ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo II
Il recepimento della 'direttiva rimpatri' nell'ordinamento italiano

Diana Genovese, 2013

1. La mancata attuazione della 'direttiva rimpatri' alla scadenza del termine fissato al 24 dicembre 2010

Il termine per il recepimento della 'direttiva rimpatri' nei diversi ordinamenti interni era stato fissato al 24 dicembre 2010: nonostante ciò nessun provvedimento era stato emanato dall'Italia per ottemperare a tale obbligo fino al 23 giugno 2011, data in cui si è modificato il Testo Unico sull'Immigrazione (d. lgs. 286/1998) al fine di conformare la disciplina italiana a quella europea (1). A questo proposito, il Ministero dell'Interno aveva, infatti, sostenuto che l'attuazione della direttiva 2008/115/CE non fosse necessaria (2).

Fin dall'entrata in vigore della directive de la honte, le resistenze degli Stati alla sua emanazione si trasformarono in resistenze alla sua recezione (3). Molti Stati tentarono di evitare modifiche organiche della legislazione interna attraverso espedienti di tipo amministrativo. Uno di questi fu senz'altro l'Italia.

Qualche giorno prima della scadenza del termine per l'attuazione, il Ministero dell'interno emanò una circolare (4) diretta alle questure e alle prefetture con la quale si affermava che a partire dal 24 dicembre 2010 la direttiva avrebbe potuto produrre alcuni effetti; in particolare, lo straniero avrebbe avuto la facoltà di presentare ricorso, eccependo la difformità del provvedimento di rimpatrio rispetto alla normativa comunitaria e, di conseguenza, il ricorso avrebbe potuto essere accolto, in quanto il giudice, in base ai principi comunitari, ha «l'obbligo di interpretare il diritto interno alla luce della lettera e dello scopo della direttiva». Poste queste premesse, il capo della polizia Manganelli, ritenne doveroso sottolineare l'«importanza strategica» che avrebbero assunto le motivazioni dei provvedimenti di espulsione: queste motivazioni, al fine di evitare l'insorgere di contrasti con la disciplina comunitaria e, dunque «per essere idonee a neutralizzare gli effetti del ricorso», dovranno essere adottate con particolare cautela (5).

Con la circolare, si invitava ad adottare provvedimenti di rimpatrio ben calibrati rispetto alla valutazione del singolo caso, assicurando la loro gradualità e privilegiando la concessione di un rimpatrio volontario. Rispetto a quest'ultimo punto, tuttavia, sorsero non poche perplessità, visto che si suggeriva di accertare la sussistenza di presupposti rispetto ad un istituto inesistente nel nostro ordinamento come quello del rimpatrio volontario (6) (previsto solo nel caso eccezionale di cui all'art. 13, comma 5, del d. lgs. 286/1998) (7) e considerato che nessuna indicazione era fornita nel caso in cui si accertasse 'accidentalmente' la presenza di tali requisiti.

Inoltre - prosegue la circolare - le misure coercitive, compreso il trattenimento amministrativo, sarebbero dovute essere applicate e motivate sulla base del principio di proporzionalità: in particolare, il trattenimento dello straniero in un Centro (di identificazione ed espulsione) poteva essere disposto, salvo nel caso concreto potessero essere efficacemente applicate altre misure sufficienti, ma meno coercitive, per preparare il rimpatrio e/o effettuare l'allontanamento, nei casi allora consentiti dalla legislazione nazionale per ricorrere alla più incisiva restrizione della libertà personale, che minimamente coincidevano con quelli previsti dall'art. 15 della 'direttiva rimpatri'.

La circolare si concludeva, infine, affermando la sostanziale compatibilità della direttiva 2008/115/CE con la disciplina nazionale (8).

Queste raccomandazioni tese all'adozione di provvedimenti di 'intensità graduale crescente' rischiavano, tuttavia, di conferire alle autorità amministrative un forte potere discrezionale, con una conseguente applicazione differenziata della disciplina espulsiva sul territorio nazionale, in aperto contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione: è preoccupante, inoltre, che una circolare ministeriale detti una disciplina dei casi di espulsione e allontanamento forzato, che andrebbero regolamentati con un atto avente la forza ed i caratteri della legge (9). A questo proposito, anche la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (10) ammette misure restrittive della libertà personale, in vista di una futura espulsione, solo se espressamente previste da una legge, che ne fissi i casi tassativi e le modalità applicative; e tale requisito non può evidentemente essere soddisfatto da una direttiva ministeriale o da una circolare del capo della polizia (11).

Nonostante l'attuazione di una direttiva dell'Unione europea non comporti necessariamente l'emanazione di una legge (12), la Corte di giustizia ha affermato che la circolare non può essere considerato un atto normativo idoneo a recepire una direttiva, in quanto semplice prassi amministrativa, modificabile a piacimento dell'amministrazione e privo di adeguata pubblicità (13). Non solo: la circolare, in realtà, non appariva nemmeno sufficiente al recepimento della direttiva dal punto di vista sostanziale; il sistema espulsivo dell'ordinamento italiano risultava, infatti, assai differente rispetto a quello prospettato dalla 'direttiva rimpatri' sotto molteplici aspetti.

2. Profili di incompatibilità della previgente legislazione italiana con la 'direttiva rimpatri'

Ai fini di una maggior comprensione del quadro normativo attuale, come modificato dalla legge che ha recepito la 'direttiva rimpatri' (14), è utile vedere nel dettaglio la previgente disciplina e i profili di contrasto che si presentavano rispetto agli obblighi discendenti dalla direttiva (15).

Come evidenziato all'interno del primo capitolo, l'obiettivo della direttiva 2008/115/CE è quello di istituire «un'efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio» che sia rispettosa dei diritti fondamentali degli individui.

Già con riferimento a tale finalità, la normativa italiana, la quale prevedeva all'epoca ben tredici fattispecie espulsive, sembrava collocarsi molto lontano rispetto alle prospettive dell'Unione europea; inoltre, se al considerando n. 6 la direttiva, richiede che le decisioni di rimpatrio vengano prese «caso per caso», il nostro ordinamento era, e in parte lo è tuttora, caratterizzato da una spiccata standardizzazione dei decreti espulsivi, nascosta dietro l'ombrello dell'attività vincolata, che, spesso, permette di non dare protezione adeguata ai diritti fondamentali delle persone e la giusta considerazione alle situazioni personali (16).

Il nodo centrale della direttiva, nonché lo strumento essenziale con cui si è cercato a livello europeo di mettere in atto una politica efficace dei rimpatri, è la previsione della concessione di un congruo termine per la partenza volontaria; a tale principio è consentito derogare solo nei casi previsti dall'art. 7, par. 4.

Il sistema costruito dalla 'direttiva rimpatri' è fortemente corrispondente a quello originariamente previsto nel d. lgs. 286/1998 (legge 'Turco-Napolitano'), dove la regola era costituita dall'intimazione allo straniero a lasciare il territorio dello Stato entro quindici giorni.

Con le modifiche apportate dalla legge 'Bossi-Fini', la situazione è completamente cambiata: dal 2002 in poi non si prevedeva più che il decreto prefettizio fissasse un termine per la partenza volontaria, salvo il caso previsto dall'art. 13, co. 5 d. lgs. 286/1998 (17): tutti i decreti espulsivi erano, infatti, eseguiti mediante la procedura dell'accompagnamento alla frontiera a mezzo di forza pubblica, dunque, anche fuori dalle ipotesi consentite dalla direttiva.

La compatibilità non avrebbe potuto, d'altronde, dedursi nemmeno dalla prassi, dove l'espulsione non è sempre eseguita dal questore con accompagnamento alla frontiera, piuttosto mediante la consegna dell'ordine di allontanamento del questore, con il quale si intima allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni (18). Quest'ultima modalità di espulsione richiedeva un termine inferiore, rispetto a quello di sette giorni previsto dalla direttiva, nonché l'ulteriore condizione dell'impossibilità di trattenere lo straniero in un centro di identificazione ed espulsione (CIE), che la configurava come ipotesi residuale del sistema e comunque molto lontana rispetto all'istituto della partenza volontaria introdotto dalla direttiva, visto che la sua applicazione trovava il presupposto in un provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo di forza pubblica.

Nell'unico caso in cui il legislatore intimava allo straniero di lasciare il paese (art. 13, par. 5, d. lgs. 286/1998) non era comunque prevista alcuna proroga del termine per la partenza volontaria, come suggerito, invece, dalla 'direttiva rimpatri' all'art. 7, par. 2 (19): in effetti, è solo grazie alla giurisprudenza costituzionale che le condizioni di salute possono essere valutate ai fini di una sospensione dell'espulsione (20).

Con riguardo, invece, alla disciplina diretta ad evitare il rischio di fuga del destinatario del provvedimento di espulsione, la previgente disciplina non prevedeva alcuna misura coercitiva meno afflittiva rispetto al trattenimento, come quelle indicate dalla direttiva all'art. 7, par. 3 (21); al contrario, il trattenimento veniva disposto in tutti i casi in cui non fosse possibile procedere immediatamente all'accompagnamento coattivo alla frontiera.

Dunque, tutte le espulsioni finivano per prevedere l'applicazione di misure coercitive (accompagnamento alla frontiera e trattenimento).

Il sistema italiano era, pertanto, completamente rovesciato rispetto a quello delineato dal legislatore europeo, il quale invita lo straniero irregolare a lasciare volontariamente il territorio e solo in ipotesi residuali permette l'allontanamento coattivo e/o il trattenimento in un apposito centro.

Altro profilo di difformità concerne il divieto di reingresso: previsto all'art. 11 della direttiva, è fissato dalla stessa nel termine massimo di cinque anni, salvo lo straniero espulso rappresenti una grave minaccia per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale; esso è applicabile solo quando non sia stato concesso un termine per la partenza volontaria o non sia stato ottemperato l'obbligo di rimpatrio.

La legge italiana, al contrario, prescriveva un divieto di reingresso di dieci anni per tutte le espulsioni, salva la facoltà del prefetto di disporre un termine più breve, in ogni caso non inferiore a cinque, considerata la complessiva condotta tenuta dall'interessato nel periodo di permanenza in Italia.

La ratio della direttiva era quella di conferire alla partenza volontaria una valenza premiale, non prevedendo, in caso di rimpatrio entro il termine prescritto, il divieto di reingresso. Il legislatore italiano, nelle more del recepimento, ha forse pensato che la partenza volontaria non fosse lo strumento adeguato per garantire l'espulsione degli stranieri e che l'unico modo per scoraggiare l'irregolarità potesse essere quello della repressione penale (22).

Come visto, l'art. 2 della direttiva 2008/115/CE definisce l'ambito applicazione della disciplina e dà facoltà agli Stati di non applicare la stessa nei casi di respingimenti e di espulsioni giudiziali, oltre che nelle procedure di estradizione, sulle quali però non sussistono problematiche rilevanti visto che tutti gli Stati escludono l'applicazione della direttiva in questi caso.

Per quanto riguarda i respingimenti, la legislazione italiana prevedeva, e prevede tuttora, due casi: il respingimento immediato alla frontiera (23), dove lo straniero non fa materialmente ingresso nel territorio dello Stato e perciò non risponde del reato di ingresso illegale nel territorio, ai sensi dell'art. 10-bis, co. 2, del T.U.I., e il respingimento differito (24), dove il questore adotta un provvedimento di respingimento con successivo accompagnamento alla frontiera, e pertanto, dato che l'ingresso illegale si è verificato lo straniero risponde del reato di ingresso e soggiorno irregolare di cui all'art. 10-bis.

Ora, visto che per il respingimento differito trovano applicazione gli stessi istituti previsti per l'esecuzione delle espulsioni, ossia gli articoli 13 e 14 del T.U.I. (accompagnamento alla frontiera, trattenimento in un centro di identificazione ed espulsione e ordine di allontanamento del questore) dovrebbero applicarsi le medesime garanzie previste dalla direttive in questa fase: cioè il ricorso in ultima istanza alle misure coercitive che devono essere proporzionate e non eccedere l'uso ragionevole della forza (art. 8), la considerazione della situazione personale ai fini dell'eventuale rinvio dell'allontanamento (art. 9) e il rispetto delle condizioni del trattenimento (art. 15). Tale conclusione sembra avvalorata dallo stesso tenore letterale della direttiva, che sembra evidentemente escludere dal proprio ambito di applicazione solo il respingimento immediato e non quello differito (25).

Vedremo, invece, che il legislatore italiano escluderà dall'ambito di applicazione della direttiva entrambe le tipologie di respingimento previste dall'art. 10 T.U.I.

A proposito delle espulsioni disposte come «sanzione penale o conseguenza di una sanzione penale» (26), occorre fare alcune precisazioni sulle modifiche intervenute in pendenza della scadenza del termine per il recepimento della direttiva.

Nel 2009 erano state, infatti, approvate due importanti modifiche del d. lgs. 286/1998 da parte della legge n. 94 ('Pacchetto sicurezza'), quali l'innalzamento del tetto massimo alla durata delle detenzione amministrative e l'introduzione del reato di ingresso e soggiorno irregolare (27).

La prima aveva aumentato il periodo massimo di detenzione da sessanta a centottanta giorni, profittando della nuova possibilità offerta dalla 'direttiva rimpatri', che all'art. 15, par. 5, prevede un tetto massimo di diciotto mesi; la seconda, invece, era finalizzata sostanzialmente al mantenimento del sistema espulsivo così come configurato all'epoca, ossia marcatamente orientato a privilegiare la modalità dell'accompagnamento coattivo alla frontiera.

Infatti, una delle principali ragioni che hanno spinto il Governo a qualificare l'ingresso e il soggiorno irregolare come reati era quella di sottrarre la maggior parte delle espulsioni all'applicazione della 'direttiva rimpatri' (28).

Già il 14 aprile 2010, all'interno della seduta del comitato parlamentare Schengen, il Ministero dell'interno aveva esplicitato un orientamento «verso un recepimento della direttiva che non [incidesse] su alcuni importanti aspetti della normativa sull'immigrazione recentemente introdotti», ricordando, a tal proposito, che la direttiva 2008/115/CE «lascia liberi gli Stati membri di decidere modalità di recepimento, che ne escludano l'applicazione agli stranieri il cui rimpatrio costituisce sanzione penale o deve avvenire come conseguenza di una sanzione penale» (art. 2, par. 2 lettera (b) della direttiva) (29).

Il legislatore del 2009 infatti, oltre alla previsione di questa nuova fattispecie di reato, aveva novellato l'art. 16 T.U.I., relativo all'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, offrendo la possibilità al giudice, in caso di condanna di cui all'art. 10-bis, di sostituire la pena dell'ammenda con la misura dell'espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni.

Così facendo, il Governo credeva di poter configurare questo tipo di espulsione alla stregua di una conseguenza di una sanzione penale e, dunque, di poter aggirare l'applicazione della 'direttiva rimpatri'; in altre parole, l'intenzione era quella di fondare l'intero procedimento di espulsione su un provvedimento di espulsione pronunciato dal giudice, in modo da evitare di applicare le garanzie procedurali imposte dalla nuova disciplina comunitaria.

Come rilevato nel primo capitolo, una certa dottrina, anticipando la pronuncia Achughbabian (30), ha bocciato la strategia messa in atto dal Governo italiano (31), in quanto in aperto contrasto con i principi dell'effetto utile e della leale collaborazione. Non sembra plausibile, infatti, omettere di applicare gli standard pretesi dalla direttiva semplicemente qualificando come reato il mero fatto dell'ingresso o del soggiorno irregolare e, quindi, a tutta quella fetta di stranieri che la disciplina europea intende proteggere: cioè la generalità degli stranieri già soggiornanti illegalmente nel territorio dello Stato membro (32).

Per quanto riguarda i delitti di inosservanza dell'ordine di allontanamento del questore, previsti all'art. 14, co. 5-ter e co. 5-quater, d. lgs. 286/1998, questisono un tipico esempio dell'uso del diritto penale nel contrasto all'immigrazione clandestina, una pratica inaugurata nel 2002 con la legge 'Bossi-Fini' (33), e proseguita con il 'pacchetto sicurezza' del 2009, che configurò nel T.U.I. tre diversi delitti di inottemperanza all'ordine di allontanamento del questore (art. 14 co. 5-ter, primo e secondo periodo, e co. 5-quater), con cornici edittali che andavano da un minimo di sei mesi a un massimo di cinque anni di reclusione.

Il legislatore sembrerebbe con tali previsioni scoraggiare l'immigrazione irregolare mediante la minaccia di sanzioni restrittive della libertà personale ma, a ben vedere, la vera finalità di queste norme è rappresentata dalla possibilità di segregare il più a lungo possibile dal contesto sociale, attraverso la detenzione in carcere, la maggior parte degli immigrati clandestini in attesa che si possa procedere all'espulsione coattiva o all'allontanamento volontario (34).

Ancor prima di un intervento specifico della Corte di giustizia (35), dottrina e giurisprudenza si erano interrogate sulla compatibilità di tali disposizioni rispetto alla 'direttiva rimpatri': la previsione di sanzioni detentive giustificate dalla mera presenza illegale dello straniero sul territorio nazionale, infatti, avevano per effetto la privazione della libertà personale per un titolo diverso rispetto al «trattenimento» disposto dall'autorità amministrativa durante la procedura di espulsione. Se un rischio di incompatibilità con la normativa dell'Unione europea non sembrava sussistere con riferimento all'art. 10-bis T.U.I., che prevede unicamente una sanzione pecuniaria, dubbi sorgevano con riferimento all'art. 14, co. 5-ter e co. 5-quater, i cui effetti, incidendo sulla libertà personale dell'individuo, potevano tradire la ratio della direttiva, facendo venir meno quel «delicato bilanciamento tra tale diritto fondamentale e l'esigenza di assicurare l'effettività del rimpatrio» (36).

La direttiva ammette, infatti, la possibilità di imporre obblighi cautelari idonei a scongiurare la fuga del cittadino di paese terzo qualora sia concesso un termine per la partenza volontaria e, solo in caso di inosservanza, di applicare misure coercitive più afflittive ma sempre finalizzate all'esecuzione dell'allontanamento. È chiaro, dunque, che il trattenimento così come configurato dalla direttiva ha una funzione meramente strumentale e mai sanzionatoria, mentre le disposizioni in questione finivano per produrre un intervento del diritto penale nell'ambito di una procedura di espulsione prettamente amministrativa, capace di ritardare o ostacolare l'effettiva esecuzione dell'allontanamento (37). Inoltre, profili di illegittimità si riscontravano anche nel presupposto dell'espulsione con accompagnamento alla frontiera che aveva dato luogo all'ordine di allontanamento del questore qualora il trattenimento non avesse prodotto gli effetti sperati; il ricorso alle misure coercitive (allontanamento con accompagnamento alla frontiera e trattenimento), in effetti, era sempre ammesso, perché nessuna ipotesi di concessione di un termine per la partenza volontaria era contemplata dal nostro ordinamento prima del recepimento della 'direttiva rimpatri'. Tale sistema, pertanto, si poneva in contrasto con il principio di proporzionalità dell'uso della forza nell'esecuzione dell'allontanamento che era stato introdotto a livello europeo configurando il ricorso alle misure coercitive solo in ultima istanza.

Proprio tali delitti, sulla base delle medesime considerazioni finora svolte, sono stati i primi a cadere per effetto di una pronuncia della Corte di giustizia, la quale ne ha imposto la loro disapplicazione, ancor prima dell'entrata in vigore della legge italiana che ha recepimento la 'direttiva rimpatri'.

3. La giurisprudenza italiana ed europea nelle more del recepimento della 'direttiva rimpatri'

3.1. La discussione nella giurisprudenza italiana

Paradossalmente quella che era stata definita a livello internazionale come la 'direttiva della vergogna' è diventata, in diversi ordinamenti europei, tra cui il nostro, un importante strumento di garanzia dei diritti degli stranieri, in quanto, come si vedrà, è stata ben presto invocata davanti ai giudici italiani per ottenere la disapplicazione della normativa interna con essa in contrasto (38), sia nelle more del recepimento che in seguito alla sua attuazione nell'ordinamento interno.

Invero, lo scopo dell'amministrazione di «neutralizzare gli effetti del ricorso» di cittadini di paesi terzi attraverso la circolare del 17 dicembre 2010 fu prontamente disatteso dalla presentazione di numerose istanze volte a far valere l'incompatibilità del diritto interno con la direttiva in questione.

A partire, infatti, dal 25 dicembre si è posta la questione degli effetti diretti della direttiva nel nostro ordinamento, dalla quale è scaturito un ampio dibattito in giurisprudenza.

Alcuni giudici e procure hanno negato la sussistenza di un effetto diretto della direttiva ritenendola in gran parte né chiara né incondizionata, dato l'alto numero di riserve di intervento in essa contenute (39): in questi casi, l'applicabilità delle disposizioni della direttiva risulterebbero subordinate all'intervento del legislatore, al quale lo stesso atto comunitario lascerebbe ampia discrezionalità.

Altre volte, invece, si è preso atto del carattere esecutivo della direttiva e del suo conseguente «effetto dirompente» sulla normativa italiana (40), seppur con motivazioni parzialmente divergenti: molte di queste pronunce hanno riguardato - come il ricorso alla base della sentenza El Dridi (41)- l'incompatibilità con la direttiva dell'art. 14, comma 5-ter e comma 5-quater, T.U.I.

Alcuni giudici hanno ritenuto che l'art. 7, par. 1, della direttiva rendesse illegittimi gli ordini di allontanamento disposti dal questore: di conseguenza, gli ordini amministrativi non ottemperati non potevano avere effetto nella procedura per i rimpatri; mancando, dunque, il presupposto del reato, gli imputati sono stati assolti perché il fatto non sussiste (42). Altre pronunce hanno, invece, sostenuto un insanabile contrasto con la direttiva, in particolare con gli articoli 15 e 16, non essendo possibile una compressione della libertà durante la procedura di rimpatrio oltre i limiti stabiliti da queste disposizioni (43) e dichiarando, di conseguenza, l'abolitio criminis dei delitti e assolvendo gli imputati perché il fatto non è previsto dalla legge penale come reato.

In presenza di una simile varietà di interpretazioni, molti giudici, nel corso di procedimenti penali contro gli stranieri che non avevano ottemperato all'ordine di allontanamento del questore, sono stati indotti a rivolgersi alla Corte di giustizia in via pregiudiziale (44), chiedendo se alla luce dei principi di leale collaborazione, dell'effetto utile, di proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza della pena, l'articolo 14, comma 5-ter, fosse compatibile con gli articoli 15 e 16 della 'direttiva rimpatri' (45).

Il primo caso ad essere deciso dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea è stato quello sollevato dalla Corte di appello di Trento, in quanto il giudice a quo aveva richiesto che il rinvio fosse esaminato in base alla procedura d'urgenza di cui all'art. 267, paragrafo 4, TFUE e 104, lettera (b), del regolamento di procedura della Corte, poiché l'imputo si trovava in misura cautelare: la Corte di Lussemburgo ha accolto il ricorso e si è pronunciata in meno di tre mesi, il 28 aprile 2011 (46).

3.2. La sentenza El Dridi

Il caso sottoposto al vaglio della Corte riguarda la vicenda di un cittadino straniero, il signor El Dridi, che entrato illegalmente in Italia e privo del permesso di soggiorno, ricevette dal prefetto di Torino un decreto di espulsione in data 8 maggio 2004, a cui tuttavia non venne data esecuzione. Solo dopo sei anni, il suddetto fu raggiunto da un ordine di allontanamento, ex art. 14, co. 5-ter del T.U.I., emesso il 29 maggio 2010 dal questore di Udine. Il provvedimento era stato motivato dall'indisponibilità di un vettore, dalla mancanza di documenti di documenti di identificazione, nonché dall'impossibilità di ospitarlo in un Centro di identificazione ed espulsione (CIE). Successivamente le autorità italiane, in costanza di un controllo, avevano constatato che il signor El Dridi, pur in assenza di un giustificato motivo, non si era allontanato e perciò commetteva il reato di cui all'articolo 14, comma 5-ter.

La sentenza è di particolare interesse anche perché essa rappresenta il primo caso di applicazione del procedimento pregiudiziale d'urgenza nell'ambito di una vicenda relativa a persona sottoposta a restrizione della libertà personale.

Preliminarmente la Corte richiama gli aspetti essenziali della direttiva: in particolare, per quanto riguarda il trattenimento amministrativo, i giudici di Lussemburgo ricordano di essersi già pronunciati due anni prima nel caso Kadzoev (47). In questa occasione la Corte aveva precisato che il termine massimo per la restrizione della libertà personale dello straniero, fissato a diciotto mesi dalla direttiva, deve essere considerato quale termine tassativo e dunque, una volta scaduto, lo Stato non può più detenere lo straniero, nonostante questi continui a permanere irregolarmente sul territorio nazionale, nemmeno nell'ipotesi in cui tenga un comportamento aggressivo o non disponga di mezzi di sussistenza propri e di un alloggio.

La 'direttiva rimpatri' - specifica la Corte nel caso El Dridi - tiene conto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, in base alla quale «il principio di proporzionalità esige che il trattenimento di una persona sottoposta a procedura di espulsione o di estradizione non si protragga oltre un termine ragionevole, vale a dire non superi il tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito» (48), nonché dei «Venti orientamenti sul rimpatrio forzato» del Consiglio d'Europa, richiamati dal terzo considerando della direttiva.

La pronuncia, nel constatare il mancato recepimento della direttiva da parte dell'ordinamento italiano, afferma l'efficacia diretta degli articoli 15 e 16, in quanto disposizioni sufficientemente precise e incondizionate (49). La Corte riscontra in primis un manifesto contrasto tra la normativa italiana e la disciplina comunitaria, non prevedendo la prima la gradazione delle misure da adottare nell'esecuzione della decisione di rimpatrio. Nonostante l'evidente incompatibilità, il mancato recepimento non poteva impedire al diritto europeo di esplicare i suoi effetti sul diritto interno degli Stati (50).

Per quanto concerne l'incidenza dell'atto dell'Unione europea sulla competenza in materia penale degli Stati, si afferma che «gli Stati membri restano liberi di adottare misure, anche penali, atte segnatamente a dissuadere tali cittadini dal soggiornare illegalmente nel territorio di detti Stati» ma - aggiunge - «detti Stati non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare così quest'ultima del suo effetto utile». L'assenza di una competenza in materia penale nel contrasto all'immigrazione clandestina in capo all'Unione europea, poteva far sorgere qualche dubbio sulla libertà degli Stati di adottare sanzioni penali come quelle derivanti dal reato di mancata ottemperanza all'ordine questorile: la Corte, invece, ha applicato il principio degli effetti indiretti del diritto dell'Unione europea, secondo il quale ogni disciplina interna che osti alla piena efficacia del diritto dell'Unione europeo è una norma incompatibile e, pertanto, dovrà essere disapplicata (51).

In particolare, i giudici nazionali si chiedevano se, fra 'tutte le misure necessarie' che possono essere adottate dagli Stati al fine di eseguire la decisione di rimpatrio, potessero rientrare anche le sanzioni penali (52): tale possibilità è stata definitivamente esclusa dalla Corte di giustizia. Una pena come quella di cui all'art. 14, comma 5-ter del decreto legislativo n. 286/1998, infatti «rischia di compromettere la realizzazione dell'obiettivo perseguito da detta direttiva, ossia l'instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare» (53).

Dunque, gli Stati membri non potranno adottare nessuna sanzione penale nel corso del procedimento di rimpatrio al fine di permettere l'allontanamento dello straniero; potranno, invece, disporle una volta conclusa la procedura di rimpatrio nei confronti degli stranieri, qualora le misure coercitive previste dalla direttiva siano rimaste senza effetto allo scopo di scoraggiare ulteriori ingressi e soggiorni irregolari (54). In ogni caso, dato che la decisione di rimpatrio continua a produrre i suoi effetti, tali sanzioni dovranno continuare a perseguire l'obiettivo dell'allontanamento (55). Infatti, se lo scopo della pena fosse quella di garantire l'allontanamento, quindi nel caso sussista un rischio di fuga o il cittadino straniero eviti od ostacoli la preparazione del rimpatrio o dell'allontanamento, la normativa italiana sarebbe in contrasto con l'articolo 15 che non permette un trattenimento superiore a diciotto mesi (56); mentre se la finalità fosse quella di punire l'inottemperanza dell'ordine di allontanamento, la sanzione, comminando la detenzione in carcere, sarebbe ancora in contrasto con la direttiva che impone agli Stati di fare tutto il possibile per raggiungere il fine dell'allontanamento. La Corte non specifica, tuttavia, quali dovranno essere tali misure atte a conseguire l'espulsione ma, certamente, non potranno prevedere la detenzione superiore ai diciotto mesi né ostacolare le effettive possibilità di allontanamento dello straniero irregolare. Dunque, conclude la Corte, una sanzione, come quella oggetto nel procedimento penale, che «prevede l'irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo» è incompatibile con la direttiva 2008/115/CE e, in particolare, con gli articoli 15 e 16. I giudici di Lussemburgo concludono ricordando ai giudici nazionali il loro dovere di disapplicare le disposizioni del Testo Unico Immigrazione contrarie alla 'direttiva rimpatri' e, in particolare, l'art. 14, co. 5-ter, tenendo «debito conto del principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri»

3.3. L'impatto della pronuncia El Dridi sull'ordinamento italiano

La sentenza El Dridi ha comportato la necessità per i giudici italiani di disapplicare la normativa interna dichiarata incompatibile, come l'articolo 14, co. 5-ter, e ogni altra disposizione in contrasto con lo scopo della direttiva e, quindi, anche l'articolo 14, co. 5-quater (57).

Gli effetti della pronuncia, secondo quanto stabilito nella consolidata giurisprudenza della Corte (58), retroagiscono fino al momento di entrata in vigore dell'atto: tale disapplicazione deve, dunque, operare non solo a partire dalla scadenza del termine per l'attuazione (24 dicembre 2010), bensì dall'entrata in vigore della direttiva (13 gennaio 2009).

Tuttavia, la Corte ha chiarito che la disapplicazione non può essere paragonata né all'abrogazione, né all'annullamento della legislazione nazionale, in quanto due azioni spettanti esclusivamente ai legislatori nazionali (59): non ci può essere un'interferenza diretta delle fonti europee sull'ordinamento interno (60).

In senso diverso si è espressa, invece, la Corte di Cassazione, che, il giorno stesso della pronuncia della Corte di Lussemburgo, dispose che le sentenze impugnate di applicazione della pena per il reato di cui all'articolo 14, co. 5-ter, dovessero essere annullate senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, formula tradizionalmente utilizzata per indicare i casi di abolitio criminis (61). I giudici di legittimità sembrerebbero, dunque, equiparare il fenomeno della disapplicazione a quello dell'abrogazione. La Suprema Corte ha, infatti, affermato che «la decisione della corte di giustizia, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell'Unione, con effetto diretto per gli Stati membri e per le rispettive giurisdizioni, incide sul sistema normativo, impedendo la configurabilità del reato. L'effetto è paragonabile a quello della legge sopravvenuta (...) con portata abolitrice della norma incriminatrice». Di conseguenza, dalla non-applicazione dell'art. 14, co. 5-ter e co. 5-quater, discende un effetto retroattivo peraltro giustificato dal fatto che i due reati sono configurati come reati permanenti, in presenza dei quali - per giurisprudenza consolidata - si deve applicare all'imputato la disciplina in vigore al momento del fatto (62).

Allo stesso modo si espresse anche il Consiglio di Stato, il quale poco dopo la Corte di Cassazione, ritenne che non fosse ostativa all'accoglimento dell'istanza di regolarizzazione per gli stranieri impiegati in modo irregolare (63) la condanna ai sensi dell'articolo 14, comma 5-ter. Secondo il Consiglio di Stato, infatti, «l'entrata in vigore della normativa comunitaria ha prodotto l'abolizione del reato (...) a norma dell'articolo 2 del codice penale»: tale meccanismo produce un effetto retroattivo, facendo cessare l'esecuzione della condanna e i relativi effetti penali, e tale retroattività «non può riverberare i propri effetti sui provvedimenti amministrativi negativi dell'emersione del lavoro irregolare, adottati sul presupposto della condanna per un fatto che non è più previsto come reato» (64).

Più complessa appare, invece, la questione relative agli effetti della pronuncia El Dridi sulle sentenze divenute irrevocabili: nonostante, infatti, l'articolo 2 del codice penale stabilisca che «nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato (65); e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali», sussistono delle incertezze per quanto riguarda le norme processuali applicabili. L'articolo 673 del codice di procedura penale (66) prevede, infatti, l'ipotesi di revoca 'per abolizione del reato', in particolare, menzionando solo i casi di intervenuta abrogazione e intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nessun riferimento, invece, all'ipotesi di sopravvenuta incompatibilità della norma interna con il diritto dell'Unione europea.

Nel silenzio della legge sono prospettabili due soluzioni (67). Da una parte, se si ritiene che l'art. 673 c.p.p. sia una norma eccezionale, e quindi non suscettibile di applicazione analogica, il giudice potrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione, affinché la Corte costituzionale possa pronunciarsi con sentenza additiva, introducendo una nuova ipotesi di revoca nel caso indicato. Dall'altra, proprio la predetta norma penale sembrerebbe sancire un principio generale di retroattività della norma più favorevole (68), in base al quale, di fronte a situazioni di restrizione della libertà personale che non trovano più la loro giustificazione in una fattispecie incriminatrice, verrebbe meno quell'esigenze di certezza dei rapporti giuridici che impone l'intangibilità del giudicato (69).

Questa seconda tesi è quella a cui ha aderito la Corte di Cassazione, la quale ha aperto ad una possibile interpretazione estensiva o analogica dell'art. 673 c.p.p.: la dichiarazione d'incompatibilità pronunciata dalla Corte di giustizia in riferimento all'art. 14, co. 5-ter, avrebbe, infatti, prodotto «una sorta di abolitio criminis» rispetto alla quale si impone la necessità di un'interpretazione costituzionalmente orientata, e dunque l'applicazione dell'art. 673 c.p.p. (70). Al fine di un'applicazione del diritto uniforme sul territorio, il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione il 3 maggio 2011 ha diffuso, presso gli uffici dei Procuratori Generali presso le Corti di appello, una nota (71) con la quale si invitavano ad applicare l'art. 673 c.p.p., al fine di revocare le sentenze definitive di condanna per i reati di cui all'art. 14, co. 5-ter e co. 5-quater e ad ordinare la relativa scarcerazione dei detenuti (72).

Un'ulteriore questione posta dalla disapplicazione dell'art. 14 d. lgs. 286/1998 per effetto della sentenza El Dridi, è stata quella relativa alla possibile riqualificazione del fatto contestato all'imputato ai sensi di diverse fattispecie incriminatrici, quali, in particolare, l'art. 650 c.p. e l'art. 10-bis d. lgs. 286/1998. Occorre tuttavia ricordare che la sentenza della Corte di giustizia ritiene in contrasto con la 'direttiva rimpatri' qualsiasi norma che preveda «l'irrogazione della pena della reclusione» al cittadino di un paese terzo che sia sottoposto ad una procedura di rimpatrio. Ora, per 'reclusione' si dovrà intendere genericamente sia la detenzione che la pena dell'arresto (73).

Per quanto riguarda l'art. 650 c.p. (74), trattandosi anch'esso di una fattispecie che sanziona l'inottemperanza rispetto ad un provvedimento dell'autorità, l'art. 14, co. 5-ter, sembrerebbe porsi in rapporto di specialità; trattandosi tuttavia di una contravvenzione, per il giudice non sarebbe possibile l'applicazione della pena alternativa dell'arresto, viste le condizioni poste dalla Corte di giustizia, ma unicamente quella dell'ammenda (75). Inoltre se si adottasse un'interpretazione restrittiva dell'art. 650 c.p., l'unico ordine inosservato che si potrebbe far valere sarebbe solo quello emesso per le ragioni indicate in modo tassativo dalla norma (giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico e igiene).

Nonostante la materia dell'immigrazione sia spesso ricondotta a quella dell'ordine e della sicurezza pubblica (76), la ratio dell'art. 14, co. 5-ter, è stata individuata dalla Corte costituzionale nell'esigenza di 'controllo dei flussi migratori' (77); nella stessa sentenza, la Consulta ha avuto inoltre la premura di sottolineare che «la disciplina dell'ingresso e della permanenza degli stranieri nel territorio» è un problema che implica delle valutazioni di politica legislativa «non riconducibili a mere esigenze generali di ordine pubblico».

La diversità di ratio (78), e dunque l'impossibilità di sostenere l'equazione tra irregolarità sul territorio e pericolo per l'odine e la sicurezza pubblica, consentono di escludere la possibilità di applicare l'art. 650 c.p. ai casi di inottemperanza all'ordine di allontanamento (79), in quanto condotte non tipiche.

Circa la possibilità, invece, di riqualificare il fatto in esame ai sensi dell'art. 10-bis d. lgs. 286/1998, la questione appare più complessa. Intanto, la sanzione pecuniaria comminata dal reato di ingresso e soggiorno illegale non sembra porsi in contrasto con le richieste formulate dalla Corte di giustizia nella sentenza El Dridi; piuttosto occorrerà chiedersi se le condotte punite dall'art. 14 co. 5-ter e dall'art. 10-bis T.U.I. siano effettivamente coincidenti. Senza dubbio sono differenti laddove si prenda in considerazione la condotta del fare ingresso di cui all'art. 10-bis, la quale ben si distingue dal permanere in violazione dell'ordine del questore, punito dall'art. 14 co. 5-ter; al contrario, secondo alcuni quest'ultimo potrebbe essere assimilabile all'altra condotta contemplata dall'art. 10-bis, ossia il trattenersi nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del T.U.I., laddove non operi la clausola di salvaguardia («salvo che il fatto costituisca più grave reato») (80).

In questo caso, allora, il giudice dovrebbe procedere alla riqualificazione del fatto ai sensi dell'art. 521 c.p.p. (81) e applicare all'imputato la pena dell'ammenda, oppure l'espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera, prevista come sanzione sostitutiva dall'art. 16, co. 1, T.U.I.

Quest'ultima possibilità, tuttavia, si pone in contrasto con la regola generale dell'obbligo di concedere un termine per la partenza volontaria, previsto dall'articolo 7, par. 1, della 'direttiva rimpatri', salvo le ipotesi espressamente previste dal paragrafo 4 della stessa norma.

Inoltre, se si volesse fare uso della la clausola di riserva di cui all'art. 2, par. 2, lettera (b), della direttiva, che permette agli Stati di non applicare le disposizioni dell'atto comunitario in questione qualora l'espulsione sia «conseguenza di una sanzione penale» si rischierebbe di compromettere l'effetto utile; detto articolo andrebbe infatti interpretato in maniera restrittiva, ossia escludendo l'applicazione della direttiva solo in quei casi in cui l'applicazione della direttiva sia conseguenza di fattispecie penali diverse dall'ingresso o dal soggiorno irregolare, che invece è la situazione che impone il rimpatrio ai sensi dell'art. 2, par. 1, direttiva 2008/115/CE (82).

In ogni caso, la Corte costituzionale già molti anni prima aveva avuto l'occasione di pronunciarsi sulla natura dell'espulsione come sanzione sostitutiva di cui all'art. 16, co. 1, T.U.I. (83), stabilendo l'impossibilità di qualificare tale espulsione alla stregua di una sanzione penale, in quanto mera anticipazione di un'espulsione amministrativa, che andrebbe comunque realizzata a fine pena; conferme in questo senso sono date anche dal fatto che la misura di cui all'art. 16, co. 1, viene disposta da un'autorità amministrativa. La giurisprudenza della Consulta impone, dunque, di considerare l'espulsione sostitutiva come una misura amministrativa e non come una conseguenza di una sanzione penale, perciò detta espulsione ricade necessariamente nell'ambito di applicazione della 'direttiva rimpatri'. Sulla base di questo ragionamento si dovrebbe concludere che il combinato disposto degli articoli 10-bis e 16 d. lgs. 286/1998, almeno nella parte in cui prevede la possibilità di espellere coattivamente a titolo di sanzione sostitutiva, sia in contrasto con l'art. 7 della direttiva che impone di fissare, per ogni decisione di rimpatrio, un termine per la partenza volontaria.

Ad ogni modo, una riqualificazione in fase esecutiva non sembrerebbe possibile in considerazione dei limitati poteri di intervento del giudice dell'esecuzione rispetto a quello della cognizione, come affermato in di due pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione (84), secondo le quali «la norma dell'art. 673 non consente affatto al giudice dell'esecuzione di modificare l'originaria imputazione o di accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto dalla sentenza passata in giudicato».

4. Il recepimento della 'direttiva rimpatri': la legge n. 129/2011

Dopo la ferita aperta dalla pronuncia della Corte di giustizia nel caso El Dridi (85) e al fine scongiurare l'avvio di una procedura d'infrazione da parte dell'Unione europea nei confronti dello Stato italiano, il 23 giugno 2011 il Consiglio dei Ministri ha adottato il decreto legge n. 89, sulla base dei requisiti di necessità ed urgenza, richiesti dall'art. 77 della Costituzione; requisiti che il Governo stesso aveva contribuito a determinare a causa della mancata attuazione della direttiva 2008/115/CE entro i termini prescritti. La pronuncia della Corte di giustizia non era affatto inaspettata e ben si poteva prevedere, anche da un'attenta analisi della dottrina e della giurisprudenza, quali sarebbero stati gli esiti; nonostante ciò si è preferito attendere che si producesse una situazione che richiedesse la decretazione d'urgenza, strumento non estraneo alla materia dell'immigrazione, ormai da anni sottoposta ad una disciplina eccezionale e di emergenza (86).

Ciò che è scaturito da questo intervento legislativo è un testo di difficile interpretazione, adottato in assenza di un'adeguata ponderazione delle richieste a livello europeo, e teso sostanzialmente a conservare il sistema espulsivo esistente. Ciò che immediatamente risalta agli occhi del lettore del decreto è, infatti, la precisa volontà di mantenere l'originaria concezione e collocazione topografica (87). L'espulsione con accompagnamento alla frontiera assume ancora un ruolo privilegiato, rispetto al rimpatrio volontario: nel Testo Unico sull'Immigrazione si mantiene, infatti, anche a livello stilistico l'inversione del rapporto regola-eccezione delineato dalla 'direttiva rimpatri', trattando prima i casi di allontanamento coattivo e poi le ipotesi di rimpatrio volontario; non solo, tutte le espulsioni restano immediatamente esecutive, nonostante siano sottoposte e gravame o impugnativa.

Le modifiche operate dal decreto legge investono principalmente gli articoli 13 e 14 del T.U.I., i quali, disciplinano rispettivamente le espulsioni amministrative e l'esecuzione delle stesse.

Un'importante novità da segnalare è, oltretutto, quella relativa alla nuova previsione del permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi del novellato art. 6, co. 5, T.U.I.

In precedenza, tale permesso di soggiorno era disciplinato, unicamente, da una disposizione regolamentare (art. 11, co. 1, lett. (c), D.P.R. 394/1999). Così facendo, il legislatore ha attuato l'art. 6, par. 4, della 'direttiva rimpatri' che consente, in qualsiasi momento, agli Stati membri di rilasciare un permesso di soggiorno per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura. Si tratta di una disposizione che si mette in relazione con il considerando n. 6 della direttiva che impone di adottare decisioni di rimpatrio «caso per caso», dunque tenendo conto anche di tutte quelle gravi condizioni personali che non consentirebbero l'allontanamento dello straniero (88).

4.1. Le espulsioni amministrative dopo la legge n. 129/2011

L'art. 13 T.U.I. disciplina nei suoi primi due commi le espulsioni ministeriali (89) e le espulsioni prefettizie, ma solo quest'ultime sono state oggetto di revisione da parte della legge n. 129/2011.

Nell'intento di dare attuazione al considerando n. 6 (90), l'art. 13, co. 2, dispone oggi che la potestà espulsiva prefettizia deve essere esercitata «caso per caso», senza, tuttavia, fare alcuna menzione della seconda parte del citato considerando, il quale garantirebbe una maggior effettività alla disposizione in esame. Il richiamo, invece, finisce per essere generico, se non irrilevante ai fini dell'adozione del decreto espulsivo. Un'interpretazione conforme al diritto dell'Unione europea della norma, richiederebbe l'esercizio di un potere espulsivo che tenga conto della specifica situazione delle singole persone da espellere; tale valutazione dovrebbe poi essere contenuta nella motivazione dell'atto e incidere sulle stesse modalità e tempi di esecuzione dell'espulsione (91), al fine di bandire definitivamente motivazioni meramente ripetitive del dato normativo.

I casi in cui l'espulsione può essere disposta dal Prefetto sono tre (92): mentre alle lettere (a) e (c) non sono state apportate modifiche, la l. 129/2011 introduce due novità nell'ambito delle fattispecie espulsive per irregolarità del soggiorno. Attualmente, nella lettera (b), oltre alle ipotesi di trattenimento in Italia senza la comunicazione o la richiesta del permesso di soggiorno nei termini prescritti per i soggiorni di breve durata, vi rientrano, dal 24 giugno 2011, i casi di revoca, annullamento, rifiuto o scadenza da più di sessanta giorni del permesso di soggiorno nonché il trattenimento in violazione dell'art. 1, comma 3, della legge n. 68/2007 che disciplina i soggiorni di breve durata (93). Per quanto riguarda la nuova fattispecie di 'rifiuto', questa pur non essendo prevista tra le cause espulsive, nella prassi determinava l'adozione di un decreto di espulsione, sollevando non pochi dubbi di legittimità (94). L'ipotesi del trattenimento sul territorio successivamente al 'rifiuto' del permesso di soggiorno era contemplata unicamente come fattispecie di reato di inottemperanza all'ordine del questore, di cui all'art. 14, co. 5-ter, T.U.I., nella versione novellata dalla l. 94/2009, pertanto il recepimento della 'direttiva rimpatri' ha costituito l'occasione per colmare questa grave lacuna. Con riferimento a questa previsione permangono, tuttavia, problemi di coordinamento con il reato di soggiorno irregolare (art. 10-bis), che, a differenza dei reati omissivi propri, non prevede un termine per ottemperare al precetto normativo e dunque il reato si configurerebbe astrattamente al momento della notifica che nega il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. Solo una norma regolamentare soccorre in questo caso al fine di evitare applicazioni irragionevoli della disposizione in esame, ossia l'art. 12 del D.P.R. n. 394/1999, il quale concede allo straniero un termine di quindici giorni per auto-espellersi dal territorio italiano con l'avvertimento che, in caso di violazione del termine, si procederà ex art. 13 T.U.I. (95).

È stata accolta con favore, inoltre, l'introduzione del comma 2-ter nell'art. 13 d. lgs. 286/1998, il quale stabilisce che «l'espulsione non è disposta, né eseguita coattivamente qualora il provvedimento sia stato già adottato nei confronti dello straniero identificato in uscita dal territorio nazionale durante i controlli di polizia alle frontiere esterne». La ragionevolezza di una simile norma è da evincere nel venir meno dell'interesse dello Stato a disporre l'espulsione, o a eseguirla coattivamente ove già disposta, nei confronti di chi volontariamente lascia il territorio italiano (96). Non sembra altrettanto ragionevole, invece, il fatto che nonostante non venga data esecuzione al decreto espulsivo, questo rimarrà operante ai fini dell'eventuale violazione del divieto di reingresso in Italia e nell'area Schengen; perciò alcuni hanno proposto che la pubblica amministrazione potrebbe, in questo caso, procedere alla revoca in autotutela dell'espulsione già disposta e non solo limitarsi a non darvi esecuzione (97).

L'art. 9 della direttiva impone, inoltre, il rinvio dell'allontanamento quando si violi il principio di non-refoulement o quando sia stata concessa la sospensione dell'efficacia esecutiva della decisione di rimpatrio, mentre lo consente in presenza di circostanze specifiche per ciascun caso e, in particolare, tenuto conto delle condizioni fisiche e mentali e dall'assenza di un vettore o di identificazione. Nella legge italiana non è prevista la sospensione dell'allontanamento, ma è frutto di un'interpretazione giurisprudenziale (98): questa tutela sarà dunque accessibile unicamente nell'ambito di un ricorso giurisdizionale. Le situazioni da tenere in considerazione in base alla 'direttiva rimpatri' non saranno pertanto valutate preventivamente dall'amministrazione, ma solo eventualmente dal giudice nel caso in cui lo straniero decida di avvalersi dello strumento di controllo giurisdizionale; per giunta l'eventuale accertamento delle stesse e la decisione di sospensione del provvedimento cautelare non avranno come effetto la cessazione dell'eventuale trattenimento amministrativo, che, come si vedrà, trova il suo titolo nell'ordinanza di convalida del giudice di pace (99).

Si ricorda, infine, che l'assenza di un vettore o la mancanza di identificazione nell'ordinamento italiano comportano addirittura il trattenimento obbligatorio in un CIE oppure, nel caso in cui non sia stato possibile trattenerlo in un centro o la permanenza nello stesso non abbia consentito l'espulsione, l'ordine di allontanamento del questore.

4.1.1. L'esecuzione coattiva dell'espulsione

Come abbiamo accennato supra, le modifiche apportate dalla l. 129/2011 non hanno stravolto l'impianto del testo unico, il quale resta sostanzialmente immutato rispetto a quello disegnato dalla legge 'Bossi-Fini'. Insomma, il compromesso trovato a livello europeo su una 'intensità graduale crescente' dei provvedimenti espulsivi è risultato del tutto assente nel nostro ordinamento.

Se formalmente l'allontanamento coattivo è previsto nei casi tassativi di cui al comma 4 dell'art. 13, sarà sufficiente una lettura dello stesso per rendersi conto che le situazioni descritte sono atte a comprendere la gran parte degli espellendi (100), limitando a casi eccezionali la concessione di un termine per la partenza volontaria (art. 13, co. 5, T.U.I.) (101).

L'espulsione verrà eseguita in forma coattiva, in particolare, nei casi di espulsione ministeriale di cui all'art. 13, co. 1, T.U.I., in quella disposta per motivi di prevenzione del terrorismo - anche internazionale - di cui all'art. 3, co. 1, l. 155/2005 e nelle ipotesi di espulsione per motivi di pericolosità sociale ai sensi dell'art. 13, co. 2, lettera (c), T.U.I.; nei casi di mancata richiesta del termine per la partenza volontaria o nei casi di mancata osservanza, senza giustificato motivo (102), di detto termine qualora sia stato concesso; quando lo straniero abbia violato anche una sola delle misure coercitive applicate nel contesto della concessione di un termine per la partenza volontaria (di cui all'art. 13, co. 5.2, T.U.I.) o disposte in alternativa la trattenimento (art. 14, co. 1-bis, T.U.I.).

Con riguardo a quest'ultimo caso, la ratio sembra ravvisarsi nell'inottemperanza di una persona già raggiunta da un provvedimento di espulsione, il che farebbe presumere anche la futura inottemperanza allo stesso decreto espulsivo: la presunzione sembrerebbe, dunque, ragionevole nonostante questa non sia prevista dall'art. 7, par. 4, della direttiva 2008/115/CE tra le situazioni che legittimano lo Stato ad astenersi dalla concessione di un termine per la partenza volontaria (103).

Un'ulteriore causa di esclusione della partenza volontaria è quella prevista alla lettera (c), co. 4, art. 13 T.U.I., il quale, richiamando alla lettera la 'direttiva rimpatri', impone l'espulsione coattiva nei casi in cui «la domanda di permesso di soggiorno [sia] stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta», non specificando, tuttavia, quali dovranno essere i criteri in base ai quali dedurre il carattere fraudolento o infondato della domanda, lasciando così alla discrezionalità delle autorità di pubblica sicurezza - le stesse che hanno rifiutato la domanda di soggiorno - tale arduo compito (104).

Le ultime due ipotesi di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo di forza pubblica riguardano la sussistenza di un rischio di fuga (art. 13, co. 4, lettera (b), che rimanda al co. 4-bis dello stesso articolo), nonché l'espulsione come misura di sicurezza o come sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione (art. 13, co. 4, lettera (f), che richiama gli articoli 15 e 16 T.U.I.).

4.1.2. Il rischio di fuga

La sussistenza del rischio di fuga è una di quelle situazioni in cui la direttiva 2008/115/CE specifica che gli Stati membri possono astenersi dal concedere un termine per la partenza volontaria o concederne uno inferiore a sette giorni (105). Il legislatore italiano ha optato per la prima soluzione e, senza preoccuparsi della graduazione delle misure richiesta dall'atto europeo (106), ha previsto l'espulsione coattiva in tutti i casi in cui si configura un rischio di fuga. Ai sensi dell'art. 3, par. 7, della direttiva 2008/115/CE, tale concetto è definito come «la sussistenza in un caso individuale di motivi basati su criteri obiettivi definiti per legge per ritenere che un cittadino di un paese terzo oggetto di una procedura di rimpatrio possa tentare la fuga». L'Italia ha recepito tale obbligo di definizione del rischio di fuga con l'introduzione del co. 4-bis nell'art. 13, T.U.I., elencando le circostanze al verificarsi delle quali (o di almeno una di esse) il prefetto dovrà disporre l'allontanamento coattivo.

La norma è costruita sulla base di una presunzione assoluta di pericolosità, che non ammette altra valutazione oltre quella del legislatore. L'automatismo (107) si produce nei seguenti casi: mancato possesso del passaporto o di altro documento equipollente in corso di validità; mancanza di idonea documentazione atta a dimostrare la disponibilità di un alloggio ove essere agevolmente rintracciato; avere in precedenza dichiarato o attestato falsamente le proprie generalità; non aver ottemperato ad uno dei provvedimenti emessi dalla competente autorità, in applicazione del comma 5 (non aver lasciato il territorio nazionale nel termine concesso per la partenza volontaria), e del comma 13 (violazione del divieto di reingresso a seguito di espulsione) di cui all'art. 13 T.U.I., nonché dell'art. 14 T.U.I. (violazione degli obblighi imposti dal questore in luogo del trattenimento ex art. 14, co. 1-bis, T.U.I., ovvero inottemperanza all'ordine questorile di allontanamento ex art. 14, co. 5-bis, T.U.I.); aver violato, infine, una delle misure di cui al co. 5.2 dell'art. 13 T.U.I. disposte nel contesto della partenza volontaria.

Ad una prima lettura, è evidente che il legislatore ha configurato tali circostanze ricavandole in maniera speculare dagli obblighi che la 'direttiva rimpatri' consente di imporre per fronteggiare il rischio di fuga al par. 3 dell'art. 7, in tal modo dimostrando una certa disattenzione o fraintendimento degli strumenti messi a disposizione della direttiva per contenere il pericolo di fuga (108).

Tralasciando pure la reiterazione legislativa di circostanze che erano già previste allo stesso art. 13, co. 4, o che da questo si potevano dedurre (109), si è notato che, se da una parte le ultime due previsioni (lettere (d) e (e), co. 4-bis), essendo conseguenti alla violazione di misure adottate dalla pubblica amministrazione nella fase esecutiva dell'espulsione, ben possono giustificare la presunzione legale del rischio di fuga, dall'altra le prime tre previsioni (lettere (a), (b) e (c), co. 4-bis) non necessariamente possono fondare un giudizio in tal senso (110).

Per quanto riguarda la mancanza del passaporto (o di altro documento equipollente in corso di validità), non solo non può ritenersi circostanza sempre addebitabile allo straniero (111), ma non sembra nemmeno conforme alle garanzie offerte dalla direttiva 2008/115/CE che all'art. 9, par. 2, lettera (b) prevede che «gli Stati membri [possano] rinviare l'allontanamento per un congruo periodo, tenendo conto (...) delle ragioni tecniche, come l'assenza di mezzi di trasporto o il mancato allontanamento a causa dell'assenza di identificazione». Nonostante da questa norma non si possa dedurre un diritto al rinvio dell'allontanamento in capo al cittadino di paese terzo, sembra comunque dedursi l'impossibilità di ravvisare il rischio di fuga di fronte alla semplice mancanza di documenti: la direttiva, insomma, non sembrerebbe giustificare la mancata concessione di un termine per la partenza volontaria - in linea con il paragrafo 3 dello stesso art. 9 che dà la facoltà agli Stati di applicare gli obblighi di cui all'art. 7, par. 3 - qualora venga disposto il rinvio dell'allontanamento (112).

Allo stesso modo, la mancanza di idonea documentazione alloggiativa non sempre costituisce un elemento indicativo del pericolo di fuga, ben potendo trattarsi di situazione indipendente dalla volontà del cittadino di paese terzo (113).

Infine, per quanto concerne la pregressa attestazione o dichiarazione di false generalità non si richiede la necessità che sia stata pronunciata una condanna per violazione dell'art. 495 c.p., né sono specificati limiti temporali entro i quali effettuare tale valutazione; ciò fa sì che la circostanza possa risalire a tempi anche molto remoti, rispetto a quali non sarebbe giustificata la pericolosità per mancanza del requisito dell'attualità (114).

È evidente che un'ampia interpretazione delle condizioni che legittimano la presunzione del rischio di fuga finiscono per eludere l'applicazione della 'direttiva rimpatri', con la conseguenza di restringere le ipotesi di concessione del termine per la partenza volontaria.

4.1.3. Il controllo giurisdizionale sulle espulsioni con accompagnamento alla frontiera

Attualmente nelle ipotesi di espulsione con accompagnamento alla frontiera è sempre necessaria la convalida del provvedimento del giudice di pace: ai sensi del co. 5-bis dell'art. 13 T.U.I., il questore deve comunicare il provvedimento, entro quarantotto ore dalla sua adozione, al giudice di pace e l'esecuzione dello stesso è sospesa fino all'intervenuta convalida (115).

Tale previsione, tuttavia, è il frutto di due sentenze della Corte costituzionale, che sono intervenute a distanza di pochi anni l'una dall'altra per sanare le illegittimità delle previgenti versioni del Testo Unico in materia di immigrazione.

Originariamente, infatti, l'accompagnamento alla frontiera non era preceduto da alcuna convalida giurisdizionale e, dunque, poteva essere eseguito in totale discrezionalità dall'autorità amministrativa, senza alcun controllo sulla legalità della misura; nel 2001 la Corte costituzionale affermò che tale modalità esecutiva di espulsione, per le sue caratteristiche, rientrava nella materia regolata dall'art. 13 della Costituzione (116). In seguito a tale pronuncia il legislatore, con il decreto legge n. 51/2002, fu pertanto costretto ad introdurre il meccanismo della convalida, ma l'esecuzione dell'accompagnamento poteva comunque essere eseguito prima della pronuncia del giudice, con la conseguenza che l'eventuale mancata convalida sarebbe rimasta priva di effetti. La Consulta censurò nuovamente la previsione del Testo Unico decretando l'incostituzionalità di tale meccanismo per violazione del diritto di difesa e della riserva di giurisdizione sui provvedimenti restrittivi della libertà personale (117); solo allora venne varato l'attuale co. 5-bis di cui all'art. 13 prevedendo la sospensione dell'esecuzione dell'espulsione nelle more della convalida del giudice di pace.

Dopo la convalida, il decreto di espulsione può essere impugnato con ricorso di fronte al giudice di pace del luogo (118). Il procedimento è regolato dal d. lgs. 150/2011 in tema di semplificazione e riduzione dei riti civili: in base all'art. 18 di tale decreto il ricorso è proposto, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla notificazione del provvedimento ovvero entro sessanta giorni se il ricorrente risiede all'estero e il giudizio è definito entro il termine ordinatorio di venti giorni dalla data del deposito del ricorso.

Per quanto riguarda la possibilità di sospendere l'efficacia esecutiva del decreto espulsivo nelle more della decisione sul ricorso, l'art. 13 T.U.I. non prevede alcunché; tuttavia, l'art. 5 del d. lgs. 150/2011 limita la possibilità di tutela cautelare «nei casi in cui il presente decreto prevede la sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato (...)» e l'art. 18 del medesimo decreto non contempla affatto questa possibilità. Il combinato disposto tra le suddette norme in materia di semplificazione dei riti civili e l'art. 13, co. 1, il quale sancisce l'immediata esecutività delle espulsioni, anche se sottoposte a gravame o impugnativa, potrebbe indurre a ritenere la mancanza di una tutela cautelare in materia di espulsioni. Tuttavia, come si è visto, tale possibilità è stata riconosciuta a livello giurisprudenziale sulla scorta dei principi enunciati dalla Corte costituzionale in due sentenze del 2000 (119): secondo la Consulta il potere del giudice di disporre la tutela cautelare deve essere desunto da una lettura sistematica dell'ordinamento e dal sistema di garanzie processuali costituzionali. Inoltre, si ricorda che la stessa 'direttiva rimpatri' all'art. 13 ha prescritto in materia di espulsioni di predisporre mezzi di ricorso effettivo, tra cui la possibilità di sospendere temporaneamente l'esecuzione della decisione di rimpatrio. Pertanto anche in assenza di un'espressa previsione legislativa, la possibilità di sospendere il decreto espulsivo da parte del giudice di pace deve ritenersi sussistente (120).

Si sottolinea infine che, in linea con quanto richiesto dalla direttiva 2008/115/CE sull'assistenza legale gratuita (121), lo straniero è ammesso ex lege al gratuito patrocinio a spese dello Stato indipendentemente dalle condizioni reddituali (122).

4.1.4. La partenza volontaria

In ordine inverso rispetto alla 'direttiva rimpatri', dopo l'accompagnamento alla frontiera a mezzo di forza pubblica viene disciplinata l'ipotesi di concessione del termine per la partenza volontaria: termine che può essere concesso solo su richiesta dello straniero (123) che sia destinatario di un provvedimento di espulsione (124) e ovviamente solo nei casi, decisamente residuali, in cui non ricorrano le condizioni per l'esecuzione coattiva dell'espulsione. Tale facoltà (125) è stata prevista su pressione degli Stati membri in seno al Consiglio, spinti dall'esigenza di lasciare all'allontanamento coattivo ancora un posto di rilievo.

In attuazione del primo paragrafo dell'art. 7 della direttiva 2008/115/CE, si è previsto in capo alle questure l'obbligo di «dare adeguata informazione allo straniero della facoltà di richiedere un termine per la partenza volontaria, mediante schede informative plurilingue» (126). Vista la residualità con cui è configurato nel nostro sistema l'istituto della partenza volontaria, tali schede plurilingue assumono una rilevanza tutt'altro che formale: queste dovrebbero essere chiare e redatte in una lingua comprensibile allo straniero; tuttavia, l'assenza di disposizioni regolamentari che stabiliscano in modo omogeneo i contenuti e le lingue di queste schede (127), finisce per condannare tale possibilità alla mera discrezionalità dei singoli uffici, salva comunque la possibilità di un sindacato da parte del giudice di pace (128). Non è altresì disciplinato in nessuna norma l'obbligo di prospettare allo straniero le conseguenze della mancata richiesta del termine per la partenza volontaria (accompagnamento alla frontiera e trattenimento amministrativo fino a diciotto mesi).

Qualora il prefetto, valutato il singolo caso, intimi allo straniero di lasciare volontariamente il territorio dello Stato, entro un termine compreso tra i sette e i trenta giorni (129), la questura potrà chiedere allo stesso di presentare idonea documentazione, atta a «dimostrare la disponibilità di risorse economiche sufficienti derivanti da fonti lecite, per un importo proporzionato al termine concesso, compreso tra una e tre mensilità dell'assegno sociale annuo». A parte la probatio alquanto difficoltosa richiesta allo straniero in posizione irregolare, la norma non appare chiara nel suo intento: certo è che non si tratta di un presupposto (130) in mancanza del quale si potrà ricorrere all'espulsione coattiva, in quanto non solo il termine, a questo punto, è già stato concesso (131), ma anche perché compreso in quelle ipotesi tassative previste dall'art. 13, co. 4., T.U.I. (132)

Nel contesto del rimpatrio volontario, devono essere, altresì, applicate alcune misure cautelari come la consegna del passaporto, l'obbligo di dimora e l'obbligo di presentazione alla forza pubblica. Ora, simili misure avranno verosimilmente il compito di limitare il più possibile il rischio di fuga dello straniero nelle more della partenza: ma la valutazione circa la sussistenza di un tale rischio, in realtà, viene effettuata prima della concessione del termine per la partenza volontaria, e in presenza dello stesso l'unica modalità di esecuzione dell'espulsione è quella coattiva (133); dunque, neanche in questo caso è chiaro quale sia la ratio di una simile previsione legislativa.

Il decreto che dispone queste misure deve essere trasmesso entro quarantotto ore al giudice di pace, il quale le convalida nelle quarantotto successive: non è previsto, tuttavia, che la convalida avvenga previa instaurazione del contraddittorio, né la necessità di una difesa tecnica per l'interessato, che al massimo potrà presentare delle memorie. In caso di violazione di dette misure, come visto, nei confronti dello straniero è eseguita l'espulsione coattiva, nonché l'applicazione di una multa da 3.000 a 18.000 euro (134), che peraltro non sembra convertibile - ex art. 55, d. lgs. 274/2000 relativo alla conversione delle pene pecuniarie nei procedimenti penali di competenza del giudice di pace - né in lavoro sostitutivo, in quanto non compatibile con la situazione di colui che deve essere allontanato coattivamente dall'Italia, né in permanenza domiciliare, perché contraddittoria rispetto a chi abbia violato l'obbligo di presentazione o di dimora (135).

4.1.5. La nuova disciplina del divieto di reingresso

In tema di divieto di reingresso, l'Italia ha deciso di avvalersi delle opzioni più restrittive offerte dalla 'direttiva rimpatri', accompagnando tale divieto a tutti i provvedimenti di espulsione e non solo - come sembra suggerire il legislatore europeo - qualora non sia concesso un termine per la partenza volontaria o tale termine non sia stato rispettato (136).

Ai sensi dell'art. 13, co. 13, T.U.I., infatti, lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione non può rientrare nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell'interno; successivamente, il nuovo art. 13, co. 14, T.U.I. (137) stabilisce che, di norma, il divieto opera per un periodo da tre a cinque anni, che viene determinato dal prefetto tenuto conto di tutte le circostanze del singolo caso. Solo nei casi previsti all'art. 13, co. 4, lettera (a), sarà possibile disporre un termine superiore a cinque anni e indeterminato nel massimo. Ai fini del divieto di reingresso, dunque, non è fatta nessuna distinzione circa la concessione o meno di un termine per la partenza volontaria e, di conseguenza, non è valorizzato il meccanismo premiale messo in atto dalla 'direttiva rimpatri' che vede nelle speranze dei cittadini di paesi terzi di un ritorno - in tempi brevi - nell'area Schengen un incentivo ad allontanarsi. Tuttavia, il legislatore italiano prevede che, nei casi di partenza volontaria, il termine del divieto di reingresso decorra dalla scadenza del termine assegnato per lasciare l'Italia; il divieto potrà successivamente essere revocato dalla stessa prefettura che lo ha disposto, su istanza dello straniero che dimostri di aver lasciato il territorio nel termine concesso.

Una simile prova potrà essere fornita mediante l'esibizione del timbro datario di uscita dal territorio nazionale apposto sul passaporto e l'istanza avanzata tramite le rappresentanze consolari italiane, ovvero, in Italia tramite il difensore munito di idonea procura (138).

In caso di trasgressione, lo straniero «è punito con la reclusione da uno a quattro anni ed è nuovamente espulso con accompagnamento immediato alla frontiera» (139).

Di particolare interesse, a questo proposito, è una pronuncia della Corte di appello di Milano con la quale si è revocata la condanna per violazione dell'art. 13, co. 13, T.U.I., ritenendo incompatibile la pena detentiva da questo comminata con la 'direttiva rimpatri, sulla scorta della sentenza El Dridi. Nell'ordinanza della Corte si afferma, infatti, che «la sentenza della C.G.U.E. rileva anche in ordine al delitto di illecito reingresso in quanto tale fattispecie comporta una violazione del principio dell'effetto utile, posto che la previsione di una pena detentiva a carico dello straniero che abbia fatto illegalmente ingresso in Italia in violazione di un divieto reingresso costituisce un ostacolo al conseguimento dell'obiettivo dell'effetto del rimpatrio dello straniero irregolare, individuato come prioritario dalla direttiva 2008/115/CE» (140).

4.2. Il trattenimento dopo la legge n. 129/2011

La disciplina del trattenimento ha subito negli ultimi due decenni profonde trasformazioni. Introdotta per la prima volta dalla legge 'Turco-Napolitano' (legge n. 40/1998), la detenzione amministrativa era applicata solo nei confronti delle persone sottoposte ad accompagnamento coattivo alla frontiera, ossia in casi eccezionali, essendo la regola quella dell'intimazione a lasciare il territorio nazionale entro quindici giorni dalla notifica del provvedimento.

Il rapporto è stato, successivamente, invertito dalla legge 'Bossi-Fini' del 2002, la quale non solo ha aumentato i termini massimi di trattenimento da trenta a sessanta giorni ma ha soprattutto generalizzato l'esecutività in forma coattiva di tutte le espulsioni. Ulteriori inasprimenti sono stati apportati negli ultimi anni prima dalla legge 94/2009, che ha innalzato i termini massimi di detenzione da due a sei mesi e, infine, dalla legge n. 129/2011 con la quale, approfittando dall'approvazione della 'direttiva rimpatri', si è legittimato un trattenimento fino a diciotto mesi.

Secondo la nuova formulazione dell'art. 14, co. 1, T.U.I., decisamente più generica e indeterminata, le condizioni legittimanti il trattenimento consistono nell'impossibilità di eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o respingimento «a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l'effettuazione dell'allontanamento», in tal modo attribuendo alle questure ampi margini di potere discrezionale nell'adozione della misura (141). Le ipotesi tassative, in cui nella previgente versione era possibile disporre il trattenimento (142), hanno oggi una funzione meramente esemplificativa, salvo per quanto concerne il rischio di fuga che, sulla base di un'interpretazione conforme alla direttiva, deve sempre sussistere (143). Rispetto alla direttiva 2008/115/CE, che ammette l'applicazione di tale misura solo in presenza di condizioni riconducibili alla volontà dello straniero (144), il nostro legislatore non si preoccupa di specificare cosa si debba intendere per «cause transitorie»: dunque - si ritiene - possibile disporre il trattenimento anche in presenza di circostanze del tutto indipendenti dalla volontà dell'espellendo.

Ora, la mancata previsione tassativa dei casi legittimanti il trattenimento potrebbe porre dubbi di legittimità costituzionale per contrasto con l'art. 13 della Costituzione (145), che ammette restrizioni della libertà personale da parte dell'autorità di pubblica sicurezza solo in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge.

Entro quarantotto ore dall'adozione del provvedimento, il questore dovrà trasmettere copia degli atti al giudice di pace per la convalida (146): la convalida comporta la permanenza del Centro di identificazione ed espulsione (CIE) per un periodo di complessivi trenta giorni. La prima proroga è possibile per ulteriori trenta giorni qualora «l'accertamento dell'identità e della nazionalità ovvero l'acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà»; mentre, le successive proroghe sono ammissibili «per periodi non superiori a sessanta giorni» fino ad un massimo di diciotto mesi complessivi, sempre che permangano le condizioni richieste per la prima proroga o comunque qualora, «nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, a causa della mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato o di ritardi nell'ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi», non sia stato possibile procedere all'allontanamento.

Si segnala, a questo proposito, il mancato recepimento da parte dell'Italia dell'istituto del «riesame», previsto dall'art. 15, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2008/115/CE, il quale consentirebbe di graduare il periodo di trattenimento alle esigenze del singolo caso concreto, tenendo conto anche di circostanze sopravvenute, ignote o inesistenti all'atto della convalida o della proroga (147). Tale controllo, invece, non è possibile nel sistema così come configurato dal legislatore italiano, dove il periodo di trattenimento è dettato da scadenze predeterminate per legge, che non consentono di adattare la durata alle necessità individuali (148). Inoltre la disciplina del riesame, a livello europeo, è strettamente correlata alla disposizione di cui al par. 4, art. 15, che impone il rilascio dello straniero qualora non esista più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento: neanche tale principio è stato recepito nel nostro ordinamento (149).

Infine, nonostante la legge non preveda che la proroga del trattenimento sia decisa in seguito alla celebrazione di un'apposita udienza, l'obbligatorietà di tali udienze è stata sancita dalle numerose sentenze della Corte di cassazione (150).

Al co. 7 dell'art. 14, si prevede, inoltre, il caso di indebito allontanamento dal Centro, il quale legittima il questore all'adozione di un nuovo provvedimento al fine di ripristinare il trattenimento. Ciò avrebbe potuto far sorgere non pochi dubbi sull'eventuale decorso di un nuovo termine: tuttavia, in sede di conversione del decreto legge, si è previsto che «il periodo di trattenimento disposto dal nuovo provvedimento è computato nel termine massimo per il trattenimento indicato nel comma 5» (151).

Un'ultima novità introdotta dalla l. 129/2011 in tema di trattenimento è la facoltà, prevista al co. 1-bis, art. 14, T.U.I., per il questore di adottare in luogo della detenzione amministrativa una o più delle seguenti misure: consegna del passaporto, obbligo di dimora, obbligo di presentazione periodica presso la forza pubblica (152). Tali misure sono adottate però solo a condizione che lo straniero sia in possesso di un passaporto (o altro documento equipollente in corso di validità) e che l'espulsione non sia stata disposta per motivi di sicurezza dello Stato (art. 13, co. 1, T.U.I.), per motivi di prevenzione del terrorismo (art. 3, co. 1, l. 155/2005), né per motivi di pericolosità sociale (art. 13, co. 2, lett. (c), T.U.I.). Su tali condizioni sono stati formulati, tuttavia, alcuni rilievi: innanzitutto, la disponibilità di un passaporto, ai sensi dell'art. 9, par. 2, lett. (b), direttiva 2008/115/CE, giustificherebbe unicamente il rinvio dell'allontanamento e non la compressione della libertà personale dello straniero; inoltre, il fatto che l'espulsione per motivi di pericolosità sociale comporti senza eccezioni il trattenimento sembra in contrasto con la finalità stessa della detenzione amministrativa, che ha come unico fine quello di garantire l'efficacia del rimpatrio e non trova certo la sua vocazione nelle ragioni di contenimento della pericolosità sociale del cittadino di Paese terzo (153).

4.3. Il nuovo ordine di allontanamento del questore e i reati ad esso correlati dopo la sentenza El Dridi

Le incompatibilità dei reati di mancata ottemperanza all'ordine di allontanamento del questore rispetto alla 'direttiva rimpatri' rilevate dalla Corte di Lussemburgo non hanno dissuaso il nostro legislatore dal conservare l'istituto in esame, che continua ad applicarsi nei casi in cui non sia stato possibile trattenere lo straniero nel Centro di identificazione ed espulsione ovvero la permanenza presso tale struttura non ne abbia consentito l'allontanamento (154). In particolare si afferma che, «allo scopo di porre fine al soggiorno illegale dello straniero e di adottare le misure necessarie per eseguire immediatamente il provvedimento di espulsione o di respingimento» (155), il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio «entro un termine di sette giorni».

La modifica apportata al termine (prima di cinque giorni, ora di sette) non è in realtà giustificata dalla necessità di adeguare il diritto interno alla direttiva 2008/115/CE: il legislatore dimostra unicamente di confondere l'istituto dell'ordine di allontanamento del questore con quello della partenza volontaria, dove quest'ultima prevede la concessione di un termine fin dall'inizio della procedura espulsiva, sulla scorta del fatto che l'espulsione non deve essere eseguita coattivamente (156).

Dopo la legge n. 129/2011, la violazione dell'ordine del questore ovvero la sua inottemperanza continuano a costituire reato, seppur non applicando più la sanzione detentiva, come richiesto dalla 'direttiva rimpatri', ma punendo il trasgressore - salvo giustificato motivo - con una sanzione pecuniaria. In particolare si prevede una multa da 10.000 a 20.000 euro in caso di violazione dell'ordine di rimpatrio a seguito di respingimento, espulsione con accompagnamento a mezzo di forza pubblica (art. 13, co. 4, T.U.I.) e nei casi di sottrazione ai programmi di rimpatrio assistito di cui all'art. 14-bis T.U.I.; mentre si applica una multa inferiore, da 6.000 a 15.000 euro se l'espulsione è stata disposta ai sensi dell'art. 13, co. 5, T.U.I., ossia in quei casi in cui era stato richiesto e concesso un termine per la partenza volontaria, in seguito non rispettato, ma non sia stato possibile disporre espulsione coattiva, né il trattenimento (157).

Successivamente, «valutato il singolo caso», si procede all'adozione di un nuovo provvedimento di espulsione per violazione dell'ordine del questore, dando vita di conseguenza, ad una rinnovata fase di esecuzione dell'espulsione (158). In questi casi, qualora non sia possibile procedere all'accompagnamento alla frontiera, si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 5-bis dell'art. 14, nonché quelle di cui all'art. 13, co. 3. (159). Infine, ai sensi del co. 5-quater, art. 14, T.U.I., la violazione del secondo ordine di allontanamento è punita con la multa da 15.000 a 30.000 euro e in tal caso «si applicano le disposizioni di cui al comma 5-ter, quarto periodo». Dunque, sembra possibile una reiterabilità all'infinito dell'ordine del questore (co. 5-bis), ma anche di decisioni di trattenimento in un CIE (co. 1), il che potrebbe condurre ad un radicale contrasto con i principi affermati dalla 'direttiva rimpatri', che impone, entro stretti margini, un trattenimento finalizzato unicamente all'esecuzione della decisione di rimpatrio (160).

L'aspetto più problematico di questa fattispecie di reato è costituita dalla possibilità, attribuita al giudice di pace, di sostituire la pena pecuniaria con l'espulsione con accompagnamento immediato, per un periodo non inferiore a cinque anni (161): la legge 129/2011 ha infatti aggiunto un capoverso all'art. 16, co. 1, T.U.I., il quale disciplina l'espulsione a titolo di sanzione sostituiva, prevedendo che «le disposizioni di cui al presente comma si applicano, in caso di sentenza di condanna, ai reati di cui all'art. 14, commi 5-ter e 5-quater». Come nelle ipotesi di condanna per il reato di cui all'art. 10-bis T.U.I., la sostituzione può essere disposta «qualora non ricorrano le cause ostative indicate nell'art. 14, co. 1, del presente testo unico, che impediscono l'esecuzione immediata dell'espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica». Non impedendo la denuncia per uno dei reati di cui all'art. 14 l'esecuzione coattiva dell'espulsione, pare ovvio che se si giunge al processo senza che l'espulsione sia stata eseguita vorrà dire che sussistono le condizioni ostative di cui al co. 1 dell'art. 14 T.U.I.: secondo questo ragionamento, dunque, la conversione della sanzione pecuniaria con la misura dell'espulsione coattiva non potrebbe mai avvenire per sussistenza di almeno una delle cause ostative di cui al co. 1 (162).

Tuttavia, pur volendo ammetterne l'effettiva praticabilità, l'applicazione dell'art. 16, co. 1, T.U.I. Sembrerebbe in realtà radicalmente incompatibile con la direttiva 2008/115/CE (163), in quanto comminerebbe un'altra espulsione che si andrebbe a sovrapporre a quella già disposta dal prefetto e tale reiterazione dei provvedimenti di espulsione sarebbe del tutto esclusa dalla direttiva (164): dunque non avrebbe altro scopo se non quello di utilizzare l'opzione prevista all'art. 2, par. 2, lett. (b) della direttiva. Come già sostenuto a proposito del reato di cui all'art. 10-bis T.U.I., non è possibile ricomprendere in tale deroga i reati di ingresso e soggiorno irregolare, se non svuotando dell'effetto utile la direttiva stessa; perciò l'espulsione conseguente ai reati di cui all'art. 14, co. 5-ter e co. 5-quater non potrà essere considerata una «sanzione penale» o una «conseguenza di una sanzione penale» ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. (b) della direttiva, in quanto si tratta, come nel caso di cui all'art. 10-bis, di atti che trovano la loro fonte in una situazione di irregolarità dello straniero.

La natura amministrativa dell'espulsione a titolo di misura sostitutiva era stata d'altronde già affermata dalla Corte costituzionale con un'ordinanza interpretativa di rigetto (165): invero, la stessa esecuzione della misura è affidata ad un'autorità amministrativa e la portata afflittiva della disposizione è limitata unicamente all'allontanamento dal territorio dello stato di un soggetto che andrebbe, comunque, espulso in via amministrativa. Pertanto ciò che scaturisce dall'applicazione dell'art. 16 non sarebbe altro che un'anticipazione dell'espulsione amministrativa che andrebbe realizzata a fine pena, con conseguente rinuncia dello Stato alla propria pretesa punitiva (166).

Una recente sentenza della Corte di giustizia ha chiarito, con riferimento particolare al reato di cui all'art. 10-bis T.U.I., alcune questioni rimaste aperte dopo la sentenza El Dridi (167).

5. La 'direttiva rimpatri' e il reato di ingresso e soggiorno irregolare

Come ricordato nelle pagine iniziali del presente capitolo, il reato di ingresso e soggiorno illegale è stato introdotto in Italia dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 ('Pacchetto sicurezza'), la quale ha inserito nel d. lgs. 286/1998 l'art. 10-bis (168). Si tratta di una contravvenzione punita con l'ammenda da 5.000 a 10.000 euro, non oblazionabile, per espressa disposizione di legge, ai sensi dell'art. 162 del codice penale.

Il reato è costituito da due fattispecie criminose: 'il fare ingresso nel territorio dello Stato' ovvero il 'trattenersi' (169), entrambe accomunate dalla clausola di salvaguardia «salvo che il fatto costituisca più grave reato»; ciò implica che il reato non si configura qualora la condotta costituisca elemento costitutivo di un'altra fattispecie punita più gravemente (170).

Le due condotte sono alternative tra loro perciò, nel caso di ingresso illegale, la successiva permanenza sarà assorbita dalla condotta di ingresso e dunque penalmente irrilevante, mentre il 'trattenersi' illegalmente avrà come presupposto un ingresso legale cui è conseguita un'irregolarità della permanenza. Si tratta di un reato proprio, in quanto può essere commesso solo dallo «straniero» così come definito dall'art. 1, T.U.I. (171).

L'art. 10-bis T.U.I. non è stato modificato dalla l. n. 129/2011, se non nella parte, come si è visto, in cui prevede la non punibilità dello straniero identificato (come irregolare) «durante i controlli della polizia di frontiera, in uscita dal territorio nazionale» (172).

Nel presente capitolo si è accennato alle numerose discussioni che in dottrina ha suscitato l'introduzione del 'reato di clandestinità'.

In primis, si ricorda, che la sua previsione è stata espressamente giustificata dal Governo dall'intento di aggirare la 'direttiva rimpatri', riducendone la portata applicativa. Nella seduta del 15 ottobre 2008, davanti al Comitato parlamentare Schengen, l'allora Ministro dell'interno, Roberto Maroni, spiegando che «la direttiva europea stabilisce che la regola per l'allontanamento dei cittadini extracomunitari sarà l'invito ad andarsene e non l'espulsione, a meno che il provvedimento di espulsione sia conseguenza di una sanzione penale», espresse la volontà dell'esecutivo di «disegnare il reato di immigrazione clandestina o di ingresso illegale puntando principalmente sulla sanzione accessoria del provvedimento giudiziale di espulsione emanato dal giudice, piuttosto che sulla sanzione principale che sarà una sanzione pecuniaria»; in questo modo si sarebbe potuto procedere «all'espulsione immediata con un provvedimento del giudice, applicando la direttiva europea ma eliminando l'inconveniente che ne pregiudicherebbe l'efficacia, perché come ha dimostrato l'esperienza italiana l'invito ad andarsene significa che nessuno verrebbe più espulso» (173).

La previsione di una sanzione pecuniaria sostituibile con l'espulsione è, infatti, sostanzialmente finalizzata a consentire di qualificare quest'ultima come «sanzione penale o conseguenza di una sanzione penale», rendendo il tal modo applicabile la clausola di riserva di cui all'art. 2, par. 2, lett. (b), Direttiva 2008/115/CE.

Le critiche, già avanzate da gran parte della dottrina, sono state successivamente confermate da due sentenze della Corte di giustizia, prima in El Dridi (174) e, ancor compiutamente, poco più di anno dopo in Achughbabian (175).

Già nella sentenza El Dridi, infatti, al par. 49, la Corte di giustizia affermando che «le sanzioni penali di cui a detta disposizione [art. 2, par. 2, lettera (b)] non concernono l'inosservanza del termine impartito per la partenza volontaria», lasciava sottintendere che lo stesso poteva dirsi per le sanzioni penali applicabili esclusivamente in virtù dello status irregolare (176).

La causa Achughbabian, che verrà analizzata in modo dettagliato nel terzo capitolo, trae origine proprio da un contrasto giurisprudenziale sorto in seno alla giurisprudenza francese a seguito della pronuncia El Dridi. Si poneva, infatti, la questione dell'ammissibilità della garde à vue (177) agli stranieri irregolari: tale misura era applicabile nell'ordinamento francese solo nei confronti delle persone sospettate di aver commesso un reato punibile con una pena detentiva (178); tuttavia, la possibilità di applicare una simile sanzione nel corso della procedura di rimpatrio era stata categoricamente esclusa dalla Corte di giustizia.

In questa sede l'analisi si concentrerà sulle ricadute della sentenza Achughbabian nell'ordinamento italiano e sulla compatibilità della 'direttiva rimpatri' rispetto alle fattispecie penali da questo previste.

La Corte di Lussemburgo ribadisce - in linea con la precedente pronuncia in materia di rimpatri - l'ammissibilità di fattispecie penali che criminalizzano la mera presenza irregolare dello straniero, tuttavia tali fattispecie di reato non possono applicarsi né prima dell'inizio della procedura di rimpatrio (179), né durante lo svolgersi della stessa. Dopodiché, con riguardo all'Italia, sembra invalidare la strategia messa in atto dal nostro Governo per aggirare l'applicazione della direttiva 2008/115/CE, qualificando l'immigrazione irregolare quale reato e punendolo con una sanzione che sarebbe potuta rientrare sotto l'art. 2, par. 2, lett. (b). La Corte sancisce che il dettato di questa norma «non può manifestamente essere interpretato, salvo privare la direttiva della sua ratio e del suo effetto vincolante, nel senso che gli Stati membri possono omettere di applicare le norme e le procedure comuni previste dalla direttiva in parola ai cittadini di Paesi terzi che abbiano commesso solo l'infrazione consistente nel soggiorno irregolare» (180). Le sanzioni penali, potranno essere adottate unicamente una volta giunta al termine la procedura di rimpatrio, qualora, nonostante l'applicazione di misure coercitive, non sia stato possibile realizzare l'allontanamento dello straniero irregolare, sempre comunque nel rispetto dei diritti fondamentali e, in particolare, di quelli garantiti dalla CEDU (181).

Questo significa che in tutti i casi di procedimento per il reato di ingresso e di soggiorno irregolare si dovrà rispettare la direttiva ed eseguire un'espulsione ad essa conforme (182).

In seguito a questa pronuncia, sembrava ormai chiaro che dovesse crollare anche il castello di sabbia costruito dal nostro legislatore circa il sistema delle espulsioni solo 'formalmente penali' (183).

Fiumi d'inchiostro erano stati versati dalla dottrina sulla presunta incompatibilità dell'art. 10-bis, in combinato disposto con l'art. 16, T.U.I., rispetto all'art. 7 della 'direttiva rimpatri', che come regola prevede il rimpatrio volontario e non l'accompagnamento coattivo alla frontiera.

Di fronte a tale problematica, alcuni giudici di pace (184) hanno disapplicato l'art. 10-bis, nell'intento di dare diretta attuazione alla direttiva. Altri hanno tentato, invece, il ricorso in via pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea, tra cui il Tribunale di Rovigo che ha permesso ai giudici di Lussemburgo di pronunciarsi sull'annosa questione nel caso Sagor (185).

5.1. La sentenza Sagor

Il caso in questione scaturisce da un procedimento a carico del sig. Sagor, cui era contestata la sussistenza del reato di soggiorno irregolare dello Stato (186); il Tribunale di Rovigo, nutrendo dubbi sulla compatibilità della normativa interna con la direttiva 2008/115/CE decise di sottoporre la questione al vaglio della Corte di giustizia (187).

I quesiti sottoposti alla sua attenzione riguardavano: da una parte la conformità alla 'direttiva rimpatri' della previsione, discendente dalla disciplina generale in materia di reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, che consente la conversione della pena pecuniaria, non eseguita per insolvibilità del condannato, nell'obbligo di permanenza domiciliare durante il fine settimana, nel caso in cui quest'ultimo non richieda di essere ammesso al lavoro sostitutivo (188). Dall'altra parte se ne domandava la compatibilità rispetto alla possibilità di sostituire la pena pecuniaria, da parte dello stesso giudice che pronuncia la sentenza di condanna, con la misura dell'espulsione dello straniero per un periodo non inferiore a cinque anni (189).

Sulla base dei principi espressi nella sentenza Achughbabian appena un anno prima, la Corte ritiene che la disciplina prevista all'art. 10-bis T.U.I. non rallenti, né ostacoli la procedura amministrativa di rimpatrio, vista la previsione della sola pena pecuniaria (190), nonché la norma di cui al co. 5 dello stesso articolo (191), ove si dispone che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere, allorché durante il procedimento abbia notizia dell'avvenuta espulsione dello straniero (192).

L'applicazione di una pena pecuniaria - sostiene la Corte - non impedisce in nessun modo che una delle decisioni di rimpatrio sia adottata ed attuata nella piena osservanza delle condizioni previste agli artt. 6-8 della direttiva in questione.

Con riferimento alla possibilità che la pena pecuniaria inflitta al condannato venga sostituita con la misura dell'espulsione, purché questa sia immediatamente eseguibile (cioè non ricorrano le condizioni ostative previste all'art. 14 co. 1, T.U.I.), la Corte ritiene che il provvedimento di espulsione possa essere adottato anche da un giudice penale nel quadro di un procedimento penale. In base tuttavia alla 'direttiva rimpatri', che all'art. 7, prevede che allo straniero irregolare deve essere concesso, di regola, un termine per la partenza volontaria e che a tale regola lo Stato può derogare solo nei casi previsti dall'art. 7, par. 4, si deve ritenere che il giudice non potrà sostituire la pena pecuniaria con quella dell'espulsione, qualora la situazione non possa essere ricompresa tra le eccezioni previste dall'art. 7, par. 4 e in particolare qualora non sussista un rischio di fuga (193).

Il giudice penale, dunque, potrà disporre l'espulsione solo nel caso in cui lo straniero non abbia diritto ad ottenere un termine per la partenza volontaria, restando frustrato, pertanto, il tentativo del Governo di dare priorità all'allontanamento coattivo.

Per quanto riguarda invece la possibilità di convertire la pena pecuniaria non eseguita in quella della permanenza domiciliare, la Corte di Giustizia ritiene che questa sia idonea a ostacolare l'esecuzione dell'allontanamento, in particolare qualora la disciplina nazionale non preveda che l'esecuzione della permanenza domiciliare debba cessare a partire dal momento in cui sia possibile realizzare l'allontanamento dello straniero. Spetterà al giudice nazionale verificare che nell'ordinamento esista una disposizione che faccia prevalere l'esecuzione dell'allontanamento sull'obbligo di esecuzione della pena sostitutiva, perciò, in assenza di una disposizione in tal senso il meccanismo di conversione della pena pecuniaria risulterebbe incompatibile con al direttiva 2008/115/CE (194).

Gli orientamenti espressi nel caso Sagor sono stati confermati recentemente da un'altra sentenza della Corte di giustizia (195), la quale ha ribadito la compatibilità in linea di principio con la direttiva 2008/115/CE della contravvenzione di cui all'art. 10-bis d. lgs 286/1998, purché la sua applicazione in concreto da parte del giudice non conduca a risultati incompatibili con la direttiva medesima, in particolare per ciò che concerne la possibilità di applicare al condannato la pena sostitutiva dell'espulsione.

Tuttavia, si rileva che allo stato attuale delle cose una disposizione di coordinamento tra l'esecuzione della permanenza domiciliare e la procedura di allontanamento non esiste nel nostro ordinamento, pertanto non sarà possibile convertire nemmeno la pena pecuniaria se non paralizzando l'esecuzione dell'espulsione dello straniero dal territorio nazionale (196).

Sulla scorta di quest'ultima statuizione della Corte di giustizia nella sentenza Sagor, un giudice del Tribunale di Monza (197) ha ritenuto che «l'attuale fattispecie penale, delineata dal combinato disposto dell'art. 10-bis d. lgs. 286/1998 e degli artt. 53 e 55 d. lgs. 274/2000, non sia conforme alla direttiva 2008/115/CE, in quanto il sistema di sanzioni in concreto irrogabili, è idoneo a ritardare, e quindi ad ostacolare, la procedura di allontanamento e, di conseguenza, una politica realmente efficace del controllo dei flussi migratori nell'ambito dell'Unione Europea».

Da ciò conseguirebbe - sostiene il giudice a quo - l'obbligo del giudice di disapplicare la normativa interna in contrasto con la normativa comunitaria e quindi di assolvere entrambi gli imputati dal reato loro ascritto, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

La decisione è stata fatta oggetto di ricorso per Cassazione da parte della Procura generale di Milano; in attesa della pronuncia della Suprema Corte, si può ipotizzare che, qualora questa sposi la tesi del giudice remittente, si realizzerebbe una sorta di abolitio criminis della fattispecie di cui all'art. 10-bis (198).

In conclusione, nonostante la preoccupazione di non invadere la sfera penale di indiscutibile competenza degli Stati, le soluzioni recentemente adottate dalla Corte di giustizia nei casi El Dridi e Achughbabian, sembrano dimostrare una precisa intenzione della stessa a 'prendere sul serio' quel vincolo di bilanciamento tra istanze securitarie e istanze di garanzia che si evince chiaramente dall'art. 1 della 'direttiva rimpatri', sul quale è costruito l'intero sistema alla base della materia dei rimpatri, e che, dunque, dovrebbe orientare le scelte dei legislatori nazionali, oltre a quelle del legislatore europeo (199). In altre parole, senza volere mettere in discussione la piena discrezionalità degli Stati membri nel definire le scelte penali anche in materia di politiche migratorie, nonché la libertà di criminalizzare le condotte di ingresso e soggiorno irregolare - purché queste non incidano sull'effetto utile della direttiva -, la Corte di Lussemburgo pone l'accento sui molteplici vincoli che derivano al legislatore dal sistema delineato dalla direttiva (200).

La stessa direttiva, oggetto di asprissime critiche a livello europeo e internazionale, finisce per costituire un importante limite e condizionamento per il legislatore nazionale quanto al pieno rispetto dei diritti fondamentali del migrante. Ne è un esempio lampante la vicenda italiana.

Note

1. Data in cui è stato approvato il decreto legge n. 89/2011, recante disposizioni urgenti per il completamento dell'attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari.

2. C. Favilli, L'attuazione della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, in Rivista di diritto internazionale, 2011, p. 699.

3. Il termine per il recepimento della 'direttiva rimpatri' non fu rispettato da ben venti Stati membri su ventisette (Belgio, Bulgaria, Germania, Danimarca, Grecia, Francia, Italia, Cipro, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Ungheria, Malta, Olanda, Austria, Polonia, Romania, Slovenia, Finlandia e Svezia). Tutti questi Stati, il 27 gennaio 2011, hanno ricevuto una lettera di 'messa in mora' da parte della Commissione.

4. Ministero dell'interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, Protocollo 400/B/2010 del 17 dicembre 2010, consultabile sul sito dell'Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione.

5. Ivi, p. 2.

6. C. Favilli, L'attuazione della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, cit., p. 705.

7. Al tempo di emanazione della circolare, tutte le espulsioni erano immediatamente esecutive, sebbene sottoposte a gravame o impugnativa, ed eseguite mediante accompagnamento coattivo alla frontiera (art. 13 co. 4 T.U.I.), salva l'ipotesi di cui al comma 5 qualora si dovesse procedere all'espulsione dello straniero che si fosse trattenuto in Italia oltre sessanta giorni dalla scadenza del titolo di soggiorno, senza averne chiesto il rinnovo. In quest'ultimo caso il provvedimento conteneva l'intimazione a lasciare il territorio entro quindici giorni dalla notifica.

8. A questa curiosa formulazione della circolare si può obiettare che, notoriamente, deve essere la legislazione nazionale ad essere compatibile con il diritto dell'Unione europea e non viceversa.

9. Sul punto si veda: F. Vassallo Paleologo, Direttiva rimpatri e stato di diritto - Un commento alla luce della circolare Manganelli del 17 dicembre, del 7 gennaio 2011.

10. Art. 5, par. 1, CEDU: "Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: [...] (f) se si tratta dell'arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d'espulsione o d'estradizione".

11. F. Vassallo Paleologo, Direttiva rimpatri e stato di diritto - Un commento alla luce della circolare Manganelli del 17 dicembre, cit.

12. A questo proposito lo stesso art. 20, Direttiva 2008/115/CE, cit., stabilisce che «[g]li Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro il 24 dicembre 2010».

13. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza 11 novembre 1999, causa C-315/98, Commissione c. Italia, punto n.10.

14. Decreto legge 23 giugno 2011 n. 89, pubblicato in G.U. Il 23 giugno 2011 n. 144. Convertito in legge, con modificazioni, il 2 agosto 2011, n. 129, pubblicata in G.U. Il 5 agosto 2011 n. 181.

15. Si veda per questi aspetti: C. Favilli, L'attuazione della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, cit., p. 700. e G. Savio, Breve relazione introduttiva sulle differenze tra la direttiva rimpatri e la normativa italiana in materia di espulsioni amministrative, Seminario di Studi ASGI-MD, Verona, del 15 gennaio 2011.

16. G. Savio, Breve relazione introduttiva sulle differenze tra la direttiva rimpatri e la normativa italiana in materia di espulsioni amministrative, cit., p. 2.

17. Questa disposizione, come abbiamo visto, si applica allo straniero che si è trattenuto nel territorio italiano quando il permesso di soggiorno è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato richiesto il rinnovo.

18. F. Viganò e L. Masera, Illegittimità comunitaria della vigente disciplina delle espulsioni e possibili rimedi giurisdizionali, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2010, pp. 571-572.

19. Art. 7, par. 2, Direttiva 2008/115/CE, cit.: "Gli Stati membri prorogano, ove necessario, il periodo per la partenza volontaria per un periodo congruo, tenendo conto delle circostanze specifiche del caso individuale, quali la durata del soggiorno, l'esistenza di bambini che frequentano la scuola e l'esistenza di altri legami familiari e sociali".

20. Corte Costituzionale, sentenza n. 252/2001. La Corte costituzionale in questa sentenza ha affermato, facendo leva sull'art. 35 della Costituzione, che le cure urgenti, essenziali, ancorché continuative, previste dall'art. 35, co. 3, d. lgs. 286/1998, impediscono il rimpatrio dello straniero.

21. Art. 7, par. 3, Direttiva 2008/115/CE, cit.: "Per la durata del periodo per la partenza volontaria possono essere imposti obblighi diretti a evitare il rischio di fuga, come l'obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l'obbligo di dimorare in un determinato luogo".

22. G. Savio, Breve relazione introduttiva sulle differenze tra la direttiva rimpatri e la normativa italiana in materia di espulsioni amministrative, cit., p. 12.

23. Art. 10, co. 1, d. lgs. 286/1998: "La polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti dal presente testo unico per l'ingresso nel territorio dello Stato".

24. Art. 10, co. 2, d. lgs. 286/1998: "Il respingimento con accompagnamento alla frontiera è altresì disposto dal questore nei confronti degli stranieri: a) che sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all'ingresso o subito dopo; b) che nelle circostanze di cui al co. 1, sono stati temporaneamente ammessi per necessità di pubblico soccorso.

25. Art. 2, co. 2, lettera (a), Direttiva 2008/115/CE, cit.

26. Art. 2, co. 2, lettera (b), Direttiva 2008/115/CE, cit.

27. Art. 10-bis, d. lgs. 286/1998: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del presente testo unico nonché di quelle di cui all'articolo 1 della legge 28 maggio 2007 n. 68, è punito con l'ammenda da 5.000 a 10.000 euro".

28. C. Favilli, L'attuazione della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, cit., p. 701.

29. Camera dei deputati - Senato della Repubblica, Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'Accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e di vigilanza in materia di immigrazione, seduta del 14 aprile 2010, p. 11.

30. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 20011, Achughbabian, cit.

31. C. Favilli, La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di paesi terzi, cit. La conclusione proposta dall'autrice impone di interpretare restrittivamente l'art. 2, par. 2, lettera (b), escludendo dall'ambito di applicazione della direttiva gli stranieri «sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale» per un fatto diverso dal mero ingresso o soggiorno illegale nel territorio dello Stato, ancorché tale fatto venga configurato alla stregua di un reato dalla legislazione nazionale.

32. F. Viganò e L. Masera, Illegittimità comunitaria della vigente disciplina delle espulsioni e possibili rimedi giurisdizionali, cit., p. 586.

33. L'istituto dell'ordine questorile fu introdotto per la prima volta dalla legge 'Bossi-Fini' (legge n. 189/2002), la cui inosservanza fu da subito configurata come reato, sia pure contravvenzionale, per il quale era previsto l'arresto obbligatorio in flagranza. Tuttavia, non essendo consentita dal codice di procedure penale l'applicazione di misure cautelari personali per le contravvenzioni, la norma fu posta all'attenzione della Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 223/2004 ne dichiarò l'illegittimità costituzionale. Successivamente il governo varò un nuovo decreto legge (d.l. 241/2004), convertito nella legge n. 271 del 2004, trasformando le stesse condotte che erano considerate reato contravvenzionale in delitto punito da uno a quattro anni, e dunque capaci di comportare l'adozione di misure cautelari personali.

34. L. Masera, "Terra bruciata" attorno al clandestino: tra misure penali simboliche e negazione reale dei diritti, in O. Mazza e F. Viganò (a cura di), Il "Pacchetto sicurezza" 2009, 2009, p. IX.

35. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 28 aprile 2011, causa C-61/11, El Dridi.

36. F. Viganò e L. Masera, Illegittimità comunitaria della vigente disciplina delle espulsioni e possibili rimedi giurisdizionali, cit., p. 576.

37. Ivi, p. 577.

38. Cfr. A. Liguori, L'attuazione della direttiva rimpatri in Italia, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2011, 3, p.15 e A. Natale, La direttiva rimpatri, il testo unico immigrazione ed il diritto penale dopo la sentenza El Dridi, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2011, 2, p. 17.

39. Si veda, in proposito, il ricorso per Cassazione della Procura generale di Torino, del 9 dicembre 2011, avverso la sentenza del tribunale di Torino, del 5 gennaio 2011 e nella giurisprudenza di merito, Tribunale di Milano, ordinanza dell'11 febbraio 2011, entrambe in Diritto penale contemporaneo.

40. M. T. Collica, Gli effetti della direttiva rimpatri sul diritto vigente, in Diritto penale contemporaneo.

41. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 28 aprile 2011, El Dridi, cit.

42. In questo senso: Tribunale di Cagliari, sentenza del 14 gennaio 2011, in Diritto penale contemporaneo.

43. Tribunale di Torino, sentenza del 5 gennaio 2011; Tribunale di Torino, sentenza del 20 gennaio 2011; Tribunale di Nola, sentenza del 17 febbraio 2011. Si vedano inoltre: le note del Procuratore della Repubblica di Firenze del 18 gennaio 2011, del Procuratore della Repubblica di Lecce, del 10 febbraio 2011, del Procuratore della Repubblica di Roma, del 7 febbraio 2011 e del Procuratore della Repubblica di Milano, del 11 marzo 2011, in Diritto penale contemporaneo.

44. Tra questi si ricorda anche la Prima sezione penale della Corte di Cassazione, ordinanza n. 11050, del 8 marzo 2011, ricorso Ngagne, in Diritto penale contemporaneo.

45. A. Liguori, L'attuazione della direttiva rimpatri in Italia, cit., p. 18.

46. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 28 aprile 2011, El Dridi, cit.

47. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 30 novembre 2009, causa C-357/09, Kadzoev. Il caso riguardava la vicenda di un cittadino di paese terzo, arrestato da parte delle autorità bulgare perché privo di documenti di identità nei pressi della frontiera con la Turchia. Costui, che si dichiarava ceceno, viene immediatamente colpito da un provvedimento di accompagnamento coattivo alla frontiera, ma trattenuto nel Centro di permanenza temporanea, nell'attesa dell'esecuzione del decreto di espulsione, fino all'ottenimento di documenti con cui poter raggiungere il suo Paese di provenienza. In questa pronuncia, la Corte ha interpretato in senso restrittivo i termini massimi di detenzione previsti dalla 'direttiva rimpatri', includendovi, altresì, i periodi di trattenimento subiti primi dell'entrata in vigore della direttiva.

48. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 29 gennaio 2008, Saadi c. Regno Unito, ricorso n. 13229/03.

49. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 28 aprile 2011, El Dridi, cit., § 47, La corte, tuttavia, non spiega nel dettaglio perché tali norma debbano essere considerate chiare, precise e incondizionate come di consueto ha fatto nella sua tradizionale giurisprudenza.

50. Il 'principio dell'effetto utile' e quello di leale collaborazione (così come interpretato dalla Corte di giustizia: Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie) impongono agli Stati membri di adottare «ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione» e di astenersi «da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione», compresi quelli perseguiti dalle direttive anche se non recepite. Sul principio dell'effetto utile si veda: Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 14 ottobre 1999, causa C-223/98, Adidas.

51. C. Favilli, L'attuazione della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, cit., pp. 709-710.

52. M. T. Collica, Gli effetti della direttiva rimpatri sul diritto vigente, cit.

53. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 28 aprile 2011, El Dridi, cit., § 59, che rimanda alla presa di posizione dell'avvocato generale Mazak, presentata il 1º aprile 2011, punto n. 42: "La pena della reclusione prevista in caso di inottemperanza ad un ordine dell'autorità pubblica di lasciare il territorio nazionale nel termine prescritto impedisce obiettivamente, anche se solo temporaneamente, di eseguire tale decisione di rimpatrio. Ciò non è certamente compatibile con la politica di rimpatrio efficace prevista dalla direttiva 2008/115. Infatti, la normativa che prevede la pena in esame priva l'art. 8, n. 1, della direttiva 2008/115, letto in combinato disposto con l'art. 15 di detta direttiva, del suo effetto utile".

54. C. Favilli, L'attuazione della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, cit., p. 711.

55. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 28 aprile 2011, El Dridi, cit., § 52.

56. Mentre l'art. 14, comma 5-ter, commina una pena da uno a quattro anni.

57. Sulla scorta della sentenza El Dridi, la 'direttiva rimpatri' è stata alla base di numerosi ricorsi anche di fronte ai giudici amministrativi francesi: non con riguardo, tuttavia, alla fattispecie di inottemperanza dello straniero all'ordine di allontanamento, presente anche in Francia, bensì con riferimento alla fattispecie di ingresso e soggiorno irregolare nel territorio, che prevede la pena detentiva di un anno e una pena pecuniaria (articolo L 621-1 CESEDA). Sul punto L. D'Ambrosio, I rapporti tra diritto UE e legislazione penale francese in materia di immigrazione irregolare alla luce della sentenza El Dridi, in Diritto penale contemporaneo.

58. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 26 febbraio, causa C-152/84, Marshall; Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 14 luglio 1994, causa C-91/92, Faccini Dori.

59. In questo senso anche la Corte costituzionale, sentenza n. 170 del 1984.

60. C. Favilli, L'attuazione della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, cit., p. 715.

61. Corte di Cassazione, sezione penale I, sentenze 28 aprile 2011, nn, 1590/2011, 1595/2011, 1606/2011.

62. A. Natale, La direttiva rimpatri, il testo unico immigrazione ed il diritto penale dopo la sentenza El Dridi, cit., p. 20.

63. Ai sensi dell'articolo 1-ter, comma 13, legge n. 102 del 2009, "Nonpossono essere ammessi alla procedura di emersione prevista dal presente articolo i lavoratori extracomunitari: a) nei confronti dei quali sia stato emesso un provvedimento di espulsione ai sensi dell'articolo 13, commi 1 e 2, lettera c), del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e dell'articolo 3 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, e successive modificazioni; b) che risultino segnalati, anche in base ad accordi o convenzioni internazionali in vigore per l'Italia, ai fini della non ammissione nel territorio dello Stato; c) che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella pronunciata anche a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381 del medesimo codice".

64. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza del 10 maggio 2011, n. 7.

65. M. T. Collica, Gli effetti della direttiva rimpatri sul diritto vigente, cit.

66. Art. 673, co. 1, c.p.p.:"Nel caso di abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti".

67. A. Natale, La direttiva rimpatri, il testo unico immigrazione ed il diritto penale dopo la sentenza El Dridi. cit., 23.

68. Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, tale principio assume la forma di un vero e proprio diritto fondamentale dell'individuo, in base all'art. 7 CEDU: "Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso".

69. Questa è al tesi proposta da L. Masera, F. Viganò, Addio articolo 14, in Diritto penale contemporaneo.

70. Corte di Cassazione, sezione penale I, sentenza del 28 aprile 2011, n. 22105, Tourghi; Corte di Cassazione, sezione penale I, sentenza del 28 aprile 2011, n. 24009, Trajkovic.

71. La nota del 3 maggio 2011 è pubblicata in Diritto penale contemporaneo.

72. Si segnalano, a fini di completezza, ulteriori problematiche che a causa della disapplicazione dell'art. 14 co. 5-ter e 5-quater potrebbero porsi in fase esecutiva: lo scioglimento del provvedimento di esecuzione delle pene concorrenti ('cumulo'), nonché la possibile proposizione di incidente di esecuzione al fine di una rideterminazione della pena che era stata irrogata sulla base di recidive dovute a condanne per art. 14.

73. L. Masera, F. Viganò, Addio articolo 14, cit.

74. Art. 650 c.p. 'Inosservanza del provvedimenti dell'autorità': "Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d'ordine pubblico o d'igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 206".

75. L. Masera, F. Viganò, Addio articolo 14, cit.

76. Si tratta di un'impostazione che già negli anni '30 apparteneva al legislatore, il quale aveva inserito, proprio nel Testo Unico delle leggi in materia di pubblica sicurezza (R.D. n. 733/1931), un titolo interamente dedicato agli stranieri (Titolo V "Degli stranieri"), è ravvisabile anche oggi in alcune competenze in materia di regolamentazione dei flussi migratori attribuite al Ministero dell'interno e alle autorità locali di pubblica sicurezza.

77. Corte costituzionale, sentenza del 22 gennaio 2007, n. 22/2007.

78. Si veda anche, in L. Masera, F. Viganò, Addio articolo 14, cit., una possibile interpretazione restrittiva del concetto di ordine pubblico, diffusa tra la dottrina penalistica, come «assieme delle condizioni che garantiscono una convivenza sociale immune da violenza». Tale interpretazione permette di escludere, ancora, un'identità tra le ratio giustificatrici delle due norme.

79. A. Natale, La direttiva rimpatri, il testo unico immigrazione ed il diritto penale dopo la sentenza El Dridi, cit., 27.

80. Ivi, p. 29.

81. Art. 521, co. 1, c.p.: "Nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza né risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica".

82. Sul punto: C. Favilli, La direttiva rimpatri, ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di Paesi terzi, cit.

83. Corte costituzionale, ordinanza n. 369/1999.

84. Sezioni Unite della Cassazione penale, sentenza n. 29023 del 2001; Sezioni Unite della Cassazione penale n. 24468/2009.

85. Si ricorda che quanto affermato dalla Corte di giustizia nel caso El Dridi, era, in realtà, già stato prospettato in maniera quasi profetica, almeno un anno prima, da una parte della dottrina penalistica: F. Viganò e L. Masera, Illegittimità comunitaria della vigente disciplina delle espulsioni e possibili rimedi giurisdizionali, cit., pp. 561-562. Con riguardo all'art. 14, co. 5-ter e co. 5-quater, d. lgs. 286/1998, gli autori sostengono che trattasi di due delitti che intervengono a sanzionare l'inottemperanza ad un ordine che costituisce «parte integrante di una procedura di rimpatrio ai sensi della direttiva» (direttiva 2008/115/CE), perciò - continuano - la difformità di una simile procedura «rispetto almeno alle norme della direttiva dotate di effetto diretto determinerà l'illegittimità dello stesso provvedimento del questore la cui inottemperanza viene penalmente sanzionata, e/o del decreto di espulsione che ne costituisce il presupposto; con conseguente obbligo per il giudice penale di disapplicare il provvedimento medesimo». Il giudice dovrà, dunque, assolvere l'imputato per insussistenza di un presupposto del reato. Inoltre - ritengono gli autori - che tali delitti costituiscano una «sostanziale elusione» delle garanzie previste dalla direttiva, compromettendone lo stesso effetto utile, in violazione del principio di leale collaborazione.

86. Sul punto: C. Favilli, L'attuazione della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, cit., pp. 718 e G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2011, 3, p. 31.

87. A. Natale, La direttiva 2008/115/CE. Il decreto legge di attuazione n. 89/2011 - Prime riflessioni a caldo, in Diritto penale contemporaneo.

88. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 33.

89. Art. 13, co. 1, d.l gs. 286/1998: "Per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, il Ministro dell'interno può disporre l'espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato, dandone preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli affari esteri".

90. Considerando n. 6, Direttiva 2008/115/CE, cit.: "È opportuno che gli Stati membri provvedano a porre fine al soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi secondo una procedura equa e trasparente. In conformità dei principi generali del diritto dell'Unione europea, le decisioni ai sensi della presente direttiva dovrebbero essere adottate caso per caso e tenendo conto di criteri obiettivi, non limitandosi quindi a prendere in considerazione il semplice fatto del soggiorno irregolare (...)".

91. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 32.

92. Art. 13, co. 2, d. lgs. 286/1998: "L'espulsione è disposta dal prefetto, caso per caso, quando lo straniero: a) è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non è stato respinto ai sensi dell'articolo 10; b) si è trattenuto nel territorio dello Stato in assenza della comunicazione di cui all'articolo 27, comma 1-bis, o senza avere richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore, ovvero quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato o rifiutato ovvero è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo ovvero se lo straniero si è trattenuto sul territorio dello Stato in violazione dell'articolo 1, comma 3, della legge 28 maggio 2007, n. 68; c) appartiene a taluna delle categorie indicate nell'articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituito dall'articolo 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, o nell'articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall'articolo 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646".

93. Nei casi di soggiorni di breve durata, lo straniero, in luogo della richiesta del permesso di soggiorno, deve effettuare la dichiarazione di presenza o alla polizia di frontiera all'atto dell'ingresso (se l'ingresso è avvenuto da un Paese terzo) oppure alla questura in cui si trova, entro otto giorni dall'ingresso, nel caso in cui provenga da un altro Stato membro. Se lo straniero non effettua la dichiarazione di presenza o si trattiene nel territorio oltre tre mesi dall'ingresso (o il minor termine indicato nel visto d'ingresso) integra la violazione di cui all'art. 1, co. 3, l. 68/2007 che impone al prefetto l'adozione del decreto espulsivo.

94. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 33.

95. G. Savio, Codice dell'immigrazione, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2012, pp. 81-82.

96. Inoltre, è da notare che una simile disposizione sembra essere stata introdotta allo scopo di favorire la regolarizzazione di quegli stranieri presenti in Italia che, attraverso il decreto-flussi, potevano ottenere il nullaosta al rilascio del visto nel proprio paese d'origine e tornarvi per poi rientrare regolarmente in Italia. Essere fermati alla frontiera in uscita dal territorio nazionale avrebbe prodotto invece l'interruzione della procedura e dunque l'impossibilità di usufruire di questo strumento di sanatoria, come oggi è divenuto il decreto-flussi.

97. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 32.

98. Corte costituzionale, sentenza n. 161/2000.

99. Art. 14, co. 5, d. lgs. 286/1998: "La convalida comporta la permanenza nel centro per un periodo di complessivi trenta giorni".

100. G. Savio, Codice dell'immigrazione, cit. p. 121.

101. Nella previgente disciplina, ricordiamo che, l'unica ipotesi assimilabile alla concessione di un termine per la partenza volontaria era l'intimazione a lasciare il territorio nazionale entro quindici giorni, per chi avesse un permesso di soggiorno scaduto da più di sessanta giorni e per il quale non fosse stato richiesto il rinnovo nel termine prescritto dalla legge (art. 13 co. 5).

102. Appare apprezzabile il requisito della sussistenza del giustificato motivo, quale elemento negativo della fattispecie, in quanto questo dovrà essere oggetto di un'attenta valutazione da parte del giudice di pace, il quale dovrà riportare in motivazione le cause per cui ritiene o meno la sua esistenza. Vedi: A. Natale, La direttiva 2008/115/CE. Il decreto legge di attuazione n. 89/2011 - Prime riflessioni a caldo, cit., p. 8.

103. A. Natale, La direttiva 2008/115/CE. Il decreto legge di attuazione n. 89/2011 - Prime riflessioni a caldo, cit., p. 9.

104. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 36.

105. Art. 7, par. 4, Direttiva 2008/115/CE, cit.

106. Si ricorda che ai sensi della 'direttiva rimpatri', il rischio di fuga è presupposto sia dell'imposizione di determinati obblighi (come l'obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l'obbligo di dimorare in un determinato luogo), sia della mancata concessione di un termine per la partenza volontaria: perciò si deduce che tutte le volte in cui il rischio di fuga possa essere contenuto mediante l'applicazione di misure coercitive, dovrà, comunque, essere concesso un termine per la partenza volontaria; mentre qualora queste non siano idonee ad evitare il pericolo di fuga si opterà per l'allontanamento coattivo, nonché all'eventuale trattenimento. Si tratta, dunque, di un sistema improntato alla gradualità e alla proporzionalità per quanto concerne l'uso delle misure coercitive.

107. La mancata previsione dell'efficacia di un 'giustificato motivo' in ordine a tali violazioni, nonché l'assenza di adeguati criteri per l'accertamento delle stesse attribuiscono, peraltro un forte discrezionalità alle questure: P. De Pasquale, L'espulsione degli immigrati irregolari nell'Unione europea: a valle di El Dridi, in Il Diritto dell'Unione Europea, 2011, p. 933.

108. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 37.

109. In particolare, il mancato rispetto del termine per la partenza volontaria, la violazione di una delle misure di cui all'art. 13, comma 5.2., d. lgs. 286/1998 e l'inosservanza di un provvedimento di cui all'art. 14, d. lgs. 28671998 erano già comprese all'art. 13, co. 4 del testo unico, e pertanto capaci di determinare l'espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo di forza pubblica, senza che fosse necessario menzionarle nuovamente al momento della declinazione del rischio di fuga.

110. G. Savio, Codice dell'immigrazione, cit. p. 122.

111. Il passaporto potrebbe, infatti, non essere rinnovato per volontà dell'autorità diplomatica o consolare del Paese di provenienza, per cause indipendenti dagli interessi dello Stato italiano.

112. A. Natale, La direttiva 2008/115/CE. Il decreto legge di attuazione n. 89/2011 - Prime riflessioni a caldo, cit., pp. 10-11.

113. Si pensi per esempio al caso della locazione 'in nero'. Si ricorda, inoltre, che ai sensi dell'art. 12, co. 5-bis, T.U.I., chiunque dà alloggio o cede in locazione un immobile, a titolo oneroso, al fine di trarre un ingiusto profitto, a uno straniero privo del permesso di soggiorno è punito con la pena da sei mesi a tre anni. Aver configurato tale ipotesi alla stregua di un reato scoraggia, certamente, gli stranieri a fornire l'indirizzo del luogo di abitazione. Per non parlare, inoltre, dell'idoneità di una simile previsione a colpire le fasce più deboli degli immigrati, inducendoli a produrre falsa documentazione. Su quest'ultimo punto si veda: P. De Pasquale, L'espulsione degli immigrati irregolari nell'Unione europea: a valle di El Dridi, cit., p. 933.

114. G. Savio, Codice dell'immigrazione, cit. p. 123. Peraltro, anche semplice errori di trascrizione o traslitterazione potrebbero condurre al formarsi di 'precedenti di polizia' atti ad influenzare la successiva valutazione delle questure: P. De Pasquale, L'espulsione degli immigrati irregolari nell'Unione europea: a valle di El Dridi, cit., p. 934.

115. Art. 13, co. 5-bis, d. lgs. 286/1998: "Nei casi previsti al comma 4 il questore comunica immediatamente e, comunque, entro quarantotto ore dalla sua adozione, al giudice di pace territorialmente competente il provvedimento con il quale è disposto l'accompagnamento alla frontiera. L'esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento dal territorio nazionale è sospesa fino alla decisione sulla convalida".

116. Corte costituzionale, sentenza n. 105/2001: «l'accompagnamento inerisce alla materia regolata dall'art. 13 Cost., in quanto presenta quel carattere di immediata coercizione che qualifica, per costante giurisprudenza costituzionale, le restrizioni della libertà personale e che vale a differenziarle dalle misure incidenti solo sulla libertà di circolazione».

117. Corte costituzionale, sentenza n. 222/2004.

118. Art. 13, co. 8, d. lgs. 286/1998: "Avverso il decreto di espulsione può essere presentato ricorso all'autorità giudiziaria ordinaria. Le controversie di cui al presente comma sono disciplinate dall'art. 18 del decreto legislativo 1º settembre 2011, n. 150".

119. Corte costituzionale, ordinanze n. 485/2000 e 161/2000.

120. Art. 13, Direttiva 200871157CE, cit.: "1. Al cittadino di un paese terzo interessato sono concessi mezzi di ricorso effettivo avverso le decisioni connesse al rimpatrio di cui all'articolo 12, paragrafo 1, o per chiederne la revisione dinanzi ad un'autorità giudiziaria o amministrativa competente o a un organo competente composto da membri imparziali che offrono garanzie di indipendenza. 2. L'autorità o l'organo menzionati al paragrafo 1 hanno la facoltà di rivedere le decisioni connesse al rimpatrio di cui all'articolo 12, paragrafo 1, compresa la possibilità di sospenderne temporaneamente l'esecuzione, a meno che la sospensione temporanea sia già applicabile ai sensi del diritto interno".

121. Art. 13, co. 4, Direttiva 2008/115/CE, cit.: "Gli Stati membri provvedono a che sia garantita, su richiesta, la necessaria assistenza e/o rappresentanza legale gratuita ai sensi della pertinente legislazione o regolamentazione nazionale in materia e possono disporre che tale assistenza e/o rappresentanza legale gratuita sia soggetta alle condizioni di cui all'articolo 15, paragrafi da 3 a 6, della direttiva 2005/85/CE".

122. Art. 142, D.P.R. 115/2002.

123. Art. 13, co. 5, d. lgs. 286/1998: "Lo straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione, qualora non ricorrano le condizioni per l'accompagnamento immediato alla frontiera di cui al co. 4, può chiedere al prefetto, ai fini dell'esecuzione dell'espulsione, la concessione di un periodo per la partenza volontaria, anche attraverso programmi di rimpatrio volontario ed assistito, di cui all'art. 14-ter".

124. Le disposizioni sulla partenza volontaria non si applicano ai destinatari di un provvedimento di respingimento di cui all'art. 10, T.U.I. Così facendo, l'Italia ha profittato della clausola derogatoria prevista dalla direttiva 2008/115/CE, all'art. 2, par. 2, lettera (a).

125. Art. 7, par. 1, Direttiva 2008/115/CE, cit.

126. Art. 13, co. 5.1., d. lgs. 286/1998.

127. P. De Pasquale, L'espulsione degli immigrati irregolari nell'Unione europea: a valle di El Dridi, cit., p. 934.

128. G. Savio, Codice dell'immigrazione, cit. p. 124.

129. Ai sensi dell'art. 13, co. 5, T.U.I, il termine potrà essere prorogato tenuto conto delle circostanze specifiche del caso individuale, quali la durata del soggiorno, l'esistenza di minori che frequentano la scuola ovvero di altri legami familiari e sociali, nonché l'ammissione a programmi di rimpatrio volontario ed assistito, di cui all'art. 14-ter.

130. Ad una prima lettura, infatti, quella che nella 'direttiva rimpatri' è configurata come una garanzia finanziaria (art. 7, par. 3) è tramutata dal legislatore italiano in un presupposto, capace di eludere l'effetto utile della direttiva. Sul punto: A. Natale, La direttiva 2008/115/CE. Il decreto legge di attuazione n. 89/2011 - Prime riflessioni a caldo, cit., p. 6.

131. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 39.

132. Tale indagine potrà essere, tuttalpiù, giustificata dalla volontà di testare l'affidabilità dello straniero, anche in vista dell'adozione di una o più misure tra quelle previste nel proseguo del co. 5.2., art. 13, T.U.I.

133. P. De Pasquale, L'espulsione degli immigrati irregolari nell'Unione europea: a valle di El Dridi, cit., p. 935.

134. Si tratta di una previsione criminale che rientra nella consueta pratica del legislatore italiano di utilizzo del diritto penale nella materia dell'immigrazione, che difficilmente potrà essere eseguita, viste le intuibili condizioni economiche dello straniero irregolare.

135. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 40.

136. In realtà, ai sensi dell'art. 11, par. 1, è concessa agli Stati la facoltà corredare le decisioni di rimpatrio di un divieto di reingresso anche in altri casi ma, al fine di recepire il meccanismo premiale promosso dalla direttiva, tali casi andrebbero considerati eccezionali.

137. La disciplina sopravvenuta comporterà la riduzione automatica dei divieti decennali, previsti dalla previgente disciplina, a cinque anni con la conseguenza che, decorso il quinquennio, i divieti di reingresso che corredavano le espulsioni adottate anteriormente alla l. n. 129/2011 dovranno essere revocati: G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 40. Si veda le pronunce di assoluzione (perché il fatto non sussiste) del Tribunale di Roma (sentenza del 9 maggio 2011) e del Tribunale di Napoli (sentenza del 18 febbraio 2011), in Diritto penale contemporaneo.

138. G. Savio, Codice dell'immigrazione, cit. p. 131.

139. Così art. 13, co. 13, d. lgs. 286/1998. Si noti, inoltre, che ai sensi dell'art. 13, co. 13-bis, qualora lo straniero, che sia già stato denunciato per il reato di cui al co. 13 ed espulso, faccia reingresso sul territorio nazionale si applica la reclusione da uno a cinque anni. Per i reati previsti al co. 13 e 13-bis si prevede l'arresto obbligatorio in flagranza e si procede con rito direttissimo, davanti al tribunale in composizione monocratica.

140. Corte di appello di Milano, sezione III penale, ordinanza del 16 marzo 2012, n. 1190/11.

141. G. Savio, Codice dell'immigrazione, cit. p. 146.

142. Ai sensi dell'art. 14, co. 1, d. lgs. 286/1998: "Tra le situazioni che legittimano il trattenimento rientrano, oltre a quelle indicate all'articolo 13, comma 4-bis, anche quelle riconducibili alla necessità di prestare soccorso allo straniero o di effettuare accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità ovvero di acquisire i documenti per il viaggio o la disponibilità di un mezzo di trasporto idoneo".

143. A. Natale, La direttiva 2008/115/CE. Il decreto legge di attuazione n. 89/2011 - Prime riflessioni a caldo, cit., p. 15. Se si vuole adottare una interpretazione conforme al diritto dell'Unione europea - afferma l'autore - bisogna ritenere che debba sempre sussistere un rischio di fuga per legittimare il trattenimento (lettura suggerita oltretutto dalla lettera della norma: "tra le situazioni che legittimano il trattenimento rientrano, oltre [al rischio di fuga] anche quelle riconducibili alla necessità di...").

144. Ossia, ai sensi, dell'art. 15, par. 1, qualora sussista un rischio o il cittadino di un paese terzo evita od ostacola la preparazione del rimpatrio o dell'allontanamento.

145. De Pasquale, L'espulsione degli immigrati irregolari nell'Unione europea: a valle di El Dridi, cit., p. 936.

146. Art. 14, co. 3, d. lgs. 286/1998.

147. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 42.

148. Tuttavia, si può sempre sperare che le incompatibilità con la direttiva rimpatri vengano fatte valere ai fini di una disapplicazione, in chiave garantista, del diritto interno, visto e considerato, che la natura self-executing della norma che disciplina il trattenimento nella 'direttiva rimpatri' è già stata riconosciuta dalla Corte di giustizia nella sentenza El Dridi, cit., (par. 61).

149. Si tratta di un principio fondamentale più volte richiamato anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale ha affermato che il trattenimento di una persona sottoposta ad una procedura di espulsione non deve andare oltre un termine ragionevole, ossia non dovrà superare il tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito: cfr. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 29 gennaio 1998, Saadi c. Regno Unito, cit. (pronuncia richiamata anche dalla sentenza El Dridi, cit., al paragrafo 43).

150. Si veda sul punto: G. Savio, Codice dell'immigrazione, cit. p. 153.

151. A. Liguori, L'attuazione della direttiva rimpatri in Italia, cit., p. 25.

152. Si tratta delle stessa misure previste all'art. 13, co. 5.2., d. lgs. 286/1998, che vengono disposte nel contesto della partenza volontaria, dunque nei confronti di coloro per i quali non sussiste un rischio di fuga, in presenza del quale scatterebbe automaticamente l'art. 13, co. 4, T.U.I. Anche nel caso in esame, essendo disposte in alternativa al trattenimento, presuppongo l'assenza di un rischio di fuga, che altrimenti legittimerebbe il trattenimento nel C.I.E.

153. A. Natale, La direttiva 2008/115/CE. Il decreto legge di attuazione n. 89/2011 - Prime riflessioni a caldo, cit., p. 13.

154. Art. 14, co. 5-bis, d. lgs. 286/1998.

155. La lettera dell'art. 14, co. 5-bis, sembra in realtà contraddittoria dato che l'intimazione presuppone di per sé l'incapacità delle autorità di procedere ad un esecuzione coattiva del provvedimento.

156. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 44.

157. Art. 13, co. 5-ter, T.U.I.

158. Sempre che lo straniero non sia detenuto in carcere e dopo aver valutato se l'espulsione debba essere eseguita coattivamente (art. 13, co. 4) ovvero se possa essere concesso il termine per la partenza volontaria (art. 13, co. 5). Perplessità sussistono sulle effettive prospettive di concessione del termine per la partenza volontaria allo straniero che abbia già violato l'ordine del questore e che non abbia rispettato il termine precedentemente concesso: tuttavia, una simile ipotesi potrebbe verificarsi allorché nel procedimento per violazione dell'ordine emerga la sussistenza di un giustificato motivo.

159. L'art. 13, co. 3, T.U.I. disciplina la richiesta di nullaosta all'autorità giudiziaria.

160. A. Natale, La direttiva 2008/115/CE. Il decreto legge di attuazione n. 89/2011 - Prime riflessioni a caldo, cit., p. 20.

161. Stessa previsione è stata introdotta dalla legge 94/2009 nel caso di condanna per il reato di ingresso e soggiorno illegale (art. 10-bis).

162. G. Savio, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, cit., p. 46.

163. C. Favilli, L'attuazione della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, cit., p. 720.

164. La stessa Corte di giustizia, nella sentenza El Dridi, cit., ha affermato che il provvedimento di espulsione continua a produrre i propri effetti, anche dopo che la persona si stata rilasciata senza essere stata allontanata (par. 58).

165. Corte costituzionale, ordinanza n. 369 del 1999.

166. La Corte costituzione si è successivamente pronunciata anche con riferimento all'espulsione a titolo di misura alternativa prevista dall'art. 16, co. 5, T.U.I. nell'ordinanza n. 226 del 2004, nella quale ha affermato di non volersi discostare dalla pronuncia precedentemente resa con riguardo all'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva: anche in questo caso, infatti, ha negato la natura di sanzione penale, in quanto la disposizione si limita ad anticipare un esito di cui sussistono già le condizione e che, in sua assenza, andrebbe eseguito una volta ultimato il periodo di detenzione.

167. R. Raffaelli, La direttiva rimpatri e il reato di ingresso e soggiorno irregolare francese: principi ed effetti della sentenza Achughbabian nell'ordinamento italiano, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2011, 4, pp. 74-75. Gli aspetti problematici riguardavano l'individuazione della finalità della direttiva, il momento iniziale e finale della procedura di rimpatrio, l'ambito di applicazione dell'art. 2, par. 2, lettera (b) della direttiva, nonché il trattamento degli immigrati irregolari che non possono essere espulsi.

168. Fino ad allora la mera condizione di irregolarità dello straniero aveva costituito solo un illecito amministrativo. La scelta di non criminalizzare la pura condizione di illegalità degli stranieri era motivata sulla base di svariati elementi: motivazioni ideologiche, legate all'esperienza della recente emigrazione italiana; motivazioni di opportunità, in quanto la sanzione dell'allontanamento avrebbe permesso una miglior gestione dei flussi migratori; motivazioni di economicità della soluzione meramente espulsiva rispetto all'instaurazione di un procedimento penale. Sul punto: E. Lanza, Riflessioni sulla compatibilità del reato di immigrazione illegale con la Direttiva rimpatri, in Gli Stranieri, 2011, 3, p. 169; A Caputo, La condizione giuridica dei migranti dopo la legge Bossi-Fini, in Questione giustizia, 2002, p. 970.

169. La condotta tipica di questa seconda fattispecie non consiste, tuttavia, nel 'trattenersi' in violazione della legge, quanto nel 'non allontanarsi' in ottemperanza delle disposizioni che non consentono la permanenza in Italia: si tratta, pertanto, di un reato omissivo proprio ma, a differenza dei reati propri, non è previsto un termine entro il quale il destinatario dell'obbligo debba ottemperare al precetto normativo. Si tratta di un aspetto di non poco conto soprattutto nei casi di diniego di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno, visto che il reato potrebbe configurarsi, immediatamente, all'atto di notifica del provvedimento del questore che nega il permesso di soggiorno o il suo rinnovo, il ché obbligherebbe allo straniero di lasciare il territorio seduta stante. Trattandosi all'evidenza di una condotta inesigibile, è previsto l'art. 12, co. 2, D.P.R. 394/1999, che stabilisce che qualora il permesso di soggiorno sia rifiutato allo straniero è concesso un termine, non superiore a quindici giorni, per lasciare volontariamente il territorio dello Stato.

170. Ad esempio nel caso di configurabilità dei reati di reingresso dello straniero espulso, di cui agli artt. 13 e 13-bis T.U.I. che sono puniti con la reclusione e non con l'ammenda.

171. Art. 1, co. 1, T.U.I.: "Il presente testo unico, in attuazione dell'art. 10, secondo comma, della Costituzione, si applica salvo che sia diversamente disposto, ai cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europa e agli apolidi, di seguito indicati come stranieri".

172. Art. 10-bis, co. 2, T.U.I.

173. Così il Ministro dell'interno, Roberto Maroni, davanti al Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'Accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e di vigilanza in materia di immigrazione, seduta del 15 ottobre 2008. Il resoconto stenografico è reperibile sul sito della Camera dei deputati.

174. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 28 aprile 2011, El Dridi, cit.

175. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 2011, Achughbabian, cit.

176. A. Di Martino, F. B. Dal Monte, I. Boiano e R. Raffaelli, La criminalizzazione dell'immigrazione irregolare: legislazione e prassi in Italia, Pisa, Pisa University press, 2013, p. 41.

177. Come vedremo, si tratta di una misura precautelare privativa della libertà personale prevista dall'art. 62-2 Code de procédure pénale, assimilabile al nostro fermo di polizia.

178. Tale era la sanzione comminata dal reato di ingresso e soggiorno irregolare nell'ordinamento francese (art. L. 621-1 Code de l'entrée et du séjour des ètrangers et du droit d'asile).

179. Questa era la tesi sostenuta dai governi francese, tedesco ed estone nel corso del procedimento in Lussemburgo: essi ritenevano che la 'direttiva rimpatri' non avrebbe precluso alle autorità nazionali di applicare la pena detentiva per l'ingresso clandestino prima di adottare una decisione di rimpatrio.

180. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 2011, Achughbabian, cit., § 41.

181. Ivi, § da 46 a 49.

182. C. Favilli, Sentenza Achughbabiam - C-329/11, 6 dicembre 2011, reperibile sul sito dell'ASGI.

183. R. Raffaelli, La direttiva rimpatri e il reato di ingresso e soggiorno irregolare francese: principi ed effetti della sentenza Achghbabian nell'ordinamento italiano, cit., p. 78.

184. Giudice di Pace di Torino, sentenza del 22 febbraio 2011 e Giudice di Pace di Roma, sentenza del 16 giugno 2011, entrambe pubblicate in Diritto penale contemporaneo. Non è possibile, tuttavia, sapere quanti giudici si siano conformati a tale interpretazione, in quanto si tratta di decisioni prese dai giudici di pace, e per questo, di regola, non vengono pubblicate. In dottrina si veda: A. Natale, La direttiva 2008/115/CE. Il decreto legge di attuazione n. 89/2011 - Prime riflessioni a caldo, cit., p. 25.

185. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 2012, causa C-430/11, Sagor.

186. In questo caso la competenza era stata giustamente affermata dal Tribunale di Rovigo e negata in capo al giudice di pace (che normalmente sarebbe competente per la fattispecie di cui all'art. 10-bis d. lgs. 286/1998), poiché il reato in questione risultava connesso con quello previsto all'art. 6, co. 3, d. lgs. 286/1998, che rientra nella competenza dei tribunali. Tuttavia il procedimento a carico del sig. Sagor è stato successivamente cancellato dal ruolo per la parte riguardante il reato previsto da detto articolo 6, co. 3.

187. Tribunale di Rovigo, sezione distaccata di Adria, ordinanza del 15 luglio 2011.

188. Ipotesi espressamente prevista dall'art. 55, co. 5, d. lgs 274/2000.

189. Art. 16, co. 1, d. lgs. 286/1998 e art. 62-bis, d. lgs. 274/2000.

190. A differenza dell'art. L. 621-1 CESEDA (Code de l'entrée et du séjour des ètrangers et du droit d'asile) che prevedeva anche la detentiva.

191. Art. 10-bis, co. 5, T.U.I.: "Il giudice, acquisita la notizia dell'esecuzione dell'espulsione o del respingimento ai sensi dell'art. 10, comma 2, pronuncia sentenza di non luogo a procedere".

192. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 2012, Sagor, cit., § 35.

193. Ivi, § 40-41.

194. Ivi, § 46.

195. Corte di giustizia dell'Union europea, ordinanza del 21 marzo 2013, causa C-522/11, Mbaye. Sul punto si veda anche: Andrea Giliberto, Direttiva rimpatri: la Corte di giustizia UE conferma la propria giurisprudenza sull'art. 10-bis T.U. immigrazione, in Diritto penale contemporaneo.

196. F. Viganò, La Corte di giustizia UE su articolo 10-bis t.u. immigrazione e direttiva rimpatri, in Diritto penale contemporaneo. In senso contrario: G. Savio, La Direttiva n. 2008/115 sulle norme e procedure comuni sul rimpatrio di cittadini di paesi terzi in condizione irregolare e giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Questioni aperte riguardo alla normativa italiana in materia di espulsioni e trattenimenti alla luce della direttiva europea "rimpatri", seminario ASGI, 13 settembre 2013, Firenze. Savio ritiene che la permanenza domiciliare non si configuri come una misura ostativa all'esecuzione dell'allontanamento dello straniero sulla scorta di quanto di quanto sancito dal d. lgs. 274/2000. L'art. 53 del decreto specifica, infatti, che, nel caso di conversione della pena pecuniaria con l'obbligo di permanenza domiciliare, "il condannato non è considerato in stato di detenzione", pertanto la permanenza domiciliare non può ritenersi un ostacolo al rimpatrio del cittadino di paese terzo alla stregua del reato di 'clandestinità' francese che comminava la pena detentiva in carcere.

197. Tribunale di Monza, sentenza del 17 dicembre 2012, n. 2560/12.

198. L. Masera, Art. 10-bis e direttiva rimpatri dopo la sentenza Sagor della Corte di giustizia, in Diritto penale contemporaneo.

199. R. Sicurella, Il controllo penale dell'immigrazione irregolare: esigenze di tutela, tentazioni simboliche, imperativi garantistici, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2012, p. 1439.

200. Ivi, pp. 1440-1441.