ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
La genesi storica del concetto di pericolosità sociale

Tommaso Sannini, 2014

1) La nascita della pericolosità sociale

1.1) La psichiatria incontra il diritto, la genesi di un concetto: nascita della pericolosità sociale

Comportamento scorretto, dà fastidio agli altri malati, è disubbidiente, insofferente alla disciplina, piange per un nonnulla, ha tendenza al furto [...]. E' assai difficile dare un giudizio esatto sullo stato delle sue facoltà psichiche poiché il paziente risponde difficilmente alle domande rivoltegli o meglio risponde solo a sproposito. Così al relatore non è riuscito che fargli dire altro che il suo nome e la sua età [...] non ubbidisce neanche ai comandi elementari [...] attenzione scarsissima. Il Prof. Mingazzini conosce il paziente e lo giudica un pazzo morale: ciò è confermato dall'anamnesi e dal contegno. Certo egli è un deficiente grave che manifesta spiccate tendenze antisociali: oggi è pericoloso a sé; potrà domani esserlo ad altri. Si ritiene pertanto giustificato il suo internamento in manicomio, aggiungendovi a quanto già si è detto la mancanza assoluta di sentimenti affettivi e risultando egli nel suo complesso, affetto da una delle forme più gravi di deficienza, con tendenze impulsive, amorali. Figlio di un alcoolista, il suo cammino nella vita è nettamente tracciato: dirà l'avvenire se e quanto possa migliorarlo l'educazione e se egli potrà un giorno essere restituito alla società, senza pericolo per questa. Esame psichico estratto dalla cartella clinica di Giovanni C. un bambino di nove anni ricoverato presso il manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma nel maggio del 1903 (1).

I rapporti tra psichiatria e diritto, in particolare tra psichiatria e diritto penale, nascono nella seconda metà dell'800, quando il modello psichiatrico, viene visto non solo come paradigma decisivo per spiegare in termini razionali delitti altrimenti assurdi ed inspiegabili, ma anche come un possibile modello su cui basare la nuova architettura del controllo sociale.

Un'architettura che, superando quella che veniva definita la vecchia e obsoleta metafisica delle categorie illuministe in ordine al diritto ed alla politica criminale, allineandosi alle nuove tendenze culturali, all'evoluzionismo di Darwin, al positivismo di Comte, (2) ed dalla sua visione determinista, affermava di trovare le sue fondamenta sull'osservazione naturale e sulle rigide connessioni causali che determinavano il comportamento dei singoli e del corpo sociale nel suo complesso.

Come sostiene Foucault la psichiatria ottocentesca (ed, in parte, anche quella novecentesca) "non funziona come specializzazione del sapere e della teoria medica ma piuttosto come una branca specializzata dell'igiene pubblica [...] istituzionalizzata come misura di sicurezza sociale" (3).

La psichiatria ordina e decodifica la follia solo all'interno del genus della pericolosità, l'osservazione della sua fenomenologia non si declina altrimenti: il folle non può che essere pericoloso, ed il criminale, spesso, non è altro che un folle.

Gli psichiatri dell'epoca, affermando di basare il loro sapere sul metodo scientifico, sull'osservazione di parametri oggettivi, su metodi razionali condivisi, su dati verificabili, pretendono di formulare discorsi che abbiano statuto di verità, e pretendono anche che questi discorsi si trasformino in discorsi di potere, (4) non solo nei manicomi, ma anche all'interno dei tribunali. La psichiatria rivendica, in virtù del suo metodo, e del totale dominio dell'oggetto del suo studio: l'uomo, o, per meglio dire, il cervello, la sua anatomia, la sua fisiologia (unico campo di sapere possibile perché verificabile, misurabile e lontano da ogni filosofia metafisica legata al concetto di mente) un ruolo di predominio là dove gli effetti del potere si manifestano con maggior forza su tale oggetto: il processo penale e soprattutto le sue conseguenze: la determinazione della pena, della sua tipologia e della sua durata.

[...] Egli aveva ucciso quattro bambini e tentato di ucciderne un quinto! I periti della difesa, avendolo dichiarato malato, e malato pericolosissimo, avevano domandato per lui la reclusione perpetua in un manicomio perché non avesse più da tornare in società ad uccidere innocenti creature. La Corte d'Assise invece [...] volle ad ogni costo punirlo con quei venti anni di casa di forza, perché dopo tornasse con l'astuzia finissima, propria degli alienati, a far altra strage d'innocenti. Noi rispettiamo la maestà de' tribunali e l'onoratezza dei Magistrati [...] Ma noi della difesa, derisi ed anche calunniati, vogliamo oggi ricorrere in Appello ad un altro tribunale, non meno sacro e venerando di quello di San Pancrazio, al Tribunale della scienza [...]. (5)

Nel dicembre del 1876 presso la Corte d'Assise di Firenze si è appena celebrato il processo contro Callisto Grandi, reo di aver ucciso ed occultato i cadaveri di quattro bambini ad Incisa Valdarno tra il 1873 e il 1875 e condannato a venti anni di Casa di forza.

A soli tre anni dalla nascita della Società Freniatrica Italiana, fondata nel 1873 che, nel corso del suo primo congresso, ad Imola, nel 1874 aveva adottato ufficialmente il termine freniatria e definito le malattie mentali "affezioni del cervello", acquisite o congenite, primitive o secondarie, (6) in aperto contrasto con la psichiatria francese ancorata alla visione della follia come malattia "dell'anima" curabile con la terapia morale in istituzioni apposite. (7) Il più importante periodico italiano di psichiatria dell'epoca ci mostra con quale forza gli psichiatri rivendichino la ridefinizione del loro ruolo nel processo.

Ed è una rivendicazione che trova il suo primo avversario in quei magistrati che, sordi ai loro ammonimenti, comminano pene troppo tenui.

La fonte della loro legittimazione è "il Tribunale della scienza", il loro fine è la difesa sociale, l'infermità di mente viene richiesta con l'unico scopo di neutralizzare un soggetto pericoloso, non per esigenze mediche, di cura, ma per difendere "innocenti creature".

Mentre in Francia da Esquirol in poi, la psichiatria francese, (la quale, tuttavia, per prima aveva introdotto la teoria della degenerazione mentale con Morel e Magnan tra il 1850 ed il 1870 (8)), si occupava della responsabilità penale dei malati di mente al fine di sottrarli al boia ed alla lama della ghigliottina, in Italia, per l'influenza del monismo di Haekel (9), e della psichiatria tedesca, tutta tesa ad isolare nelle malformazioni celebrali la sede di ogni malattia, sancendo, salvo rari casi, l'incurabilità della malattia mentale, il folle non va salvato ma studiato e neutralizzato. (10)

Alla filantropia si sostituisce la scientificità.

Noi non terremo chiuso nella gabbia, per paura, questo povero mostro, ma lo trarremo fuori dinnanzi al pubblico, perché sia studiato tutto, nella terribile pur miseranda nullità sua, dalla pianta del piede fino al vertice del capo perché si veda e si sappia bene, come questa povera umanità può esser tratta a fare male, non sol per depravazione morale, ma anche per mala struttura corporea. (11)

La chiave degli psichiatri per entrare nel processo è il "mostro", l'autore di atti tanto efferati da non poter essere umani, ma frutto di quella follia senza delirio che verrà definita pazzia morale. La nozione di mostro è, come sostiene Foucault, una nozione giuridica nel senso più lato del termine, poiché ciò che definisce il mostro è il fatto che egli rappresenta non solo una violazione delle leggi dell'uomo ma anche una violazione delle leggi di natura. (12) Tuttavia il mostro, nel suo orrore, lascia senza voce la legge dell'uomo che deve rivolgersi a colui che, in veste di esperto, sappia leggerne la natura.

Egli è anche un modello, "il grande modello di tutte le piccole deviazioni, è il principio di intelligibilità di tutte le più minute forme di anomalia in circolazione [...] Ciò nonostante è un principio tautologico" (13) perché se riesce ad essere un modello per decifrare le piccole anomalie, i piccoli folli, i deficienti, i quali, con le loro misere degenerazioni, compiranno reati da nulla ma che, portando su di loro il nuovo e scientifico stigma della pericolosità, ereditata dal loro "padre putativo", da ora in poi affolleranno ordinariamente i manicomi criminali, tuttavia rimane inspiegabile in se stesso; i freniatri italiani "troveranno la spiegazione nell'alveo della unicausalità biologica, nella degenerazione idonea a spiegare tanto la follia quanto la criminalità, patologizzando così tutti i comportamenti difformi e legittimando la sua neutralizzazione nel manicomio civile prima, in quello criminale poi". (14)

La ragione della follia è fisica e deriva dalla "mala struttura corporea", che dovrà essere sezionata da capo a piedi.

E' bene che i giudici si adeguino al nuovo clima culturale che tanto affascina la borghesia intellettuale europea, ormai stanca delle vecchie idee liberali, che sempre più si rivelano incapaci a regolare gli enormi cambiamenti economici e sociali che si fanno pressanti sul finire del XIX secolo.

La freniatria, l'Antropologia criminale e, più in generale, il Positivismo offrono ora un modello, semplice e pragmatico non solo per spiegare i crimini dei folli ma anche per svelare la natura ultima "dell'Uomo delinquente" e per disciplinare interi gruppi sociali, secondo nuove linee di riforma compatibili con tutte le nuove ideologie politiche che stavano nascendo nel XIX secolo. Definito da Eugenio Garin la "fede laica" dell'accademia italiana della fine dell'800 il Positivismo, in ogni sua declinazione anche quella psichiatrico-criminologica, venne accolto con entusiasmo sia dai socialisti (Lombroso si dichiarava tale), sia dai marxisti, sia dai fascisti mezzo secolo più tardi. (15)

Si dovevano abbandonare definitivamente i canoni della scuola classica: un diritto penale del fatto, il libero arbitrio come presupposto del principio di colpevolezza, una pena predeterminata e proporzionata alla gravità del fatto, astratti ed inutili dogmi verso i quali la magistratura mostrava eccessiva deferenza, per leggere, invece, la pericolosità "sul corpo stesso dell'imputato". (16)

Il fatto non è altro che un sintomo rilevatore di una degenerazione e la degenerazione, quasi sempre, riguarda una malformazione celebrale, che segna definitivamente ed irrimediabilmente il comportamento dell'individuo, privandolo di ogni libertà.

Le nuove teorie, spinte alle estreme conseguenze sembravano dare scacco allo stesso concetto di giurisdizione, nei termini in cui una lunga tradizione europea lo aveva costruito. Questo concetto voleva che la soluzione pubblica dei conflitti e la punizione dei delitti passasse attraverso la riaffermazione di una norma, di una regola che chiudesse il conflitto e vendetta. In questo quadro, il giudizio sulla pericolosità e la responsabilità erano espressi secondo parametri astratti e normativi: la recidiva, il dolo, la colpa. Nelle sue conseguenze estreme, viceversa, la totale sostituzione della prevenzione alla retribuzione, della pericolosità e del possibile danno sociale alla responsabilità contraddiceva alla radice il carattere formale, dialettico, normativo del processo penale. Il quale diveniva così una tappa limitata di un lungo procedimento di valutazione della futura probabilità di nuocere dell'imputato. (17)

1.2) La pazzia morale: paradigma epistemologico della nuova psichiatria

Fu il Francese Pinel a creare la categoria nosografica della pazzia morale agli inizi dell'800, (18) inserendola all'interno della mania senza delirio o monomania impulsiva, malattia che, in assenza di delirio e altre distorsioni della percezione della realtà, presentava alterazioni del comportamento caratterizzate dal reiterarsi nel tempo di irresistibili impulsi alla violenza. (19)

Perfezionata, successivamente, in Inghilterra da Prichard nel 1835 che la chiamerà "moral insanity", definendola una follia, nella quale "il carattere morale è più sovente intaccato che l'intelligenza", "molti malati sono tali perché ammalati nel comportamento e non nelle idee". (20)

L'immoralità dei comportamenti, la perversione, la totale mancanza di sensi di colpa definiscono il nucleo stesso della malattia. (21)

Inizialmente inquadrata nelle monomanie, verrà separata da queste da Morel nel 1860, il quale la categorizzò all'interno delle sue teorie sull'ereditarietà e sulla degenerazione, collocando i folli morali all'interno della categoria dei "degenerati". (22)

Largamente accettata dalla psichiatria italiana, la teoria sulla degenerazione di Morel, si innesterà e verrà completata da una visione rigidamente organicista della malattia mentale in generale e della follia morale in particolare. Questa forma particolare di follia assunse un importanza centrale nel pensiero scientifico italiano tanto da poter affermare che l'unico contributo della scuola freniatrica italiana al dibattito europeo sulle nuove forme di classificazione nosografica fu dedicato alla definizione di follia morale.

Fu Livi, direttore del Manicomio di San Lazzaro di Reggio Emilia ad introdurre nel 1876, primo in Italia, una definizione nosografica compiuta della pazzia morale qualificandola come:

un fatto morboso, vero, reale, visibile palpabile nei manicomi, una malattia cronica del cervello, determinata dalla lesione primitiva, essenziale, di una delle facoltà dell'intelletto umano [...] nasce con l'infelice che la porta e non guarisce mai; il folle morale nacque disposto, plasmato naturalmente al malaffare, un germe dunque ereditario, una vena di pazzo in questi individui, i quali pagano, senza saperlo, il fio delle infermità o delle colpe dei genitori; la follia morale ha cause morbigene speciali, fra le quali primeggia la mala disposizione ereditaria. (23)

E' nella follia morale, più che nella "semplice" monomania, che si configura quella pericolosità, che diventerà concetto giuridico nel 1904 e nel 1930 presupposto soggettivo di una sanzione, oggetto di presunzione assoluta:

Tremendo morbo, ancor più della monomania istintiva è la follia morale; poiché mentre quella non spenge che in un sol punto il senso morale, questa vi fa tenebra assoluta: mentre quella tira a un crimine solo, ed alligna sovente in coscienze rette e virtuose, questa tira ad ogni mal fare e viene da animi guasti e corrotti [...] non guarisce mai ed obbliga la società a separare da se un membro perpetuamente malato e pericoloso (24).

Sempre nel 1876 Tamburini, facendo eco alle posizioni di Lombroso, affermò la necessità dell'introduzione dei manicomi criminali per coloro che erano spinti al delitto per impulsi morbosi e perversità d'animo e per "quella forma purtroppo abbastanza frequente, e altrettanto quasi sempre disconosciuta nella sua indole morbosa, che è la pazzia morale".

Tamburini auspicava che gli psichiatri chiamati in veste di periti nei processi penali si pronunciassero sempre, anche nel caso non gli fosse espressamente richiesto dal giudice sulla pericolosità sociale dell'imputato anche in assenza di una norma che lo prevedesse.

Sono i medici, i medici alienisti periti, i quali sarebbero non dimandati, uscendo anzi dalle attribuzioni loro affidate come periti, si dian cura, premura di richiamare con insistenza, prima di chiudere le loro relazioni scritte od orali, l'attenzione dei magistrati sulle qualità pericolose di questi individui: se essi li riconoscono ancora malati dichiarando assolutamente necessario che siano collocati in luoghi di cura per essi e di sicurezza per gli altri [...] (25)

Il III Congresso della Società Freniatrica Italiana tenutosi a Reggio Emilia nel 1880 avrà come unico tema la follia morale, riconosciuta come patologia autonoma rispetto alla monomania, e distinta in congenita ed eccezionalmente acquisita. (26)

Lombroso inserirà la categoria del pazzo morale nella quarta edizione dell'Uomo delinquente, accomunandola quella del delinquente atavico o delinquente nato per il suo impulso di far del male al prossimo, e per l'assenza di ogni rimorso: "il pazzo morale si fonde col delinquente congenito, solo differendone in ciò che è un'esagerazione dei suoi caratteri" (27). Incominciava così a delinearsi la teoria dell'identità tra criminale pazzo morale ed epilettico (28), che verrà riaffermata anche nel V congresso della Società Freniatrica, a Siena, nel 1886. (29)

Si verifica quindi un progressivo spostamento nosografico della follia morale, prima vista come una forma di monomania, poi separata in una categoria nosografica autonoma ed infine, grazie all'opera di Lombroso, equiparata per molti versi alla categoria tipologica del delinquente nato.

Anche Kraepelin, il padre della nosografia psichiatrica moderna, diede ampio spazio alla teoria della degenerazione e collocò la pazzia morale nel capitolo degli stati di "debolezza psichica" (le insufficienze mentali) per poi inserirla, insieme alla monomania impulsiva nella settima edizione del suo Trattato di psichiatria nel capitolo dedicato alla personalità psicopatica, (30) personalità che tanta fortuna gode ancora oggi, nelle aule di tribunale e nei reparti psichiatrici degli ospedali, sganciando definitivamente questo tipo di follia dalla psicosi, caratterizzata, invece, dal delirio: il segno che caratterizzava tradizionalmente la sragione sin dal medioevo.

Ormai definitivamente inseritasi nella teoria della degenerazione la follia morale assunse una estensione pressoché illimitata, annullando il problema della responsabilità del soggetto autore del reato. La degenerazione faceva sì che il folle si vedesse marchiato da una tara costituzionale, ereditaria che non solo lo rendeva irrecuperabile, ma anche e soprattutto pericoloso, temibile per la sua imprevedibilità ed i suoi irrefrenabili impulsi. (31)

Da ora il folle rimane intrappolato nel "circolo chiuso dell'evoluzione Darwiniana", (32) e la sua degenerazione era osservabile di generazione in generazione, all'interno della cornice del darwinismo sociale.

Secondo il Prof. Algeri:" risulta chiaramente che la maggior parte dei figli dei malati mentali presenta notevoli deviazioni dal tipo normale ed i caratteri della più completa degenerazione fisica e morale [...] Nella maggior parte questi individui presentano sempre le impronte dell'ambiente corrotto e immorale nel quale hanno vissuto". (33)

Le categorie nosografiche e le categorie morali si intersecano, i concetti si uniscono fino a confondersi, la degenerazione diviene giudizio morale, etico ed insieme scientifico, oggettivo. Il riferimento all'ambiente è puramente retorico: la degenerazione, la perversione, è per la maggioranza degli scienziati dell'epoca null'altro che ereditaria, congenita.

Questa perversione, dice Foucault, autorizzerà gli psichiatri ad introdurre nelle loro perizie termini desueti, derisori, puerili. Oziosità, orgoglio, cattiveria, ostinazione: un linguaggio paternalista, il linguaggio dei "genitori o dei libri per bambini" (34) e, come abbiamo visto nella prima perizia di Giovanni C., applicabile anche ai bambini.

E' questo linguaggio moraleggiante, intriso di giudizi di valore, pedagogico che consente lo scambio, il passaggio tra categorie giuridiche e nozioni mediche. La debolezza epistemologica delle categorie mediche così declinate permette l'ingresso di un nuovo linguaggio nei tribunali e nei manicomi, nel diritto penale e nel diritto amministrativo che li fondano e li regolano. La debolezza di questo linguaggio, la sua imprecisione, la sua epitomia gli consente di assumere una valenza regolatrice e normalizzatrice. (35)

L'ereditarietà, l'attribuzione dell'origine della degenerazione dei figli alla follia dei genitori consente un lassismo causale indeterminato dove tutto può essere causa di tutto. La follia non può solo essere causa di follia, ma può produrre ogni tipo di malattia, di vizio morale, di comportamento delinquenziale, "permette di determinare i reticoli ereditari più fantastici e più flessibili". (36)

Attraverso la creazione di una genealogia di anormali, l'idea della guarigione perde di significato, la dimensione terapeutica può far posto alla protezione della società contro il pericolo. (37)

Il folle morale è per definizione un essere pericoloso, si situa in una zona intermedia tra il folle delirante ed il criminale. Sempre deficiente, ma di "astuzia finissima". Perverso, non per disegno, ma per degenerazione biologica.

Pericolo e perversione si uniranno in un nucleo concettuale inscindibile ma dai confini semantici incerti e potenzialmente onnicomprensivi che segneranno la base teorica su cui fondare la prassi della perizia psichiatrica nel processo penale ed insieme il percorso istituzionale obbligato del manicomio civile e di quello criminale. (38)

La pericolosità, legittimando scientificamente la paura verso ogni forma di follia, affermerà, come abbiamo visto nel caso del mostro di bambini, la necessità scientifica dell'internamento perpetuo in manicomio. Il manicomio diventerà l'unico rimedio possibile contro il pericolo e lo scandalo, presupposti parificati nella legge italiana sui manicomi nel 1904.

Presupposti morali e di costume prima, scientifici e giuridici poi.

Attraverso la monomania, prima, e la follia morale, poi, il pericolo sociale incomincerà ad essere codificato all'interno della psichiatria come malattia. (39)

1.3) La possibilità di prevedere il futuro: una prospettiva ontologica

Stabilendo una relazione sostanziale tra crimine e follia ciò che diviene importante per la psichiatria forense, l'oggetto principe della sua analisi, non è più il delirio, la demenza, la follia in senso classico, i nuovi sintomi sono l'irriducibilità, la disobbedienza, l'amoralità, il loro manifestarsi nella mostruosità. Per usare ancora le parole di Prichard "si è ammalati nel comportamento".

La rivendicazione della psichiatria non sarà solo quella di poter stabilire con assoluta certezza chi è folle, ma soprattutto essa rivendicherà l'unicità del proprio sapere, affermando di essere l'unica scienza in grado di prevedere il futuro comportamento del folle, di poter prevedere grado ed intensità della malattia e quindi della pericolosità che ne è il corollario e l'attributo principale.

La "mala struttura corporea", l'"astuzia finissima", la "disubbidienza ai comandi elementari", le leggi causali della natura indicano ai medici la "miseranda nullità", la natura mostruosa del folle e quindi la sua pericolosità, anche in assenza di delirio.

Per Foucault nel XIX secolo la psichiatria si è "disalienizzata", non ha più bisogno del delirio e della demenza, anzi, queste le sono d'impaccio. La follia cambia forma, struttura e manifestazioni.

L'unico parametro per stabilire il confine tra follia e normalità è dato dalle norme di tipo autoreferenziale stabilite dalla psichiatria stessa, una norma che non ha più alcun legame con le forme che contraddistinguevano la follia classica e che apre alla psichiatria l'intero campo del comportamento umano. (40)

Grazie alla rimozione della follia ogni comportamento è valutabile come anormale.

Nel 1876 Cesare Lombroso pubblica la prima edizione dell'Uomo delinquente, è l'atto di nascita dell'Antropologia Criminale: la costola criminologica della freniatria. Vi si enuncia la stretta parentela esistente tra delitto e pazzia. Pur non essendovi una piena identità concettuale, la pazzia viene irrimediabilmente attratta entro gli spazi della nuova scienza criminologica e del suo determinismo biologico. Il criterio per individuare il folle e il criminale sarà il dato anatomico, la deformità fisica, i particolari tratti somatici.

Il corpo come epifania della degenerazione, causa della pazzia: una debolezza mentale sempre pericolosa. Analizzando la forma di un naso, misurando l'altezza della fronte o la circonferenza di un cranio è possibile accertare la follia e di conseguenza prevedere la pericolosità di un uomo. La degenerazione, si caratterizzerà nell'esperienza italiana per il suo collegamento con le anomalie organiche e fisiche che consentivano di dare, tramite l'anatomia, dignità medica, scientifica alla psichiatria.

A partire dagli anni '80 del XIX secolo la cartelle cliniche saranno sempre corredate dalle descrizioni dei dati anatomici degli internati: le cosiddette note antropometriche. Tali anomalie potranno essere il segno tangibile, la prova regina, all'interno dei tribunali di follia o di criminalità congenita a seconda delle circostanze, nei manicomi civili di pura e semplice pericolosità. Il bambino Giovanni C., ad esempio, presentava "profilo negroide, numerose note degenerative, orecchie staccate". (41)

Le stimmate somatiche indicative di una deformità mentale, di una natura degenerata correlata all'atavismo poteva essere misurata attraverso il goniometro, usato per la misurazione dell'angolo facciale, e del craniometro a compasso, per lo spessore del cranio e della fronte. (42)

Le note scompariranno dalle cartelle cliniche e dalle perizie intorno agli anni venti del 900: (43) di loro non ci sarà più bisogno, la psichiatria ha raggiunto i suoi obiettivi e consolidato il suo potere, il discorso psichiatrico sarà produttivo di verità e di effetti di potere in se stesso.

2) Il grande internamento

2.1) L'esperienza italiana

L'esito non può essere, come è sempre stato fin dal '500, che l'internamento, ma ora esso non può più essere solo una pratica operativa, avendo trovato una giustificazione nella scienza, deve trovare una consacrazione nella legge, il giudizio morale insito in tutte le valutazioni psichiatriche dell'epoca serve ad attrarre il giudizio normativo, a conformarlo a quello che si autolegittima come giudizio naturalistico oggettivo, ma che si riduce poi ad affermare l'identità tra la responsabilità di chi tiene in consegna un animale pericoloso o un pazzo. (44)

Una volta definita la follia come lesione delle facoltà morali, costruito il legame tra il delinquente e il folle, si pone dunque il problema di differenziare le due classi, al fine di determinarne le sorti, il trattamento cui sottoporli. (45) Gaspare Virgilio, medico primario del manicomio civile di Aversa, afferma la necessità della neutralizzazione dei folli perché:

Quando un superiore interesse sociale ne ingiunge mantenere assicurato un folle omicida in un manicomio, talora anche per tutta la vita (e questo certo è più duro dello stesso carcere) mentre la giustizia lo dichiarava niente affatto colpevole, esso difatti chiama anche i folli a rispondere dei loro atti, una volta che la responsabilità implica garanzia delle offese che alla società potrebbero essere arrecate.

Dunque la responsabilità esiste nei pazzi come nei delinquenti, comunque nei primi sia nient'altro che modificata nel senso voluto da Delasiauve, cioè che, constatato il fatto, l'arte ne riconosce il legame che lo avvince allo stato anormale in cui l'individuo si trova, consigliando l'amministrazione della pubblica sicurezza ad assicurarlo, mentre propone, secondo la scienza, di assolverlo. Ecco come lungi dal sopprimere, colle scuse della pazzia, la responsabilità, si cerca solo di modificarla nella interpretazione morale. (46)

La responsabilità, quindi non si sopprime, come pensano invece i fautori della Scuola Classica, ma si "modifica nell'interpretazione morale". La pazzia non ha scuse.

Il pazzo si assolve nel processo ma si "assicura" e, essendo la follia lesione costituzionale e lesione morale, le si impone un trattamento più duro dello stesso carcere.

Sembra che la Scuola positiva enfatizzi la responsabilità del folle nei confronti del corpo sociale, la critica mossa al principio di responsabilità morale non si muove tanto sul piano della libertà della coscienza, visto che "la più superficiale conoscenza dei pazzi prova che essi in generale non hanno solo piena coscienza delle loro azioni, ma che anche ragionano sulle loro sensazioni ed impressioni" (47) quanto sul piano del castigo.

Tuttavia la pratica del grande internamento inizierà in Italia nel settore dei manicomi civili: nel 1865 i ricoverati nei manicomi italiani erano circa 7.700, nel 1874 arriviamo a 12.210, solo sette anni più tardi, nel 1881, gli internati saranno più di 18.000. Nel 1898 i ricoverati diventeranno ben 36 873. Nel 1914 arriveremo all'impressionante cifra di 54.311. A questo incremento della pratica dell'internamento non fa riscontro l'aumento generale della popolazione italiana, che in quel lasso di tempo era aumentata solo di 1/10, da 23.967.736 a 25.238.997. (48)

In cinquanta anni gli internati in manicomio si sono sestuplicati: è la vittoria del Positivismo.

La formazione delle nuove categorie nosografiche consentiva alla psichiatria di svolgere un ruolo di primo piano nel controllo sociale, di modellare nuovi percorsi. Nel 1890 "anno di impetuosa crescita dei ricoveri manicomiali la popolazione carceraria subì un decremento" (49), ormai le due istituzioni potevano essere fungibili.

Troviamo un esempio di questa fungibilità nelle valutazioni che Virgilio fa su giovane di diciotto anni, sottoposto alla sua attenzione dal direttore dell'orfanotrofio maschile di Aversa:

La fronte fuggente, il naso schiacciato e diretto in su, leggiero prognatismo delle mascelle. Il grado di intelligenza è minimo, scarsissima la suscettibilità alla istruzione. Condotta buonissima meno la incorreggibilità al furto; per lo quale è divenuto quasi l'abbominio dei compagni d'istituto; il che lungi dal correggerne la tendenza ne ha solo modificato il carattere, perché è divenuto cupo, malinconico, senza dire che l'ha denutrito e deperito nel fisico. Molti individui di questo genere io credo sarebbero meglio allogati nel manicomio; i quali di presente popolano le prigioni con grave danno della società che ha diritto di essere garantita nei suoi individui e che resterebbe presto o tardi compromessa da costoro, quando, espiato il carcere, non saprebbero alla prima occasione resistere alla loro malvagia natura. (50)

In queste parole, ancora, troviamo la preoccupazione principale della psichiatria: l'ordine pubblico.

Dall'orfanotrofio al manicomio perché incorreggibile, cupo, malinconico.

Il carcere sarebbe, anche in questo caso, uno strumento insufficiente perché il medico sa, e lo sa con certezza, vista la fronte fuggente, il naso schiacciato, la minima intelligenza, che questi soggetti non possono resistere alla loro natura immutabile e crudele.

Il manicomio, quindi, anche quello civile, tutelerà la società meglio del carcere.

La programmazione del futuro dell'orfano è compiuta, i numeri degli internamenti ci dicono che molti altri subiranno le stesse "prognosi" e vedranno segnato il loro destino.

All'incremento esponenziale della popolazione manicomiale concorrerà anche il bassissimo numero di dimissioni. La quantità di internati è, e rimane, alta anche a fronte di una alta mortalità all'interno dei manicomi stessi. La percentuale di mortalità era, infatti, di circa il 30% rispetto alle ammissioni effettuate annualmente. (51) Spesso, inoltre, le dimissioni consistevano nel trasferimento in istituti per invalidi cronici. (52) Anche il numero dei "recidivanti" era alto: la percentuale di coloro che rientravano in manicomio una volta dimessi, infatti, era pari al 21,6% delle ammissioni complessive. (53)

Ovviamente la quantità di istituti presenti nel territorio era insufficiente. Per far fronte ad un aumento del 600% di soggetti da trattare, da neutralizzare si dovettero "inaugurare" molte altre strutture. Nel 1898 l'Italia arrivò ad avere 40 manicomi provinciali, 32 case di salute per malati mentali, 16 cliniche psichiatriche universitarie e, molto prima che il codice Rocco li legittimasse nel 1930, 3 manicomi giudiziari. Agli albori della prima guerra mondiale vi erano già 59 manicomi pubblici, 30 manicomi privati, 51 atri istituti per alienati, oltre ai 3 manicomi giudiziari e alle numerose cliniche universitarie. (54) Un notevole sforzo, sul piano della finanza pubblica, ma anche sul piano degli investimenti privati, in un arco temporale brevissimo. Un efficienza, una solerzia operativa rara nell'esperienza politico istituzionale italiana.

2.2) La nascita dei manicomi criminali

Nel 1876, il direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena, Martino Beltrani Scalia, "con un semplice atto amministrativo" inaugurò la Sezione per maniaci nella casa penale per invalidi di Aversa, ospitata nel convento cinquecentesco di S. Francesco di Paola.La Sezione per maniaci rappresentò il primo passo verso la creazione dei manicomi criminali. La sezione accolse inizialmente 19 rei folli. (55)

La creazione del manicomio criminale passa quindi attraverso un atto amministrativo, l'urgenza dell'Amministrazione, ormai persuasa dalle nuove tecniche di controllo della devianza proposte dall'Antropologia criminale non consente il confronto parlamentare. Non è la legge generale ed astratta, la più celebrata fonte di normazione dell'illuminismo penale, a formalizzare come istituzione giuridica il manicomio criminale, bensì una fonte secondaria, pragmatica come la scienza che va a cristallizzare.

Lombroso fu uno dei primi fautori di questa introduzione, il suo scopo era quello di "gettare le basi di una riforma in cui la pena non sia più espressione di una vendetta ma di una difesa" (56). Una difesa ben lontana dalla concezione classica, che bilanciava sempre la necessità della difesa sociale con un altro baricentro irrinunciabile: la garanzia dei diritti della persona contro l'arbitrio del potere.

Il malato mentale lombrosiano deve essere oggetto di studio e di custodia. Il soggetto di diritto è ormai reificato.

Tuttavia l'analisi di Lombroso è chiara: anche se scevro dell'elemento retributivo della "vendetta", il manicomio giudiziario è una "pena", ha una natura di fatto sanzionatoria, punitiva. Nella visione degli antropologi criminali l'intero modello della penalità avrebbe dovuto forgiarsi sul concetto di delinquenza come malattia e della pena come cura, una cura afflittiva e spesso perpetua.

L'unico criterio usato per differenziare il trattamento era il "tipo d'autore" il fatto era un semplice dato sintomatico. (57)

Proprio sul tema della pena e sulla sua finalità trovarono un punto di incontro i padri dell'antropologia criminale (i quali avevano teorie spesso opposte, come Ferri e Lombroso) che daranno cosi vita alla Scuola positiva del diritto penale in aperta opposizione ai giuristi che ancora si rifacevano ai principi classici del diritto penale (Carrara, Carmignani, Rossi).

L'affermarsi del concetto del "tipo d'autore" si può notare proprio nella disciplina istitutiva della "sezione per maniaci" di Aversa, destinata ad accogliere quei soggetti che, giudicati imputabili e già condannati ad una pena, fossero successivamente impazziti in carcere, (58) il fatto di essere diventati folli li privava della garanzia di una pena, "vendicativa", sì, ma certa, determinata e proporzionata al fatto commesso e li inseriva in un percorso istituzionale "difensivo", indeterminato e spesso perpetuo.

Secondo la visione di Virgilio e di Biffi:

la reclusione nel manicomio criminale dovrà essere permanente [...] la società ha diritto a garantirsi da tali esseri degenerati, pericolosi in via d'eccezione potrà verificarsi qualche caso di miglioramento, fors'anche di guarigione, ma non saranno mai soverchie le cautele, di cui andranno circondate le poche dimissioni. (59)

Preso atto che la sezione di Aversa era insufficiente ad accogliere tutti i delinquenti impazziti delle carceri, nel 1886 sempre in assenza di una legge che li regolasse, e ne stabilisse funzioni e limiti, si decise di aprire una nuova struttura, trasformando in manicomio giudiziario la Casa di pena dell'Ambrogiana presso Montelupo Fiorentino (60). La Villa Medicea che lo avrebbe accolto, costruita nel XVI secolo sul progetto del Buontalenti fu scelta per la sua posizione strategica: al centro del Regno e vicina ad un importantissimo snodo ferroviario, cosi da essere facilmente raggiungibile da ogni parte d'Italia. (61)

Il numero di manicomi criminali continuò a crescere. Nel 1892 venne istituito il manicomio giudiziario di Reggio Emilia, ospitato all'interno di un convento del XVII secolo. Prima riservato ai soli soggetti affetti da vizio parziale di mente fu poi aperto a tutti gli infermi di mente. (62)

La più grande riforma della penalità italiana era passata alla "chetichella" (63) per usare le parole dello stesso Lombroso, attraverso regolamenti amministrativi, e questo gioco degli equivoci, in cui le modalità della limitazione della libertà personale non viene effettuato attraverso le categorie logiche del diritto penale cristallizzate dalla legge, ma attraverso atti amministrativi, fortemente influenzati dalle nuove teorie elaborate dalla freniatria e dalla Scuola positiva, continuerà anche dopo l'entrata in vigore del codice Zanardelli: il primo codice penale dell'Italia unita. (64)

3) La Legislazione italiana

3.1) Il codice Zanardelli

I Positivisti continuarono comunque ad invocare un intervento legislativo che accogliesse in forma più solenne le loro istanze, nonostante le resistenze della Scuola classica. Il senso di queste resistenze può essere sintetizzato dalla risposta che il Ministro Mancini dette all'interpellanza dell'Onorevole Righi, fatta per sollecitare l'istituzione dei "manicomi carcerari" del 14 aprile 1877.

Il Ministro, pur ritenendo astrattamente ammissibile l'internamento degli imputati impazziti durante il processo, o durante l'espiazione della pena, ed anche una forma di internamento per i semi imputabili, riteneva che fosse un vero e proprio controsenso giuridico che un imputato, assolto per totale infermità di mente, al quale quindi non era attribuibile alcun reato, decadesse "dall'esercizio e dal godimento di quella libertà che non si nega a tutti gli altri infelici travagliati dalla stessa sua malattia". (65)

Le speranze della Scuola positiva si riposero allora sul Ministro dell'interno De Pretis il quale aveva presentato per ben tre volte tra il 1881 e il 1886, un progetto di legge sui manicomi criminali, (66) che non venne mai approvato dal parlamento, (67) e che prevedeva l'internamento, non solo dei detenuti impazziti in carcere (art. 29), ma anche di quei soggetti che, assolti per vizio di mente, costituissero secondo il giudizio del giudice penale "un reale pericolo per la sicurezza sociale sulla base del parere di due medici alienisti"(art. 30). Il provvedimento era revocabile da parte della stessa Corte. Per la categoria dei semi-imputabili, già giudicabili, erano previsti istituti di custodia di tipo non manicomiale dove assicurare repressione e cura (art. 29). (68)

L'entrata in vigore del codice Zanardelli nel 1889, sembrava invece segnare la vittoria della Scuola Classica nel riaffermare una visione monista della pena, di tipo retributivo, connessa alla gravità del fatto, alla colpevolezza del reo, predeterminata nel massimo, abolendo persino i lavori forzati e la pena capitale, difesa accanitamente da Lombroso, e Garofalo. (69) Se infatti il Ministro Zanardelli aveva previsto, nel capoverso dell'art. 46 del progetto del codice, la possibilità per il giudice penale di ordinare il ricovero nei manicomi, civili o giudiziari già istituiti, per chi fosse stato giudicato non punibile per una "deficienza od una morbosa alterazione della mente", tuttavia la commissione della Camera dei deputati incaricata dell'esame del progetto rifiutò recisamente la proposta, sottolineando come non fosse mai stata e non dovesse essere di competenza del magistrato penale il potere di rinchiudere un uomo nel manicomio giudiziario o civile, in particolar modo nel caso in cui questa reclusione fosse stata perpetua, come l'inciso "per rimanervi finché l'autorità competente lo giudichi necessario" lasciava trasparire. (70) "Non è istituto per uomini di toga sentenziare sulla patologia dei loro contemporanei. Questo è ufficio dell'arte sanitaria" afferma in commissione il deputato Pellegrini (71). Non si riconosce quindi alla modernità positivista la possibilità di mutare il ruolo del giudice, la natura del suo giudizio, l'epistemologia del suo fondamento.

Nel momento di maggior fulgore dell'Antropologia criminale i giuristi rifiutano la concezione della pena come neutralizzazione del pericoloso. Il Prof. Vittorio Marchetti nel suo Compendio di Diritto Penale afferma:

Non è inopportuno osservare che questo sistema a base di fisiologia e sociologia avvilisce l'uomo in un ineluttabile fatalismo [...] e riducendo il magistero punitivo ad una lotta difensiva della società contro l'individuo, meglio che diritto penale potrebbe chiamarsi terapeutica sociale [...] fra la repressione dell'uomo dannoso criminale e la uccisione del cane idrofobo non corre alcuna differenza trattandosi, tanto nell'uno quanto nell'altro caso di rimuovere un pericolo sociale (72).

Si avverte l'eccessiva arbitrarietà nei presupposti della sanzione, propria di quel soggettivismo inquisitorio che realizza il paradosso tipico di ogni dottrina sostanzialistico ontologica che voglia contrapporre al fondamento convenzionalistico una fondazione metagiuridica ed oggettiva della devianza punibile: aprire la scienza ed il diritto penale al più incontrollato soggettivismo. (73)

La vittoria della Scuola classica sarà però solo parziale.

Se l'art. 46, primo comma, del nuovo codice penale non fa che ribadire la concezione classica dell'imputabilità affermando che: "non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di mente de togliergli la coscienza dei propri atti"; il secondo comma genericamente statuisce che il giudice può ordinare con il proscioglimento la "consegna all'autorità competente per i provvedimenti di legge" nel caso in cui ritenesse il non imputabile pericoloso.

Se dunque il codice prevedeva un sistema sanzionatorio di tipo monistico retributivo ponendo il non imputabile al di fuori del circuito carcerario e della giustizia penale intesa in senso classico, (74) tuttavia lo consegnava ad una rete, ad un sistema di neutralizzazione ed incapacitazione più afflittivo di quello penale. (75)

La psichiatria, la freniatria, poteva ora esprimere più compiutamente quel ruolo di controllo sociale che aveva sempre rivendicato: in altri termini, se l'Antropologia criminale non riesce ad affermare una misura special preventiva, neutralizzativa nei confronti di tutti i criminali, incomincia ad avere quel potere quasi assoluto sui meccanismi di controllo e punizione degli "alienati" che verrà poi consacrato definitivamente dal codice Rocco nel 1930.

Infatti con il Regio Decreto 1 dicembre 1889 n. 6509 contenente le disposizioni di attuazione del codice Zanardelli si stabiliva che la Corte d'Assise provvedesse, con ordinanza motivata, alla consegna del prosciolto per infermità mentale all'autorità di pubblica sicurezza, che lo faceva ricoverare provvisoriamente in un manicomio in stato di osservazione (art. 13) fino a che il Presidente del Tribunale civile, su istanza del Pubblico Ministero, assunte opportune informazioni, non ne ordinasse il ricovero definitivo o la liberazione (art. 14).

L'ordine poteva essere revocato quando fossero cessate le condizioni che lo avevano determinato (art. 14, secondo comma). (76) Il Presidente poteva sempre ordinare la consegna della persona ricoverata in manicomio a chi consentisse di assumerne la cura o la custodia e offrisse sufficienti "guarentigie" (art. 14, terzo comma). Tali norme dovevano poi essere combinate con le disposizioni del successivo Regolamento generale degli stabilimenti carcerari (R.D. 1 febbraio 1891) il quale prevedeva che, oltre al delinquente impazzito, anche il prosciolto ai sensi dell'art. 46 venisse trasferito con decreto del Ministro dell'Interno e su proposta dell'Autorità di pubblica sicurezza in un Manicomio giudiziario.

Anche in questo caso il provvedimento era astrattamente revocabile.

Per i soggetti semi imputabili (minori e semi infermi), invece, l'art. 47 prevedeva che il giudice potesse far scontare la pena in un apposito istituto: la casa di custodia. La quale era non una misura di sicurezza ma una particolare modalità di espiazione della pena detentiva, pertanto il ricovero doveva essere determinato nella sua durata massima ed alla decorrenza del termine il soggetto avrebbe riacquistato la libertà "quand'anche perdurerà il pericolo inerente alla sua infermità mentale". (77) In questo versante quindi il codice Zanardelli si presentava più garantista del codice attuale, anche "mondato" dai recenti interventi della Corte Costituzionale. Non vi è alcuna similitudine con l'attuale previsione normativa relativa alla casa di cura e di custodia (art. 219 c.p.).

Pur rinunciando formalmente ad inserire il malato di mente nel circuito penale in realtà comincia a formarsi quello che Ferrajoli definisce un sottosistema penale autonomo, che sfugge alle garanzie proprie del sistema penale classico, elaborate dall'illuminismo penale; di competenza in parte della magistratura e, in più larga parte, della polizia (Autorità di pubblica sicurezza e Ministero dell'Interno), (78) i cui tratti fondamentali sono ancora oggi fortemente presenti nel nostro sistema.

La stessa Cassazione, nel 1890, sosteneva che il provvedimento previsto dal secondo comma dell'art. 46 non avesse natura penale ma fosse un provvedimento di ordine pubblico volto a garantire la sicurezza dei cittadini ed al contempo l'incolumità del prosciolto; (79) il soggetto ontologicamente pericoloso sfugge alla pena ma non alla neutralizzazione, all'incapacitazione in virtù di una qualità personale, di uno status, da neutralizzare una volta per tutte essendo portatore di "una malattia incurabile non potendo mai i castighi indurre un miglioramento. Il cane seguita a recere, la scrofa ad avvolgersi nel brago". (80)

Certo, la legge non stabiliva alcuna presunzione di pericolosità, ma non ve ne era il bisogno: il clima culturale dell'epoca aveva appena stabilito una naturale equazione tra malattia mentale e pericolosità.

La pena si trasformerà da ora in poi per il soggetto assolto per vizio di mente in un trattamento neutralizzativo, e non avrà limiti legislativamente prestabiliti. Nell'esperienza giuridica italiana la svolta correzionale della dogmatica penalistica e della politica criminale si verifica, non secondo una continuità, una linea armonica come sembra suggerire Foucault, che nasce nel XVIII secolo per trovare il suo culmine nel XIX secolo, ma attraverso un durissimo scontro culturale tra due visioni epistemologiche ed assiologiche antitetiche.

Che vi fosse comunque una certa resistenza da parte del ceto dei giuristi ad accettare i nuovi paradigmi della Scuola positiva ci viene testimoniato dalle lamentele degli stessi Lombroso, Tamburini ed Ascenzi, incaricati, nel 1892, di stendere una Relazione a S.E.: il Ministro dell'Interno sulla ispezione dei Manicomi del Regno a loro affidata per verificare l'attuazione delle nuove normative in materia. I tre psichiatri infatti, nella relazione, lamentavano il fatto che si fosse stravolta completamente la funzione dei manicomi criminali presenti allora unicamente a Montelupo e ad Aversa. (81) Vi erano solo condannati impazziti durante l'espiazione della pena e giudicabili in osservazione. Solo due persone erano state internate a seguito di un proscioglimento per infermità mentale. (82) Non vengono internati, quindi, proprio quelli che a loro parere sono i soggetti più pericolosi. Sollecitano per questo una modifica del regolamento carcerario, che stabilisca in modo netto la destinazione del manicomio criminale non solo per i prosciolti per infermità mentale, ma anche per i semi infermi, richiedendo, poi, l'istituzione di particolari sezioni per gli epilettici, e naturalmente per i "mostri": i pazzi morali visti come fonte di "infezione pericolosissima". (83)

3.2) La Legge 36 del 1904

Con l'art. 1 della legge n. 36 del 1904 il quale postulava l'internamento per i soggetti socialmente pericolosi o pubblicamente scandalosi, riservandone la competenza al giudice civile, si arrivò a rendere tendenzialmente omogeneo il trattamento giuridico e, per così dire, sanitario dei malati di mente: l'omogeneità resterà tale per 74 anni, fino alla legge 180 del 1978.

La legge civile nacque ormai alla fine dell'esperienza della scuola freniatrica, e della concezione organicista della psichiatria ma ne riprese tutte le tematiche fondanti, perseguendo principalmente un'ideologia securitaria, sebbene affermata nell'interesse dei malati, (84) anche se in quel periodo incominciavano ad emergere nel dibattito internazionale, soprattutto statunitense e nord europeo, altri tipi di trattamento favorevoli a forme di ospedalizzazione open door, i quali non prevedevano forme di contenzione fisica o muraria, ed era ancora viva l'esperienza del no restraint dell'inglese John Conolly, che, nel 1839, aveva abolito qualsiasi mezzo di restrizione fisica nel trattamento dei sofferenti psichici. (85)

La questione manicomiale per la psichiatria italiana non era solo una questione medica, era una questione sociale, o per meglio dire una questione di difesa della collettività, di sicurezza pubblica che non poteva contemplare profilassi che non prevedessero contenzioni, chiusure, mura di cinta. Sebbene già allora già ci fosse chi sosteneva che il sistema manicomiale, così inteso, non fosse altro che una fabbrica di cronici o di incurabili. (86)

Fu cosi che dopo circa quarant'anni di dibattiti e molti progetti di legge mai definitivamente approvati il Presidente del Consiglio Giolitti presentò al senato il disegno di legge dal titolo Disposizioni sui manicomi pubblici e privati che si sviluppava in soli otto articoli ed il cui perno era l'art. 1 che imperativamente definiva le condizioni per le quali si doveva disporre l'internamento in manicomio: la ormai consolidata categoria della pericolosità sociale ed il suo precipitato moralistico, di costume: il pubblico scandalo. Ecco come scienza, legge, e costume si compenetrano fino a formare categorie tanto labili da essere indistinte ma in virtù di questo assolutamente vincolanti, pervasive. La morale si erge ad imperativo giuridico. Categorie inverificabili in alcun giudizio sebbene, anche in questo caso, la competenza relativa alla decisione definitiva sull'internamento fosse stata affidata al Tribunale in camera di consiglio su istanza del Pubblico Ministero (art. 2).

Fu proprio su questo punto che il pur esiguo dibattito Parlamentare sulla legge si animò, e l'intervento più critico fu di Luigi Lucchini, il direttore della Rivista Penale. (87)

Il disegno di legge provvede o almeno crede di provvedere a una delle maggiori garanzie che si possano escogitare per la tutela della libertà individuale, subordinando al provvedimento dell'autorità giudiziaria il ricovero nel manicomio di qualsiasi alienato. [...] Già lo si è detto da più parti, fra gli altri dal primo presidente della Corte di Cassazione di Francia, che l'autorità giudiziaria non ha e non può avere competenza. Che volete poi che faccia il Tribunale in camera di consiglio? Volete che chiami personalmente al suo cospetto ogni denunziato, per vedere se è pazzo o no? E quando lo facesse come e con quali criteri potrebbe venirne a capo con vera scienza? Il magistrato in genere si troverebbe in grande imbarazzo e non potrebbe di regola che deferire all'uomo tecnico [...] Si dirà che abbiamo il precedente in Toscana (88) [...] ma appunto il precedente della Toscana deporrebbe in senso contrario perché vi è un numero proporzionalmente doppio di ricoverati nei manicomi toscani che non in quelli delle altre province del regno: ciò dunque fa intendere come nemmeno l'intervento dell'autorità giudiziaria costituisca un ritegno all'ammissione dei folli nei manicomi. Volete un altra prova che l'autorità giudiziaria non suol essere freno in atti che esorbitano dalle sue vere e proprie attribuzioni? L'avete nell'applicazione dei provvedimenti di polizia [...] E così in altra analoga materia, è nota la prodigalità che si usa fare dei decreti di ammissione al ricovero dei minorenni per correzione paterna. (89)

Nonostante questa ed altre critiche il progetto di legge rimase invariato e venne definitivamente approvato il 12 febbraio 1904 per poi essere promulgato il 14 dello stesso mese col numero 36, divenendo cosi formalmente la prima legge regolatrice dei manicomi italiana. (90)

Per superare quella sinteticità che aveva consentito alla legge 36 di essere approvata velocemente e senza modifiche, nel 1909, cinque anni dopo, venne promulgato un regolamento di esecuzione di ben 93 articoli redatto interamente da tecnici. L'impianto complessivo privilegiava la custodia alla cura e ormai consolidava quella visione secondo la quale "il folle che ingombra la società simboleggia, nell'organismo sociale, quello che rappresentano le tossine, le infezioni nell'organismo individuale". (91)

3.3) Il Codice Rocco

Il codice Rocco fu la prima fonte normativa italiana ad affidare alle competenze del giudice penale il trattamento di quei soggetti che, assolti, fossero stati ritenuti socialmente pericolosi. Nell'elaborazione delle previsioni normative funzionali alle nuove esigenze il codice Rocco fu fortemente influenzato dalla riformulazione della categoria della prevenzione e di quella della retribuzione elaborate dalla scuola di matrice elvetico - germanica, (92) affidata soprattutto a Stoos e a Exner, la quale, prima, separava forzatamente in due aspetti concettualmente distinti prevenzione generale e prevenzione speciale, per poi confondere l'aspetto generale della prevenzione stessa con il concetto di retribuzione, trasformandolo così in strumento di prevenzione del delitto e privandolo della funzione di criterio limitativo della responsabilità proprio del garantismo illuminista.

In questa nuova visione la retribuzione diventa la base della protezione statuale dei beni giuridici. Questa confusione concettuale lascia impregiudicata e nettamente isolata la prevenzione speciale che di conseguenza viene affidata alle misure di sicurezza ed apre al sistema del doppio binario, il quale vedrà nettamente separate retribuzione e prevenzione generale da un lato e prevenzione speciale con il corollario dell'individualizzazione della misura dall'altro. (93)

La pena quindi non potrà esaurire il campo dell'intervento penale, essendo priva del connotato della prevenzione speciale, pena e misura di sicurezza non possono avere lo stesso contenuto, in virtù di una finalità assolutamente diversificata: la pena infliggerà un male a fronte della violazione della fattispecie, mentre la misura sarà fondata su uno status personale, una qualità soggettiva e sarà finalizzata alla neutralizzazione ed alla rieducazione giustificando così anche l'eventuale doppia privazione di libertà nel caso in cui pena e misura di sicurezza vengano a cumularsi (come ad esempio nel caso del semi imputabile). (94)

Anche il criterio di imputazione delle misure doveva essere diverso: poggiando sul concetto classico del libero arbitrio, avendo un fine di garanzia, ed essendo strettamente ancorato ad un singolo fatto criminoso, il principio nullum crimen sine culpa non poteva essere applicato. Il criterio di imputazione delle misure di sicurezza doveva rispondere ad un nuovo principio: Nicht die Tat, sondern der Täter ist zu bestrafen si deve punire non il fatto, bensì l'autore.

Il criterio che si scelse per l'attuazione di questo principio fu mutuato dall'Antropologia criminale italiana, dalla Scuola positiva, era quello della "pericolosità dell'autore per la società", una pericolosità ontologicamente determinata e naturalisticamente data, tanto da poter preventivamente determinare la tipologia dei destinatari grazie ai contributi della criminologia, dell'antropologia e della psichiatria. (95)

Il manicomio giudiziario veniva inserito nel titolo VIII del codice relativo alle "misure amministrative di sicurezza", che segnava l'abbandono ad un sistema monistico della pena e l'apertura al nuovo sistema del doppio binario. Se per molti autori il riferimento alla natura amministrativa delle misure di sicurezza sarebbe solo un espediente nominalistico per salvare la natura fondamentalmente retributiva della pena e per giustificare il fatto che sul giudizio di pericolosità non si formasse il giudicato (come se questo solo fatto fosse cosa da nulla in materia penale), senza mutare però la loro natura di sanzioni criminali, (96) tuttavia è lo stesso Alfredo Rocco, nella relazione al Progetto definitivo del codice, a spiegare articolatamente i motivi di quella che per molti appare una forzatura.

Trattando la questione dal punto di vista politico-criminale Rocco, infatti, definisce espressamente l'ordine di applicazione della misure di sicurezza da parte del giudice un atto amministrativo e in conseguenza "immune da quella rigidità che, senza dubbio informa il provvedimento giurisdizionale". (97) Avvicinando, quasi accomunando, le misure di sicurezza alle misure amministrative di Polizia, afferma che "Il Progetto non crea affatto fra le misure di sicurezza e gli ordinari provvedimenti di polizia un conflitto, in atto o in potenza [...] ma attua un regime di armonica coesistenza", (98) in altre parole "le misure di sicurezza possono importare una duplicazione delle attività di polizia; non mai una riduzione ed un impoverimento del contenuto della polizia di sicurezza". (99)

La correttezza sistematica della collocazione è poi confermata, sotto il profilo teleologico, dalla mancanza di ogni proporzione tra fatto penalmente illecito e misura di sicurezza, la quale "non è reazione di giustizia, ma azione di difesa" contro il pericolo della commissione di nuovi reati. (100)

A chi obbiettava che pur nelle differenze teoriche, nella pratica pene e misure di sicurezza fossero accomunate dalla limitazione della libertà personale, Rocco rispondeva che la misura di sicurezza nasce "per dar luogo a sane ed oneste consuetudini di vita" e non per infliggere un "male per un reato" non avendo quindi quelle caratteristiche di intimidazione e di sofferenza proprie della pena, (101) ma una funzione puramente special preventiva, neutralizzativa. Questa funzione è sottoposta a due nuovi principi: "il principio della specializzazione della misura di sicurezza in rapporto alla speciale pericolosità sociale delle persone ed il principio dell'individualizzazione, per il quale si doveva adottare uno speciale regime educativo e curativo in relazione alle tendenze ed alla pericolosità dei ricoverati". (102)

Oltre alla differenza teleologica Rocco ne riafferma la differenza strutturale: le misure di sicurezza sono provvedimenti di natura amministrativa e come tali, "discrezionali, revocabili e, di regola, indeterminate nella durata, ossia fino al conseguimento degli scopi di custodia, cura, educazione, di istruzione, per le quali sono disposte". (103)

Dogmaticamente ineccepibile ed ancora sostanzialmente attuale: un sistema necessariamente elastico per scopi rieducativi, terapeutici. Proprio per questo mentre il carcere dovrà ispirarsi ai criteri di rigidità e rigore in conformità alle sue finalità repressive, gli istituti dove si eseguiranno le misure di sicurezza, dovranno ispirarsi a criteri informati alla "rigenerazione morale e sociale" degli internati. (104)

Ma è nella spiegazione degli elementi costitutivi della fattispecie di pericolosità che Rocco delinea al meglio la loro natura amministrativa. Cosi come la funzione di polizia, forma di attività amministrativa, trova la sua premessa nel reato, che tuttavia non ne è indispensabile conseguenza, per l'applicazione della misura di sicurezza il reato deve essere considerato come fatto rivelatore di uno status, quello di pericolosità, come un indizio. (105) "La pericolosità scaturisce da una causalità fisio-psichica rivelata da un fatto che la legge penale configura come reato. [...] Sennonché, il progetto, per dare seguito ad un provvedimento di sicurezza non si tien pago di questo elemento indiziante, ma esige che il fatto sia commesso da persona socialmente pericolosa". (106) E' lo status personale, quindi a dar forza, a qualificare il fatto e a determinare gli effetti giuridici.

Sono proprio gli effetti giuridici tipicamente amministrativi a segnare definitivamente la distinzione con la pena: la misura ha infatti una durata indeterminata, lo stabilire preventivamente la durata sarebbe in "contrasto logico con la natura del provvedimento, che avendo carattere tipicamente amministrativo, può ogn'ora essere revocato". (107) Stabilire un limite massimo rinnegherebbe la sua natura ed i suoi scopi, volti alla garanzia degli interessi sociali, la cui tutela viene invece rafforzata dalla previsione di un limite minimo, il quale viene previsto anche in virtù di una tenacia di certe forme di pericolosità sociale, le quali talvolta sono ineliminabili come la "pericolosità psichica". Non vi è dunque nell'internamento nessun larvato principio di responsabilità.

Per fronteggiare queste forme qualificate di pericolosità viene delineata una ragnatela di presunzioni che consentono che il semplice accertamento di una qualità personale implichi una pericolosità naturale che persiste per il tempo minimo stabilito dalla legge (2, 5, o 10 anni).

Due sono le categorie delineate ed accomunate nelle presunzioni: da una parte quella contraddistinta da immaturità psicologica o da una condizione di patologia mentale (minori, infermi di mente, intossicati cronici da alcool o da sostanze stupefacenti, sordomuti), in particolare "è noto che la demenza non va annoverata fra le forme suscettibili di guarigioni improvvise e piene, né è tale da escludere delle condizioni latenti, non percettibili con i sussidi della scienza, facili tuttavia a convertirsi inopinatamente nella impulsività più aperta e più pericolosa", l'altra caratterizzata dalla "corruzione morale" (delinquenti abituali, professionali, per tendenza). Entrambe le categorie saranno destinatarie di una misura detentiva. (108)

Nella determinazione delle categorie presuntivamente pericolose si accolgono cosi tutti quei dettami pedagogico morali nascosti nella scienza della Scuola positiva, la gravità del fatto poi diventa "indice di per sé d' una forma morbosa pericolosissima". (109)

Il reo folle ed il delinquente congenito vengono sottoposti a misure di profilassi, che non risparmiano neanche i minori (anche quelli al di sotto dei 14 anni), anche per essi, nel caso in cui vengano giudicati folli, si aprono le porte del manicomio giudiziario invece del riformatorio originariamente previsto. Questa disposizione (art. 222 VI comma) verrà abrogata dalla Corte Costituzionale solo nel 1998 con la sentenza n. 324.

L'affidamento ad un unico organo delle due diverse funzioni, quella propriamente giurisdizionale dell'irrogazione della pena e quella amministrativa dell'assegnazione della misura di sicurezza dipende sia dal fatto che le due misure sono cumulabili (ad esempio nei seminfermi) sia perché nel processo il giudice deve comunque indagare su quegli elementi che costituiscono la "personalità psicologica del soggetto", su quegli status ontologici che fondano i presupposti per la determinazione della pericolosità del soggetto. "Dissociare le due funzioni varrebbe quanto disgregare artificiosamente la psiche dell'individuo, sdoppiare l'unità inscindibile della valutazione psicologica determinare un eventuale contraddittorietà di apprezzamento con sicuro danno dell'interesse sociale di prevenzione". (110)

Il processo penale, in questo caso, cambia il suo scopo, focalizza la sua attenzione sulla psiche, cerca di coglierne la follia, o la tendenza al delitto, in una soggettivizzazione assoluta. Una volta esaurita la "Iurisdictio", si materializza quella attività di etichettamento amministrativo, quel potere del giudice senza vicoli effettivi, che i fautori della Scuola classica rifiutavano.

Le giustificazioni di tale attribuzione poggiano anche su motivazioni di economia processuale: sia per evitare di affidare a due organi diversi una stessa indagine, sia per una maggior speditezza delle indagini.

A questo punto la soggezione al principio di legalità delle misure di sicurezza non può che avere una natura affatto diversa rispetto al principio di stretta legalità. Ancora oggi l'art. 199 afferma testualmente che: "Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dai casi dalla legge stessa preveduti". In realtà, cosi declinato il principio si sovrappone concettualmente a quello che regola "ogni attività di sicurezza" e, più in generale, ogni attività della Pubblica Amministrazione "nell'interesse non tanto dell'individuo ma anche e principalmente dello Stato". (111)

Le esigenze di prevenzione del corpo sociale dal pericolo non permettono quei limiti che ordinariamente circoscrivono la pena, con la sua esigenza di "retribuire il male con il male", in fondo "la pericolosità non ha legge" e, quindi, viene meno l'esigenza che la salvaguardia dei diritti dell'uomo, sempre sottesa al principio nullum crimen nulla poena sine lege trovi spazio nel nuovo sistema delle misure di sicurezza.

L'ineffettività del principio di legalità, affermato dall'art. 199, si manifesta soprattutto nella violazione del principio di determinatezza sia nella configurazione del parametro della pericolosità sia sotto il profilo della determinazione della durata della misura, il cui limite è affidato al giudice, o meglio, al perito e non alla legge. (112)

Inoltre nell'art. 200 si stabilisce che "La misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione" ribadendo nel secondo comma che "Se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo della loro esecuzione". Si muta ulteriormente il contenuto del principio, in relazione all'esigenza di cura e di trattamento, informati alla prevenzione, che doveva privilegiare il momento applicativo della misura al dato sintomatico del fatto, derogando anche al principio di irretroattività. (113)

Questa deroga consentiva, teoricamente, l'applicazione di una misura non prevista dalla legge al momento della commissione di un fatto o l'applicazione di una misura diversa. (114)

L'art. 202, nell'affermare che le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, sembrerebbe incentrare sul fatto un elemento imprescindibile di garanzia. (115) Senza il reato non può esserci pericolosità, tuttavia questo sembra essere nelle parole di Rocco, "indice di una forma morbosa", sintomo, indizio di uno status.

Il valore del reato come semplice indizio di pericolosità viene testimoniato anche dal secondo comma dell'art. 202 che consente, in casi tassativi stabiliti dalla legge, l'applicazione delle misure di sicurezza anche in occasione di fatti non previsti dalla legge come reato. Sono le ipotesi del "reato impossibile" e dell'"istigazione a delinquere non accolta", i quali non costituiscono reato ma hanno lo stesso valore indiziante ai fini della pericolosità. (116)

Il fatto di reato è piattaforma comune di imputazione sia per il giudizio di responsabilità penale sia per il giudizio di pericolosità, ma in tale giudizio assumerà o la natura di elemento occasionante ovvero di momento cronologico che legittimerà l'accertamento della pericolosità nei casi in cui questa dovrà essere accertata dal giudice o di elemento obiettivo di carattere sintomatico, che unito a schemi presuntivi, costituirà la fattispecie di tipo legalistico dove si vengono a tipizzare categorie di soggetti pericolosi per motivi bio-patologici. (117) Il fatto, poi, perdeva quasi del tutto la sua importanza nell'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza: (118)

nel codice di procedura penale del 1930 la nozione di pericolosità a cui si faceva riferimento era indubbiamente quella di pericolosità «generica» o non «specifica», essendo l'accertamento della stessa effettuato prescindendo da qualsiasi legame con la condotta e con l'atteggiamento soggettivo dell'agente: in altri termini, l'ottica in cui doveva porsi il giudice al momento di disporre in via provvisoria la misura di sicurezza era quella di cercare di prevenire quel «generico fenomeno di turbamento della tranquillità sociale, in cui il comportamento del soggetto veniva ad atteggiarsi come episodio di una sintomatologia svincolata da riferimenti tipici. (119)

Il secondo presupposto per l'applicabilità della misure di sicurezza è la pericolosità.

Se la regola sancita dall'art 203 c.p. la definisce come "probabilità di commettere nuovi fatti previsti dalla legge come reato, che va accertata sulla base delle circostanze indicate dall'art. 133", se si cerca, quindi, di riaffermare la necessità di un accertamento concreto aprendo alla nuova scienza della statistica criminale, tuttavia i malati di mente ne rimangono completamente esclusi.

L'art. 222 c.p. stabiliva, infatti una presunzione assoluta di pericolosità e l'internamento automatico in un manicomio giudiziario per il prosciolto per infermità psichica, quando si trattasse di delitto doloso o preterintenzionale per il quale la legge comminava la pena di morte o l'ergastolo o la reclusione per un tempo superiore nel massimo a due anni. (120)

La gravità della pena incideva sulla durata minima dell'internamento in manicomio.

Stessa sorte toccava ai condannati per delitto doloso o preterintenzionale, a pena diminuita per infermità psichica, quando la pena comminata in astratto dalla legge per tale delitto non era inferiore nel minimo a cinque anni (art. 219 primo comma c.p.). (121)

Si aprivano così le porte ad una visibile contraddizione logico dogmatica: la presunzione assoluta rendeva irrilevante, in ordine alla produzione degli effetti giuridici, la presenza concreta di uno degli elementi costitutivi della fattispecie relativa all'applicabilità della misura: (122) la pericolosità. Rimarcando così il fatto che l'elemento qualificante per l'applicazione della misura era la condizione di follia, e non la pericolosità, lo status ontologico, e non la probabilità. (123)

Il fatto di reato o il quasi reato sono gli elementi sintomatici di un elemento come la pericolosità che in un sistema di presunzione assoluta non deve più essere accertato, creando una frattura all'interno della fattispecie e mutando gli elementi produttivi degli effetti.

La rilevanza dello status verrà evidenziata da Bricola, (124) il quale affermerà che, nell'applicazione della misura di sicurezza al non imputabile, "lo stesso soggetto è contemporaneamente fattispecie causalmente causativa dell'effetto e categoria legittimante l'applicabilità della misura". Se cosi non fosse si rischierebbe di confondere "le fattispecie a carattere soggettivo che comportano l'applicazione della misura di sicurezza con gli elementi (fatto reato) che intervengono nel momento di costruzione della fattispecie [...] non concretandosi la fattispecie che conduce all'applicabilità delle misure di sicurezza in un comportamento, bensì in una determinata caratteristica soggettiva" (125), tanto più se la fattispecie al suo interno contenga forme di presunzione assoluta.

Pur considerando il fatto il nucleo base di imputazione, visto però come presupposto "sub specie obiecti" della pericolosità, Bricola parte dall'assunto che:

"non è configurabile un precetto che vieti un inclinazione o, più in generale una caratteristica di ordine soggettivo, quale può essere appunto la pericolosità, dovendo l'oggetto del divieto essere costituito soltanto da un azione determinata nella sua direzione finalistica [...] ove poi il soggetto socialmente pericoloso non sia imputabile appare prima facie l'impossibilità che la norma funzioni, nei suoi riguardi nel suo aspetto precettivo, non essendo consentito complessivamente imporre al soggetto di non essere socialmente pericoloso".

Per giustificare la costruzione dogmatica della pericolosità sociale come elemento costitutivo di una fattispecie penale e non amministrativa, che importa restrizioni della libertà personale, Bricola la definirà "fattispecie di garanzia" (di un interesse interno alla norma penale, la neutralizzazione del soggetto pericoloso) vista come fattispecie soggettiva, in opposizione ad un diritto penale visto in chiave eminentemente oggettivo-retributiva.

La fattispecie soggettiva di garanzia non impone alcun obbligo al destinatario ma lo impone esclusivamente al giudice: in presenza di un soggetto pericoloso egli dovrà necessariamente applicare la misura di sicurezza. (126)

L'art. 222 c.p. stabilisce poi il periodo minimo di durata del ricovero nel manicomio giudiziario, che è di dieci anni se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena di morte o l'ergastolo; di cinque anni se per il fatto è prevista la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a dieci anni; di due anni negli altri casi, salvo si tratti di contravvenzioni, di delitti colposi, o di altri delitti per i quali la legge avesse stabilito la reclusione non superiore nel massimo a due anni, nei quali la sentenza di proscioglimento veniva comunicata all'autorità di pubblica sicurezza, la quale, in applicazione della legge n. 36 del 1904, poteva dar via all'iter di internamento del soggetto in un manicomio civile quando venisse ritenuto pericoloso per sé o per gli altri o di pubblico scandalo.

Per i semi-imputabili condannati ad una pena diminuita a cagione di infermità psichica (127) viene prevista dall'art. 219 c.p., l'assegnazione ad una casa di cura e di custodia per tre anni, se per il delitto commesso è stabilita la pena dell'ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a dieci anni; di un anno, se è stabilita la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni; di sei mesi se si tratti di altro reato (delitto o contravvenzione) per il quale la legge stabilisce una pena detentiva di minore durata. Vista la totale identità afflittiva, la casa di cura e di custodia, la quale non era altro che una particolare sezione del manicomio giudiziario, si presentava come una pena aggiuntiva, realizzando il fenomeno noto come "frode delle etichette". (128)

Nei casi di semi-infermità il ricovero viene disposto dopo che la pena è stata scontata o altrimenti estinta. Il giudice, nondimeno, tenuto conto delle particolari condizioni d'infermità psichica del condannato può disporre che il ricovero venga eseguito prima che sia iniziata o abbia termine l'esecuzione della pena restrittiva della libertà personale (art. 220 primo e secondo comma c.p.).

Il collegamento della durata dell'internamento alla gravità astratta del reato commesso, considerato da alcuni predisposto per individuare con maggiore cura il valore sintomatico del fatto in ordine alla personalità e quindi preposto a determinare con maggiore esattezza il grado di pericolosità di un soggetto (129) è forse il vero elemento che ricollega la disciplina le misure di sicurezza al concetto di sanzione criminale (insieme all'art. 210 c.p. il quale prevede la regola in base alla quale sia l'estinzione del reato sia l'estinzione della pena impediscono l'applicazione delle misure di sicurezza e ne fanno cessare l'applicazione (130)). Non si tiene conto del grado di infermità, come dovrebbe essere per una misura che si propone di curare, ma unicamente del fatto commesso, aumentando il profilo neutralizzativo della reazione, (131) avvicinandola ad una sanzione a tutti gli effetti penale.

Chi scorge in questo legame l'introduzione di una componente retributiva, tuttavia, non può fare a meno di notare che questo impone al sistema di neutralizzazione dei non imputabili una rigidità che ne aggravava il rigore sanzionatorio, (132) negando alla retribuzione, anche in questo caso, il ruolo di criterio limitativo del potere di punire che essa riveste attraverso il principio di proporzionalità.

Si configura, quindi, sia nella determinazione della sola durata minima di internamento ancorata alla gravita del reato, sia nella elaborazione di schemi presuntivi di pericolosità, una maggiore severità nei confronti dei soggetti non imputabili o semi imputabili rispetto a quelli imputabili.

L'art. 208 c.p. prevede invece che "Decorso il periodo minimo di durata previsto dalla legge per ciascuna misura di sicurezza il giudice riprende in esame le condizioni della persona che vi è sottoposta, per stabilire se essa è ancora socialmente pericolosa. Qualora la persona risulti ancora pericolosa. Il giudice fissa un nuovo termine per un esame ulteriore. Nondimeno quando vi sia ragione di ritenere che il periodo sia cessato, il giudice può in ogni tempo procedere a nuovi accertamenti".

E' proprio in quest'articolo, che si avverte quella scissione totale tra pena generalpreventiva e misura di sicurezza specialpreventiva, nel negare la garanzia di un termine finale certo alla misura, il soggetto ve neutralizzato finché non è innocuo, (133) il fatto di reato perde col passare del tempo la sua rilevanza per cedere alla condizione di pericolosità la produzione o la cessazione degli effetti afflittivi, terapeutici, neutralizzativi.

I suoi connotati sono espliciti: il provvedimento è prorogabile, e, decorso il periodo minimo di internamento, sempre riesaminabile, ogni predeterminazione assoluta del limite di durata sarebbe "in contrasto logico con la natura del provvedimento tipicamente amministrativo".

I criteri che il giudice dovrà prendere in considerazione sono quelli dati dall'art. 133 c.p., ma è evidente che le osservazioni della direzione dell'istituto in cui la misura viene eseguita avranno un ruolo decisivo. (134)

Attraverso questa norma anche il compimento di un fatto di scarsa rilevanza può portare ad un internamento perpetuo, determinato esclusivamente da un giudizio su una qualità personale, si apre la porta a quello che viene definito l'"ergastolo bianco".

Solo per esigenze di equità si consentirà di procedere, in ogni tempo, al riesame di pericolosità una volta scaduto il primo termine e stabilita la proroga della misura di sicurezza. (135)

Anche la revocabilità del provvedimento attribuita al Ministro della Giustizia dal terzo comma dell'art. 207 c.p. non fa che ribadire la natura amministrativa delle misure di sicurezza. Il decreto del ministro potrà sancire la revoca anche prima che sia decorso il periodo minimo di durata della misura. (136)

La asserita natura amministrativa delle misure di sicurezza, quindi, è ben più di un espediente, di un nomen juris, privo di conseguenze sul piano normativo. Una volta attribuita alla misura una funzione puramente preventiva, una volta collegata l'applicazione a tipi normativi d'autore nei confronti dei quali la pericolosità, che di regola dovrebbe essere accertata, viene invece presunta, stabilita la sua durata indeterminata, l'unico elemento che sembra avvicinare la pena alla misura di sicurezza detentiva sia l'afflittività, un dato di fatto, non un concetto giuridico.

La stessa attività del giudice nella costruzione del caso giuridico muta a seconda che il soggetto venga considerato imputabile o non imputabile. La giurisprudenza ne è consapevole rivendicando, essa stessa, la funzione prettamente amministrativa che svolge nel momento dell'indagine relativa alla personalità dell'autore per valutare se applicare la misura di sicurezza nei confronti del soggetto non imputabile. (137)

Vengono meno le garanzie classiche proprie di un intero sistema penale. La retribuzione vista dalla Scuola positiva come pura vendetta, come dato metafisico privo di scientificità scompare, per dare spazio per un sistema penale che per i non imputabili assume connotati esclusivamente preventivi. Viene meno quel nesso normativo biunivoco tra reato e conseguenza penale, il quale sancisce che il primo non può essere sintomo ma conditio sine qua non della sanzione e che questa non può essere un prius ma un posterius rispetto al reato, non è preventiva, appunto, ma retributiva. (138)

Il sistema del doppio binario, creato da Rocco, diventa, di fatto, per i non imputabili e, in particolare, per malati di mente un sistema monistico, (139) che ha come esito un internamento di durata indeterminata, privo di quelle garanzie che vengono concesse agli imputabili.

Nel Codice penale del '30 il principio di legalità, ed il principio di colpevolezza erano stati solennemente enunciati. Rocco era rimasto fedele, quindi, al diritto penale del fatto, riaffermato con la previsione normativa della non punibilità del reato putativo e del reato impossibile, rinunciando a quel completo sostanzialismo teorizzato nel diritto penale dell'autore e nella concezione del reato come violazione del dovere di fedeltà verso lo stato a cui si era affidata, in quegli stessi anni, la Germania Nazional Socialista.

Tuttavia, tra le numerose deviazioni, manipolazioni e sostanziali tradimenti di questi due principi, la misure di sicurezza rappresentano la più macroscopica violazione del principio di legalità: "Ancorate ad un presupposto manipolabile dalla giurisprudenza come la pericolosità sociale, indeterminate nel tempo e sottratte alla sfera del principio di irretroattività", (140) tanto da poter considerare tali misure come "immediatamente funzionali ad un brutale disegno repressivo" e dal poter concludere che con l'introduzione della misura di sicurezza detentiva, Rocco abbia "introdotto il sistema della pena detentiva indeterminata". (141)

4) Conclusioni

La misura di sicurezza detentiva del codice Rocco viene a cristallizzare, ad incarnare sul piano normativo i fondamenti epistemologici della Scuola positiva.

L'eclettismo della Terza scuola si risolve, per la regolamentazione giuridica delle sanzioni, per la neutralizzazione dei malati di mente, semi-infermi e, soprattutto, infermi, in una recezione quasi completa delle teorie della Scuola positiva.

Le si può attribuire un merito, quello che molti le negano: il rigore sistematico della classificazione dogmatica, la piena congruenza logica tra schemi concettuali di riferimento e la costruzione della fattispecie normativa, la conseguente elaborazione di nuovi elementi costitutivi conformi alla determinazione di effetti giuridici neutralizzativi, sconosciuti al diritto penale classico, e la elaborazione di un insieme di schemi presuntivi che ricalcano sul piano giuridico quel modello, creato dalla psichiatria ottocentesca, di personalità folle, degenerata, legata ad un destino immutabile, in virtù di uno stigma di natura ereditaria, ed organica.

Che le si definiscano sanzioni amministrative o penali in fondo poco importa, il risultato di sganciarle da un impianto di garanzia che costituiva il fondamento epistemologico del pensiero giuridico penale del XVIII secolo è riuscito.

Impianto garantista che Ferrajoli ha individuato all'interno della tradizione giuridica illuministica e liberale, composta da filoni culturali non omogenei (e neanche tutti liberali), i quali hanno dato vita ad un sistema coerente ed unitario, derivante dal fatto che "i principi garantisti si configurano come uno schema epistemologico di identificazione della devianza punibile diretto ad assicurare [...] il massimo grado di razionalità e di attendibilità del giudizio, e quindi di limitazione della potestà punitiva e di tutela della persona contro l'arbitrio". (142)

L'elemento fondante, sotto il profilo sostanziale, di questo sistema unitario di garanzia viene individuato nel convenzionalismo penale, nella determinazione in astratto di ciò che è punibile, derivante dal principio di stretta legalità, in base al quale la devianza punibile non può essere quella che per caratteristiche intrinseche sia riconosciuta come immorale o socialmente dannosa.

La definizione legale di devianza non deve ricollegarsi a figure soggettive di status o di autore, ma solo a figure empiriche ed oggettive di comportamento.

Il principio di stretta legalità, secondo Ferrajoli, non ammette norme costitutive ma solo norme regolative della devianza punibile, in virtù del principio nulla poena e nullum crimen sine lege, non sono ammesse norme che creino o costituiscano ipso jure le situazioni di rilevanza penale senza prescrivere alcunché, ma solo regole di comportamento che istituiscono divieti in virtù del principio nulla poena sine crimine e sine culpa.

Il fondamento convenzionalistico dell'impianto e la sua portata garantista è sintetizzata dalla massima Auctoritas non Veritas facit legem, che importa una netta separazione tra diritto e morale, ed i cui corollari sono la determinazione di una sfera intangibile di libertà del cittadino: libertà di fare tutto ciò che dalla legge non viene vietato, e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, in virtù del fatto che le azioni ed i fatti sanzionati dalla legge penale sono qualificabili come fattispecie oggettive, mentre è vietata ogni configurazione legislativa di fattispecie soggettive legate a status ontologici, a differenze personali, che comportino discriminazioni. (143)

Il fondamento epistemologico della Scuola positiva volendo sfuggire a questo apparato di garanzie considerato mitologico, "astrazioni di un mondo che non potrebbe nemmeno dirsi fantastico, perché anche la fantasia lavora sui sensi" (144) deplorando il rituale garantista, cambierà il volto del principio di legalità imprimendogli quei connotati autoritari che verranno poi ancor più enfatizzati nel codice Rocco. L'oggettività positivista, infatti, rendeva indistinguibile il discorso scientifico dal discorso politico criminale e, ammantando di oggettività ogni conclusione in realtà politica, riduceva l'intero discorso sulla penalità a scienza oggettiva, empirica, mettendo così lo Stato "in condizione di riassorbire in se l'idea stessa di penalità". (145)

Passando dallo studio astratto, convenzionalistico, del crimine allo studio del reo nella sua concretezza, (146) ha confuso la logica giuridica con l'osservazione clinica, consentendo la costruzione di categorie giuridiche dai contenuti sfuggenti, se non propriamente costitutivi.

La categoria della pericolosità sociale richiede diagnosi e prognosi certe sul corpo del folle e del reo, non interpretazioni di norme, l'osservazione medica individuerà un dato puramente fenomenologico: l'inclinazione al delitto.

L'osservazione dei freniatri e dell'Antropologia criminale non azzarda ipotesi, afferma realtà naturali, e se ha oggettivato il malato di mente, rende soggettivo il delitto, declinandolo in una naturalità, che è un destino "atavico", un destino di pericolosità e di incapacitazione. (147) Per tornare a citare Garofalo "il cane seguita a recere, la scrofa ad avvolgersi nel brago". (148)

I matti non sono più soltanto belve feroci, mostri assassini, sono cani, sono maiali da governare.

Una pura oggettualità rifiutata dall'illuminismo penale:

Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di esser persona e diventi cosa [...]" Questo è "il magico segreto che cangia i cittadini in animali da servigio, che in mano al forte è la catena cui lega le azioni degli incauti e dei deboli. Questa è la ragione per cui in alcuni governi che hanno tutta l'apparenza di libertà, la tirannia sta nascosta o s'introduce non prevista in qualche angolo negletto dal legislatore, in cui insensibilmente prende forza e si ingrandisce. (149)

La naturalità del folle per la freniatria è la naturalità della bestia, egli compie crimini suo malgrado, la reazione sarà quindi naturale, un antidoto, una medicina che curi non lui, ma "il corpo sociale" dall'infezione, la cura non potrà avere termini prefissati.

Intorno al folle, ed alla sua natura, si organizza cosi quel discorso epistemologico apparentemente scientifico ma in realtà incentrato sulla paura e sulla moralizzazione. (150)

La natura da regolare è fatta di imbecillità morale, di deformità fisiche, di asimmetrie. Una natura di anormali e di immorali.

Se la concezione del reato come dato naturale, è propria anche del giusnaturalismo del XVIII secolo tuttavia la visione della Scuola positiva e di Rocco, nell'estensione del codice, si differenzia concettualmente da quello nel fatto che in questo la naturalità del delitto è funzionale sia alla definizione dogmatica del reato sia alla giustificazione sotto il profilo etico e sotto il profilo politico criminale della sua punizione, configurando un sistema punitivo di tipo autoritario, mentre nel giusnaturalismo illuminista tale confusione è in funzione di una limitazione o addirittura di una delegittimazione del diritto positivo vigente. (151)

La paura, cardine epistemologico del nuovo discorso psichiatrico darà nuovi contenuti anche ad un altro concetto che trova la sua origine nell'illuminismo penale: la difesa sociale come fondamento della pena. E' proprio Beccaria, ampliando il principio di stretta necessità della pena elaborato da Montesquieu, paradossalmente a fondare il diritto di punire sulla "difesa della salute pubblica", (152) la quale però forniva anche la misura della pena, stabiliva un limite. Era una misura proporzionata, in modo che "il male della pena ecceda il beneficio del delitto, tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico". (153)

Utilità, delitto, pena, proporzione: nell'opera di Beccaria non c' è traccia di valutazioni soggettive, di giudizi di valore, che egli rifiuta. "La gravezza del peccato dipende dall'imperscrutabile malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti?" (154) La sua ossessione è l'uguaglianza di trattamento tra individui, un uguaglianza impensabile per la Scuola positiva, tutta tesa a creare tipologie di anormali da cui difendersi, tipologie che verranno cristallizzate dal legislatore del 1930, e per i quali non venne prevista alcuna limitazione nella durata della sanzione, vista dalla Scuola positiva come "menzogna convenzionale". (155)

La difesa sociale positivizzata dal Codice Rocco, non è limite al potere punitivo dello Stato ma igiene pubblica, disciplina penale e insieme scientifica della società, protezione biologica. (156)

Protezione da un pericolo dettato dall'esistenza stessa della follia. "Con la degenerazione abbiamo un determinato modo di isolare, attraversare, ritagliare una zona di pericolo sociale e di darle al tempo stesso uno statuto di malattia, uno statuto patologico". (157)

La naturalità della Scuola positiva segna una limitazione, un confine nuovo, che separa sul piano assiologico la pena classica da una pena che diventa misura medica, fondata, come abbiamo detto, su una prognosi clinica di pericolosità.

E' Lombroso, e non von Liszt, il primo vero teorizzatore di una pena esclusivamente specialpreventiva, modulabile sul destinatario: il delinquente anormale e pericoloso. (158)

Con l'epilessia, la monomania e sopratutto la follia morale il centro focale dell'analisi psichiatrica passa dal delirio ai comportamenti, che prima avevano ricevuto solo uno statuto morale, introducendo attraverso le sue nuove classificazioni nosografiche un idea di norma "intesa come regola di comportamento, come legge informale, come principio di conformità, la norma alla quale si oppone l'irregolarità, il disordine, la stranezza, l'eccentricità il dislivello, lo scarto", (159) ed ancorandola alla medicina organica, alla freniatria, alla malformazione celebrale le consentirà di intenderla anche come "regolarità funzionale, come principio di funzionamento adattato e adeguato: il «normale» al quale si opporrà il patologico, il morboso, il disorganizzato, la disfunzione". (160)

Si realizza una forma di razzismo che non contrapporrà un gruppo ad un altro ma avrà la funzione di individuare all'interno dello stesso gruppo, tutti coloro che saranno portatori di un pericolo in quanto portatori di un male, di un'anormalità. (161)

Stoos realizzerà un modello giuridico conforme a questa visione che Rocco utilizzerà per la costruzione di un sistema che ancora oggi regge nella sua struttura fondamentale, anche dopo i ripetuti interventi della Corte Costituzionale.

Anche il fatto di reato, previsto dal codice Rocco come presupposto oggettivo, conditio sine qua non per l'applicazione della misura di sicurezza, che ancorerebbe la pericolosità ai principi garantisti di materialità-offensività, (162) era già stato progressivamente rivalutato da Lombroso e dalla Scuola positiva, passando da elemento da prevenire ad oggetto da studiare, fino a diventare sintomo primo, perché certo, di quella pericolosità appena teorizzata. In altre parole, anche nella penalità positiva più matura la pericolosità poteva essere accertata esclusivamente post factum. (163)

La visione del reato come dato sintomatico di una malattia, avrà ricadute anche sul processo penale, proprio in virtù del fatto che si deve emettere un giudizio clinico, coerentemente alle posizioni di Lombroso. Il ruolo del giudice viene, al contempo, svalutato e reso potestativo, autoritario.

Il magistrato, cosi come viene visto dalla Scuola positiva, è investito di una funzione di ordine amministrativo, chiamato ad una produzione seriale di decisioni, (164) può, anzi deve, basare i suoi provvedimenti sulla perizia dello psichiatra, portatore di "enunciati giudiziari privilegiati" equiparabili alle prove legali. (165) Il suo giudizio sarà etichettamento ed applicazione di un giudizio di valore. Un'attività di governo che aspira al raggiungimento di una verità assoluta, sostanziale. (166)

Le presunzioni iuris et de iure di pericolosità enfatizzeranno questa svalutazione.

Il giudice punendo non punirà l'infrazione. Egli potrà permettersi il lusso, l'eleganza o la scusa di imporre ad un individuo una serie di misure correttive, di misure di riadattamento, di misure di reinserimento. Il vile mestiere di punire si trova così trasformato nel bel mestiere di guarire. (167)

Si viene cosi a formare un modello epistemologico, che fondandosi sulla mitologia del mostro, del folle morale, del caso biologico, morale e giuridico, si estenderà poi a tutti gli anormali i quali non sono altro che mostri quotidiani, banalizzati, impalliditi. (168)

Torniamo a Firenze dove, nel 1876, la Corte d'Assise aveva subito gli strali dei freniatri, per aver condannato Callisto Grandi il "Mostro dei bambini" a soli vent'anni.

Siamo nel 1933, si celebra ora il processo d'Appello di Flora Di Carlo, una prostituta condannata in primo grado alla reclusione per "mesi 8 e giorni 25 ed alla multa di lire 444" per atti osceni in luogo pubblico e furto, per essersi "carnalmente congiunta" sulle scale, dietro un portone di via del Giglio, con un cliente, tal Dino Dini, e per avergli rubato il borsellino, contenente sei Lire, il quale però era stato prontamente restituito appena il Dini, accortosi del furto, era tornato dalla donna minacciandola di una denuncia, poi comunque sporta.

E' l'avvocato della stessa Di Carlo, a proporre appello, chiedendo che alla sua assistita venisse concessa la semi-infermità mentale, per ottenere una riduzione della pena, che già era stata lieve in virtù della concessione, in primo grado, dell'attenuante legata al "danno patrimoniale di speciale tenuità".

La Corte va ben oltre le richieste dell'avvocato, realizzando il ruolo che il nuovo Codice penale le imponeva. Infatti: "La Corte non solo aderisce a tali richieste, ma ritiene giusto e doveroso riconoscere alla Del Bene la totale infermità mentale" e non lo fa sulla base del giudizio di un perito incaricato dalla Corte, bensì sulla base di "un certificato 23 febbraio u.s. della direzione del Manicomio di Firenze, dal quale risulta che la Del Bene fu ricoverata in quel Manicomio ben quattro volte [...] perché affetta da immoralità costituzionale" che sommata ai suoi precedenti per furto, adescamento, libertinaggio, oltraggio indicano la sua pazzia e la sua pericolosità sociale. (169)

Anche in questo caso la follia è immoralità, il certificato riproduce la concezione costruita negli ultimi venti anni dell'800 dall'Antropologia Criminale, secondo la quale la prostituta, rappresentando il punto più basso dell'atavismo femminile, è costituzionalmente inferiore alla donna normale.

Al progresso della civiltà corrispondeva un aumento della modestia sessuale della donna, che, insieme al senso di maternità, rappresentava la sua più grande virtù.

Il modello di donna civilizzata prevedeva che questa provasse sensazioni fisiche minime durante i rapporti, mentre le prostitute oscillavano tra la totale frigidità e la più violenta ninfomania, entrambe indicatrici di una patologia mentale in totale contrasto con la naturale tendenza femminile a sublimare la sessualità nella maternità. (170)

Sulla base di questi presupposti scientifici, che stabiliscono un'immoralità patologica non presa in considerazione nella sentenza di primo grado, da questa nuova valutazione della natura dell'imputata, non solo criminale ma anche folle ed immorale, si passa da una pena di soli nove mesi ad un internamento "minimo" di due anni nel manicomio criminale di Aversa, dalla cartella clinica relativa al periodo di ricovero risulta che la donna mostrò, durante il suo internamento, irritazione, ribellione, atteggiamenti violenti, probabilmente letti come sintomi indicativi, come conferma della diagnosi fatta dai medici di Firenze. (171) Il cerchio si è chiuso: "i Pollicini anormali hanno finito per divorare i grandi orchi mostruosi che facevano loro da padre". (172)

Note

1. Vinzia Fiorino, I segni lombrosiani alla prova della follia in Cesare Lombroso cento anni dopo, Utet, Torino, 2009 p. 313.

2. Comte riteneva che la conoscenza umana si evolvesse attraverso tre fasi: la fase teologica, basata sulla rivelazione divina, la fase metafisica, basata sulle deduzioni astratte del pensiero filosofico, e la fase nuova, dominante e più alta quella del ragionamento empirico, positivista, basato sulla rigorosa osservazione dei fatti sperimentabili, suscettibili di misurazione e di sistemazione sotto leggi scientifiche, le quali avrebbero dovuto far comprendere e regolare ogni attività sociale (Gibson, p. 19, Fornari, p. 509).

3. Michel Foucault, Gli anormali, corso al collège de France (1974-1975) Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2009 p. 111.

4. Ivi, p. 113.

5. Francesco Bini, Carlo Livi, Enrico Morselli, L'uccisore di bambini, in "Rivista Sperimentale di Freniatria", 1877, cit. in Corrado Bizzarri, Criminali o folli, nel labirinto della perizia psichiatrica,. et al. Edizioni, Milano 2010, p. 1 e ss; sulla questione si veda anche il bel saggio di Patrizia Guarnieri, L'Ammazzabambini. Legge e scienza in un processo di fine '800, Laterza, Bari, 2006.

6. Ugo Fornari, Trattato di Psichiatria Forense, Utet, Torino 2008, p. 72.

7. Ivi, p.70.

8. Ugo Fornari, Temperamento, delitto, follia in Riv. It med. Leg. XXIII, 2001, p. 509.

9. Secondo Haekel intelligenza e moralità trovano le proprie radici nella fisiologia, e la cellula determinava tutti gli aspetti della vita. Cfr. Mary Gibson, Nati per il crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica, Pearson Paravia Bruno Mondadori, Torino, 2004, p. 19.

10. Carlo Alberto Romano, Ilaria Saurignani, L'ospedale psichiatrico giudiziario tra ideologia e prassi, in Rass. Crim, 2001, p. 494.

11. Bini, Livi, Morselli, op cit, p. 2.

12. Foucault, op. cit, p. 57 e ss.

13. Ivi, p. 58.

14. Fornari, Trattato di Psichiatria Forense, cit., p. 73.

15. Gibson, op. cit., p. 15 e ss.

16. Ivi, p. 3.

17. Giorgia Alessi, Il processo penale, profilo storico, Laterza Editori, Bari 2001, p. 182.

18. Ugo Fornari, Silvia Coda, Dalla pazzia morale al disturbo antisociale di personalità, Rass. it. Crim. 2000 p. 183.

19. Ottavio Giraud, Mario Ruocco, Francesco Scalfani, Giovan Battista Traverso, L'imputabilità dei soggetti con disturbo della personalità: nuove prospettive biocriminologiche in Rass. it. Crim. 2002, pp.305-345.

20. J.C. Pricard., A Treatise on Insanity and other disorders affecting the mind, Londra, 1835 cit. in Fornari, Coda, op. Cit., p. 183.

21. Giraud, Ruocco, Scalfani, Traverso, op. cit.

22. Fornari, Coda, op. cit., p. 184.

23. Ivi, p. 193.

24. Ivi, p. 188.

25. Rossana Rosso, Ugo Fornari, Il trattamento del prosciolto nella psichiatria positivista una rivisitazione storica, in Riv. It. Med. Leg. XIV, 1992, p. 319.

26. Fornari, Coda, op. cit., p. 197.

27. Cesare Lombroso, L'Uomo delinquente, I ed. (1876), p. 60, cit. in Gibson, op. Cit., p. 32.

28. Fornari, Temperamento, delitto e follia, in Riv. It. Med. Leg., 2001, p. 515.

29. Fornari, Coda, op. cit., p. 193.

30. Ivi, p. 201.

31. Le posizioni degli psichiatri sulla pazzia morale, nel dibattito scientifico sulla questione, che si fece più intenso nel periodo che va dal 1876 e il 1888, non furono naturalmente univoche: per alcuni la pazzia morale era una degenerazione antropologica non necessariamente connessa con la pazzia e quindi coloro che erano privi del sentimento morale non dovevano essere internati (Tanzi, Cacopardo). Altri la ritenevano una categoria speciosa ed arbitraria, una nuova confezione della vecchia pazzia ragionante o frenosi epilettica (Venanzio). Prevalse tuttavia la visione patologica di carattere degenerativo che comportava l'assoluta irresponsabilità dei soggetti (Livi, Tamburini, Tamassia, Verga) cfr. Fornari, Coda, op. cit., p. 191 e ss.

32. Andrea Scartabellati, L'umanità inutile - la "questione follia" in Italia tra fine ottocento e inizio novecento e il caso del Manicomio Provinciale di Verona, Franco Angeli Editore, Milano, 2001, p. 23.

33. Ivi, p. 78.

34. Foucault, op. cit., p. 38.

35. Ivi, p. 40.

36. Ivi, p. 280.

37. Ivi, p. 282.

38. Ivi, p. 40.

39. Ivi, p. 111.

40. Ivi, p. 133.

41. Fiorino, op. cit., p. 313.

42. Fornari in Riv. It. Med. Leg. 2001, op. cit., p. 513.

43. Fiorino, op. cit., p. 319.

44. Cit. in Scartabellati, op. cit., p. 78.

45. Raffaele Garofalo, Alienazione mentale voce in Enciclopedia Giuridica Italiana, vol. I, Leonardo Vallardi Editore, Milano, 1892, p. 1201.

46. G. Virgilio, cit. in Borzacchiello, op. cit., p. 4.

47. Garofalo, op. cit. p. 1196.

48. Marco Gillio, La popolazione manicomiale in Italia dall'Unità alla Grande Guerra in Lombroso cento anni dopo, op. cit., p. 100.

49. Ivi, p. 104.

50. Cit. in Borzacchiello, op. cit., p. 5.

51. Gillio, op. cit., p. 105.

52. Ibidem.

53. Ibidem.

54. Ivi, p. 106.

55. Borzacchiello, op. cit. p. 8.

56. Cit. in Marco Pellissero, Pericolosità sociale e doppio binario. Vecchi e nuovi modelli di incapacitazione, Giappichelli Editore, Torino, 2008, p. 81.

57. Ivi p. 82.

58. Borzacchiello, op. cit., p. 9.

59. Virgilio G., Dei manicomi criminali, in Arch. It. malattie nervose e mentali XXI, p. 307, 1894.

60. Rosso, Fornari, op. cit., p. 321.

61. Borzacchiello, op. cit., p. 10.

62. Ibidem.

63. Rosso Fornari, op. cit., p. 300.

64. Verranno poi aperti due altri manicomi criminali: a S. Eframo (Napoli) nel 1921 e a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) nel 1925. Dopo l'entrata in vigore del codice Rocco, verrà aperto il manicomio criminale di Castiglione delle Stiviere nel 1939.

65. Rivista penale III, 1877, pp. 521-527 cit. in Rotondo, Il tentativo di medicalizzazione della penalità sul finire del secolo XIX, tesi di dottorato, Università di Napoli Federico II a.a. 2004-2005.

66. Già istituti in Irlanda (1850), Scozia (1858) Inghilterra (1863) Pennsylvania (1874) Canada, e presenti anche in Germania, Belgio, Olanda e Francia (Rotondo, op. cit., p. 46).

67. Un ulteriore progetto organico sui manicomi fu presentato dal Ministro degli interni Nicotera nel 1891 che prevedeva la possibilità per i professori di clinica psichiatrica di avere a disposizione gli alienati come materiale medico. Si contemplava la custodia non solo del pazzo ma anche di tutti i suoi beni, le rendite dei pazzi ricchi dovevano, naturalmente, essere destinate a migliorare i loro trattamenti. Si provvedeva, inoltre, a creare dei comparti di osservazione nelle carceri per stabilire chi dovesse essere trasferito, con ordine del Ministero dell'Interno, in manicomio. L'ingresso in manicomio avveniva tramite certificazione medica confermata successivamente da un medico provinciale o comunale. La sorveglianza sugli istituti era affidata a delle Commissioni Provinciali di vigilanza. Per la parte concernente i manicomi criminali le norme avrebbero dovuto coordinarsi con le norme di esecuzione del Codice Penale (Rd. 1 dicembre 1889) e il nuovo Regolamento per gli stabilimenti carcerari (R.d. 1 febbraio e 1 giugno 1891). Sarebbero stati reclusi gli imputati prosciolti per pazzia totale se avessero costituito grave pericolo per la sicurezza, o parziale nel caso in cui fossero stati ritenuti bisognosi di cure. Il progetto non fu mai approvato e solo nel 1904 si arriverà ad una regolamentazione legislativa del manicomio (cfr. Romano Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'unità a oggi, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1979, p. 100 e ss.).

68. Garofalo, op. cit. p.1210 e ss.

69. La pena capitale era invece criticata dal Ferri (cfr. Daniele Velo Dalbrenta, La scienza inquieta- saggio sull'Antropologia criminale di Cesare Lombroso, CEDAM, Padova 2004, p. 147).

70. Romano Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'Unità a oggi, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1979, p. 142.

71. Ivi p. 144.

72. Vittorio Marchetti, Compendio di Diritto Penale, Barbera Editore, Firenze 1895, p.40. E' particolarmente significativo che il testo è un piccolo compendio ad uso degli studenti. L'unica presa di posizione di politica criminale dell'intero libro è proprio quella menzionata, evidentemente sentita come essenziale e di capitale importanza.

73. Luigi Ferrajoli, Diritto e Ragione-Teoria del garantismo penale, Laterza Editori, Bari - Roma, 1989 (nona edizione) 2008, p. 14 e ss.

74. Pellissero, op. cit., p. 83.

75. L'unico provvedimento di natura preventiva previsto dal codice Zanardelli era l'internamento del minore non imputabile in un Istituto di correzione o alternativamente del suo affidamento ai parenti nel caso della commissione di un delitto che comportasse la reclusione non inferiore ad un anno (art. 53, comma 2º). Una caratteristica, tuttavia, lo differenzia notevolmente dalle misure di sicurezza del codice penale del 1930: la fissazione di un limite massimo di durata costituito dal raggiungimento della maggiore età (cfr. Enzo Musco, La misura di sicurezza detentiva: profili storici e costituzionali, Giuffrè, Padova, 1978).

76. Si poteva sostituire il ricovero in manicomio con la consegna ad una persona che desse sufficienti garanzie e fosse disposta ad assumersi la cura del soggetto.

77. Crivellari, Il codice Penale, vol. III, cit. Musco La misura di sicurezza detentiva, cit., p. 20.

78. Ferrajoli, op. cit., introduzione, p. XX.

79. Pellissero, op. cit., p. 80.

80. Garofalo, op. cit., p. 1208.

81. Lombroso, Tamburini e Ascenzi denunciarono anche l'eccessivo affollamento dei manicomi "civili", la mancanza di una legge unitaria che regolasse i manicomi, l'inadeguatezza dei dirigenti degli stabilimenti.

82. Rosso Fornari, op. cit., p. 329.

83. Ivi, p. 328 e ss.

84. Canosa, op. cit., p. 100.

85. Valeria P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia una storia del 900, Il Mulino Editore, Bologna, 2009, p. 16.

86. Ivi, p. 17.

87. Lucchini in un primo momento ebbe posizioni di maggior apertura nei confronti delle "nuove scienze" che si stavano ricollegando al diritto penale, come la medicina legale e la statistica morale della Scuola positiva, pubblicando nella Rivista Penale, da lui fondata nel 1874, articoli di Lombroso fino al 1879, per poi considerarlo un acerrimo nemico, insieme al Ferri che veniva criticato per il suo attacco al libero arbitrio, all'uso dei concetti di causalità e di necessità come nuovi criteri di legittimazione del diritto di punire ed al Garofalo fautore della necessità di istituire pene "eliminative".

In un primo momento lo stesso Lucchini vide con favore sia l'istituzione di manicomi criminali, sia la funzione di controllo della magistratura nell'irrogazione della misura. In uno dei primi numeri della Rivista, infatti, aveva elogiato le previsioni del Codice Penale spagnolo e del Codice Brasiliano che prevedevano la possibilità per il Tribunale di inviare il pazzo che avesse commesso un crimine in un manicomio per un tempo pari a quella che sarebbe stata la pena carceraria, proprio per evitare l'arbitrio del personale medico "che verrebbe troppo facilmente a sostituirsi al giudicio del magistrato". Anche qui si notava comunque una certa sfiducia per il nuovo ceto che si stava affermando, ed al quale veniva richiesto un parere che sempre più invadeva il campo giudiziario e soprattutto si avvertiva l'esigenza di un periodo predeterminato di internamento, che impedisse una reclusione arbitraria.

Nel 1894 Lucchini muterà completamente la sua posizione: "I troppo vantati benefizi dei manicomi giudiziari, della cui idea ed attuazione, di ormai mezzo secolo, s'erano come al solito appropriata la paternità i signori della «scuola», ma dei quali appunto il loro patrocinio non valse che a far intravedere la fatuità e il pericolo giudiziario e sociale" (cfr. Rotondo, Il tentativo di medicalizzazione della penalità sul finire del secolo XIX, tesi di dottorato, Università di Napoli Federico II a.a. 2004-2005, p. 16 e ss).

88. Lucchini si riferisce al "Motu proprio" emanato dal Granduca Leopoldo II nel 1838 che sanciva che nessuno potesse essere ricoverato in manicomio senza un decreto del Tribunale civile e correzionale.

89. Atti Parlamentari Camera dei Deputati, legislatura XXI, II sessione, Discussioni, tornata del 9 febbraio 1904, p. 1055 e ss., cit. in Canosa, op. cit., p. 114.

90. Canosa, op. cit., p. 116.

91. L'affermazione è di Leonardo Bianchi, Deputato e Professore di Neurologia, cit. in Valeria P. Babini, op. cit., p. 19.

92. Il primo attacco alla concezione classica della pena retributiva che vedeva nella colpevolezza e nel principio nullum crimen sine culpa un principio di garanzia, che presupponeva la libertà del volere, che era ancorata al singolo fatto criminoso ed escludeva che il giudizio potesse estendersi all'intera personalità del reo fu portato dal Positivismo criminologico della dottrina dello scopo di V. Liszt, il più illustre esponente della Scuola moderna, futuro fondatore dell'Unione Internazionale di Diritto Penale (1889), il quale, nel Programma di Marburgo del 1882, sulla base di una visione determinista di tipo biopsicologico, e quindi ontologico naturalistica della criminalità si proponeva di dare una legittimazione diversa alla pena fondata su tipologie di autori e non sul fatto.

Rimanendo ancorata ad un sistema monistico che vedeva la pena esaurire il novero delle conseguenze penali, declinava la funzione specialpreventiva della pena nella sua individualizzazione e differenziazione. La pena diventava quindi un mezzo malleabile e polifunzionale, sovraintendendo sia alla neutralizzazione, sia alla intimidazione sia alla risocializzazione, in relazione allo scopo concreto che il singolo caso imponeva. Pur affermando il Liszt che la pena così concepita manteneva la funzione retributiva, il suo esito pratico era essenzialmente incentrato sulla difesa sociale, imperniata su una visione profondamente classista nell'individuazione dei soggetti irrecuperabili da neutralizzare in modo perpetuo (mendicanti, vagabondi, prostitute, alcolizzati, mariuoli, degenerati nel fisico e nello spirito) e sul reo prima ancora che sul reato. Tale impostazione teorica non poteva che travolgere la funzione di garanzia propria della concezione classica manifestando essenzialmente intenti correzionalistici di tipo paternalista ed autoritario. (Musco, Ferrajoli) esigenze di politica criminale faranno si che questa visione monista di tipo soggettivistico trovi una soluzione di compromesso con la vecchia concezione della pena (che tuttavia porterà confondere i piani della legittimazione esterna e della legittimazione interna della stessa anche sul piano strettamente classico retributivo). Per questo sorgerà l'idea che in virtù di una limitatezza funzionale della pena si dovrà affiancare ad essa una misura di sicurezza con funzioni di tipo neutralizzativo, special preventivo applicabile a particolari categorie di autori. I soggetti psichicamente anormali saranno il paradigma classico da prendere in considerazione.

93. Enzo Musco, La misura di sicurezza detentiva profili storici e costituzionali, Giuffrè, Milano, 1978, p. 43.

94. Ivi, p. 45.

95. Ivi, p. 55 e ss.

96. Pellissero, op. cit., p. 92. Non solo la dottrina e la giurisprudenza moderne tentano di unificare in un unica categoria pena e misura di sicurezza. Dobbiamo infatti a Grispigni, uno dei più importanti giuristi della Scuola positiva la prima negazione di una distinzione concettuale tra le due misure e la creazione del genus di "sanzione criminale" definito come la diminuzione di uno o più beni giuridici, inflitta dagli organi della giurisdizione criminale all'autore di un illecito giuridico (reato), in ragione del valore sintomatico di questo, ed allo scopo di rendere innocuo o di riadattare l'individuo alla "libera vita associata" che le avrebbe dovute contenere entrambe, vedendo in entrambe il fatto come un presupposto, come indice rivelatorio della personalità criminosa, non essendo proporzionate al fatto nella loro durata, ma alla pericolosità del delinquente, avendo entrambe la caratteristica di essere improntate alla retribuzione, che secondo il Grispigni consisteva nella "determinazione di uno stato sociale o di una perdita o di un guadagno di benefici in relazione al valore sociale della persona", perché applicate entrambe dal giudice con identiche garanzie, sono fungibili.

97. Alfredo Rocco, Relazione sul I Libro del Progetto in Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, volume v, parte I, Tipografia delle Mantellate, Roma, 1929, p. 15.

98. Ibidem.

99. Ibidem.

100. Ivi, p. 246.

101. Rocco, op. cit., p. 246.

102. Ivi, p. 261.

103. Ivi, p. 247.

104. Ivi, p. 246.

105. Ivi, p. 253.

106. Ivi, p. 250.

107. Ivi, p. 255.

108. Ivi, p. 254.

109. Ivi, p. 272.

110. Ivi, p. 248.

111. Ivi, p. 251.

112. Vassalli, Voce Nullum crimen nulla poena sine lege. In Digesto delle Discipline Penalistiche, Vol. VIII, UTET, Torino,1994, p. 301. L'autore, tuttavia, ritiene che il costituente ed il legislatore abbiano, nel combinato disposto degli art. 25 3º comma Cost, e artt. 199, 202, 203 c.p., rispettato complessivamente il principio di legalità, anche sotto il profilo del divieto di analogia.

113. Ivi, p. 325.

114. Carmelo Peluso, voce Le misure di sicurezza (profili sostanziali), in Digesto delle Discipline Penalistiche, cit., p. 148. Retroattività che è stata considerata legittima dalla Corte Costituzionale e giustificata in relazione alle mutevoli esigenze per la lotta al pericolo criminale nella Sent. n. 53 del 1968.

115. Distinguendole inoltre dalle misure di polizia, che potevano essere usate anche quando da fatti estranei al diritto penale si poteva desumere la pericolosità di un soggetto per il pubblico interesse (Musco, op. cit. p. 109).

116. In questi due casi la misura prevista è la libertà vigilata. Francesco Palazzo, Corso di Diritto Penale. Parte generale, G. Giappichelli Editore, Torino, 2008, p. 471.

117. Ivi, p. 121 e ss.

118. L'art. 301 c.p.p. abr. stabiliva che le disposizioni previste dal primo comma per l'applicazione provvisoria delle pene accessorie si osservassero anche per l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza, le quali potevano essere ordinate anche prima dell'interrogatorio dell'imputato o dell'emissione di un mandato, senza facoltà di reclamo (Ezio Basso, voce Misure di sicurezza (profili processuali) in Digesto delle discipline penalistiche, Vol. VII, p. 138).

119. Ezio Basso, voce Misure di sicurezza (profili processuali) in Digesto discipline penalistiche, Vol. VII, cit., p. 142.

120. I casi in cui si prevedeva la presunzione assoluta erano tassativi e riguardavano i prosciolti per infermità di mente o per intossicazione cronica da alcool da stupefacenti, ovvero per sordomutismo quando si trattasse di delitto doloso o preterintenzionale per il quale la legge comminava la pena di morte o l'ergastolo o la reclusione per un tempo superiore nel massimo a due anni, la gravità della pena incide sulla durata minima del manicomio (art. 222 c.p.); i condannati per delitto doloso o preterintenzionale, a pena diminuita per infermità psichica o per cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo, quando la pena comminata in astratto dalla legge per tale delitto non fosse inferiore nel minimo a cinque anni (art. 219 primo comma c.p.); i condannati alla reclusione di qualsiasi durata, per delitto doloso, preterintenzionale o colposo commesso in stato di ubriachezza, qualora questa fosse stata abituale, o commesso sotto l'azione di sostanze stupefacenti alle quali fossero dediti. La durata della reclusione incideva sulla specie della misura di sicurezza, libertà vigilata o casa di cura e di custodia (art. 234 c.p.); minori non imputabili, che avessero commesso un fatto preveduto dalla legge come delitto colposo o preterintenzionale punibile in astratto con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni o con una pena più grave (art. 224 primo e secondo comma c.p.); minori imputabili condannati per qualsiasi delitto durante l'esecuzione di una misura di sicurezza cui erano stati sottoposti per mancanza di imputabilità (art. 225 secondo comma c.p.); condannati, senza distinzione, alla pena della reclusione per non meno di dieci anni devono essere sottoposti alla libertà vigilata se non si debba applicare una misura di sicurezza più grave (art. 230 n. 2 c.p.) stranieri condannati alla reclusione per un tempo non inferiore a dieci anni (art. 235 c.p.), o per un delitto contro la personalità dello stato (art. 312 c.p.): espulsione dallo stato. Condannati per istigazione alla prostituzione di una discendente, della moglie della sorella (art. 532 c.p.) o per costrizione alla prostituzione (art. 533 c.p.) o per sfruttamento delle prostitute (art 534 c.p.) ovvero per tratta di donne o minori (artt. 535, 536 c.p.): misura sicurezza detentiva (art. 538 c.p.). Del delinquente abituale (artt. 102-105 c.p., del delinquente professionale art. 105 c.p., del condannato ad associazione per delinquere (art. 417 c.p.).

121. Le presunzioni cadevano, imponendo l'accertamento concreto della pericolosità da parte del giudice, nel caso in cui tra la sentenza di condanna o di proscioglimento e la commissione del fatto fossero decorsi cinque anni, o dieci nelle ipotesi di infermità mentale ex artt. 219, secondo comma e 222, secondo comma.

122. Musco, op cit., p. 135.

123. Musco arriva ad una diversa conclusione ritenendo che l'unica condizione che diventa rilevante per la produzione degli effetti sia il reato rivelando una diffidenza del legislatore per le indagini a carattere soggettivo-psicologico.

124. Bricola muovendo la sua indagine dogmatica da postulati sostanzialistici, tenta, a suo dire, di porre il dato normativo a stretto contatto con il dato naturalistico o con le nozioni di ordine biologico o patologico che esso presuppone, cercando un "raccordo tra premessa ontologica e la loro configurazione in chiave deontologica" arrivando, de jure condendo, a proporre per i malati mentali fattispecie di pericolosità ante delictum, funzionali a scopi di difesa sociale, e suggerendo a tal fine l'adozione di un procedimento giurisdizionale che stabilisca i confini tra malattia mentale innocua e malattia mentale pericolosa da un punto di vista criminale, tramite l'ausilio della psichiatria (p. 301). Tutto questo nel 1961 a Costituzione vigente.

125. Franco Bricola, Fatto del non imputabile e pericolosità, Varese, 1961, p. 98.

126. Ivi, p. 129.

127. O per cronica intossicazione da alcool, o da sostanze stupefacenti o sordomutismo.

128. Pellissero, op. cit., p. 34.

129. Bricola, op. cit., p. 234. L'autore tuttavia ritiene che l'astrattezza della valutazione non debba portare a tener conto della determinazione del reato cosi come astrattamente formulato dal capo di imputazione ma comporti una valutazione concreta delle circostanze e dell'elemento soggettivo filtrati e valutati nel quadro di una patologia mentale. Definito quid minimum psichico dotato di un certo grado di similarità con l'elemento soggettivo dell'imputabile.

130. L'ipotesi di cessazione della misura di sicurezza in caso di estinzione della pena non riguarda però i casi di applicazione della misura di sicurezza in seguito a dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato e le misure di sicurezza applicate in conseguenza di una condanna superiore a dieci anni. Nel caso in cui la misura inflitta sia la colonia agricola o la casa di lavoro, la misura revocata si converte in libertà vigilata.

131. Pellissero, op. cit., p. 93.

132. Ivi, p. 94.

133. Musco, op. cit. p. 116.

134. Musco, op. cit. p. 118.

135. Rocco, Relazione al I Libro del Progetto, cit., p. 256.

136. Nella relazione Rocco ricollega questo potere anche a motivi di equità stabilendo un parallelismo tra il potere di revoca delle misure di sicurezza e la grazia nel sistema delle pene (Rocco, Relazione al I Libro del Progetto, cit., p. 35.) altre ipotesi di revoca della misura di sicurezza sono ricollegate all'estinzione del reato, che impedisce l'applicazione delle misure di sicurezze e ne fanno cessare l'esecuzione (art. 210 c.p.) e all'estinzione della pena che riguardano solo la misura comminata in caso di abitualità o di professionalità nel reato.

137. Musco, op. cit., p. 123.

138. Ferrajoli, op. cit., p. 746.

139. Pellissero, op. cit., p. 33.

140. Emilio Dolcini, Voce Codice Penale in Digesto discipline Penalistiche, Vol. II, cit. p. 279 e ss.

141. Ivi, p. 281.

142. Ferrajoli, op. cit., p. 5 e ss.

143. Ibidem. Il secondo elemento identificato, da Ferrajoli, meno rilevante ai fini della nostra ricerca, è dato dal cognitivismo processuale nella concreta determinazione della devianza punibile, in relazione alle motivazioni della decisione penale, assicurato dal principio di stretta giurisdizionalità, che per inverarsi richiede due condizioni: la verificabilità o falsificabilità delle ipotesi accusatorie e la loro prova empirica.

E' necessario che anche il giudizio penale non abbia carattere costitutivo, bensì ricognitivo dei fatti regolati dalle leggi penali. Il modello del processo penale imporrebbe quindi un procedimento probatorio di tipo induttivo che limiti od addirittura escluda valutazioni e si incentri su asserzioni o negazioni accertabili da un punto di vista processuale come vere o false.

Questa posizione, forse troppo estrema, si espone all'obiezione secondo la quale la verificabilità e la falsificabilità dell'accusa sarebbe troppo legato al mito della certezza del diritto, presupponendone un contenuto dal significato univoco, e privo di qualsiasi spazio interpretativo che superi i confini delle regole di quella che Perelmann e Tyeca definiscono la logica "informale".

Sulla base di questi principi epistemologici Ferrajoli ricava i dieci assiomi del garantismo penale che vengono a delineare e a definire il modello penale garantista:

  1. Nulla poena sine crimine, corrispondente al principio di retributività o di consequenzialità della pena al reato.
  2. Nullum crimen sine lege, corrispondente al principio di legalità.
  3. Nulla lex (poenalis) sine necessitate, corrispondente al principio di necessità.
  4. Nulla necessitas sine iniuria, corrispondente al principio di offensività.
  5. Nulla iniuria sine actione, corrispondente al principio di materialità o esteriorità dell'azione.
  6. Nulla actio sine culpa, corrispondente al principio di colpevolezza o della responsabilità personale.
  7. Nulla culpa sine iudicio, corrispondente al principio di giurisdizionalità.
  8. Nullum iudicio sine accusatione, principio della separazione tra accusa e giudice.
  9. Nulla accusatio sine probatione, principio dell'onere della prova.
  10. Nulla probatio sine defensione, corrispondente al principio del contraddittorio o della falsificazione.

144. Così Cesare Lombroso a proposito dell'imputabilità configurata nelle teorie della Scuola classica, cit. in Velo Dalbrenta, op. cit., p. 61.

145. Ivi, p. 175.

146. Ivi, p. 63.

147. Ivi, p.70.

148. Garofalo, op. cit., p. 1208.

149. Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano,1993, p. 70.

150. Foucault, op. cit., p. 41.

151. Ferrajoli, op. cit., p. 214.

152. Cesare Beccaria, op. cit., p. 47.

153. Ivi, p. 78.

154. Ivi, p. 47.

155. Velo Dalbrenta, op. cit., p. 143.

156. Foucault, op. cit., p. 282.

157. Ivi, p. 111.

158. Velo Dalbrenta, op. cit., p. 145 e ss.

159. Foucault, op. cit. p. 147.

160. Ibidem.

161. Ivi, p. 282.

162. Arianna Calabria, Voce Pericolosità sociale, in Digesto delle discipline Penalistiche, cit., p. 453.

163. Velo Dalbrenta, Tesi e malintesi de L'Uomo delinquente in Lombroso cento anni dopo, Utet, Torino 2009, p. 39.

164. Velo Dalbrenta, La scienza inquieta, op. cit., p. 180.

165. Foucault, op. cit., p. 21.

166. Ferrajoli, op. cit., pp. 16 -17.

167. Foucault, op. cit., 31.

168. Ivi, p. 59.

169. Sent. 10 marzo 1933, Corte d'Appello di Firenze nella causa contro Del Bene Flora e Brandanti Narcisa, cit. in Adolfo Ferraro, Delitti e sentenze esemplari, Centro Scientifico Editore, Torino, 2005, p. 69 e ss.

170. Gibson, op. cit., p. 67 e ss.

171. Ferraro, op. cit., p. 69.

172. Foucault, op. cit., p. 103.