ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Diana Genovese, 2013

La 'direttiva rimpatri' si annovera certamente tra gli atti dell'Unione europea in materia di immigrazione più controversi che siano mai stati adottati.

Le opposizioni alla sua adozione sono giunte da tutto il mondo: dalle associazioni europee in difesa dei migranti, dagli esperti dell'ONU, dalle organizzazioni internazionali non governative e dai paesi dell'America Latina, i quali hanno visto i rispettivi capi di governo schierarsi in prima fila nella battaglia contro l'approvazione di questo atto comunitario. Lo stesso disagio è stato d'altronde manifestato dagli Stati membri impegnati nei lavori del Consiglio, i quali, seppur con intenti differenti dalla protezione dei diritti degli stranieri, hanno costantemente palesato una forte resistenza alla redazione dell'atto.

Nonostante ciò, le negoziazioni finali tra i rappresentanti delle istituzioni europee hanno reso possibile l'accordo su un testo, il quale ha assunto la forma di un compromesso tra le richieste in senso restrittivo formulate dai singoli Stati membri, disposti a sopportare l'ingerenza dell'Unione europea solo a determinate condizioni, e le pretese garantiste del Parlamento europeo.

Tuttavia, viste le minime concessioni fatte al Parlamento, il testo ha finito per riflettere ed armonizzare gli orientamenti delle politiche in materia di rimpatrio degli Stati membri, miranti a risolvere in maniera repressiva il problema dell'immigrazione irregolare.

La direttiva ha notoriamente guadagnato l'epiteto di 'direttiva della vergogna' principalmente per aver consentito la detenzione amministrativa degli stranieri fino a diciotto mesi, per aver previsto un divieto di reingresso valevole in tutti gli Stati dell'area Schengen e per il mancato inserimento di un'adeguata tutela dei minori non accompagnati e delle persone vulnerabili. Alcuni hanno, inoltre, parlato dell'ennesimo mattone nel muro della Fortezza europea, per evidenziare l'atteggiamento di chiusura dell'Unione europea rispetto a chi si trova oltre le sue frontiere.

Ebbene il recepimento della 'direttiva rimpatri' negli Stati membri ha rivelato un dato inaspettato: la stragrande maggioranza dei governi che avevano impresso nel testo i propri orientamenti politici, ha successivamente dimostrato una mancanza di volontà nel recepirlo nello spirito e in tutti i suoi aspetti più rilevanti, quali la preferenza per la partenza volontaria, la gradualità delle misure coercitive e il ricorso esclusivamente in ultima istanza al trattenimento amministrativo, nonché la non applicazione del divieto di reingresso nei casi di partenza volontaria.

In primis si riscontra un generale ritardo nel recepimento del provvedimento da parte di quasi tutti gli Stati obbligati alla sua attuazione entro il 24 dicembre 2010: il 27 gennaio 2011 ben venti Stati (Belgio, Bulgaria, Germania, Danimarca, Grecia, Francia, Italia, Cipro, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Ungheria, Malta, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Romania, Slovenia, Finlandia, Svezia) - su ventisette - hanno ricevuto la cosiddetta lettera 'di messa in mora' da parte della Commissione, in quanto, al termine previsto dalla direttiva 2008/115/CE, non era ancora stata compiuta la completa trasposizione nell'ordinamento interno; solo la Spagna, la Repubblica Ceca, l'Estonia, la Norvegia, il Portogallo e la Slovacchia, avevano, invece, provveduto ad adottare una parte delle misure di attuazione (1). Si ricorda, inoltre, che attualmente l'Irlanda e il Liechtenstein non hanno ancora comunicato alla Commissione l'avvenuta recezione della 'direttiva rimpatri'.

Oltre a questa nota significativa, da uno studio comparativo delle legislazioni nazionali si rileva che nella quasi totalità degli ordinamenti la direttiva non è stata recepita correttamente.

In particolare nell'analisi del sistema italiano si è sottolineato che la partenza volontaria non è stata configurata come la modalità privilegiata di esecuzione dell'espulsione, ma come possibilità residuale realizzabile solo su richiesta dello straniero e laddove non sussistano le condizioni per l'accompagnamento coattivo alla frontiera, condizioni codificate in modo da ricomprendere la maggioranza degli espellendi. Allo stesso risultato si è giunti in Francia, che pur avendo formalmente previsto che l'OQT (obligation de quitter le territoire) sia accompagnato da un termine perché lo straniero irregolare si allontani spontaneamente, ha declinato la sua eccezione, ossia il rischio di fuga, in maniera talmente ampia da smentire la regola della partenza volontaria.

Non solo, la 'direttiva rimpatri' prescrive agli Stati di adottare decisioni di rimpatrio corredate da un divieto di reingresso solo nei casi in cui non sia stato concesso in periodo per la partenza volontaria o lo straniero non abbia ottemperato all'obbligo di rimpatrio, al fine 'premiare' coloro che si allontanano spontaneamente dal territorio degli Stati membri. Sebbene l'art. 11, par. 2, della direttiva stabilisca che «in altri casi le decisioni di rimpatrio possono essere corredate da un divieto di reingresso», la disposizione andrebbe interpretata in senso restrittivo e dunque dovrebbe riguardare casi eccezionali, in modo da non svuotare di contenuto il meccanismo premiale messo in atto dalla direttiva al primo paragrafo dello stesso articolo. Questa norma di favore è stata del tutto ignorata dall'Italia che, conservando la precedente disciplina, commina oggi un divieto di reingresso per tutti i provvedimenti di espulsione, a prescindere dalla modalità esecutiva con cui si sia realizzato l'allontanamento. Anche la Francia, come si è visto, ha previsto un divieto di reingresso fino a due anni per chi abbia ricevuto un periodo per la partenza volontaria, per di più lasciando al potere discrezionale dell'autorità amministrativa la sua applicazione, nonostante la direttiva richieda espressamente l'esercizio di un potere obbligatorio nelle due ipotesi sopra richiamate.

Con riguardo al divieto di reingresso, è interessante notare inoltre che la Germania, nel recepire la direttiva, ha previsto un divieto pari a cinque anni, la cui durata può essere aumentata - fino ad un termine indefinito - qualora il cittadino di paese terzo sia stato condannato per la commissione di un reato penale, ossia per una possibilità non prevista dalla direttiva, la quale permette di superare il limite di cinque anni solo in caso di grave minaccia per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale.

Esempi di un'attuazione errata della direttiva da parte degli Stati membri sono, inoltre, riscontrabili nella definizione delle misure coercitive applicabili agli stranieri in situazione irregolare. Si è visto, infatti, che la direttiva ha promosso un sistema gradualistico, il quale consente allo Stato di procedere al trattenimento dello straniero solo quando nel caso concreto risultino insufficienti a garantire il rimpatrio misure meno afflittive.

Ebbene dall'esame dei sistemi espulsivi di Italia e Francia risulta che la detenzione amministrativa conserva ancora un ruolo preponderante nella procedura di allontanamento degli stranieri irregolari. In Italia, infatti, nonostante siano state introdotte misure alternative al trattenimento, la loro applicazione è subordinata al possesso di un passaporto o di altro documento di identità e, in ogni caso, nella prassi delle questure queste risultano del tutto ignorate. Sempre in Italia, le ipotesi in cui è possibile fare ricorso al trattenimento, sono state disciplinate dal legislatore in maniera molto vaga, facendo riferimento a «situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l'effettuazione dell'allontanamento», capaci di ricomprendere una vasta gamma di situazioni non riconducibili alla volontà dell'interessato, come invece richiede la 'direttiva rimpatri'. Alla stregua di quanto avvenuto nell'ordinamento italiano, anche in Francia le ipotesi di detenzione riguardano - di fatto - tutti i casi in cui il cittadino di paese terzo deve essere coattivamente allontanato dal territorio nazionale, non facendo peraltro alcun riferimento, nemmeno parziale, alla formulazione di cui all'art. 15 della direttiva. Inoltre in Francia non si è assistito nemmeno all'introduzione di particolari misure alternative da preferire al trattenimento, ma solo ad una parziale riforma dell'assignation à résidence.

Il confronto delle modifiche apportate alle rispettive discipline dal legislatore francese e quello italiano denotano dunque la riluttanza ad una reale conformazione dei sistemi alle indicazioni fornite dal diritto comunitario.

Analizzata la disciplina in materia di espulsione degli stranieri irregolari del Regno Unito, e accostata a quello di Italia e Francia, sorprenderà notare che il sistema espulsivo britannico si è rivelato più conforme alla 'direttiva rimpatri' di quanto non lo siano i sistemi di Italia e Francia in seguito al recepimento dell'atto comunitario in questione. Il Regno Unito, pur non avendo esercitato il proprio potere di opt-in, decise di partecipare alle negoziazioni in seno al Consiglio che seguirono alla presentazione da parte della Commissione della proposta di direttiva; in questa occasione, il governo, come si è visto, sollevò le medesime obiezioni formulate dagli altri Stati membri, contrapponendosi a molte delle disposizioni più rilevanti della proposta.

Tuttavia nel capitolo IV si è potuto scorgere una notevole vicinanza tra il sistema britannico e la 'direttiva rimpatri' proprio su quegli aspetti che hanno rivelato la mancanza di volontà ad un corretto recepimento della direttiva da parte di Italia e Francia.

Il Regno Unito sembra privilegiare maggiormente la modalità esecutiva dell'espulsione mediante partenza volontaria: le linee guida della UK Border Agency invitano infatti il funzionario dell'immigrazione ad accordare un termine per la partenza volontaria qualora richiesto, salvo alcuni casi eccezionali, ossia laddove vi sia un rischio di fuga («the detainee will not depart as stated») ovvero qualora la partenza ritardi eccessivamente il rimpatrio o il trattenimento appaia la misura più appropriata nel caso concreto. Questi casi eccezionali sembrano stabiliti nell'ottica di favorire l'obiettivo dell'allontanamento dello straniero irregolare, rivelando una certa gradualità nel sistema delle misure coercitive del Regno Unito, le quali sono applicate sulla base di una valutazione del singolo caso, in linea con lo spirito della direttiva e a differenza di quanto sancito dalle legislazioni di Italia e Francia (2).

Paradossalmente anche il trattenimento amministrativo come disciplinato nel Regno Unito, pur se indefinito nella sua durata, grazie alle istruzioni fornite dalla UK Border Agency e alla giurisprudenza di merito, si configura in modo analogo a quanto previsto dalla direttiva. L'agenzia di frontiera britannica ha infatti posto dei limiti alla discrezionalità dei funzionari amministrativi che applicano il trattenimento, prescrivendo il ricorso a questa misura più afflittiva della libertà in una serie di casi, richiamati anche dalla direttiva, e comunque in modo più limitato di quanto previsto in Italia e in Francia. Le stesse linee guida prevedono altresì una presunzione in favore dell'ammissione temporanea o del rilascio su cauzione, quali misure alternative al trattenimento, salvo vi siano gravi ragioni per ritenere che lo straniero non si atterrà alle disposizioni imposte. Inoltre, si precisa che la detenzione potrà essere disposta legittimamente solo dove vi sia una reale prospettiva di allontanamento in un tempo ragionevole: il riferimento all'art. 15, par. 3, della direttiva è pertanto immediato. Limiti temporali e funzionali sono altresì stati individuati dalla giurisprudenza nel caso Hardial Singh, dove si è affermato che il trattenimento può essere disposto solo in attesa dell'allontanamento e che la durata è limitata al periodo che è ragionevolmente necessario al raggiungimento dello scopo.

L'unico aspetto del sistema britannico in aperto contrasto con la direttiva riguarda invece l'impugnazione della decisione di allontanamento: nel Regno Unito infatti è previsto un diritto di appello, esperibile solo una volta che lo straniero sia stato rimpatriato e quindi si trovi fuori dal territorio britannico (out-of-country right of appeal), mentre la 'direttiva rimpatri' prescrive che l'autorità deputata alla revisione del provvedimento sia dotata del potere di sospendere l'esecuzione dell'allontanamento.

Resta dunque da chiedersi perché quella direttiva che sembrava così in linea con le politiche repressive degli Stati membri non sia stata, nella maggior parte dei casi, recepita nel suo vero spirito. Si potrebbe ritenere che in alcuni suoi aspetti la 'direttiva rimpatri' sia stata considerata troppo garantista dai governi che l'avevano approvata: in effetti le stesse associazioni che un tempo la definivano directive de la honte adesso ne chiedono la corretta attuazione, in quanto ritenuta preferibile rispetto alle legislazioni nazionali.

In realtà la direttiva 2008/115/CE contiene allo stesso tempo elementi protettivi ed elementi repressivi: il dato differenziale è costituito dalle legislazioni nazionali di riferimento, le quali sono state modificate sulla scorta della direttiva subendo miglioramenti o regressioni a seconda degli standard che esse stesse prevedevano prima dell'entrata in vigore dell'atto comunitario.

Certo è che l'involuzione di alcune legislazioni nazionali di fronte all'entrata in vigore della 'direttiva rimpatri' è stata, in parte, causata dal mancato inserimento della clausola di standstill (o clausola di non regresso) la quale avrebbe obbligato gli Stati a mantenere la disciplina interna eventualmente più favorevole (3).

Tuttavia si è assistito in definitiva solo a pochi casi di regressione normativa per lo più riguardanti il prolungamento della durata massima del trattenimento amministrativo (4) e di quella del divieto di reingresso (5) laddove gli Stati prevedessero termini inferiori.

Dall'altra parte, l'approvazione del nuovo testo ha permesso di migliorare le legislazioni di alcuni Paesi membri che non prevedevano un limite massimo alla detenzione amministrativa, quali l'Estonia, la Finlandia, la Lituania e i Paesi Bassi (6). Inoltre, una riduzione della durata del divieto di reingresso è riscontrabile sia in Italia e in Spagna, dove precedentemente era fissato a dieci anni, nonché in Germania, dove questo divieto in caso di espulsione non aveva alcun limite.

La risposta al quesito se la direttiva sia uno strumento di protezione o meriti la fama di directive de la honte sembra dunque dipendere dalle diverse prospettive nazionali dalle quali si guarda la nuova disciplina comunitaria (7).

Non si deve tuttavia tralasciare due fondamentali principi introdotti dalla direttiva che, nella totalità dei casi, apportano un miglioramento rispetto alle previgenti legislazioni nazionali (ma spesso ancora vigenti): la preferenza per la partenza volontaria, certamente più rispettosa dei diritti fondamentali dello straniero e il ricorso al trattenimento amministrativo solo in ultima istanza. Il difficile equilibrio tra le due esigenze primarie - la protezione dei diritti fondamentali e il legittimo interesse degli Stati membri ad una rapida ed efficiente politica di rimpatrio -, le quali avevano contrapposto il Parlamento europeo e il Consiglio durante il processo di adozione della direttiva, era stato infine individuato nella previsione di un meccanismo di espulsione a «intensità graduale crescente» che offre allo straniero la possibilità di allontanarsi volontariamente, ma consente allo stesso tempo agli Stati di eseguire in modo coattivo l'espulsione, con misure via via più restrittive della libertà personale.

La tensione tra queste due esigenze è proseguita anche dopo l'approvazione della direttiva nei singoli Stati chiamati a recepirla, come mostrano gli interventi della Corte di giustizia.

Proprio con le pronunce dei giudici di Lussemburgo, la 'direttiva rimpatri' ha potuto dimostrare la sua reale portata protettrice ponendo un limite al potere di sanzionare penalmente gli stranieri irregolari: tuttavia questa protezione dei diritti non è che incidentale rispetto alla prioritaria esigenza di garantire l'efficienza del sistema previsto dalla direttiva 2008/115/CE (8).

A questo proposito è interessante notare che, nonostante la 'direttiva rimpatri' non si occupi di regolare gli aspetti penalistici dell'immigrazione, la maggioranza delle questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte di giustizia, dal 2008 ad oggi, (9) hanno riguardato la compatibilità delle sanzioni penali applicate dagli Stati membri in ragione del solo fatto del soggiorno irregolare rispetto al sistema delineato dal diritto comunitario. In questo ambito la Corte ha cercato di sciogliere il dubbio sulla coesistenza tra le sanzioni penali degli Stati membri e le misure coercitive previste dalla direttiva e sulla loro possibile applicazione cumulativa.

Al fine di esaminare i risultati della giurisprudenza della Corte di giustizia, occorre fare un distinguo con riguardo al momento in cui viene applicata la sanzione penale rispetto alla fase della procedura di allontanamento in cui interviene.

Nella fase anteriore all'adozione della decisione di rimpatrio, e dunque prima dell'accertamento dell'irregolarità del soggiorno dello straniero, l'ammissibilità delle sanzioni penali detentive è stata affermata dalla sentenza Achughbabian, la quale ha fatto salvo l'arresto iniziale del cittadino di Paese terzo affermando che la «direttiva non osta ad una detenzione finalizzata a determinare se il soggiorno di un cittadino di paese terzo sia regolare o meno» (10) anche perché «la finalità della direttiva 2008/115 - ossia l'efficace rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare - risulterebbe compromessa se gli Stati non potessero evitare, mediante una privazione di libertà come il fermo di polizia, che una persona sospettata di soggiornare irregolarmente fugga ancor prima che la sua situazione abbia potuto essere chiarita» (11). Prima dell'adozione del provvedimento ablativo dunque la competenza rimane in capo agli Stati, i quali devono disporre di «un termine che, seppur breve, sia anche ragionevole per poter identificare la persona soggetta al controllo e per ricercare le informazioni che consentono di accertare se tale persona sia un cittadino di paese terzo il cui soggiorno è irregolare». Le autorità sono tenute, tuttavia, ad agire con diligenza al fine di evitare di ostacolare la procedura di rimpatrio e frustrare l'effetto utile della direttiva.

Dopo l'accertamento dell'irregolarità soggiorno, presupposto che obbliga gli Stati ad adottare una decisione di rimpatrio ai sensi dell'art. 6 della direttiva 2008/115/CE, l'applicazione di una sanzione penale che preveda la pena detentiva è stata invece dichiarata incompatibile già a partire dalla sentenza El Dridi. In questa pronuncia, la Corte ha sostenuto che una pena detentiva (12) rischia, «segnatamente in ragione delle sue condizioni e modalità di applicazione», di «compromettere la realizzazione dell'obiettivo perseguito da detta direttiva, ossia l'instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio» (13). Tale impostazione è stata inoltre ribadita nella sentenza Achughbabian, la quale ha precisato che una volta accertata l'irregolarità del soggiorno, lo straniero deve essere allontanato, e l'eventuale privazione della libertà personale potrà essere disposta unicamente facendo ricorso alle misure coercitive previste dalla 'direttiva rimpatri', tra cui vi rientra il trattenimento amministrativo fino ad un massimo di diciotto mesi. La pena detentiva sarebbe dunque la causa di un ritardo nell'esecuzione dell'allontanamento e non contribuirebbe alla realizzazione del trasporto fisico dello straniero fuori dallo Stato membro (14).

Da queste statuizioni è dunque evidente che il parametro di giudizio utilizzato dalla Corte è consistito nella valutazione di un possibile pregiudizio all'effettività e all'efficacia della procedura di rimpatrio. La libertà personale dello straniero sarà pertanto garantita solo in quanto funzionale alla procedura di rimpatrio: non costituisce il fine, ma solo il mezzo attraverso il quale rendere effettivo l'allontanamento dello straniero irregolare (15). L'«effetto utile» della 'direttiva rimpatri' a cui le pronunce della Corte di giustizia hanno fatto riferimento non riguarda la tutela dei diritti umani dello straniero, bensì l'efficacia del rimpatrio.

La Corte non appone dunque un generale divieto di criminalizzazione ma declina un potere che è limitato dalla sua proiezione fattuale nel corso della procedura di allontanamento e che si 'riespande' dopo che le misure coercitive previste dalla direttiva sono state applicate senza esito. Nel caso Achughbabian essa ha infatti affermato che la direttiva 2008/115/CE «non osta (...) all'irrogazione di sanzioni penali, ai sensi delle norme nazionali di procedura penale, a cittadini di paesi terzi cui sia stata applicata la procedura di rimpatrio prevista da tale direttiva e che soggiornino in modo irregolare nel territorio di uno Stato membro senza che esista un giustificato motivo che preclude il rimpatrio» (16). Il potere di irrogare sanzioni viene perciò riacquistato dagli Stati membri quando il meccanismo messo in atto dalla direttiva per raggiungere lo scopo dell'allontanamento abbia fallito e dunque l'efficacia del sistema non può più essere pregiudicata.

Quest'ultima affermazione rileva con riferimento alla posizione degli stranieri che non possono essere allontanati (cosiddetti 'inespellibili'): il rischio è che il combinato disposto tra quanto statuito dalla Corte di giustizia in Achughbabian e la mancata regolazione dello status delle persone che non possono essere espulse possa legittimare l'applicazione generalizzata di sanzioni penali detentive nei confronti di questi cittadini di paesi terzi.

Tuttavia la Corte ha anche precisato che gli stranieri che non sia stato possibile allontanare entro i termini massimi di trattenimento non possono essere sanzionati penalmente - in ragione del loro soggiorno irregolare - qualora «esista un giustificato motivo che preclude il rimpatrio».

Occorre dunque indagare sulle situazioni che possano costituire «un giustificato motivo»: alcuni sostengono che tale scriminante non riguardi solo i casi in cui lo straniero non possa essere espulso in base al principio di non-refoulement (17). L'esistenza del giustificato motivo si verificherebbe infatti anche in tutti i casi di mancata collaborazione dei Paesi terzi o comunque nei casi in cui il fallimento della procedura di rimpatrio non possa essere attribuito alla volontà dello straniero: pertanto, secondo una dottrina, sarebbe necessario riconoscere un permesso di soggiorno per motivi umanitari, revocabile nel momento in cui cessino le cause che hanno impedito l'allontanamento (18).

Dalla quarta relazione annuale sull'immigrazione e l'asilo (19) risulta che la Commissione europea sta attualmente esaminando uno studio comparativo (20), dal quale risulta che alcuni Stati membri prevedono la possibilità di avviare una procedura di regolarizzazione nei confronti dei cittadini di paesi terzi che non possono essere espulsi. La Commissione sta verificando le prassi degli Stati per valutare la praticabilità di una soluzione comune a livello europeo: le eventuali proposte sono attese per dicembre del 2013 nell'ambito della comunicazione sul rimpatrio.

In conclusione si può affermare che il criterio su cui si è basata la Corte di giustizia per censurare le normative nazionali si è rivelato in concreto utile, vista la tendenza ormai diffusa in tutta Europa a criminalizzare il fenomeno dell'immigrazione irregolare. Pertanto da questo punto di vista, sebbene la tutela del singolo sia meramente 'incidentale' nell'approccio seguito dalla Corte, la 'direttiva rimpatri' ha finito per produrre un notevole miglioramento sotto il profilo della protezione dei diritti degli stranieri irregolari.

Merita di essere sottolineato che a fianco dell'azione di contrasto all'immigrazione irregolare, all'interno della quale sono state adottate regole comuni concernenti il rimpatrio, si assiste positivamente all'introduzione di misure volte ad armonizzare alcuni aspetti dell'immigrazione 'legale' nell'Unione europea.

Appena un anno dopo l'entrata in vigore della 'direttiva rimpatri', 13 dicembre 2011, il Parlamento europeo ha infatti approvato la direttiva 2011/98/UE ('direttiva sul permesso unico') (21), la quale permetterà ai lavori extracomunitari di ottenere un permesso di lavoro e uno di residenza attraverso un'unica procedura. La nuova disciplina contribuisce pertanto alla semplificazione procedurale delle norme che vigono attualmente negli Stati membri, consentendo l'esperimento di controlli più agevoli della regolarità del soggiorno e dell'impiego.

I lavoratori extracomunitari che lavorano legalmente sul territorio degli Stati dell'Unione europea avranno inoltre diritti simili a quelli dei cittadini europei per quanto concerne le condizioni di lavoro, la pensione, la sicurezza sociale e l'accesso ai servizi pubblici. Tali diritti non saranno tuttavia necessariamente coincidenti visto che gli Stati membri avranno in talune circostanze la possibilità di applicare restrizioni o condizioni all'accesso o al godimento degli stessi.

La 'direttiva sul permesso unico' rappresenta in qualche modo il 'naturale' e necessario complemento all'adozione della 'direttiva rimpatri', laddove quest'ultima identifica lo straniero come problema da allontanare dal territorio dell'Unione europea qualora il suo soggiorno sia irregolare, mentre la prima ne riconosce la dignità di persona e di risorsa per gli Stati membri.

Note

1. Solo il 12 aprile 2011, la Commissione ha ricevuto notifica della completa trasposizione della direttiva 2008/115/CE da parte di dodici Stati membri (Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Grecia, Malta, Norvegia, Portogallo, Slovacchia, Spagna, Svizzera, Ungheria), mentre altri cinque hanno comunicato unicamente il parziale recepimento (Belgio, Lituania, Lettonia, Svezia, Paesi Bassi). A questa data ancora dodici Stati membri non avevano, tuttavia, ancora notificato misure di attuazione della direttiva (Austria, Cipro, Danimarca, Francia, Germani, Islanda, Italia, Lussemburgo, Lichtenstein, Polonia, Romani e Slovenia).

2. Si ricorda a questo proposito la recente, e assai discutibile, campagna pubblicitaria 'Go Home or Face arrest' promossa dal Ministro degli Interni britannico lo scorso agosto, la quale prevede una serie di furgoni pubblicitari che viaggiano per la città con il seguente messaggio: "Vivi illegalmente nel Regno Unito? Torna a casa o sarai arrestato (...) Possiamo aiutarti a tornare a casa volontariamente senza temere l'arresto o la detenzione": The Guardian, Home office 'Go Home' campaign faces ad watchdog investigation.

3. F. Kauff-Gazin, La directive «retour»: une victoire du réalisme ou du tout-répressif?, cit., p. 4.

4. Per quanto riguarda il trattenimento amministrativo i paesi che hanno aumentato i termini massimi della durata sono ad esempio la Francia (da 32 a 45 giorni), l'Italia (da 6 a 18 mesi - la modifica è intervenuta prima del recepimento della direttiva) e la Spagna (da 40 a 60 giorni).

5. La durata del divieto di reingresso è aumentato con il recepimento della 'direttiva rimpatri' ad esempio in Svezia dove arrivava fino a due anni ed oggi è prevista fino a cinque.

6. Anche la Danimarca e il Regno Unito non prevedono un tetto massimo alla durata del trattenimento, ma questi due Stati, come si è visto, non hanno adottato la direttiva.

7. Il punto di vista nazionale e gli interessi ivi sottesi - si ricorderà - hanno rappresentato un ruolo fondamentale anche durante l'approvazione del testo di compromesso al Parlamento europeo, dove i socialisti spagnoli votarono in favore della direttiva contrariamente al gruppo dei socialisti europei. Il leader di riferimento, l'allora Primo Ministro Zapatero, fu infatti uno dei più convinti promotori della 'direttiva rimpatri'.

8. Sul punto si veda anche: F. Spitaleri, L'interpretazione della direttiva rimpatri tra efficienza del sistema e tutela dei diritti dello straniero, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2013, 1.

9. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 28 aprile 2011, El Dridi, cit.; Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 2011, Achughbabian, cit.; Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 2012, Sagor, cit.; Corte di giustizia dell'Unione europea, ordinanza del 21 marzo 2013, Mbaye, cit.

10. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 2011, Achughbabian, cit., § 29.

11. Ivi, § 30.

12. Per quanto riguarda la compatibilità della pena pecuniaria con la 'direttiva rimpatri', la questione è stata affrontata dalla Corte di giustizia nel caso Sagor. In questa pronuncia i giudici di Lussemburgo hanno affermato che l'applicazione della pena pecuniaria di cui all'art. 10-bis d. lgs. 286/1998 che punisce l'ingresso e il soggiorno irregolare dello straniero non intacca l'efficacia del sistema configurato dalla direttiva 2008/115/CE, perché di fatto non impedisce l'allontanamento dello straniero. L'effetto utile della direttiva non risulta inoltre compromesso neanche nel caso in cui la pena pecuniaria sia convertita con la permanenza domiciliare in caso di insolvenza o sostituita con l'espulsione come sanzione sostitutiva dell'ammenda, a condizione che lo straniero si trovi in una delle condizioni di cui all'art. 7, par. 4, della direttiva per cui lo Stato può non concedere un termine per la partenza volontaria.

13. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 28 aprile 2011, El Dridi, cit., § 59.

14. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 2011, Achughbabian, cit. § 39.

15. A tale intuizione era giunta parte della dottrina già a partire dalla sentenza El Dridi: A. Di Martino e R. Raffaelli, La libertà di Bertoldo: «direttiva rimpatri» e diritto penale italiano, in Diritto penale contemporaneo.

16. Ivi, § 48.

17. R. Raffaelli, La direttiva rimpatri e il reato di ingresso e soggiorno irregolare francese: principi ed effetti della sentenza Achughbabian nell'ordinamento italiano, cit., p. 79.

18. G. Savio, La Direttiva n. 2008/115 sulle norme e procedure comuni sul rimpatrio di cittadini di paesi terzi in condizione irregolare e giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Questioni aperte riguardo alla normativa italiana in materia di espulsioni e trattenimenti alla luce della direttiva europea "rimpatri", cit..

19. COM (2013) 422 def., cit.

20. Lo studio comparativo è consultabile sul sito della Commissione europea.

21. Direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, in GUUE L 343 del 23 dicembre 2011.