino II: art. 6 (minore non accompagnato); art. 7 (familiari beneficiari di asilo); art. 8 (familiari richiedenti asilo).

Nel Regolamento Dublino III: art. 8 "minore non accompagnato"; art. 9 "familiari beneficiari di protezione internazionale"; art. 10 "familiari richiedenti protezione internazionale".

Si segnala inoltre la proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica il regolamento (UE) n. 604/2013 per quanto riguarda la determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata da un minore non accompagnato che non ha familiari, fratelli o parenti presenti legalmente in uno Stato membro.

194. Regolamento Dublino II, art. 2 lett i) 'familiari' sono "i seguenti soggetti appartenenti al nucleo familiare del richiedente asilo già costituito nel paese di origine che si trovano nel territorio degli Stati membri: il coniuge del richiedente asilo o il partner non legato da vincoli di matrimonio che abbia una relazione stabile, qualora la legislazione o la prassi dello Stato membro interessato assimili la situazione delle coppie di fatto a quelle sposate nel quadro della legge sugli stranieri; i figli minori delle coppie o del richiedente, a condizione che non siano coniugati e siano a carico, indipendentemente dal fatto che siano figli legittimi, naturali o adottivi secondo le definizioni del diritto nazionale; il padre, la madre o il tutore quando il richiedente o rifugiato è minorenne e non coniugato".

Regolamento Dublino III dispone all'art. 2 lett. g) che 'familiari' sono "i seguenti soggetti appartenenti alla famiglia del richiedente, purché essa sia già costituita nel paese di origine, che si trovano nel territorio degli Stati membri: il coniuge del richiedente o il partner non legato da vincoli di matrimonio con cui abbia una relazione stabile, qualora il diritto o la prassi dello Stato membro interessato assimilino la situazione delle coppie di fatto a quelle sposate nel quadro della normativa sui cittadini di paesi terzi; figli minori delle coppie o del richiedente, a condizione che non siano coniugati e indipendentemente dal fatto che siano figli legittimi, naturali o adottivi secondo le definizioni del diritto nazionale; se il richiedente è minore e non coniugato, il padre, la madre o un altro adulto responsabile per il richiedente in base alla legge o alla prassi dello Stato membro in cui si trova l'adulto; se il beneficiario di protezione internazionale è minore e non coniugato, il padre, la madre o un altro adulto responsabile per il beneficiario in base alla legge o alla prassi dello Stato membro in cui si trova il beneficiario".

Si segnala tuttavia l'introduzione ad opera del Regolamento Dublino III, sub h), della definizione di 'parenti'.

195. Regolamento Dublino II: art. 9.

Regolamento Dublino III, art. 12 "rilascio di titoli di soggiorno o visti".

196. Regolamento Dublino II, art. 10. Regolamento Dublino III, art. 13 "Ingresso e/o soggiorno".

197. Il sistema EURO-DAC è "finalizzato a potenziare il sistema Dublino con una tecnica di confronto delle impronte digitali idonea a consentire ai Paesi UE di identificare i richiedenti asilo e le persone fermate in relazione all'attraversamento irregolare di una frontiera esterna dell'Unione, onde verificare se un richiedente asilo o un cittadino straniero, che si trova illegalmente sul suo territorio, abbia già presentato, o meno, una domanda in un altro Paese dell'UE o se un richiedente asilo è entrato irregolarmente nel territorio dell'Unione". L. Tria "Quale futuro per la protezione internazionale dei migranti?", in I diritti dell'uomo. Cronache e battaglie.

198. Lo Stato membro competente per la domanda di asilo deve prendersi carico del richiedente e trattare la domanda, come previsto agli artt. 16 e ss. del Regolamento Dublino II. Se uno Stato membro presso cui è stata presentata una domanda di asilo, ritiene che un altro Stato membro sia competente, esso può interpellare tale Stato membro affinché prenda in carico la domanda. La domanda di presa o ripresa a carico dovrà indicare ogni elemento che permette allo Stato richiesto di determinare se è effettivamente competente. Quando lo Stato richiesto accetta di prendere a carico o riprendere a carico il richiedente asilo, lo Stato nel quale la domanda d'asilo è stata presentata notifica al richiedente asilo una decisione motivata relativa all'inammissibilità della sua domanda in tale Stato membro indicando l'obbligo di trasferimento del richiedente asilo verso lo Stato membro competente.

199. Sezione V del Regolamento Dublino III, art. 28 "trattenimento". Da ultimo, "il Regolamento 'Dublino III' prevede esplicitamente la detenzione amministrativa di richiedenti asilo durante la procedura di richiesta di ri-ammissione in altro Stato, qualora si presente il rischio che la persona possa sottrarsi al trasferimento e nel caso in cui altre misure meno coercitive non possano essere efficacemente prese. Il periodo massimo di detenzione è di regola tre mesi. Tuttavia, quando il richiedente asilo presenta ricorso contro la decisione di trasferimento, il periodo potrebbe essere più lungo, a tempo indefinito, in attesa della decisione giudiziaria. Il richiedente viene indirettamente indotto a rinunciare al ricorso per evitare il prolungarsi della detenzione". C. Hein, "Atti del convegno su il 'Sistema di Dublino' versus la libertà di movimento dei rifugiati in Europa" in I diritti dell'uomo, Cronache e battaglie, 1/2014, pag. 101.

200. "L'attribuzione del diritto di circolazione e di soggiorno nell'UE ai cittadini di Paesi terzi è quasi un tabù tant'è che, anche quando sono state adottate delle normative che tendono a prevedere norme comuni circa i requisiti necessari ai fini dell'ingresso e del soggiorno dei cittadini di Paesi terzi, ciò che sempre non viene riconosciuto è proprio il diritto di soggiornare in un altro Stato membro. [...] Lo stesso avviene per i rifugiati, nonostante che vi siano direttive volte a stabilire norme comuni sull'attribuzione della qualifica di protezione internazionale (asilo o protezione sussidiaria) nonché sulle procedure per il riconoscimento di tale qualifica". C. Favilli, "Atti del convegno su il 'Sistema di Dublino' versusla libertà di movimento dei rifugiati in Europa" in I diritti dell'uomo, Cronache e battaglie, 1/2014, pag. 103.

201. Giorgio Gaja rileva come una "pretesa equivalenza" affligga anche i "requisiti per ottenere il riconoscimento nell'ambito dei Paesi dell'Unione". Tra l'altro, "a parte la circostanza che sussistono tuttora notevoli divergenze, rese evidente dalle statistiche, nella prassi degli Stati membri in tema di riconoscimento dei rifugiati, questa scelta normativa sarebbe coerente se fosse davvero indifferente ottenere il riconoscimento della qualità di rifugiato in uno Stato membro dell'Unione piuttosto che in un altro Stato membro. Invece, poiché la libertà di circolazione nell'ambito dell'Unione non è garantita ai rifugiati dal diritto dell'Unione, la determinazione dello Stato competente finisce per avere conseguenze rilevanti per il richiedente asilo". G. Gaja, "Atti del convegno su il 'Sistema di Dublino' versus la libertà di movimento dei rifugiati in Europa" in I diritti dell'uomo, Cronache e battaglie, 1/2014, pagg. 87-88.

202. F. Pocar, "Atti del convegno su il 'Sistema di Dublino' versus la libertà di movimento dei rifugiati in Europa" in I diritti dell'uomo, Cronache e battaglie, 1/2014, pag. 92.

203. Dal Facsheet "Dublin" cases, reperibile sul sito istituzionale della Corte europea dei diritti dell'uomo e aggiornato a novembre 2014, risultano: dec. T.I. c. Regno Unito, 7 marzo 2000, n. 43844/98; dec. K.R. S. c. Regno Unito, 2 dicembre 2008, n. 32733/08; sen. GC M.S.S. c. Belgio e Grecia, 21 gennaio 2011, n. 30696/09; dec. Mohammed Hussein c. Paesi Bassi e Italia, 2 aprile 2013, dec. Salimi c. Austria e Italia, 18 giugno 2013, n53852/11; dec. Abubeker c. Austria e Italia, 18 giugno 2013, n.73874/11; sen. Mohammed c. Austria, 6 giugno 2013, n. 2283/12, sen. Sharifi c. Austria, 5 dicembre 2013, n. 60104/08, sen. Safaii c. Austria, 7 maggio 2014, n.44689/09, sen. Mohammadi c. Austria, 2 luglio 2014, n. 71932/12, sen. Sharifi e al. c. Italia e Grecia, 21 ottobre 2014, n. 16643/09; sen. GC Tarakhel c. Svizzera, 4 novembre 2014, n. 29217/12.

204. La condanna della Grecia viene disposta poi anche per la violazione dell'articolo 3 CEDU in combinazione con l'articolo 13 CEDU, nella parte III della pronuncia, par. 265 e ss.

205. Sen. M.S.S. c. Belgio e Grecia, cit. in cui: "the Court has held that confining an asylum-seeker to a prefabricated cabin for two months without allowing him outdoors or to make a telephone call, and with no clean sheets and insufficient hygiene products, amounted to degrading treatment within the meaning of Article 3 of the Convention. Similarly, a period of detention of six days, in a confined space, with no possibility of taking a walk, no leisure area, sleeping on dirty mattresses and with no free access to a toilet is unacceptable with respect to Article 3. The detention of an asylum-seeker for three months on police premises pending the application of an administrative measure, with no access to any recreational activities and without proper meals has also been considered as degrading treatment. Lastly, the Court has found that the detention of an applicant, who was also an asylum-seeker, for three months in an overcrowded place in appalling conditions of hygiene and cleanliness, with no leisure or catering facilities, where the dilapidated state of repair of the sanitary facilities rendered them virtually unusable and where the detainees slept in extremely filthy and crowded conditions amounted to degrading treatment prohibited by Article 3" (par. 222). A conclusione, "in the light of the available information on the conditions at the holding centre next to Athens International Airport, the Court considers that the conditions of detention experienced by the applicant were unacceptable. It considers that, taken together, the feeling of arbitrariness and the feeling of inferiority and anxiety often associated with it, as well as the profound effect such conditions of detention indubitably have on a person's dignity, constitute degrading treatment contrary to Article 3 of the Convention. In addition, the applicant's distress was accentuated by the vulnerability inherent in his situation as an asylumseeker. There has therefore been a violation of Article 3 of the Convention"(par. 233-234).

206. Sen. M.S.S. c. Belgio e Grecia, cit., in cui la Corte "considers it necessary to point out that Article 3 cannot be interpreted as obliging the High Contracting Parties to provide everyone within their jurisdiction with a home. Nor does Article 3 entail any general obligation to give refugees financial assistance to enable them to maintain a certain standard of living. The Court is of the opinion, however, that what is at issue in the instant case cannot be considered in those terms. The obligation to provide accommodation and decent material conditions to impoverished asylum-seekers has now entered into positive law and the Greek authorities are bound to comply with their own legislation, which transposes Community law, namely Council Directive 2003/9/EC laying down minimum standards for the reception of asylum-seekers in the member States. What the applicant holds against the Greek authorities in this case is that, because of their deliberate actions or omissions, it has been impossible in practice for him to avail himself of these rights and provide for his essential needs" (par. 249-250). "In the light of the above and in view of the obligations incumbent on the Greek authorities under the Reception Directive, the Court considers that the Greek authorities have not had due regard to the applicant's vulnerability as an asylum-seeker and must be held responsible, because of their inaction, for the situation in which he has found himself for several months, living on the street, with no resources or access to sanitary facilities, and without any means of providing for his essential needs. The Court considers that the applicant has been the victim of humiliating treatment showing a lack of respect for his dignity and that this situation has, without doubt, aroused in him feelings of fear, anguish or inferiority capable of inducing desperation. It considers that such living conditions, combined with the prolonged uncertainty in which he has remained and the total lack of any prospects of his situation improving, have attained the level of severity required to fall within the scope of Article 3 of the Convention. It follows that, through the fault of the authorities, the applicant has found himself in a situation incompatible with Article 3 of the Convention. Accordingly, there has been a violation of that provision" (par. 264-265).

207. "Al riguardo è anzitutto interessante osservare come la Grande Camera - pur riconoscendo che esistevano elementi per sostenere la possibilità che il ricorrente, il quale aveva collaborato come interprete con l'esercito americano, una volta giunto nel proprio Paese di origine, venisse sottoposto a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu (§296) - non abbia ritenuto necessario esaminare una potenziale violazione dell'art. 3 Cedu da parte della Grecia nel caso di espulsione del ricorrente verso il paese di origine. Con un approccio quanto meno insolito, i giudici europei hanno affermato che una tale valutazione spettasse nel caso di specie alle autorità nazionali e che la Corte europea avesse unicamente il compito di accertare una violazione degli artt. 3 e 13 Cedu, in relazione all'effettività dei rimedi previsti nell'ordinamento greco nei confronti del pericolo di un'espulsione arbitraria del ricorrente (§ 299). Come dicevamo, si tratta di una soluzione insolita: da vari precedenti della Corte europea in tema di estradizione e di espulsione si evince, infatti, come la Corte generalmente verifichi sempre l'esistenza di elementi per ritenere che lo straniero possa essere sottoposto a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu nello Stato di destinazione, anche quando una tale verifica è stato già attuata dalle autorità nazionali. Nella pronuncia in esame, invece la Grande Camera - probabilmente in omaggio al principio di sussidiarietà - ha ritenuto che spettasse in primo luogo alle autorità nazionali verificare l'esistenza di una potenziale violazione dell'art. 3 Cedu, in conseguenza dell'espulsione del ricorrente dalla Grecia verso l'Afghanistan, e si è accontentata di valutare il rispetto del principio di non respingimento in relazione al solo combinato disposto degli artt. 3 e 13 Cedu (ossia il diritto a un ricorso effettivo contro un eventuale provvedimento di rigetto della richiesta di asilo). Tuttavia - come sottolineato dal giudice Villiger nella sua opinione concorrente - il principio di sussidiarietà dovrebbe passare in secondo piano rispetto all'esigenza di assicurare all'art. 3 Cedu una protezione assoluta. Il mancato accertamento di una potenziale violazione dell'art. 3 Cedu in relazione all'espulsione del ricorrente verso l'Afghanistan - ha affermato il giudice - comporta un evidente pregiudizio per il ricorrente, in quanto il preclude, in linea di principio, l'imposizione nei confronti dello Stato membro, ai sensi dell'art. 46 Cedu, dell'obbligo di non eseguire l'espulsione". L. Beduschi, "Immigrazione e diritto di asilo: un'importante pronuncia della Corte di Strasburgo mette in discussione le politiche dell'Unione europea" in Penale Contemporaneo.

208. P. Mori, "Profili problematici dell'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale in Italia", in Il diritto dell'Unione europea, 1/2014, pag. 128.

209. Sen. M.S.S. c. Belgio e Grecia, cit. in cui ai par 339-340: "the Court notes that Article 3.2 of the Dublin Regulation provides that, by derogation from the general rule set forth in Article 3.1, each member State may examine an application for asylum lodged with it by a third-country national, even if such examination is not its responsibility under the criteria laid down in the Regulation. This is the so-called 'sovereignty' clause. In such a case, the State concerned becomes the member State responsible for the purposes of the Regulation and takes on the obligations associated with that responsibility. The Court concludes that, under the Dublin Regulation, the Belgian authorities could have refrained from transferring the applicant if they had considered that the receiving country, namely Greece, was not fulfilling its obligations under the Convention. Consequently, the Court considers that the impugned measure taken by the Belgian authorities did not strictly fall within Belgium's international legal obligations. Accordingly, the presumption of equivalent protection does not apply in this case".

210. Si allude in particolare alle decisioni T.I. c. Regno Unito, cit. e K.R.S. c. Regno Unito, cit., in cui "the Court considered that in the absence of proof to the contrary it must assume that Greece complied with the obligations imposed on it by the Council Directives laying down minimum standards for asylum procedures and the reception of asylum-seekers, which had been transposed into Greek law, and that it would comply with Article 3 of the Convention".

211. Sen. M.S.S. c. Belgio e Grecia, cit., par. 347 e ss. in cui "the Court observes first of all that numerous reports and materials have been added to the information available to it when it adopted its decision in K.R.S. v. the United Kingdom in 2008. These reports and materials, based on field surveys, all agree as to the practical difficulties involved in the application of the Dublin system in Greece, the deficiencies of the asylum procedure and the practice of direct or indirect refoulement on an individual or a collective basis. The authors of these documents are the UNHCR and the Council of Europe Commissioner for Human Rights, international non-governmental organisations like Amnesty International, Human Rights Watch, Pro Asyl and the European Council on Refugees and Exiles, and non-governmental organisations present in Greece such as GHM and the Greek National Commission for Human Rights. The Court observes that such documents have been published at regular intervals since 2006 and with greater frequency in 2008 and 2009, and that most of them had already been published when the expulsion order against the applicant was issued. The Court also attaches critical importance to the letter sent by the UNHCR in April 2009 to the Belgian Minister for Migration and Asylum Policy. The letter, which states that a copy was also being sent to the Aliens Office, contained an unequivocal plea for the suspension of transfers to Greece". E, soprattutto: "the Belgian Government argued that in any event they had sought sufficient assurances from the Greek authorities that the applicant faced no risk of treatment contrary to the Convention in Greece. In that connection, the Court observes that the existence of domestic laws and accession to international treaties guaranteeing respect for fundamental rights in principle are not in themselves sufficient to ensure adequate protection against the risk of ill-treatment where, as in the present case, reliable sources have reported practices resorted to or tolerated by the authorities which are manifestly contrary to the principles of the Convention" (par. 353).

212. "Il principio di non refoulement non può infatti considerarsi rispettato laddove il soggetto sia trasferito verso un Paese in cui rischia di subire violazioni dei diritti fondamentali, sia o meno il suo paese di origine; così come è concreto il rischio di violazioni indirette del principio di non refoulement, per possibili trasferimenti a catena del soggetto richiedente asilo. Allo stesso modo, e a maggior ragione, può dirsi con riguardo al rispetto dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. L'applicazione del concetto di 'paese sicuro', soprattutto se attribuita in via generale e preventiva agli Stati membri, rischia di compromettere la salvaguardia dei suddetti principi". E. Concione, "La nozione di paese sicuro tra protezione formale e sostanziale dei diritti dei richiedenti asilo" in Giurisprudenza di Merito, 1/2013, pag. 117.

213. Sono le dec. Moahmmed Hussein c. Paesi Bassi e Italia, cit.; dec. Halimi c. Austria e Italia, cit.; dec. Abubeker c. Austria e Italia, cit.

214. La Svizzera non è uno Stato Membro dell'Unione europea, ma la (ex) Comunità europea ha concluso un accordo con la Confederazione svizzera relativo ai criteri e ai meccanismi che permettono di determinare lo Stato competente per l'esame di una domanda di asilo introdotta in uno degli Stati membri o in Svizzera, approvato con la decisione del Consiglio 28 gennaio 2008, 2008/147/CE, nonché il Protocollo, con la Confederazione svizzera e il Principato del Liechtenstein, relativo ai criteri e ai meccanismi che permettono di determinare lo Stato competente per l'esame di una domanda di asilo introdotta in uno degli Stati membri o in Svizzera, approvato con la decisione del Consiglio 24 ottobre 2008, 2009/487/CE.

215. Sen. GC Tarakhel c. Svizzera, cit., par. 110 in cui "the Court notes that the methods used to calculate the number of asylum seekers without accommodation in Italy are disputed. Without entering into the debate as to the accuracy of the available figures, it is sufficient for the Court to note the glaring discrepancy between the number of asylum applications made in 2013, which according to the Italian Government totalled 14,184 by 15 June 2013 (see paragraph 78 above), and the number of places available in the facilities belonging to the SPRAR network (9,630 places), where - again according to the Italian Government - the applicants would be accommodated. Moreover, given that the figure for the number of applications relates only to the first six months of 2013, the figure for the year as a whole is likely to be considerably higher, further weakening the reception capacity of the SPRAR system. The Court further notes that neither the Swiss nor the Italian Government claimed that the combined capacity of the SPRAR system and the CARAs would be capable of absorbing the greater part, still less the entire demand for accommodation".

216. Sen. GC Tarakhel c. Svizzera, par. 112 "the Court notes that in its Recommendations for 2013 UNHCR did indeed describe a number of problems, relating in particular to the varying quality of the services provided, depending on the size of the facilities, and to a lack of coordination at national level. However, while it observed a degree of deterioration in reception conditions, particularly in 2011, and a problem of overcrowding in the CARAs, UNHCR did not refer to situations of widespread violence or insalubrious conditions, and even welcomed the efforts undertaken by the Italian authorities to improve reception conditions for asylum seekers. The Human Rights Commissioner, in his 2012 report (see paragraph 49 above), also noted the existence of problems in "some of the reception facilities", voicing particular concern with regard to legal aid, care and psychological assistance in the emergency reception centres, the time taken to identify vulnerable persons and the preservation of family unity during transfers".

217. Sen. GC Tarakhel c. Svizzera, cit., par. 114 "in view of the foregoing, the current situation in Italy can in no way be compared to the situation in Greece at the time of the M.S.S. judgment, cited above, where the Court noted in particular that there were fewer than 1,000 places in reception centres to accommodate tens of thousands of asylum seekers and that the conditions of the most extreme poverty described by the applicant existed on a large scale. Hence, the approach in the present case cannot be the same as in M.S.S. Cerca IUS. Paradigmatiche, a tale proposito, le affermazioni della sentenza Moahmmed Hussein c. Italia, in cui viene nettamente negata la dimensione strutturale della violazione dell'articolo 3 CEDU sotto lo specifico profilo dei richiedenti asilo.

218. Sen. GC Tarakhel c. Svizzera, par. 115 "while the structure and overall situation of the reception arrangements in Italy cannot therefore in themselves act as a bar to all removals of asylum seekers to that country, the data and information set out above nevertheless raise serious doubts as to the current capacities of the system. Accordingly, in the Court's view, the possibility that a significant number of asylum seekers may be left without accommodation or accommodated in overcrowded facilities without any privacy, or even in insalubrious or violent conditions, cannot be dismissed as unfounded".

219. Sen. GC Tarakhel c. Svizzera, cit., par. 122 "It follows that, were the applicants to be returned to Italy without the Swiss authorities having first obtained individual guarantees from the Italian authorities that the applicants would be taken charge of in a manner adapted to the age of the children and that the family would be kept together, there would be a violation of Article 3 of the Convention".

220. Sen. CG N.S. c. Secretary of State for the Home Department e M.E. e al. c. Refugee Applications Commissioner and Minister for Justice, Equality and Law Reform, 21 dicembre 2011, C-411/10 e C-493/10.

221. Sen. CG N.S., cit. par. 81.

222. Sen. CG N.S., cit., par. 103 e ss.

223. Sen. CG N.S., cit. par. 82 in cui "non per questo, però, se ne può concludere che qualunque violazione di un diritto fondamentale da parte dello Stato membro competente si riverberi sugli obblighi de gli altri Stati membri di rispettare le disposizioni del regolamento n. 343/2003".

224. Sen. CG N.S., cit., par. 83.

225. Sen. CG N.S., cit., par. 85.

226. Sen. CG N.S., cit., par. 86.

227. Sen. CG N.S., cit., par. 88-89: "in una situazione analoga a quelle oggetto dei procedimenti principali, ossia il trasferimento, nel giugno 2009, di un richiedente asilo verso la Grecia, Stato membro competente ai sensi del regolamento n. 343/2003, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha dichiarato, in particolare, che il Regno del Belgio aveva violato l'art. 3 della CEDU esponendo il richiedente asilo, da un lato, ai rischi risultanti dalle carenze della procedura di asilo in Grecia, atteso che le autorità belghe sapevano o dovevano sapere che non vi era alcuna garanzia che la sua domanda di asilo sarebbe stata esaminata seriamente dalle autorità greche, e, dall'altro lato, e con piena cognizione di causa, a condizioni detentive ed esistenziali costitutive di trattamenti degradanti (Corte eur. D. U., sentenza M.S.S. c. Belgio e Grecia del 21 gennaio 2011, §§ 358, 360 e 367). Il livello di lesione dei diritti fondamentali descritto in tale sentenza attesta che sussisteva in Grecia, all'epoca del trasferimento del richiedente M.S.S., una carenza sistemica nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo".

228. Sen. CG Bundesrepublik Deutschland contro Kaveh Puid, 14 novembre 2013 C-4/11.

229. Sen. CG N.S., cit., par. 96-97.

230. Sen. CG N.S., cit., par. 98.

231. "It must be noted that the right to political asylum is not contained in either the Convention or its Protocols". Così la Corte, in sen. Vilvarajah e al. c. Regno Unito, 30 ottobre 1991, nn. 13163/87; 13164/87; 13165/87; 13447/87; 13448/87.

232. A. Saccucci "Diritto di asilo e Convenzione europea dei diritti umani", in C. Favilli, op. cit., pag. 149.

233. Si veda sub Capitolo II "La tutela dei diritti fondamentali nella Piccola Europa", in particolare "4.3.1. Segue: il caso dei diritti della Carta corrispondenti ai diritti della Convenzione europea".

234. CG parere 2/13, par. 191 e ss.