ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo primo
Da "gang" ad organizzazioni di strada: una ricostruzione della letteratura classica e contemporanea sulle bande giovanili

Leonardo Basile, 2014

1-Introduzione

"La genealogia della gang è quasi coeva alla storia delle gradi città; nonostante l'attuale identificazione delle gang di strada con i semi malefici del terrorismo e del crimine organizzato, esse sono state anche alla base delle macchine politiche urbane dalla Roma repubblicana fino alla Chicago proibizionista ...Le gang, in altre parole sono tanto antiche come i colli romani, e tanto americane quanto lo spoil system" Mike Davis (Hagedorn, 2011, pag.9).

Le parole di Mike Davis danno un respiro profondo e rappresentano un'ottima premessa al lavoro svolto in questo capitolo. Per quanto nella storia si possano genericamente rintracciare degli obiettivi o dei tratti comuni alle innumerevoli gang che da sempre abitano le metropoli di tutto il mondo, ed in particolare i quartieri più marginali, periferici e segregati, la loro effettiva esistenza e ragione d'essere varia straordinariamente a seconda delle epoche e dei contesti di riferimento. Ma, se esiste una costante dietro la loro nascita, questa non può essere individuata che nelle molteplici forme di sfruttamento e disuguaglianza sperimentate sulla pelle da tantissimi giovani in ogni epoca e a ogni latitudine, in ragione della loro etnia o semplicemente della condizione sociale di appartenenza. Concordo pienamente con chi afferma che le società contemporanee occidentali stiano combattendo una vera e propria "guerra contro le migrazioni" (Palidda, 2008), che abbiano una comune origine razzista (Zinn, 1980), o che sviluppino modelli di segregazione ed inferiorizzazione materiale (Wacquant, 2006) e simbolica (Cerbino, 2009) ai danni di interi segmenti della popolazione. Ma sarebbe illusorio spingersi tanto "in basso" per dimostrare quali orribili scenari di subalternità e violenza caratterizzino gli stati moderni, siano essi guidati da monarchie, repubbliche o dittature: di fronte a un'impronta culturale globale caratterizzata da arrivismo e individualismo, restano nella penombra milioni di "invisibili". Non solo immigrati, ma anche schiere di precari, disoccupati, "inattivi", lavoratori in nero, cassaintegrati, licenziati, abitanti dei quartieri "a rischio", giovani semplicemente senza alcuna prospettiva di futuro. Appena un anno fa hanno suscitato niente più che un vago eco mediatico le statistiche pubblicate da Bankitalia (Occasional papers, 2012) secondo cui le dieci persone più ricche d'Italia posseggono un patrimonio grande quanto quello delle tre milioni più povere (che vivono con un reddito pro capite inferiore alla soglia dei 300 euro mensili). Le stesse fonti sottolineano anche che oggi la ricchezza è composta sempre più dal patrimonio accumulato in passato e sempre meno dal reddito: per la prima volta dal dopoguerra gli anziani sono relativamente più ricchi dei giovani, che "non riescono ad accumulare".

Siamo facili profeti nel prevedere che le attuali condizioni sociali e politiche determineranno nei prossimi decenni l'insorgere di nuove, sempre più numerose ed imprevedibili, forme di culture "ribelli" all'interno delle metropoli. L'attuazione di piani come il "Nato urban operation 2020" (1) ci da allo stesso tempo la certezza che, a meno di enormi stravolgimenti, saranno sempre maggiori le risorse materiali e politiche investite nel controllo dell'ordine pubblico urbano e nella repressione dei fenomeni di dissenso.

Come vedremo in questo capitolo, le ricerche compiute fino ad oggi in tema di bande giovanili hanno studiato il fenomeno da angolature diverse e talvolta radicalmente opposte. Le "gang", del resto, hanno assunto nel tempo e nello spazio ogni volta caratteristiche e ragioni d'essere peculiari. Risulta così impossibile tracciare l'identikit di un modello di banda immanente ed egemone, ed ogni tentativo in tal senso non può che rivelarsi parziale e riduttivo. Persino la denominazione risulta particolarmente controversa: il termine gang, fino ad oggi utilizzato prevalentemente dalla criminologia classica americana, risulta adesso più che mai intriso di una retorica securitaria e criminalizzante. Dal contesto latinoamericano è emersa le definizione di pandilla, che, in maniera più ottimista, richiama etimologicamente al significato di "gruppo di strada"; ricerche compiute in Inghilterra dalla fine degli anni sessanta relativamente a diverse "sottoculture spettacolari" preferiscono invece la denominazione di "bande giovanili". Più recentemente è emersa infine la definizione di "organizzazioni di strada" , che risponde all'esigenza di leggere le traiettorie di questi gruppi da una prospettiva di resistenza a condizioni di marginalità e subalternità, piuttosto che in chiave patologica e deviante. Pur propendendo apertamente per quest'ultima, utilizzeremo, per comodità espositiva, indifferentemente tutti questi termini proposti.

L'obiettivo di questo capitolo è ricostruire nelle linee guida fondamentali la letteratura tradizionale e contemporanea che si è occupata di gang, cercando di scandire le tappe sia cronologicamente che da un punto di vista teorico e della ricerca. Proveremo a riordinare le idee a partire dai lavori pionieristici della Scuola di Chicago, passando per le suggestioni di Albert Cohen e gli studi inglesi della Scuola di Birmingham, fino a osservare l'enorme distanza che vi è oggi fra le posizioni assunte da una certa "criminologia del controllo" ed altri orientamenti che collocano il fenomeno delle organizzazioni di strada in una prospettiva di "resistenza strutturale".

Questa ricostruzione ci fornirà gli strumenti storici e teorici idonei ad affrontare questioni di stringente attualità: scrivendo di bande giovanili è impossibile ignorare il valore che da sempre hanno assunto le politiche repressive a senso unico sia negli Stati Uniti che a livello internazionale. Recentemente, la legge del 2007 denominata "U.s. Gang Deterrence and Community Protection" (2), ha ad esempio ottenuto nel congresso americano un consenso bipartisan. Questa normativa pone sotto l'ala federale molti crimini comuni in qualche modo riconducibili alle gang, applicando un minimo obbligatorio di pena di cinque anni per qualsiasi dei reati elencati e la pena di morte per ogni omicidio. Viene stimato che oggi negli Stati Uniti esistano circa 16.000 bande (3) composte da oltre mezzo milione di membri, con un'età compresa fra gli otto ed i cinquantacinque anni. Alfredo Di Nicola (2000), in un articolo scritto per "Polizia moderna" si domanda se dato lo stato di feroce criminalità raggiunto oltreoceano, non sia opportuno prendere anche in Italia la situazione in pugno ed agire prontamente in ottica preventiva su certi gruppi potenzialmente "pericolosi". A giudicare da quanto è avvenuto nell'ultimo decennio, potremmo dire che i suoi propositi sono stati ben ascoltati. Tuttavia, in Italia, le organizzazioni giovanili di strada, lungi dall'essere eliminate, hanno conosciuto proprio in questi anni una nuova dimensione, e si preparano a moltiplicarsi.

2-Chicago ed i primi studi sulle gang di Frederic M. Thrasher

I primi ad occuparsi organicamente del fenomeno delle bande giovanili furono i ricercatori della Scuola sociologica di Chicago, nell'ambito delle loro teorie sulla organizzazione e disorganizzazione sociale. Quando nel 1915 Robert E. Park approdò nell'università della capitale dell'Illinois, propose un'importante rinnovamento accademico negli studi sulla città ed i suoi quartieri (Rauty, 1991). Temi che fino ad allora non erano stati considerati meritevoli di una particolare attenzione scientifica come la marginalità sociale, la delinquenza giovanile o la prostituzione, divennero l'interesse principale della emergente scuola "ecologica", che si proponeva di analizzare le forme di comportamento e socializzazione che sorgevano in un nuovo ecosistema urbano. Dozzine di giovani ricercatori si distribuirono per i quartieri di Chicago per raccogliere la maggior quantità possibile di dati sulla composizione sociale della città, sull'interazione dei gruppi, le loro forme di vita ed il loro territorio, utilizzando i metodi di ricerca dell'osservazione partecipante e dell'intervista qualitativa.

In quegli anni il fenomeno delle gang aveva dimensioni importanti. Tanto importanti che nel 1926, dopo sette anni di ricerca sul campo, Thrasher pubblicava "The gang", dando conto delle tendenze e della struttura di oltre 1300 bande di strada distribuite uniformemente da nord a sud in ogni angolo della città. Se 1300 sembra un numero enorme, determinato anche da un'idea di banda di strada particolarmente generosa, d'altra parte questa metropoli, con la sua peculiare dimensione storica e sociale, forniva le condizioni oggettive favorevoli alla nascita di innumerevoli e variegate aggregazioni di quartiere. Nelle parole di una recente ricostruzione di Alessandro Dal Lago (2002, pag. 23) la Chicago degli anni venti era un "punto di raccolta e di smistamento di lavoratori vaganti e stagionali, un agglomerato in cui le enormi fortune capitalistiche coesistevano con gli slum, ed era considerata la città in cui si riassumevano le contraddizioni del capitalismo americano, e quindi il tipo urbano per eccellenza".

I quartieri della città si differenziavano per classi sociali, ed erano soggetti a continue "ristrutturazioni" nella relativa composizione. Man mano che le varie comunità incontravano fortuna nell'accrescere le loro ricchezze, cercavano di trasferirsi in zone più ricche. Gli ultimi arrivati alloggiavano naturalmente nelle peggiori condizioni possibili, i cosiddetti "quartieri dormitorio". La capacità di accumulare fortuna permetteva di accedere a zone più ricche e confortevoli, spesso attraverso sanguinosi conflitti per il salario e le condizioni di lavoro (Patrick Renshaw, 1970). Tuttavia, come sottolinea opportunamente Hagedorn (2011), da questo composito scenario di conflitto e marginalità, ma anche progresso e speranza di poter migliorare le proprie condizioni, erano invece strutturalmente esclusi perlomeno gli afro-americani. Per loro l'orizzonte del ghetto, la black belt, restava l'unico orizzonte realisticamente praticabile.

Questo fermento complessivo costituiva quella che potremmo definire la condizione oggettiva a monte di ciò che la scuola sociologica di Chicago chiamò "disorganizzazione sociale". E, data la complessità del quadro urbano, non è certo un caso che a seguito della ristrutturazione del '29 la città divenne un enorme laboratorio di social control, cioè la "vera angoscia dell'elité dominante della storia americana" (Mills, 1966, pag. 9).

E' in questo contesto che Thrasher (1926, pag.15) sviluppa una prima definizione storica di gang. Apprendiamo che le bande sono un "gruppo interstiziale formatosi spontaneamente" e "integratosi attraverso il conflitto", caratterizzato da alcuni comportamenti tipici come "rapporti faccia a faccia, botte, movimento nello spazio in un gruppo compatto, conflitto e progettazione". Ma il primo fattore costituente era rappresentato dallo "sviluppo della tradizione, della struttura interna non dettata da riflessione, lo spirito di gruppo, la solidarietà, la morale, la coscienza di gruppo ed il radicamento in un territorio".

In queste righe vengono introdotti tanti degli elementi che restano ancora oggi una costante nelle ricerche sulle gang: dalla strutturazione di un'organizzazione interna all'utilizzo della violenza caratterizzata da una spiccata mascolinità egemonica; dalla ricerca di una dimensione territoriale e culturale da difendere come segno di identità alla capacità di progettare attività di vario genere. Ma anche, significativamente, la solidarietà e lo spirito partecipativo e affiliativo, come necessità di colmare un vuoto e coltivare dei legami che la struttura organizzativa della società evidentemente non garantiva.

Bisogna riconoscere come in quegli anni fosse già rivoluzionaria in sé l'idea che le gang mettessero a nudo delle mancanze della società e non (solo) delle patologie degli individui che ne facevano parte. Gli slum di "The Gang" non erano solo ambienti repellenti e malfamati, ma anche carichi di fascino e di mistero, dove i gangster, lontani dal controllo sociale formale e convenzionale, potevano sviluppare le più diverse forme di organizzazione, costituire autonomamente regole e ruoli, scegliere ragioni e percorsi di vita. L'accento viene così più volte posto proprio sulla diversità: Thrasher (1926, pag.39) non battezza un modello egemone di organizzazione, ma ne individua tanti e diversi fra loro, sostenendo che "non possono esistere due gang uguali". E non tutte le bande, peraltro, sono necessariamente criminali: la maggior parte, pur riproducendo comportamenti devianti, ha semplicemente finalità sportive o ricreative. Una banda, nello stato embrionale, non è costituita che da gruppi informali di bambini che giocano nel vicinato: è da lì che progressivamente svilupperanno una struttura interna e delle tradizioni comuni, scontrandosi talvolta anche con l'ostilità e la disapprovazione dell'ambiente adulto circostante.

Seguendo la ricostruzione di Thrasher risalta l'importanza dei dati relativi alla composizione etnografica delle organizzazioni, che insieme raggruppano un numero vicino alle 25.000 unità di affiliati. I membri del 35% delle gang censite ha un'età media compresa fra gli undici ed i diciassette anni, mentre, su 1313, solo 45 gruppi sono composti da cittadini di origine americana. Nonostante la nascita delle bande fosse in larga parte da ricondurre ad un contesto migrante, i conflitti fra esse molto raramente -secondo Thrasher- erano dovuti a fattori etnici: addirittura il 40% era formato da individui di nazionalità diverse, mentre il 60% aveva una composizione monoetnica. L'utilizzo della violenza era essenzialmente dovuto a ragioni di controllo del territorio ed alla osservazione di taciti codici etici atti a preservare l'onore ed il rispetto. Il nemico naturale, invece, era molto spesso comune: la pubblica autorità.

Non tutte le gang, malgrado la maggior parte lo fossero, erano organizzate in maniera verticistica e guidate da leader riconoscibili: diverse si caratterizzavano per la loro orizzontalità, tanto che Thrasher allude più volte a "forme primordiali di democrazia". Ciò non significa che fossero capaci di emanciparsi del tutto dal controllo sociale largamente inteso: parecchi elementi della società dominante si riflettevano all'interno delle loro vite da adulti e nei costumi delle particolari comunità in cui si trovavano. Un esempio evidente è quello relativo alle tematiche di genere, poiché l'atteggiamento prevalente era decisamente maschilista: la donna ammessa all'interno della gang era tendenzialmente l'amante del leader, un uomo scelto in relazione alle sue spiccate capacità di violenza e risolutezza nell'affrontare ogni situazione di strada. Raramente le donne erano ammesse ad avere un qualche ruolo nell'organizzazione, salvo casi di un impiego utilitaristico legato alle attitudini sessuali.

Alcuni dei dati raccolti confermano l'esistenza di una misoginia strisciante all'interno della società. Per i gangster più giovani, ad esempio, l'argomento "donne" è un tabù. Soprattutto fra i giovanissimi vi è un consenso di fondo nella preferenza ad evitare la presenza di ragazze in gruppo. Così, alcuni dei ragazzi intervistati, propongono argomenti di questo tenore: "sono troppo giovani" ... "a loro non piace ciò che si fa qui" ... "non ci sono ragazze nei paraggi" ... "fanno solo spendere soldi e mettere nei casini". Altri, più semplicemente, le bollano come incapaci. Da un gruppo di italiani viene fuori questa intervista:

-ti piacciono le giovani ragazze, tony?

no! Non mi sono mai piaciute. Non voglio scimmie intorno con ragazze. Mi danno solo problemi. Io uccido le ragazze.

Ma poiché aveva parecchie sorelle, viene chiesto a Tony se odiasse anche loro:

-perché dovrei odiare le mie sorelle? Non mi danno alcun problema, sono le mie sorelle. (Thrasher, 1926, pag.329, trad. mia).

Solo in quanto fossero sorelle "sue" potevano andare bene a Tony, mentre era fermo il disprezzo per tutte quelle che potessero sfuggire al suo controllo.

Viene raccontata l'esistenza di un piccolo numero di gang formate da sole donne, alcune dedite in particolare alla rapina, altre con finalità ricreative, o appassionate di baseball. Le bande "miste" costituivano verosimilmente la maggioranza. La presenza di una donna si caratterizzava in quel caso per il suo essere "tomboy" (4). Invece, in particolare nelle zone più periferiche, la differenza di genere semplicemente non veniva considerata. Così, per quanto allora ciò costituisse verosimilmente un buon motivo per essere bollate come immorali (come nel caso in cui una giovane donna finisce addirittura per questa ragione in una clinica psichiatrica), pare che uomini e donne, qualche volta, convivessero pacificamente nella stessa organizzazione.

3-The street corner society

Facciamo un salto di due decenni in avanti. La pubblicazione di Street Corner Society nel 1943 comporta un importante cambio di prospettiva, seppur all'interno dello stesso quadro teorico di riferimento descritto da Thrasher. Tuttavia, invece di analizzare le diverse bande presenti in un area, come fecero i suoi predecessori della Scuola di Chicago, Whyte (1968) si concentra su alcuni gruppi di giovani presenti nel solo quartiere italiano di Boston, chiamato Cornerville. Nel frattempo il contesto storico ed economico della società americana era cambiato radicalmente: la grande depressione seguita alla crisi del 1929 aveva generato tassi di disoccupazione elevatissimi, specialmente fra la popolazione giovanile. Le bande, adesso, non erano più formate prevalentemente da adolescenti, ma da maggiorenni. Questo garantiva alle organizzazioni maggiore continuità e stabilità, permettendo alle loro subculture di crescere e consolidarsi: i quartieri più poveri delle metropoli americane in espansione continuavano ad essere luoghi di segregazione e marginalità, ma acquisivano comunque una "stabilità" maggiore, conseguente in particolare alla fase economica recessiva che costringeva le generazioni migranti ad un adattamento al territorio più duraturo (Feixa, 1996).

Seguendo le impressioni di Colombo (1998), vi sono due precise ragioni che rendono particolarmente interessante il lavoro di Whyte. Da un lato, il fatto che sia uno dei primi sociologi a compiere uno studio etnografico volto a mettere in evidenza i legami di solidarietà e mutuo appoggio che si istauravano tra la popolazione migrante di un quartiere attraverso la costituzione di "bande giovanili". Una solidarietà che nasceva in particolare fra le seconde generazioni. Dall'altro, come già notavamo, c'è un'importante evoluzione metodologica: l'"osservazione partecipante" permette di stringere rapporti di amicizia e confidenza con i giovani coinvolti. Il ricercatore sviluppa un rapporto di vicinanza ed empatia con l'oggetto della ricerca, raccontandolo proprio a partire da quanto ha potuto apprendere in maniera diretta.

Lo studio prende le mosse da un rapporto umano particolarmente intenso: la convivenza prolungata del ricercatore con una famiglia di immigrati italiani. I rapporti di amicizia stretti con Doc, il leader dei Norton, permisero a Whyte di integrarsi nella vita quotidiana della gang, conoscendo dal di dentro le loro abitudini di vita e visioni del mondo. Nella struttura di questa banda emergeva in particolare un contrasto esistenziale con i membri di altri gruppi di giovani che frequentavano lo stesso quartiere, ma che, in quanto studenti universitari, appartenevano a tutti gli effetti ad un altro status sociale. Un contrasto rappresentato anche dall'immaginario riportato nelle cronache locali: gli "street corner boys" contro i "college boys". Fra i membri dei Norton si era creata una vera simbiosi a partire da un sentimento di lealtà di gruppo. Sentimento fondato sostanzialmente nei principi del mutuo appoggio: fin dalla loro infanzia questi ragazzi avevano sviluppato profondi vincoli affettivi e di identità, arrivando a considerare i vari componenti come una seconda, o talvolta prima, famiglia. Le strade dove erano cresciuti erano la loro vera casa ed i membri si identificavano tutti con soprannomi: ciascuno aveva un suo ruolo ed una sua specifica importanza all'interno del gruppo. Doc ad esempio era diventato leader vincendo un combattimento con il capo antico della banda, ma ciò nonostante la sua direzione non si basava sulla forza, ma nella capacità di mantenere il gruppo unito in base all'amicizia, alla lealtà ed alle attività quotidiane. Al contrario, Morelli, il leader dei college boys, non svolgeva un ruolo essenziale all'interno del suo gruppo, sebbene fosse il più adatto per rappresentarlo verso l'esterno.

Nonostante alcuni membri della banda potessero individualmente trafficare in giri illegali, Whyte sosteneva come la natura del gruppo non fosse affatto delinquenziale. In questo senso, l'autore criticava la miopia degli assistenti sociali, che interpretavano il rifiuto dei corner boys verso i luoghi di aggregazione giovanili tradizionali creati dalle istituzioni (tra cui in particolare l'università ed i suoi clubs) come un sintomo della loro incapacità ad una convivenza normale. Gli assistenti sociali etichettavano come deviante l'intento dei giovani di creare subculture per impegnare la gran parte del tempo libero, di produrre valori e forme di condotta o di dotarsi di una leadership stabile, mentre erano proprio questi gli elementi che consentivano agli stessi di uscire da una condizione di marginalità e di inferiorità simbolica. Il gruppo aveva anche una funzione di autoconservazione: i componenti potevano attutire l'impatto con la strada e la delinquenza criminale del ghetto.

Al termine del libro lo stesso Whyte afferma: "quantunque non potessi studiare tutta Cornerville, ne stavo ricostruendo la struttura e il funzionamento attraverso un attento esame di alcune delle sue parti in azione ....Il mio tentativo di fare della sociologia basandola sull'osservazione di eventi interpersonali, mi sembra costituisca il principale significato che questo libro può avere sul piano della teoria e della metodologia sociologiche" (Whyte, 1968, pag.350).

4-Appunti per una rilettura critica sulla Scuola di Chicago

Molti elementi contenuti nei lavori pioneristici della Scuola di Chicago sono stati e sono tutt'ora centrali nel dibattito attorno alle gang. Dalla territorialità alla violenza, dal sessismo alla mascolinità egemonica, dalla questione etnica alle condizioni oggettive di marginalità sociale dei giovani coinvolti. Dalla gerarchia "leaderistica" al suo opposto, le cosiddette "forme primordiali di democrazia" raccontate in "The Gang". E, ovviamente, l'innovazione scientifica, dovuta al metodo di ricerca "ecologico". Con questo termine si intendeva il paradigma attraverso cui leggere scientificamente i processi di evoluzione e trasformazione che si realizzavano nella società:

la tecnica dello studio ecologico, cioè di aggregati, permetteva di trascendere le singole individualità, nonché di cogliere, mediante la raccolta di dati empirici, le caratteristiche di vasti gruppi di persone (Williams, McShane 2002, pag. 87).

L'etnografia urbana, la raccolta di storie di vita, erano inoltre "strumenti adeguati per afferrare in profondità gli elementi combinati e gli eventi che danno forma alle vite individuali".

Gli studiosi di Chicago avevano l'ambizioso obiettivo di descrivere i complessi scenari delle relazioni sociali urbane della loro epoca. L'idea era ricondurre i tanti elementi osservabili ad un minimo comune denominatore, esaltando le caratteristiche più visibili e cercando di dare una sorta di prevedibilità logica a ciò che accadeva nel mondo reale. Sosteneva ad esempio Robert E. Park (1969) in Introduction to the Science of Sociology, che la maggioranza dei gruppi sociali ha origine da condizioni che sono tipiche per tutti i gruppi della stessa specie, generando meccanismi di sviluppo che sono caratteristici e predeterminati e che in definitiva possono essere prevedibili.

Vanno in questa direzione le recenti osservazioni critiche proposte da Hagedorn, che accusa le tesi della Scuola di Chicago di modernismo, determinismo ed anche opportunismo nel nascondere o sottovalutare il fenomeno del razzismo come elemento essenziale di cui tener conto nella nascita e nello sviluppo di qualsiasi banda di strada delle metropoli americane anni '20 (Hagedorn, 2011, pag. 35). Operare una riduzione delle caratteristiche comuni alle gang accomunando i fattori relativi alla loro genesi, sostenere che avessero la possibilità incondizionata di emergere dalla disorganizzazione sociale per integrarsi nella classe operaia o media, ha come premessa intrinseca che la società di riferimento, qualunque essa sia, abbia le caratteristiche di essere accogliente, mobile ed in espansione economica. L'idea stessa della disorganizzazione, determinata dall'abbandono di un quartiere di interi gruppi che si trasferiscono in un luogo più consono alle loro nuove capacità economiche, richiama ad una previsione di mobilità sociale e non di marginalizzazione etnica strutturale. Rimanda alla previsione di una crescita economica e sociale costante e non ad un contesto di recessione ciclica e segregazione razziale. Ma persino la Chicago di quel tempo, protagonista di un'ascesa capitalistica inarrestabile, smentì rapidamente questa previsione. Hagedorn (2011, pag.161) documenta dettagliatamente degli scontri che si ebbero fra gang bianche di origine irlandese e gang afro-americane almeno fino al 1919, anno in cui gli scontri assunsero il tenore delle "sommosse razziali", con le autorità deputate all'ordine pubblico cittadino apertamente schierate contro gli abitanti della black belt. Così diventa difficile comprendere l'asserzione di Thrasher (1926, pag.216) secondo cui, nella sua Chicago, "le divisioni di razza sparivano e le divisioni etniche potevano considerarsi superficiali".

Altri lavori, come quello straordinario di Howard Zinn (1980), raccontano di un ininterrotto conflitto razziale, che parla di ripetuti raid ed assalti condotti da parte delle gang bianche negli spazi di segregazione "assegnati" agli uomini ed alle donne di colore, almeno fino agli ultimi decenni del novecento. Un conflitto, secondo lo storico, ampiamente sottaciuto dagli ambienti intellettuali ed accademici, foraggiati direttamente dalle corporazioni americane più influenti.

5-Le bande delinquenti di Albert Cohen

Un posto di riguardo nella letteratura tradizionale sulle bande giovanili spetta alle bande delinquenti di Albert Cohen. Operando una certa semplificazione possiamo rintracciare all'interno della letteratura sociologica classica che connette bande giovanili e devianza due grandi tradizioni: una ha come punto di partenza le riflessioni della scuola di Chicago e si sviluppa in un secondo momento attraverso la cosiddetta labeling theory. L'altra prende le mosse dalla riflessione durkheimiana a proposito dell'anomia e della funzione fondamentale che la devianza svolge nella realizzazione e nel mantenimento dell'ordine sociale (Bugli, 2010, pag.42). Secondo quest'ultima prospettiva, l'elemento che conduce all'inosservanza o all'infrazione delle regole vigenti è rappresentato dal grado di adesione ed importanza che vengono accordati, da un individuo o da una comunità, alle norme sociali vigenti. La devianza, per Durkheim (1897), assume entro certi limiti una funzione positiva, poiché rafforza la coscienza collettiva e segna i confini di ciò che è considerato socialmente lecito. La teoria dell'anomia pone inoltre l'accento sulla necessità che la società regoli gli scopi sociali dei suoi membri mantenendoli entro i limiti delle realizzazioni possibili, evitando così lo sviluppo di meccanismi di tensione e frustrazione capaci di determinare fratture irrecuperabili. Merton, successivamente (1949), esplorando il rapporto fra livello culturale e strutturale di un determinato contesto sociale, aggiungeva l'idea che l'anomia non si sviluppa necessariamente per effetto del collasso della regolazione dei soli scopi desiderabili. Ma, piuttosto, per la più complessa frattura del rapporto fra gli stessi scopi prescritti e le vie legittime per raggiungerli. E' in questo senso che la devianza potrebbe essere spiegata come il risultato di una frattura nel modello organizzativo a capo della società, ed in particolare fra gli ideali di successo culturalmente dominanti e le possibilità concrete di raggiungerli a disposizione di tutti.

In coerenza con questa linea argomentativa, Albert Cohen (1974) rivolge l'interesse scientifico alle conseguenze devianti che sono connaturate alla composizione verticale e disomogenea della struttura sociale. Il suo lavoro viene generalmente inserito nell'ambito degli studi teorici sull'anomia e la frustrazione strutturale, ma, per quanto questa prospettiva possa essere corretta, in "Delinquent Boys", non vi è in realtà alcun riferimento alle teorie di Merton e Durkheim. A fondamento della sua teoria sulle sottoculture delinquenti Cohen ipotizza che "la delinquenza non è espressione o esplicazione di un determinato tipo di personalità: si può imporre su qualsiasi tipo di individuo se le circostanze favoriscono un'intima associazione con modelli delinquenti" (Cohen, 1974, pag.8, trad. mia). Le ragioni all'origine di alcuni comportamenti devianti che vedono come protagonisti preponderanti i giovani maschi della classe operaia, scaturiscono dall'appartenenza ad un certo sostrato sociale.

Una sottocultura secondo Cohen rappresenta un fenomeno, appunto, culturale poiché la partecipazione di ogni soggetto a questo sistema di norme sociali è influenzata dalla sua percezione delle stesse norme in altri membri; sottoculturale, inoltre, poiché le stesse norme sociali sono condivise solo da chi in qualche modo ritiene di poter trarne un beneficio, generando così un clima favorevole alla loro riproduzione. Ma si tratta di un beneficio non di natura economica o in qualche senso materiale: l'essenza di una sottocultura è costituita dall'edonismo immediato, in contrapposizione alla ricerca di progetti o attività a lunga scadenza che destano poco interesse, poiché richiedono cognizioni e capacità specifiche acquisibili solo con lo studio. Una componente importante di questa forma di autostima e benessere è il rifiuto all'obbedienza verso ogni autorità, escluse ovviamente le pressioni che si esercitano all'interno del gruppo stesso, dove le relazioni tendono ad imporsi con violenza, ma "con una spiccata solidarietà" (Cohen, 1974, pag.25).

Ma, tornando al centro del ragionamento: qual è l'elemento scatenante che induce i giovani maschi della classe operaia a dissociarsi dai valori culturali egemoni della società per rifugiarsi in una prospettiva sottoculturale e sviluppare meccanismi di rifiuto e di interazione solidale dal basso? La risposta è che vi è un problema di capacità generali di successo e classe di appartenenza: i giovani delle fasce più svantaggiate manifestano un disagio -e spesso un totale rifiuto- di adattamento ai valori ed alle norme culturali della classe media, rifiutando implicitamente il sistema valutativo americano dominante. Preso atto di questa "tensione strutturale" che inizia a manifestarsi fin dal principio del percorso scolastico, il tentativo di Cohen diventa quello di dimostrare che la nascita di sottoculture delinquenti rappresenti un fenomeno endemico: se il problema originario è rappresentato da una frustrazione di status, allora, dopo tutto, "la posizione sociale di un individuo è quella in cui si trova agli occhi di qualcuno. Quindi non si tratta di una proprietà dell'individuo fissata una volta per tutte, ma di una posizione che varia dal punto di vista di chi mai stia producendo il giudizio" (Cohen, 1974, pag. 130). E' questa prospettiva che determina nel giovane un problema di collocazione sociale, o, utilizzando i termini di Cohen, un "problema di adattamento" alle norme e valori di successo egemoni. E, in quanto strutturale, questa condizione di rifiuto ed ostilità sarà verosimilmente largamente condivisa dai soggetti appartenenti allo stesso ceto sociale. La nascita di una sottocultura deviante può diventare in questo senso una soluzione collettiva ai problemi di adattamento sociale, i cui valori "subculturali" saranno costituiti proprio a partire dal capovolgimento di quelli della cultura dominante (Cohen, 1974, pag. 56-65). Una subcultura non è altro che un nuovo modo di considerarsi e farsi considerare, una possibilità di convalidare le scelte di chi sta all'interno del gruppo e guardare con ostilità chi ne resta al di fuori. Questo risultato deviante dell'interazione -infine- non è da attribuire in particolare a nessuno dei partecipanti, ma è una realtà emergente sul piano del gruppo.

Perché mai il giovane svantaggiato dovrebbe desiderare -oltre il limite in cui prova un sentimento di frustrazione- il rispetto o l'ammirazione degli ostili individui della classe media? Con questa domanda di sottofondo, l'ultimo paragrafo dei ragazzi delinquenti si interroga su cosa la società americana potrebbe fare per meglio controllare o ridurre la delinquenza giovanile. La sua risposta è in un certo senso vaga ma strutturale: occorre trovare il modo di mutare le norme della classe media di modo che le caratteristiche del ceto operaio non releghino il giovane svantaggiato in una condizione sociale inferiore, consentendogli di competere con più efficacia nel mondo arrivista del sogno americano (Cohen 1974, pag. 192).

6-La teoria delle "sottoculture" di Cloward e Ohlin

Mentre tende spesso ad essere semplificata e ricondotta riduttivamente nell'alveo dei lavori sull'anomia, la teoria delle subculture delinquenti di Cloward e Ohlin sembra in realtà contenere in nuce una prima lettura che colloca le bande di strada in un'ottica resistenziale, con una visione della realtà fortemente orientata all'individuo ed al suo rapporto con l'ordine costituito. Escludendo che la delinquenza fosse una componente del patrimonio genetico del criminale, le "colpe" del sistema che indurrebbero a forme di devianza collettiva sarebbero sostanzialmente riconducibili a due varianti: da un lato il disegno di scopi di successo validi per tutti gli uomini e per tutte le classi (anche per coloro che non hanno granché possibilità di raggiungerli); dall'altro la mancanza di attenzione al degrado emergente in certi contesti urbani, creando forme di segregazione, abbandono e marginalità. E' con queste premesse che nei quartieri delle metropoli americane possono iniziare a formarsi delle subculture delinquenziali, nel senso di orientamenti culturali paralleli fatti da un insieme di "prescrizioni, norme o regole di condotta che stabiliscono le attività richieste ad un membro della subcultura" (Cloward, Ohlin, 1968, pag.9). Al centro della nascita dei gruppi devianti, come abbiamo visto per Cohen, vi sarebbe quindi anzitutto un problema di legittimità delle norme: revocando il loro appoggio a certe aree del diritto costituito vengono investite di legittimità forme di condotta ufficialmente proibite. I membri delle bande delinquenti hanno una chiara consapevolezza della loro posizione deviante, e si preparano in qualche modo al momento nel quale la società li obbligherà a scegliere da che parte stare. Da qui nasce la necessità di un "regolamento sottoculturale interno" (Cloward, Ohlin, 1968, pag.16), capace di dare ai componenti significati che abbiano grande valore nella loro economia psicologica e sociale.

Vi è un elemento originario dentro quella condizione di anomia in cui versa l'abitante povero di un ambiente urbano altamente degradato. Come abbiamo già rapidamente osservato, se per Durkheim è stabile quella società in cui in ogni parte della gerarchia sociale gli uomini sono soddisfatti della loro sorte di vita, aspirando a conseguire solo ciò che è realisticamente possibile che essi raggiungano, per Merton la stabilità è una conseguenza diretta della tendenza all'equilibrio fra aspirazioni e norme, fra scopi culturalmente prescritti e mezzi socialmente legittimi per realizzarli (Melossi 2003). Per Cloward ed Ohlin l'elemento di rottura è però da ricercare ancora più a monte. E' vero, sostengono, che esiste un'apologia del successo che cerca di forgiare significati validi per tutti i membri della società, ma è dubbio che questa riesca a "cannibalizzare" le opinioni a tal punto. Le restrizioni strutturali a cui vanno incontro i membri degli strati socioeconomici inferiori, e in particolare gli adolescenti, provocano in loro un'attenuazione della condivisione e del perseguimento degli scopi del successo che appartengono all'ideologia della eguaglianza delle possibilità. Se è indubbia la tendenza a ricercare un costante miglioramento economico, d'altra parte vi è la consapevolezza che una grossa parte dei beni della vita restano per loro inaccessibili. Così l'adattamento non è effettivamente proteso a quegli immaginari di successo disegnati dal sistema, ma piuttosto ad un orizzonte più prossimo e vicino: quello del lavoro e delle condizioni sociali concretamente raggiungibili da un membro della loro classe di appartenenza. Non quindi una frattura fra scopi e mezzi, ma piuttosto fra scopi e scopi, e cioè fra quelli definiti dai giovani per se stessi in relazione ai mezzi concretamente percepiti come disponibili e quelli prescritti dalla società in relazione alla propria struttura. Gli autori dubitano infatti che un abitante di un quartiere povero, ma comunque in qualche modo "ricco" di relazioni sociali, possa -a prescindere da ogni valutazione di successo- desiderare così intensamente di abbandonare il suo ambiente e le sue relazioni per saltare nel mondo sconosciuto della classe media (Cloward, Ohlin, 1968, pag.85).

L'anomia genera in questo senso un "problema di adattamento" che mette radici ancora più a monte rispetto al momento in cui il soggetto si renderà conto che i mezzi che ha a disposizione non sono proporzionati ai suoi obiettivi: fin dal principio della sua età adulta lui è pienamente cosciente della limitatezza dei suoi orizzonti. Ma come mai gli autori si concentrano tanto su come operano i problemi di adattamento del povero rispetto ad un mondo che gli è tanto vicino nell'immaginario quanto distante nella realtà? Cloward e Ohlin lo fanno perché nella loro teoria l'elemento della consapevolezza è un tassello decisivo per definire la traiettoria deviante. Liberatisi così in fretta dall'adesione al complesso delle norme di successo esistenti, i giovani maschi delle classi inferiori possono scegliere la strada della delinquenza collettiva per cercare delle soddisfazioni alternative:

E' evidente che i membri di una nascente subcultura delinquente debbano subire un complesso processo di mutamento di atteggiamenti verso se stessi, verso altre persone e verso l'ordinamento sociale esistente prima che possa aver luogo una così importante trasformazione (Cloward, Ohlin, 1968, pag.120).

La delinquenza dunque non nasce semplicemente da una frustrazione strutturale, ma da un complesso procedimento di interiorizzazione dei propri limiti di fondo, e dalla contestuale determinazione nel cercare altre opportunità possibili. Nello spiegare le dinamiche dello "sviluppo delle subculture delinquenziali" non viene descritto un semplice meccanismo di causa-reazione, ma vengono individuati tre distinti "livelli" da cui deve passare il futuro delinquente per operare la sua trasformazione.

Prima di tutto il "processo di alienazione": il passaggio più importante nella revoca dei sentimenti che sostengono la legittimità delle norme convenzionali consiste nell'attribuzione della causa del proprio fallimento, o della previsione del fallimento, all'ordinamento sociale anziché a se stessi. Se una persona attribuisce il suo fallimento alle ingiustizie del sistema sociale può criticare l'ordine esistente, può impiegare i suoi sforzi per riformarlo oppure dissociarsi (alienarsi) da esso. Al contrario, se la causa del proprio fallimento fosse ricondotta alla propria incapacità, ci si sentirebbe piuttosto nel dovere di cambiare se stessi e non il sistema. Avvenuta l'alienazione, lo sviluppo ed il mantenimento di una subcultura delinquenziale è ovviamente impresa collettiva. Pur potendo manifestarsi forme di devianza principalmente solitarie o individualistiche, gli autori ipotizzano che se il "fallimento" è attribuito all'inadeguatezza degli assetti istituzionali esistenti allora è più facile che la reazione diventi collettiva. E' per questo che occorre difendere le scelte (collettive) "antisistema" da sensi di colpa, ansia e paura. E ciò può avvenire solo a due condizioni: non ritenere le regole violate come moralmente vincolanti ed avere in questo senso un forte appoggio collettivo. Chi fa parte di una subcultura delinquente è esente dai sensi di colpa, poiché ha separato concettualmente la questione della legittimità delle norme da quella sulla loro validità morale.

Si conclude, la teoria delle subculture, con una dettagliata analisi di come queste poi concretamente operino nel reale, propagandosi da membro a membro e tramandandosi da generazione in generazione. In questo senso Cloward e Ohlin riprendono la teoria dell'associazione differenziale di Edwin Sutherland (1937), secondo cui la delinquenza originerebbe dall'apprendimento di un insieme di valori, norme ed atteggiamenti in contrasto con la cultura dominante. L'apprendimento (del comportamento deviante) si verifica grazie a processi di interazione con individui o gruppi che attribuiscono significati positivi ad azioni devianti (Cloward, Ohlin, 1968, pag.39). Tuttavia, per quanto comuni siano le pressioni alla nascita di una subcultura, queste vengono distinte dagli autori sostanzialmente in tre tipi, riconducibili alla tipologia di zona urbana depressa in cui operano. Una subcultura criminale riferita a coloro che sono dediti ad attività delinquenti volte sostanzialmente al profitto economico, si colloca in quelle zone urbane degradate ma ancora in qualche modo ricche di legami sociali quelle adatti a proteggere questo tipo di delinquenza. C'è poi la subcultura astensionista, popolata da coloro che reagiscono al fallimento cercando di "elevarsi" facendo uso di stupefacenti, situata nelle zone depresse e disintegrate magari "a seguito di variazioni scellerate al piano regolatore urbano". Ed infine la subcultura conflittuale, intrisa di violenza e mascolinità egemonica, tipica di quei quartieri meticci dei sobborghi metropolitani americani (Cloward, Ohlin, 1968, pag.157).

Il dato più significativo della teoria delle subculture delinquenti risiede probabilmente proprio nell'introdurre incondizionatamente l'elemento della consapevolezza nella scelta deviante. Al contrario di Cohen nei suoi "ragazzi delinquenti" o di Sykes e Matza in "Techniques of neutralization: a Theory of delinquency" il delinquente non è una persona che continua ad attribuire legittimità alle norme ufficiali della società, seppur in maniera sostanzialmente inconscia nel primo caso o eventualmente consapevole nel secondo. Non è alle prese con una personalità ambivalente dovuta alla posizione di sfidante di certi valori della classe media di cui tuttavia riconosce ancora un certo valore, né si trova in una condizione psichica precaria per via della "neutralizzazione" delle norme convenzionali che ha operato pur continuando a non ripudiarle. Il deviante non è in questo senso afflitto da continui sensi di colpa, crescente ansia ed angoscia, ed è uno sforzo inutile continuare ad orientare la ricerca verso concezioni "psicologiche" della delinquenza. Vi è un'intenzionalità consapevole nei suoi comportamenti, per quanto questi seguitino ad essere il prodotto di un sistema di diseguaglianze strutturali, riprodotte immancabilmente al di fuori dalla sfera delle sue possibilità.

7-David Matza e l'importanza del metodo

Penso che quello che ho voluto fare, col mio lavoro, sia stato rendere i personaggi di cui scrivo credibili, nel senso di complessi. Quando ero studente, e anche dopo, pensavo che la maggior parte dei personaggi di cui scrivono i sociologi non fossero veramente credibili nel senso che erano troppo semplici. Erano a una dimensione ...E quando iniziai a interessarmi dei giovani delinquenti, pensavo che quelli che si occupavano dei giovani delinquenti non cogliessero a pieno, il più delle volte, o non cogliessero affatto, la complessità dei giovani delinquenti, quanto fossero interessanti e quanto fossero sofisticati (5).

Questa frase, riportata in un intervista dei suoi studenti, riassume le linee guida del fare sociologia di Matza, tracciate in particolare in "come si diventa devianti", un lavoro che non ci dice molto sulle gang ma che si pone in cima ad un ideale albero genealogico sulla metodologia relativa ad alcune questioni dirimenti nell'ambito della ricerca sociale. Prima di essere introdotti nel grande mondo del "labeling", per Matza il problema della comprensione del processo con il quale si diventa devianti è posto nei termini dell'analisi e della ricerca.

L'obiettivo critico è rivolto, in primo luogo, all'impossibilità di trattare l'uomo come fosse un oggetto incapace di resistere alle forze di gravità dell'ambiente che lo circonda, irresistibilmente attratto alla devianza a prescindere dalla sua volontà da cause e circostanze che si determinano oggettivamente. Utilizzando discorsivamente un minimo comune denominatore per le critiche che rivolge di volta in volta ai vari studi sulle "affinità" e sulle "affiliazioni", Matza argomenta che, fino ad allora, la quasi totalità degli studiosi della devianza avesse utilizzato strumenti di ricerca utili concettualmente più a spiegare il mondo inorganico degli oggetti che quello variopinto degli esseri umani.

Il concetto di affinità è inteso quale nesso eziologico intercorrente fra una causa, come l'etnia, la povertà o la disorganizzazione sociale, ed un effetto, la devianza. Similmente il concetto di affiliazione descrive una relazione fra un contesto oggettivo, come la presenza di bande delinquenziali in un quartiere degradato, ed un soggetto, che diventa altrettanto delinquente per via di un "contagio" o di una "conversione" ad una condotta che è nuova per lui ma già consolidata per altri. La principale preoccupazione è rappresentata dalla distanza fra queste teorie e la molteplicità delle esperienze soggettive, una lontananza che ha come approdo una lettura schematica e riduttiva dei fenomeni umani.

Il problema è che nella realtà le persone ritenute devianti possono avere moventi, mete e concezioni morali proprie, incompatibili ed incomprensibili qualora il metodo di valutazione resti quello legato alla cultura "dominante", o se si pretende semplicemente di ridurli a ciò che effettivamente non sono per comodità analitica. Suggerisce allora Matza che quando il soggetto della ricerca sono attività che violano in qualche modo standard di condotta e di moralità largamente condivisi, occorre anzitutto stabilire un rapporto di profonda comprensione ed empatia con il soggetto stesso. Istaurare un rapporto di empatia significa entrare nel mondo del fenomeno che si vuole descrivere quasi fino a condividerlo, esigendo di darne una rappresentazione fedele e non riduttiva, senza violarne l'integrità. La decisione di studiare i fenomeni devianti da vicino, cercando di rimanere il più fedeli possibile alla realtà empirica, ha conseguenze inevitabili:

lo studioso è per così dire consegnato nelle mani del soggetto che rappresenta il fenomeno e si trova quindi, sebbene non senza rammarico o riserve, a definire la situazione secondo la versione data dal soggetto. In questo senso la devianza è vista dal "di dentro", da una prospettiva che vuole apprezzare le differenze e non correggere delle patologie. (Matza, 1969, pag. 45)

Il grimaldello utilizzato per convincerci della necessità della vicinanza fra ricercatore ed oggetto è il concetto di naturalismo, inteso però in un senso che ribalta il suo significato classico, che lo vede assimilato al metodo sperimentale. L'esercizio di applicare quest'ultimo ai soggetti umani comporta "un'accentuazione delle caratteristiche oggettive, esterne o osservabili dei fenomeni, che in genere equivale quindi al positivismo" (Matza, 1969, pag.76). Il significato corretto, quello più vicino all'etimologia della parola, rimanda invece all'esigenza di mantenersi fedele alla natura del fenomeno che viene studiato e analizzato, cioè ad un mondo tendenzialmente distante dai preconcetti -qualsiasi essi siano- del ricercatore.

Questa esigenza di avvicinare ricercatore ed oggetto dello studio ha come presupposto l'idea che anche la devianza sia un fenomeno naturale, anzi, come sostenuto già oltre mezzo secolo prima da Durkheim (1897) sia una caratteristica implicita e se vogliamo perfino necessaria della società. Matza segnala come limite teorico che il processo attraverso il quale si diventa delinquenti, criminali, irriducibili trasgressori o semplicemente immorali sia sempre stato immaginato come una conseguenza a circostanze relative di volte in volta alla costituzione fisica, alla razza, intelligenza, vita familiare, ma anche alla povertà, alla classe sociale, alla disorganizzazione sociale, al deficit educativo, alla prossimità delle cattive compagnie e persino alla riqualificazione urbana. Da Lombroso alla scuola di Chicago, pur da prospettive teoriche e di ricerca diametralmente opposte, si è tentato di dimostrare che certe persone, individualmente o in gruppo, sviluppano una predisposizione alla devianza come conseguenza delle particolari circostanze in cui si trovano. Il fascino della connessione eziologica è dato, oltre che dalla possibilità di semplificare e schematizzare, anche dalla possibilità di prevedere: se certe condizioni antecedenti "predispongono" certe persone o gruppi a dei risultati prevedibili, allora, approfondendo questa conoscenza, il livello di previsione potrebbe acquistare maggior certezza. Ma un'operazione simile è possibile in scienze come la biologia e la chimica, si adatta molto meno allo studio dell'uomo:

l'affinità si riferisce alla forza di attrazione esercitata, in gradi diversi, fra gli atomi, facendoli entrare, e rimanere, in combinazione fra loro. Per analogia questa idea basilare suggerisce che persone dotate delle opportune predisposizioni vengono attirate verso il fenomeno e verso le cerchie sociali che già lo hanno fatto proprio...tuttavia è evidente che per essere applicabile e utile nello studio dell'uomo, l'idea di affinità dev'essere corretta, così che possa affermare le capacità soggettive pur riconoscendone la loro riduzione... (Matza, 1969, pag. 112).

L'affinità in tal senso descritta ha dunque l'esigenza di ridurre le facoltà soggettive dell'uomo, menomarlo delle sue capacità di reattività ed adattamento agli stimoli del mondo reale, e infine sostenere che, quasi al pari di un oggetto, sia poco capace di reagire a forze e pressioni del mondo esterno.

Ci si domanda, in definitiva, se la "predeterminazione" sia una categoria applicabile all'essere umano. Sostenere ad esempio che la provenienza etnica sia un fattore in sé in qualche modo determinante per la riproduzione di comportamenti illegali può essere utile per trattare il fenomeno della devianza in termini schematici e politicamente immediatamente fruibili, ma ha la spiacevole conseguenza di considerare l'essere umano al pari di un qualsiasi oggetto in balìa del mondo che lo circonda. Ma anche dare quel rilievo alla disorganizzazione come facevano i "chicagoani" è un'operazione in tal senso insostenibile. Con un'obiezione divenuta poi particolarmente nota (Melossi, 2003), Matza sostenne che non solo la maggior parte delle persone cresciute in questi contesti di povertà e disorganizzazione non sono particolarmente devianti, ma che anche coloro che lo sono mantengono parecchi aspetti convenzionali, ed in definitiva la grande maggioranza degli abitanti dei quartieri più disagiati rimane nell'alveo della legalità e della moralità socialmente e mediaticamente egemone (Matza, 1964). L'assenza di controllo sociale facilita l'insorgere della devianza, ma una siffatta libertà fa pensare alla scelta, non alla predeterminazione. Il soggetto -in altri termini- media il processo del divenire, certamente anche in relazione alle condizioni ed ai problemi dati dalla realtà concreta di fronte a lui.

D'altra parte non ci sono solo la complessità del reale e la necessità di umanizzare i percorsi di ricerca a rendere lo studio sulla devianza incompatibile a certe formule riduzionistiche. Matza si schiera infatti con i teorici dell'etichettamento. Se proprio vi è una causa da ricercare alla devianza questa è intrinseca al termine stesso, ed ha molto a che vedere con il "bando" e con l'autorità costituita:

Ignorare la pressione esercitata dal bando equivale a supporre che il Leviatano sia irrilevante nelle vite degli uomini comuni che vengono a trovarsi entro i confini del suo dominio oppressivo ...Fra i loro successi più considerevoli i criminologi positivisti riuscirono in ciò che sembrerebbe impossibile. Essi separarono lo studio del crimine dall'attività e dalla teoria dello stato. (Matza, 1969, pag. 256).

In quest'ottica è il significato stesso della devianza ad essere messo in discussione, rendendo difficile immaginarla a prescindere dal rapporto esistente fra crimine ed autorità costituita. La "significazione" è una funzione specializzata e protetta dallo stato moderno, e il suo compito principale è quello di produrre leggi che determinino quali attività e persone definire concretamente delinquenti. Lo scopo principale del bando non è solo quello di scoraggiare i trasgressori sottoponendoli a stigma ed eventuale punizione, ma anche quello di tenere il virtuoso lontano da attività colpevoli, di rimarcare in altre parole una linea indelebile che distingue il bene dal male. Il colpevole va così a collocarsi dalla parte del male, risultandone in quanto tale demonizzato. Con lo stigma il soggetto è reso consapevole della sua condizione di deviante, e viene costretto alla scelta dell'abbandono di un certo comportamento oppure al consolidamento della sua posizione antagonista. Per quanto imponente possa essere l'apparato statale, per quanto minaccioso possa essere il bando, resta infatti valido il principio generale secondo cui il soggetto media il processo del proprio divenire. Messo però a confronto con un'autorità così potente la capacità di autodeterminazione del soggetto può essere ridotta. Questa diminuzione della capacità di mediare il proprio divenire fa parte del processo con il quale si diventa deviante.

8-La scuola di Birmingham

Con un netto cambio di segno rispetto alle prospettive di ricerca del passato, il contributo della Scuola di Birmingham sposta l'asse della riflessione teorica verso un'analisi del capitale simbolico e ribelle insito negli stili emergenti fra i giovani, emancipando lo studio sulle bande dal problema della devianza. Stile, infatti, non vuol dire necessariamente moda. E banda non vuol dire necessariamente devianza. Si avverte l'esigenza di indagare quei percorsi che -tramite la costruzione di un'immagine comune di gusti e stili- esprimono soggettività del tutto nuove ed imprevedibili (Bugli, 2010). La "resistenza rituale" diventa il paradigma attorno al quale le ricerche del centro per lo studio della cultura contemporanea di Birmingham, fondato da Hoggart nel 1964 e diretto in seguito da Hall, cercarono di spiegare alcuni comportamenti e tendenze che emergevano prepotentemente nella gioventù della classe operaia inglese. Per Hebdige (1979) l'obiettivo critico divenne assimilare, al concetto di sottocultura, una prospettiva di studio che tenesse conto dell'intero gioco dei fattori ideologici, economici e culturali che gravano sulla stessa. Se da un lato è la classe sociale, e non l'età o la generazione, l'elemento esplicativo della produzione di subculture giovanili, d'altra parte le pratiche ed i linguaggi in esse contenute non si possono spiegare semplicemente con la devianza, ma occorre comprenderle mettendo a fuoco le mutevoli espressioni della tradizionale cultura della classe operaia. Che, in quell'epoca, esprimeva un forte antagonismo simbolico nei confronti della cultura della classe media.

Secondo questa prospettiva risulta centrale il concetto gramsciano di egemonia. Le sottoculture sono viste come rituali di contestazione "rappresentati" dai giovani "nel teatro dell'egemonia", che mettono in crisi il mito del consenso: la loro emersione è collegata a quei periodi storici in cui diventa evidente una crisi di consensi. Come in una scena teatrale il conflitto si esprime a livello di immaginario, sebbene rifletta contraddizioni reali (Hall e Jefferson, 1993; Macciocchi, 1974).

Vengono così indagate diverse "bande spettacolari" che abitano molte delle principali città inglesi. Queste metropoli avevano tradizionalmente una forte concentrazione operaia, e costituivano contemporaneamente avamposti europei nelle dinamiche di ristrutturazione industriale e sociale (Tabboni, 1986). Qui il milieu sottoculturale si è costituito al di sotto dei discorsi autorizzati, nonostante le discipline molteplici della famiglia, della scuola e del posto di lavoro:

la risposta di questi giovani è una dichiarazione di indipendenza, di alterità, di rifiuto dell'anonimato. E' un'insubordinazione. Allo stesso tempo è anche una conferma indiretta della condizione di sottomissione. Le sottoculture costituiscono un gesto sia di richiesta d'attenzione sia di rifiuto (Hebdige, 1988, pag. 19).

Gli skinhead, per esempio, "indubbiamente riaffermarono quei valori che facevano parte della comunità tradizionale della working class" (Hebdige, 1990, pag.12), pur costruendo un linguaggio simbolico "spettacolare" che contemporaneamente rompeva con la cultura tradizionale dei loro genitori, e che rappresentava certamente una istanza sottoculturale come risposta a mutamenti sociali che toccavano l'intera comunità. Il punk, era invece "una sintesi innaturale che conteneva i riflessi distorti di tutte le più importanti sottoculture del dopoguerra" (Hebdige, 1990, pag.13). Il capitale simbolico, da rivendicare come forma di indipendenza ed insubordinazione, era un'esplosione di creste e di anfibi, di giacche di cuoio e jeans strappati, di cinture borchiate, toppe, spille e adesivi che dovevano suscitare una curiosità tanto atterrita quanto affascinata. Il Punk "riproduceva l'intera storia stilistica delle culture dei giovani della working class nel dopoguerra nella forma 'cut up'", combinando cioè tratti simbolici che erano appartenuti originariamente ad epoche e culture del tutto diverse.

Una delle caratteristiche principali di questi studi emerge dalla ricerca di Phil Cohen (1972) su alcune bande, fra le quali gli skinheads e i mods dell'East End di Londra. Cohen si propone di identificare, nei comportamenti, tutto ciò che serve a mostrare un'opposizione simbolica, ricercandone anche la genesi strutturale e storica e collegandoli con i problemi che i giovani della classe operaia si trovavano ad affrontare in seguito ai cambiamenti intervenuti in quegli anni. E, ancora una volta, lo studio del fenomeno delle bande diventa strettamente connesso alle trasformazioni economiche e sociali che gli gravitano intorno. Proprio nell'East End di Londra si erano infatti verificati processi di profondo cambiamento urbanistico ed economico che avevano modificato il tessuto di quella che, fino a poco tempo prima, poteva essere definita "una comunità operaia integrata, con una notevole sicurezza di lavoro per le giovani generazioni" (Carlo Grassi, 2002, pag.164). La ristrutturazione della prima periferia si orienta verso la realizzazione di quartieri con uffici e alberghi di lusso che prenderanno il posto delle vecchie fabbriche, ed in cui la forza lavoro operaia, ormai dequalificata rispetto alle richieste dell'ambiente circostante, si trova a convivere con quei sentimenti di frustrazione e umiliazione "tipici" di chi ha vissuto un "declino" nella sua posizione sociale e nel reddito. Rispetto a questa mertoniana frustrazione strutturale i giovani non reagiscono, nei confronti della cultura dominante, invertendone i valori ed avanzando dei percorsi di riappropriazione tesi a raggiungere quelle mete ritenute inaccessibili. Semplicemente si dissociano e dirottano le proprie aspirazioni al di fuori del lavoro, nell'area del divertimento e del tempo libero (Cohen, 1972). Così l'adesione ad una subcultura rappresenta un modo per risolvere problemi di identità ed autostima, al di fuori del percorso sociale classico in cui sono nati e continuano a vivere.

L'agitazione sociale e culturale che promuovono questi contributi ha senz'altro il merito di avvicinare il tema delle bande giovanili ad un modello interpretativo più flessibile rispetto a quello tradizionale centrato sulla devianza degli studi americani. Indicare il nucleo aggregativo principale dei gruppi nella creazione di sottoculture (non necessariamente delinquenziali), nell'elaborazione collettiva di un gusto e di uno stile nell'ambito di un'estetica resistente, piuttosto che nella criminalità o nel capovolgimento di un insieme di valori della cultura dominante, permette di studiare il fenomeno delle bande a partire da una concezione più libertaria e meno stereotipante delle stesse. Allo stesso tempo, rappresenta un tentativo di collocarle all'interno di uno schema interpretativo connotato dal segno dell'opposizione/resistenza.

Inoltre per la prima volta è la musica ad essere il più importante elemento culturale di appartenenza giovanile. E' anche e soprattutto grazie al suo apporto che si increpano definitivamente i ponti con la cultura dominante, sobria e quasi austera, della società inglese contemporanea. Si può in tal senso notare come le subculture Punk, Skinhead, Moods, pur essendo spesso alimentate e "recuperate" ad un ambito mainstream dall'industria musicale e della moda, conservino sempre nei confronti di queste un'autonomia ed una propria capacità di iniziativa, non solo indirizzandone le tendenze, ma anche usandole in modo imprevedibile ed innovativo (Hebdige, 1988).

9-The Eurogang Paradox

A quasi un secolo di distanza dalla pubblicazione delle ricerche di Thrasher la definizione predominante di gang è cambiata radicalmente. Buona parte della criminologia contemporanea americana ed europea ha abbandonato ogni tipo di lettura sociale o culturale della devianza giovanile, preferendo concentrarsi su una prospettiva legata al dogma della sicurezza nelle periferie urbane. Come suggerisce Brotherton (A c. di Queirolo Palmas, 2010, pag. 31) gli studi di Klein, uno dei fondatori del gruppo di ricerca europeo Eurogang (6), pongono particolare enfasi su tre elementi:

;la valutazione del dato di come gli osservatori esterni vedono le bande;

;come i membri di un gruppo si percepiscono e autodefiniscono;

;il riferimento ad implicazioni patologiche dato che le bande per definizione sono coinvolte in pratiche trasgressive che infrangono i codici legali e sollevano reazioni di controllo sociale da parte della comunità.

Ma andiamo con ordine. Il "paradosso europeo", secondo Klein (2001), consisterebbe nel fatto che in Europa non venga del tutto riconosciuta l'esistenza di bande giovanili, al contrario degli Stati Uniti, dove invece la presenza delle gang è un dato acquisito. Questa mancanza sarebbe dovuta ad una presunta differenza sia quantitativa che qualitativa del fenomeno fra i due continenti, e tuttavia, argomenta Klein, entrerebbe in contraddizione con la realtà empirica. Europol, ad esempio, indicava già nel 2002 la presenza in Europa di 4.000 bande e 40.000 affiliati ad esse (7). E' partendo da questa idea che eurogang ha negli ultimi due decenni deciso di strutturare un piano di ricerca orientato a garantire un formalismo metodologico e linguistico utile alla comparazione dei dati raccolti in differenti contesti urbani e culturali europei. L'obiettivo è stato quello di creare una "cassetta degli attrezzi" utile per interpretare situazioni diverse e tentare di ricondurle ad un minimo comune denominatore. Iniziando precisamente dalla ricerca di una definizione generale dei gang. L'ultima versione stabilisce che:

a street gang (or a troublesome youth group corresponding to a street gang elsewhere) is any durable, street-oriented youth group whose own identity includes involvement in illegal activity (Weerman, 2009, pag. 3).

Si tratta di una formula che rintraccia l'essenza del dato organizzativo a partire dalla presenza di alcuni elementi: la durata nel tempo, cioè un certo numero di mesi sufficiente a creare un'idea di stabilità; la territorialità, nel senso che il gruppo deve passare parte del suo tempo al di fuori dei luoghi tipici in cui sono sottoposti al controllo degli adulti, come la scuola, la casa o il lavoro; l'età, che deve essere nella maggior parte dei componenti di poco superiore alla ventina; lo svolgimento, infine, di attività illegali come carattere distintivo dell'identità di gruppo. E' soprattutto quest'ultima componente che caratterizzerebbe in modo indelebile la gang, il compimento di sistematiche infrazioni ai codici legali (Weerman, 2009).

Sostiene inoltre Klein (2001) che sebbene sia quasi sempre possibile rintracciare l'esistenza di segni distintivi, come ad esempio un nome, dei colori, simboli, tatuaggi, graffiti ... la circostanza necessaria per ricostruire l'identità del gruppo ed assimilarlo ad una banda giovanile sia il coinvolgimento in attività illegali come forma di soggettivazione dei giovani membri. I ricercatori di eurogang hanno acquisito la convinzione che uno degli effetti principali delle bande rispetto ai suoi membri sia proprio l'aumento dei loro comportamenti delinquenti e criminali (Klein, Maxson, 1989).

La consapevolezza di essere implicati in questioni che li porteranno ad avere a che fare con la polizia, provoca l'interiorizzazione di un percorso che trova il suo approdo nell'esigenza di differenziarsi sensibilmente dagli altri giovani. E la violenza, sebbene non sia l'unica forma di devianza che si sviluppa all'interno delle bande giovanili, resta un segno distintivo immancabile. Esercitare violenza si rende infatti necessario tanto per preservare l'identità e la "rispettabilità" del gruppo, quanto in relazione al fatto che l'esistenza stessa della banda è vincolata dalla presenza fisica in un territorio (quartiere, strada, piazza) da difendere da possibili invasori (Klein, 2001).

Se la definizione rappresenta un livello comune di partenza, dicevamo che l'obiettivo più generale di questi ricercatori rimane quello di fornire una serie di strumenti utili per classificare, differenziare e comparare le gang delle diverse città. Dexter (2001), ad esempio, individua come obiettivo comparativo la definizione di un complesso modello strutturale entro il quale si possano apprezzare alcune caratteristiche essenziali di una banda giovanile. Utilizzando la dialettica fra formalità/informalità descrive un importante segno distintivo: l'organizzazione interna. Viene ipotizzata la possibilità che vi siano diversi livelli partecipativi, tanto nei termini quantitativi di tempo trascorso nelle attività del gruppo quanto in termini qualitativi, in relazione cioè al grado di autorevolezza ed esperienza del singolo membro. Un'altra variabile è l'esistenza di momenti di confronto collettivo, come ad esempio dei meeting regolari, o l'uso di regole scritte o tramandate oralmente. E' considerata particolarmente importante l'esistenza di un leader, in accordo con l'ipotesi che tende ad escludere che vi siano gang non strutturate in maniera gerarchica. Vi sono poi dei livelli di raffronto relativi alle attività svolte, nelle quali viene individuato come tratto distintivo la specializzazione nel compiere attività illecite mirate al profitto, in relazione soprattutto al mercato degli stupefacenti. Altre attività riguardano il mantenimento di relazioni esterne di gruppo, con bande di altre città, ma anche con il vicinato o con altri membri di gang al momento in carcere (Weerman, 2009).

La comprensione delle strutture interne assume dunque centralità nell'analisi complessiva sulle gang. In un questo senso Maxson e Klein (1995), propongono persino una "griglia" composta da cinque tipologie distinguibili di bande, in ragione alla differente dimensione, durata, radicamento nel territorio, tipo di attività svolta ed età dei componenti (Weerman, 2009). Le traditional gang ad esempio, sono quelle che esistono da almeno venti anni, contano centinaia di membri e contengono sottogruppi formati in relazione all'età e alla durata dell'affiliazione del membro. Si distinguono per la strenua, e se del caso violenta, difesa del loro territorio di riferimento. Altrettanto "territoriali" sono le Neo-traditional gang, che hanno invece solo una cinquantina di membri, una durata nel tempo prossima ai dieci anni, e sono divise in sottogruppi, sebbene la definizione di questi tenda ad essere meno marcata. Le Collective gang invece, sarebbero caratterizzate dalla coesistenza poco strutturata di una massa di adolescenti e di "giovani adulti" che, pur esistendo da parecchi anni, non hanno simboli distintivi così evidenti, e tendenzialmente esercitano un presidio territoriale più blando. Infine spiccano le Speciality gang, la cui esistenza è riconducibile sostanzialmente a ragioni meramente criminali più che sociali. Le loro dimensioni sarebbero ridotte e l'ambito di interesse solo quella zona in cui sviluppano i loro propositi criminali. Un esempio tipico, secondo i ricercatori, sarebbero i gruppi di spaccio o gli skinhead.

Un ulteriore elemento del formalismo metodologico proposto nei manuali di eurogang (Klein, 2011) riguarda specifici suggerimenti su come svolgere materialmente le ricerche, sia quantitative che qualitative, al fine di raccogliere dati omogenei da poter mettere a confronto. Viene posta particolare attenzione al contesto cittadino, proponendo ad esempio lo strumento della raccolta di dati demografici connessi al numero di uomini e di donne presenti in una determinata area; si evidenzia la necessità di raccogliere dati, mediante l'uso tanto di statistiche quanto di interviste, relative alle principali caratteristiche culturali del paese, a particolari "eventi storici", e a precise segnalazioni della polizia sui gruppi di giovani; la raccolta di indicatori relativi all'abbandono scolastico, o alle opportunità di lavoro offerte ai giovani. O la raccolta di informazioni da esperti, come membri della polizia, operatori dei servizi sociali, educatori... Non mancano anche delle indicazioni specifiche per la conduzione di una ricerca etnografica, dalle modalità di "avvicinamento" dei giovani fino alle domande da rivolgere nelle situazioni "tipo".

Un'ipotesi di lettura riferita al rapporto fra welfare e processi di globalizzazione è suggerita da un "giovane" Hagedorn (1998), ripresa parzialmente dai ricercatori di Eurogang (Klein 2001). Questa suggestione comparativa, poi sostanzialmente sconfessata dal suo stesso suggeritore che nel frattempo cambiava radicalmente orientamento (Hagedorn, 2011), muove dall'idea che paragonare la realtà europea con quella statunitense può essere molto difficile se non si tiene debito conto di quanto la deindustrializzazione abbia influito nel trasformare il modello descritto negli anni venti da Frederic Thrasher. Le gang, a quel tempo, sempre secondo l'Hagedorn del 1998, si sarebbero formate prevalentemente come il risultato di una mancanza di controllo degli adulti verso i giovani cresciuti nelle strade di quartieri abitati da comunità migranti in continua trasformazione. Nei quartieri poveri della working class americana, gruppi di ragazzi creavano ambienti di socializzazione di strada lontani dalle istituzioni convenzionali. L'autoproclamazione in gang, rientrava in una logica di soggettivazione e autoriproduzione, e in qualche modo, trattandosi di una reazione ad un contesto di disorganizzazione sociale, era il sintomo di una volontà di emergere da una realtà precaria e marginalizzante. Viceversa la realtà "post-industriale" americana, il decentramento produttivo, lo sviluppo sconfinato del terziario, lo smantellamento del welfare state costruito nei decenni precedenti, ha determinato un cambio di paradigma per le gang, che esisterebbero adesso quasi esclusivamente in relazione allo svolgimento di attività economiche illegali. Evidentemente, la principale attività sarebbe riconducibile allo spaccio (ed al consumo) di droga, pur non escludendosi un più elevato livello di coinvolgimento con le dinamiche locali di potere. Un abbassamento delle garanzie del welfare sarebbe inoltre da ricondurre alla progressiva crescita nella partecipazione delle donne alle gang di strada. Il bisogno di supplire con un economia di strada a delle mancanze di un mercato del lavoro in fase di contrazione, è dunque all'origine della "tendenza al riequilibrio". In questo senso, la realtà europea non consente al momento la nascita e lo sviluppo di gang sullo stile americano di oggi; vi è tuttavia una sintomatologia particolarmente evidente che rende quanto mai all'ordine del giorno quel noto adagio secondo cui "è meglio prevenire che curare" (Weerman, 2009).

10-Le bande come dimensioni aggregative resistenti

Negli ultimi anni, in decisa controtendenza rispetto alla prospettiva criminologica dominante che colloca le "bande giovanili" in un ottica di patologia e di riproduzione sociale, si è sviluppato un movimento di ricerca che propone il ritorno ad un orientamento teorico basato sulla resistenza e che si ispira a letterature generalmente non contemplate dalla criminologia tradizionale. Secondo questa prospettiva la riproduzione sociale, per quanto possa effettivamente essere utile per descrivere alcune o anche la maggioranza delle bande, non può essere capace di spiegarle tutte, escludendo così dall'analisi parecchie esperienze a carattere locale o anche transnazionale (Brotherton, 2010). Come dimostrano numerose ricerche empiriche, le pratiche di molteplici organizzazioni di strada contribuiscono a generare specifiche situazioni di resistenza/trasformazione dell'ordine sociale e della culturale dominante, e sono lontane dal poter essere spiegate in termini di mera disfunzionalità o riproduzione (Cannarella, Lagomarsino, Queirolo Palmas [a c. di]2007). È in quest'ottica che Brotherton e Barrios (2004, pag.23) propongono drasticamente di sostituire i termini di "gang" o "banda giovanile" con quello di "organizzazioni di strada". E cioè di:

gruppi formati in gran parte da giovani e adulti, provenienti da classi marginalizzate, che hanno come obiettivo di fornire ai propri membri un'identità di resistenza, un'opportunità di empowerment sia a livello individuale che collettivo, una possibilità di voice capace di sfidare la cultura dominante, un rifugio dalle tensioni e sofferenze della vita quotidiana nel ghetto, ed infine una enclave spirituale dove possano essere sviluppati e praticati rituali considerati sacri.

La chiave della dinamica aggregativa dei gruppi è da individuare nelle opportunità di resistenza alla subalternità che offre la dimensione collettiva, grazie in particolare allo sviluppo di tre processi: di recovery, renaming e reintegration (Queirolo Palmas, 2009). Recovery indica la capacità dell'organizzazione di accogliere al proprio interno l'individuo con alle spalle esperienze traumatiche, come ad esempio il carcere o un percorso migratorio, fornendogli vicinanza umana ed autostima; il renaming è invece la possibilità, individuale e collettiva, di costruire nuovi universi di significati e valori alternativi e talvolta antagonisti rispetto a quelli della cultura dominante; reintegration infine, si riferisce alla possibilità di reinserimento sociale all'uscita dal carcere, con l'organizzazione che diventa una vera e propria casa ed una seconda famiglia (Queirolo Palmas, 2009).

Questi elementi concettuali, riferiti inizialmente ad un contesto di incarcerazione di massa e ghettizzazione delle minoranze etniche, con un welfare state minimale e possibilità d'accesso al mercato del lavoro tuttora differenziate sostanzialmente in ragione dell'appartenenza razziale (Wacquant, 2000), sono stati ampiamente ripresi ed utilizzati nell'ambito di diverse ricerche relative ad organizzazioni di strada di origine latinoamericana comparse anche in territorio europeo, ed in particolare in Spagna (Barcelona e Madrid), ed in Italia (fra le altre, Genova e Milano). L'arrivo di gruppi come i Latin King e i Netas nelle città europee è stato spesso accompagnato da processi di panico mediatico, ed i giovani delle gang utilizzati sistematicamente come capro espiatorio per lanciare un ennesimo allarme sicurezza in relazione all'agibilità di certi spazi urbani (Queirolo Palmas, Torre, 2005). In Italia la ricerca empirica realizzata con i giovani di queste organizzazioni ha focalizzato l'attenzione sul loro carattere transnazionale, riflettendo da un lato sull'esistenza di una dimensione metropolitana globale che tende a segregare e stigmatizzare i giovani migranti e di seconda generazione (Queirolo Palmas, 2010), dall'altro sulla necessità degli stessi di acquisire visibilità e rispetto, mediante l'accumulazione di un capitale simbolico e culturale composto da un mix di fattori estetici, rituali e disciplinari (Queirolo Palmas, 2009). Contestualmente è stata prestata particolare attenzione al rapporto di queste organizzazioni con il territorio col quale interagiscono: in accordo con una visione tradizionale che individua gli spazi metropolitani come elementi strutturali delle culture giovanili, si è evidenziata la necessità di ritagliarsi uno spazio da attraversare e difendere, contribuendo peraltro a dare nuovi significati a piazze, strade e spazi pubblici spesso marginali e dimenticati (Feixa 1996, 2006). Definirsi in questi spazi metropolitani come giovani latinos, membri di una qualche organizzazione di strada, appare allora come un'attribuzione di identità sganciata sia dalla società di provenienza che dalla società di insediamento, un percorso orientato ad emergere da una condizione di invisibilità e inferiorizzazione simbolica. La resistenza diventa in questo senso il paradigma attraverso cui leggere pratiche di solidarietà, mutuo appoggio e riconoscimento culturale in risposta ad una subalternità materiale e simbolica percepita come strutturale. Come fa notare Francesca Lagomarsino la questione della solidarietà è fondamentale per comprendere l'essenza delle organizzazioni di strada e dell'universo simbolico di cui si circondano questi giovani: i membri del gruppo rappresentano in termini tanto affettivi come materiali una vera e proprio dimensione sostitutiva delle famiglie tradizionali, talvolta incomplete o del tutto mancanti, spesso distrutte dalla migrazione o dalle condizioni di povertà e degrado vissute nel paese di origine (2009, a c. di Queirolo Palmas).

I ragazzi dei Latin King e dei Netas, ma anche di altri gruppi a carattere transnazionale come i Vatos Locos o i Maras Salvatrucha, rispettano simbologie, pratiche e rituali contenuti in veri e propri "codici sacri", mentre contemporaneamente realizzano percorsi di inclusione e ed empowerment tanto collettivo come individuale all'avanguardia, grazie anche allo sviluppo ed alla cura di esperienze transnazionali di associazionismo e scambio culturale/musicale, per mezzo anche delle reti virtuali con l'utilizzo di chat, forum, o la diffusione di videoclip (Feixa, 2006).

Sulla stessa scia si colloca il percorso di ricerca realizzato da Mauro Cerbino sui Latin King, dapprima a Barcelona e successivamente in Ecuador e Porto Rico, passando finalmente per New York (Cerbino, 2009). In ragione probabilmente anche dello specifico contesto latinoamericano, l'attenzione è qui maggiormente focalizzata sul capitale culturale conflittuale delle pandillas, ed in tal senso è in particolare investigato il rapporto che i giovani hanno con la violenza, sia quando la esercitano che quando la subiscono (Cerbino 2004). Si sottolinea l'esistenza di comportamenti che fanno riferimento a stereotipi di maschilismo egemonico ed al significato della leadership all'interno del gruppo; da una prospettiva speculare viene invece sottolineato il ruolo della violenza ricevuta strutturalmente, sotto la forma più indiretta dell'imposizione di una cultura egemonica e totalizzante o quella più diretta dello stigma proveniente anche dalla brutalizzazione mediatica. Diventa centrale la valutazione delle politiche duramente repressive adottate da alcuni governi latinoamericani come in Messico o in Colombia rispetto al fenomeno delle gang, che non avrebbero fatto altro che aumentare, in chiave antagonista, la violenza degli stessi giovani di strada coinvolti ogni giorno di più in una guerra contro le autorità e gli abusi della polizia (Cerbino, 2004, pag.58). D'altra parte, sarebbero le stesse condizioni storiche e sociali come le continue guerre civili e la percezione di governi manovrati dagli Stati Uniti a suscitare il risentimento e a favorire l'uso della violenza dei giovani pandilleros (Cerbino, 2009). Da qui la sfida di ripensare la violenza giovanile non come l'espressione di comportamenti devianti dalle norme sociali vigenti, o, più genericamente, come segni della presenza di patologie. Quanto viceversa come il terreno nel quale molti giovani affrontano uno spazio sociale altamente conflittuale e competitivo come quello della modernità contemporanea. E' in questo quadro che la violenza può essere anche immaginata come una forma di guadagno del rispetto e di allontanamento della paura e delle incertezze del futuro.

Oltre alla rilettura del capitale simbolico delle organizzazioni di strada in un ottica di resistenza, forse esistenziale nel senso più stretto del termine prima ancora che culturale, un elemento imprescindibile che unisce questi lavori è rappresentato dalla prospettiva che il sociologo ha dell'agente sociale su cui fa ricerca: tanto sul piano teorico che metodologico, e retorico, questo è, prima di tutto, un essere in carne e ossa, sensibile e carico di angosce quotidiane, e "che partecipa all'universo che lo fa e a sua volta contribuisce a fare con tutte le fibre del suo corpo e del suo cuore" (Wacquant, 2002, pag.12). L'osservazione partecipante è in questo senso un mezzo per rompere con il discorso moralizzante dello sguardo lontano di un osservatore esterno situato in disparte o in alto rispetto all'universo specifico. Come scrive Wacquant (2002, pag. 7) in un ricerca etnografica sui pugili di una palestra del ghetto Woodlawn di Chicago, "la sociologia deve sforzarsi di cogliere e restituire questa dimensione carnale dell'esistenza, attraverso un lavoro metodico e minuzioso di rilevazione e registrazione, di decriptaggio e scrittura, in grado di catturare e trasmettere il sapore e il doloro dell'azione, il rumore e il furore del mondo sociale che le procedure stabilite dalle scienze umane mettono tipicamente in sordina, quando non le sopprimono completamente".

Note

1. Nato Urban Operation 2020 è uno studio condotto dall'Organizzazione per la Ricerca e la Tecnologia della NATO. Partendo dall'idea che la popolazione mondiale continuerà massicciamente a stabilirsi nelle città, e che queste diventeranno progressivamente un luogo sempre più di conflitto e potenziali disordini, si ritiene che il perimetro urbano sia quello in cui concentrare i massimi sforzi del sistema di "sicurezza". Si stabiliscono degli obiettivi progressivi che i vari paesi membro della Nato dovranno raggiungere: dalla progressiva presenza delle forze militari per le strade alla diffusione dei più moderni sistemi di video-sorveglianza.

2. L'intero testo legislativo è scaricabile da questo link: Gang Deterrence and Community Protection Act of 2007 (2007; 110th Congress H.R. 880).

3. Questa ed altre statistiche sull'argomento sono contenute nel sito di "gangresearch".

4. Letteralmente, "maschiaccio".

5. Intervista a Matza del 1986, in La delinquenza giovanile. Teorie ed analisi. David Matza, Gresham Sykes, 2010.

6. Eurogang è un gruppo di ricerca internazionale, che riunisce esperti americani ed europei sul tema delle gang giovanili. Dal 1996 hanno attivato un programma di studi comparativi fra la realtà degli Stati Uniti e la realtà Europea. Gli esiti di questo lavoro sono stati la pubblicazione di diversi manuali che trattano il fenomeno delle bande giovanili privilegiando soprattutto una prospettiva teorica. L'ultimo manuale si chiama "The Eurogang Paradox", ed è stato pubblicato nel 2011.

7. Dati tratti da ricerche condotte per conto del comune di Madrid.