ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
L'adozione della Direttiva 2008/115/CE ('direttiva rimpatri') nel contesto della politica in materia di immigrazione dell'Unione europea

Diana Genovese, 2013

Lotteremo assieme contro il terrorismo, la criminalità organizzata e l'immigrazione illegale (1).

Con questa enfatica espressione, pronunciata in occasione del cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma (2), nella Dichiarazione del 25 marzo 2007, si evince un chiaro impegno degli Stati membri dell'Unione europea al contrasto dell'immigrazione clandestina; si tratta di un obiettivo che, appena un anno dopo, si tradurrà in un generale principio di inammissibilità del soggiorno irregolare dei cittadini dei paesi terzi, sancito a livello comunitario con l'adozione della direttiva 2008/115/CE ('direttiva rimpatri') (3).

1. Il fenomeno dell'immigrazione in Europa

Il fenomeno dell'emigrazione, pur mutando nelle sua fisionomia e nelle sue particolarità a seconda del periodo storico in cui si manifesta e delle cause che lo genera, è sempre esistito in quasi tutte le latitudini del mondo.

In Europa, terra che per secoli ha prodotto emigranti per il resto del mondo, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, si assiste ad un'inedita inversione dei flussi migratori: il continente europeo si trasforma in pochi decenni da terra di emigrazione a terra di immigrazione.

La fine degli cinquanta si caratterizza infatti per una notevole diminuzione dei migrati europei diretti oltreoceano e, parallelamente, per l'ascesa di alcuni Stati europei come nuovi protagonisti della scena economica internazionale (4).

Tale inversione di tendenza trova le sue origini nella volontà di alcuni Stati europei tra cui la Francia, la Germania e il Regno Unito, ancora distrutti dal conflitto, di ricercare negli Stati del sud Europa e nelle vecchie colonie le braccia con cui ricostruire il proprio territorio (5): all'uopo furono messe in atto una serie di politiche volte a favorire e incoraggiare l'immigrazione di forza lavoro su larga scala.

La prima ondata di immigrazione, motivata per lo più dalla ricerca di un posto di lavoro, interessò in particolare la Francia, l'Inghilterra e l'Europa centrale, contribuendo in modo incisivo alla loro crescita economica: i lavoratori stranieri, infatti, incominciarono a svolgere la loro opera in quei settori che non esercitavano più alcuna attrattiva sulla popolazione autoctona (6), contribuendo altresì all'espansione di alcuni settori della produzione, come quello minerario e dell'industria pesante (7). In questa fase, dunque, il controllo delle frontiere e degli ingressi non aveva la rilevanza tutta politica che oggi invece possiede, né si sentiva l'esigenza di regolarli nel lungo periodo (8).

Tale ondata, già peraltro in recessione a causa della crisi economica che aveva indotto i Paesi europei a frenare il reclutamento di lavoratori stranieri, subì una forte battuta d'arresto a seguito della cosiddetta 'guerra del petrolio' (1973 - 74), che portò a prezzi stellari il costo del greggio. Nonostante tutti gli Stati si affrettassero a chiudere le proprie frontiere, si produssero comunque - anche se in numero inferiore - nuovi arrivi, proprio in quei paesi che presentavano un più alto tasso di presenza straniera, attraverso, in particolare, i ricongiungimenti familiari (9); non solo, la chiusura delle frontiere trasformò migliaia di migranti da temporaneamente soggiornanti a permanenti.

L'alternativa di un ritorno definitivo in Patria avrebbe infatti comportato una sicura dequalificazione professionale e un abbassamento generale della qualità della vita e dunque molti decisero di fermarsi (10).

Un'altra via tentata dai migranti per sfuggire al blocco delle frontiere è stata quella della richiesta di asilo: nel 1980 si registrano oltre 100.000 domande, per arrivare a 150.000 alla fine dello stesso anno. Un numero sicuramente inquietante per l'epoca, ma preoccupante anche per il cambiamento della fisionomia del richiedente, non più corrispondente a quello creatosi durante la Guerra Fredda sul modello dell'immigrato sfuggito da una dittatura comunista per raggiungere l'Ovest (11).

Questa ulteriore ondata di rifugiati fu all'origine di modifiche legislative in senso restrittivo nei Paesi maggiormente interessati dal fenomeno, come Germania, Francia e Svezia, dove proprio le cosiddette 'politiche di stop' da questi intraprese furono alla radice del notevole aumento di immigrazione irregolare (12).

Per la seconda ondata di immigrazione 'di massa', bisogna invece aspettare gli anni 90 del Novecento, dove gli stessi Stati periferici d'Europa che avevano dato origine alla prima ondata di emigrazione quali Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, diventarono essi stessi paesi di immigrazione. Invero, le misure stringenti adottate dai paesi del Nord Europa avevano scoraggiato l'arrivo di migranti extra-europei, i quali preferirono dirigersi, piuttosto, verso le coste de Sud Europa.

Queste due ondate migratorie presentano, tuttavia, caratteristiche abbastanza diverse: le cause che spingono a intraprendere un viaggio migratorio sono cambiate e probabilmente sono in stretta correlazione con il fenomeno della globalizzazione. La forbice tra le fasce più ricche e più povere della popolazione mondiale è in continuo aumento e la diffusione dei mezzi di comunicazione non ha fatto che renderlo evidente agli abitanti delle periferie del mondo, che decidono di muoversi alla ricerca di una qualità di vita migliore (o una qualità di vita peggiore in un luogo migliore), ad oggi più facilmente raggiungibile grazie al moltiplicarsi dei mezzi di trasporto e al loro costo decisamente più accessibile (13). Inoltre, rispetto alla precedente fase migratoria, si assiste ad una massiccia presenza di immigrati irregolari che trova le sue ragioni più profonde nella particolare economia mediterranea (14), più che nell'assenza di controlli adeguati, seppur innegabile (15).

Già da qualche decennio, l'Unione europea, conscia che le migrazioni sono una realtà che persisterà ancora per molto tempo o almeno fino a quando persisteranno i divari di ricchezza e di sviluppo tra le diverse regioni (16), sta mettendo in campo politiche per un'efficace gestione dei flussi migratori, un controllo 'armonizzato' delle frontiere esterne, nonché una permanente lotta all'immigrazione clandestina.

Attualmente il fenomeno migratorio verso l'Europa è in crescita e lo dimostra una recentissima comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo in cui sono riportati i dati relativi all'anno 2012 (17): si riscontra, infatti, un aumento dei richiedenti asilo del 10 % circa e una migrazione netta nell'UE, senza aggiustamenti statistici, pari a + 0,5 milioni, risultante di 1,2 milioni di emigranti e di 1,7 milioni di immigrati .

In particolare, il numero totale di domande di asilo è aumentato nel 2012 del 9,7% rispetto al 2011, raggiungendo un totale appena superiore a 330.000, a causa soprattutto di un maggiore afflusso di richiedenti asilo dalla Siria.

Per quanto riguarda l'immigrazione cosiddetta 'legale', i cittadini di paesi terzi che vivono nell'UE corrispondono al 4,1% circa della popolazione totale dell'Unione (20,7 milioni), percentuale superiore a quella dei cittadini UE che si sono trasferiti in un altro Stato membro (13,6 milioni, ossia il 2,7% della popolazione totale). Inoltre, nel 2011 i primi permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di paesi terzi sono stati quasi 2,5 milioni, il 30% dei quali rilasciati per motivi familiari, contro il 26% per attività remunerate, il 21% per motivi di studio e il 23% per motivi vari (protezione, soggiorno senza permesso di lavoro ecc.). La maggior parte sono stati rilasciati nel 2011 a cittadini di Ucraina (circa 204.000), Stati Uniti (circa 189.000), India (circa 179.000), Cina (circa 153.000) e Marocco (circa 120.000).

Per le statistiche riguardanti invece i migranti irregolari, è possibile prendere come riferimento le domande respinte, gli arresti e i rimpatri, ma con le dovute riserve: nel 2012 è stato rifiutato l'ingresso nell'UE a circa 316.060 persone, con una diminuzione dell'8% rispetto al 2011; la grande maggioranza (63%) dei respingimenti è stata registrata in Spagna, specialmente lungo le frontiere esterne. Sempre nel 2012 sono state fermate circa 427.195 persone (con una diminuzione rispetto alle 468.840 del 2011), mentre nel 2012 gli Stati membri hanno rimpatriato circa 186.630 cittadini di paesi terzi (il 4% circa in meno rispetto al 2011).

Nonostante, dunque, l'incompletezza e la poca attendibilità dei dati relativi all'immigrazione irregolare, appare evidente che questa sia ancora una componente importante delle migrazioni verso l'Europa.

2. Il contrasto all'immigrazione irregolare nell'Unione europea

La 'direttiva rimpatri' si inserisce, dopo lunghi anni di negoziati tra il Parlamento europeo e il Consiglio, sullo sfondo di una politica comunitaria, impegnata da qualche decennio nella lotta contro l'immigrazione clandestina: in particolare, il contrasto all'immigrazione irregolare è stato perseguito attraverso due direttrici parallele.

Da una parte attraverso le disposizioni che tendono ad armonizzare i controlli alle frontiere esterne degli Stati membri, le quali integrano la cosiddetta 'politica di gestione integrata delle frontiere' e svolgono una funzione preventiva dell'ingresso irregolare degli stranieri; dall'altra attraverso un sistema di disposizioni repressive, che, volte a sanzionare in modo uniforme l'immigrazione illegale, dovrebbero scoraggiare l'arrivo di nuovi migranti (18).

Tutte queste norme, nonostante i campi di applicazione parzialmente differenti (19), sono legate da un solo principio secondo il quale l'unica conseguenza del soggiorno e ingresso irregolare dello straniero sarà l'allontanamento dal territorio, nel rispetto dei diritti fondamentali e senza l'applicazione di alcuna sanzione (20).

2.1. La 'politica di gestione integrata alle frontiere'

Il percorso intrapreso dall'Unione europea nella lotta all'immigrazione clandestina si sviluppa dalla necessità di fornire una risposta coerente rispetto agli scopi che l'Unione si è prefissata negli ultimi decenni, in particolare, rispetto alla creazione di quello che viene chiamato lo 'Spazio di libertà, sicurezza e giustizia' (21) (SLSG), un'espressione, mutuata dal linguaggio politico, che indica l'insieme di tutte quelle regole riguardanti la libertà di circolazione delle persone, la cooperazione tra le autorità di polizia ed amministrative nonché la cooperazione giudiziaria in materia sia civile che penale (22).

Lo SLSG rappresenta una dimensione integrativa del mercato unico e definito come uno 'spazio senza frontiere interne' nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali (23).

È evidente che alla realizzazione della libera circolazione delle persone si sia parallelamente sviluppata un'azione sempre più incisiva con riguardo al controllo delle frontiere esterne dell'Unione Europea (24). La soppressione dei controlli nei confronti dei cittadini UE comportava, infatti, l'esigenza che tali procedure fossero abolite per tutti coloro che attraversavano le frontiere interne. Di conseguenza, ciò presupponeva necessariamente un'armonizzazione dei controlli alle frontiere esterne, delle regole comuni e rigorose che mettessero gli Stati membri nella condizione di accettare che il cittadino di un Paese terzo, entrato in qualsiasi altro Stato membro, potesse liberamente fare ingresso nel proprio territorio (25).

Se è stato, infatti, riconosciuto sia a livello internazionale (26), che a livello europeo (27), un diritto ad 'emigrare', non è previsto in nessuna fonte di diritto internazionale un diritto ad 'immigrare', né tanto meno un diritto di ingresso nell'Unione Europea per i cittadini dei Paesi terzi. Quest'ultimo tende, infatti, a scontrarsi inevitabilmente con il principio di sovranità dello Stato, cui compete la scelta di decidere chi può entrare e soggiornare sul proprio territorio.

Le frontiere, infatti, rappresentano non solo quel luogo dove si realizza il controllo e la politica di difesa dello Stato, ma anche quello spazio in cui si manifestano i valori e le idee che sottendono la gestione dello Stato (28). Per tali motivi, l'armonizzazione dei controlli alle frontiere esterne è stata conseguita attraverso un processo molto lento e caratterizzato da numerose tappe intermedie.

Vista la resistenza di certi Paesi, alcuni Stati si sono mossi inizialmente a livello intergovernativo con la sottoscrizione dell'Accordo di Schengen nel 1985 e la successiva Convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen (29) nel 1990: due atti che hanno permesso l'abolizione dei controlli sulle persone alle frontiere tra gli Stati firmatari e, di conseguenza, la creazione di una frontiera esterna unica, lungo la quale i controlli all'ingresso nello spazio Schengen vengono effettuati secondo procedure identiche (30).

Solo nel 1997, con la stipula del Trattato di Amsterdam (1997-1999), si è incorporato l'Accordo di Schengen e il cosiddetto 'acquis Schengen' nel sistema giuridico comunitario (31).

Si tratta di un risultato che è stato possibile raggiungere grazie ad un generale orientamento improntato alla flessibilità (32), il quale ha permesso al Regno Unito, all'Irlanda e alla Danimarca di non accettare il trasferimento di competenze in materia di immigrazione.

La materia relativa al controllo delle frontiere esterne è oggi regolata dall'art. 77 TFUE, il quale attribuisce all'Unione Europea una competenza molto ampia per lo sviluppo di una politica volta a garantire «l'assenza di qualsiasi controllo sulle persone, a prescindere dalla nazionalità, all'atto dell'attraversamento delle frontiere interne», «il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell'attraversamento delle frontiere esterne», nonché la progressiva instaurazione di «un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne» (33). Il potere di adozione di misure in questa materia, dirette a realizzare gli obiettivi appena richiamati, è conferito al Consiglio e al Parlamento europeo secondo la procedura legislativa ordinaria.

Tra queste misure spicca il 'Codice frontiere Schengen', adottato con il Regolamento n. 562/2006 (34), che fissa le regole che devono essere seguite dalle autorità di tutti gli Stati membri sui controlli di frontiera. Il regime normativo instaurato con tale atto presuppone una distinzione tra frontiere esterne e frontiere interne (35).

L'attraversamento delle frontiere interne non può comportare alcun tipo di controllo, salvo questo sia giustificato da una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza interna (36). In questo caso eccezionale di ripristino del controllo delle frontiere interne, la procedura da seguire è quella delineata dall'art. 24 del 'Codice frontiere Schengen', applicabile quando sia conosciuta o prevedibile la grave minaccia all'ordine pubblico o alla sicurezza; in particolare, è necessaria una previa comunicazione da parte dello Stato che intende attuare questa misura agli altri Stati UE e alla Commissione nella quale si deve indicare la durata della misura, le frontiere cui è applicata, i controlli previsti e ogni altro dato utile. A questo punto la Commissione può emettere un parere ai fini di una consultazione tra lo Stato membro interessato, gli altri Stati membri e la Commissione stessa per l'esame della misura da intraprendere. Tuttavia, quando ai sensi dell'art. 25 i motivi di ordine pubblico o di sicurezza interna siano urgenti, lo Stato membro che intende ripristinare i controlli può farlo immediatamente, avvertendo gli altri Stati membri e la Commissione solo in un successivo momento.

La disciplina del ripristino dei controlli alle frontiere interne è attualmente al centro di un dibattito che ne propone un generale ripensamento a causa dei flussi massicci verso l'Europa che si sono prodotti in seguito alle rivoluzioni in Nord Africa tra il 2010 e il 2011. Le maggiori tensioni si sono verificate, in particolare, tra Italia e Francia, nel momento in cui quest'ultima ha disposto la chiusura del confine di Ventimiglia per evitare l'ingresso di tunisini a cui l'Italia aveva concesso un permesso di soggiorno temporaneo (37). La questione verteva, sostanzialmente, sulla possibilità di estendere la nozione di 'minaccia grave all'ordine pubblico o alla sicurezza' fino a ricomprendervi anche l'afflusso considerevole di immigrati. A questo proposito la Commissione ha elaborato una proposta, con la quale attribuisce a se stessa la competenza esclusiva (38) a decidere sul ripristino dei controlli alle frontiere interne in caso di 'carenze gravi e persistenti' da parte di uno Stato membro nei controlli delle frontiere esterne dell'Unione o nelle procedure di rimpatrio (39) e, parallelamente, prevede un sistema di valutazione e monitoraggio al fine di verificare l'applicazione dell'acquis di Schengen (40).

Per quanto concerne invece il controllo alle frontiere esterne, questo si differenzia a seconda che avvenga nei confronti di quei soggetti che godono del diritto alla libera circolazione nel territorio dell'Unione europea oppure nei confronti di cittadini di Paesi terzi. Per i primi il controllo sarà minimamente incisivo e finalizzato unicamente ad accertarne l'identità tramite la verifica della validità del documento di viaggio e dell'assenza di indizi di falsificazione. Dall'altra i cittadini dei Paesi terzi sono sottoposti a tutta una serie di controlli che includono la verifica del possesso di un documento di viaggio e del visto, laddove richiesto e controlli riguardanti lo scopo del soggiorno e la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti; inoltre sono previste delle verifiche volte ad evitare l'ingresso di soggetti che costituiscano una minaccia per l'ordine pubblico, la sicurezza interna o che comunque siano stati segnalati ai fini della non ammissione (41). Se un cittadino di un Paese terzo, tuttavia, non rispetta tali condizioni per l'ingresso nel territorio UE è suscettibile di respingimento, salvo l'applicazione di disposizioni particolari relative al diritto di asilo, alla protezione internazionale o al rilascio di visti per soggiorno di lunga durata.

2.1.1. L'Agenzia FRONTEX e le squadre di intervento immediato

Un altro sviluppo della 'politica di gestione integrata delle frontiere' è costituito dall'istituzione dell'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa delle frontiere, il FRONTEX, nonché dalle squadre di intervento rapido alle frontiere esterne (RABIT).

L'Agenzia, istituita nel 2004 (42) con sede a Varsavia, è operativa dal 1º maggio 2005 ed è tesa a semplificare e rendere più efficace «l'applicazione delle misure comunitarie vigenti e future relative alla gestione delle frontiere esterne garantendo il coordinamento delle azioni intraprese dagli Stati ai fini dell'applicazione di tali misure, contribuendo in tal modo a un livello efficace, elevato e uniforme di controllo». Sebbene, infatti, il controllo delle frontiere esterne resti prerogativa degli Stati membri, si è avvertita l'esigenza di istituire un organismo con la funzione di coordinare l'attività di controllo degli stessi, anche organizzando operazioni comuni, nonché di realizzare, più in generale, una cooperazione operativa tra tutti i paesi (43).

In particolare, l'Agenzia fornisce assistenza agli Stati in materia di ricerca, formazione delle guardie di frontiera, organizzazione di operazioni di rimpatrio congiunte nonché sostegno per la gestione di circostanze che richiedono un'assistenza tecnica e operativa rafforzata alle frontiere esterne (44).

Tale ultima funzione è stata realizzata più efficacemente grazie all'istituzione, nel 2007, delle squadre RABIT (Rapid Border Intervention) (45).

Le criticità emerse nel corso dei primi anni di vita di Frontex hanno, tuttavia, spinto la Commissione a proporre una modifica della disciplina (46), la quale è stata adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio, rispettivamente nel settembre e nell'ottobre del 2011 (47), in seguito ad una lunga negoziazione volta ad assicurare l'introduzione di elementi che garantissero un maggior rispetto dei diritti umani da parte dell'Agenzia. Ciò è stato dovuto in particolar modo all'azione del Parlamento europeo che ha spinto per una maggior trasparenza delle operazioni di Frontex e per un rafforzamento della tutela dei diritti umani. Simili modifiche hanno imposto, o meglio esplicitato, l'obbligo di rispettare i diritti sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, il diritto internazionale pertinente, fra cui la Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status di rifugiato, nonché gli obblighi inerenti alla protezione internazionale (48).

In passato, infatti, l'Agenzia ha attirato le denunce di alcune organizzazioni non governative attive nella tutela dei diritti umani, sia per il modus operandi in generale nelle operazioni congiunte di rimpatrio (49), ma anche in relazione al dispiegamento delle forze RABIT nel 2010 in Grecia (50).

Con riguardo alle operazioni congiunte in mare, si segnalano anche le critiche sollevate a livello istituzionale dal Parlamento europeo (51) con riguardo alla violazione del principio di non-refoulement e del divieto di espulsioni collettive.

In prospettiva di una maggior tutela dei diritti fondamentali, il Parlamento aveva proposto l'introduzione di un Comitato Consultivo dei diritti fondamentali, un organismo esterno ed indipendente, che fosse composto dai rappresentanti di alcune organizzazioni, come l'Ufficio europeo per il sostegno all'asilo, l'Agenzia per diritti fondamentali e l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, e dotato di poteri incisivi, come la possibilità di far cessare le operazioni in caso di violazione dei diritti umani o di accedere a tutte le informazioni sulla operazioni condotte da Frontex (52). Tuttavia tale proposta non ha trovato il consenso del Consiglio, il quale ha preferito optare per l'istituzione di un 'forum consultivo', con il compito di esprimere pareri e assistere il direttore e il consiglio di amministrazione nelle questioni relative ai diritti umani; inoltre, la composizione e le modalità di lavoro di tale organo, così come le decisioni concernenti la sospensione delle operazioni, sono rimesse alla decisione totalmente discrezionale del Consiglio di amministrazione di Frontex.

In caso di violazione dei diritti umani, uno dei punti più controversi è senza dubbio il riparto di responsabilità tra Stati membri e Frontex nelle operazioni esterne in cui l'Agenzia è coinvolta (53).

In particolare, i dubbi si pongono nel caso di intervento delle Squadre europee di guardia di frontiera, le quali, ai sensi dell'art. 3-quater del Regolamento n. 1168/2011, seguono le istruzioni fornite dallo Stato ospitante conformemente al piano operativo. Dall'altra parte, l'art. 10, par. 10, stabilisce che i provvedimenti di respingimento ai sensi dell'art. 13 del 'Codice frontiere Schengen' siano adottati solo dalle guardie di frontiera dello Stato membro ospitante.

Occorre capire a questo punto se, in caso di violazione dei diritti umani da parte di tali agenti distaccati di Stati partecipanti, la responsabilità sia da attribuirsi unicamente allo Stato ospitante, secondo l'art. 6 del Progetto sulla responsabilità degli Stati del 2001 (che riguarda il comportamento di organi messi a disposizioni di uno Stato da un altro) (54) o se lo Stato ospitante debba essere ritenuto responsabile per 'direzione e controllo', ai sensi dell'art. 17 dello stesso progetto (55). Invero, far ricadere la fattispecie nell'una o nell'altra previsione non è di poco conto, considerato che nell'ultimo caso, alla responsabilità dello Stato che dà le istruzioni, si affianca quella dello Stato che le riceve. Alcuni ritengono, a tal proposito, che non sussisterebbe un esclusivo potere di 'direzione e controllo' da parte dello Stato ospitante sugli agenti distaccati, non solo perché rimarrebbe comunque in capo agli Stati, che hanno inviato le guardie di frontiera, il dovere di sospendere la partecipazione in caso di violazione dei diritti umani, ma anche perché il piano operativo viene stilato da Frontex di concerto con lo Stato ospitante; per questi motivi si dovrebbe quanto meno affermare una responsabilità derivata di Frontex (e dunque dell'Unione europea, se si aderisce alla tesi secondo la quale attualmente l'Agenzia non sarebbe dotata di un'autonoma soggettività giuridica internazionale) per l'assistenza operativa ed economica prestata ai sensi dell'art. 3-ter. L'Unione potrebbe, dunque, per effetto dell'art. 14 del Progetto sulla responsabilità delle Organizzazioni internazionali del 2011, rispondere a titolo di complicità, se non direttamente nel caso particolare in cui il direttore esecutivo non sospenda o concluda le operazioni in presenza di 'violazioni gravi o destinate a persistere' (56).

La revisione del regolamento avvenuta nel 2011 ha senz'altro apportato alcune modifiche positive, tra cui numerosi riferimenti normativi con riguardo al rispetto dei diritti umani, un codice di condotta (57) e la creazione di un 'Responsabile dei diritti umani': queste non sembrano tuttavia costituire delle misure sufficienti per prevenire o porre rimedio alle eventuali violazioni dei diritti che si potrebbero produrre durante tali operazioni congiunte (58).

2.2. La disciplina repressiva dell'immigrazione irregolare

L'altra grande direttrice percorsa dall'Unione europea nel contrasto all'immigrazione clandestina è stata quella del riavvicinamento delle legislazioni nazionali con riguardo alle incriminazioni e alle sanzioni da adottare nei confronti di chi pone in essere condotte di favoreggiamento dell'ingresso e del soggiorno irregolare (59).

Una prima tipologia di condotte è stata presa in considerazione dalla direttiva 2002/90/CE (60) e dalla decisone quadro 2002/946/GAI (61), volte entrambe a rafforzare la repressione in materia penale del favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegale.

La direttiva in oggetto impone agli Stati di sanzionare: (a) chiunque intenzionalmente aiuti una persona che non sia cittadino di uno Stato membro ad entrare o a transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa all'ingresso o al transito degli stranieri; (b) chiunque intenzionalmente aiuti, a scopo di lucro, una persona che non sia cittadino di uno Stato membro a soggiornare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa al soggiorno degli stranieri (62). Le condotte colpite sono anche quelle del tentativo, istigazione e complicità nel favoreggiamento. Le sanzioni sono previste invece dalla decisione quadro (63), la quale si limita a richiedere che queste siano effettive, proporzionate e dissuasive, indicando come facoltative misure accessorie, quali la confisca del mezzo di trasporto utilizzato per commettere il reato, il divieto di continuare ad esercitare l'attività professionale svolta e l'espulsione (64). Un'importante previsione, ai fini dell'armonizzazione della materia, è l'obbligo per gli Stati di adottare misure affinché possano essere dichiarati responsabili di tali illeciti anche le persone giuridiche, per le quali si applicheranno specifiche sanzioni (65).

2.2.1. Le sanzioni contro i datori di lavoro che impiegano migranti irregolari: la direttiva 2009/52/CE

Sebbene legate alla materia del lavoro, le sanzioni nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi irregolari sono state ricondotte alla materia dell'immigrazione, trovando la loro base giuridica nell'art. 63 TCE (66). In effetti, si è notato che la possibilità di trovare e mantenere un lavoro, pur non avendo un titolo di soggiorno, costituisce un'importante fattore di richiamo per l'immigrazione irregolare: si tratta di un fenomeno che oltre a favorire l'irregolarità negli spostamenti verso l'Europa, è dannosa anche per concorrenza tra gli Stati e per il mercato del lavoro (67). Considerato questo rapporto di interdipendenza, l'Unione europea ha adottato la direttiva 2009/52/CE (68) la quale vieta esplicitamente l'impiego di «cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare» (69). Dunque, l'unica condizione per la sua applicazione è il carattere irregolare della presenza del migrante. Ai sensi dell'art. 3, per «datore di lavoro» si intende non solo le persone fisiche e giuridiche che impiegano manodopera nell'esercizio delle loro attività, ma anche singoli cittadini che agiscono in qualità di lavoratori, come chi assume collaboratori domestici, ossia quei migranti che costituiscono buona parte dell'immigrazione irregolare (70).

Al fine di rafforzare tale divieto sono previsti, all'art. 4, tutta una serie di obblighi a carico del datore di lavoro: richiedere e controllare dei documenti che autorizzano al soggiorno il cittadino di un paese terzo, prima di assumerlo; tenere, almeno per la durata dell'impiego, una copia o registrazione del permesso di soggiorno o altra autorizzazione di soggiorno a disposizione delle autorità competenti degli Stati membri, a fini di un'eventuale ispezione; informare, entro un termine fissato da ciascuno Stato membro, le autorità competenti, designate dagli Stati membri, dell'inizio dell'impiego di un cittadino di un paese terzo.

In caso di violazione di tali obblighi, saranno applicabili sanzioni finanziarie, amministrative e penali: quelle finanziarie dovranno essere proporzionate al numero di cittadini di paesi terzi impiegati e potranno essere ridotte laddove l'impiego sia avvenuto a fini privati e «non sussistano condizioni di particolare sfruttamento» (71), mentre quelle amministrative potranno comportare l'esclusione dal beneficio di prestazioni e sovvenzioni pubbliche. Per quanto riguarda le sanzioni penali, queste potranno essere applicate nelle ipotesi previste dall'art. 9, le quali se intenzionali dovranno essere previste dallo Stato come fattispecie di reato: violazioni ripetute, impiego di un numero elevato di immigrati irregolari, sfruttamento, consapevolezza che il lavoratore è vittima della tratta di esseri umani e impiego di minori.

La direttiva non stabilisce, invece, nessuna sanzione per il migrante irregolare, la cui posizione è ampiamente tutelata dalla previsione che obbliga il datore di lavoro a versare ai cittadini di paesi terzi tutte le retribuzioni arretrate, nonché i contributi previdenziali e i costi derivanti dal trasferimento di dette somme al paese di provenienza del lavoratore dove sia tornato (72).

3. Il rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi in posizione irregolare

L'Unione europea, parallelamente alla sua azione in materia di controlli alle frontiere esterne e di repressione dell'immigrazione clandestina, ha sviluppato nel tempo una politica complementare cosiddetta 'de retour' ('di rimpatrio'), con lo scopo di allontanare dal territorio degli Stati membri i migranti irregolari (73). Tra la fine dell'anno 1999 e i primi anni del 2000, le istituzioni europee iniziarono a pensare al rimpatrio come l'unica conseguenza possibile all'ingresso e al soggiorno irregolare dei cittadini di paesi terzi, in quanto si riteneva costituisse un efficace deterrente l'arrivo di nuovi migranti.

Al centro di questa politica vi è la direttiva 2008/115/CE ('direttiva rimpatri'), uno strumento mirante ad armonizzare a livello europeo la complessa materia dei rimpatri con l'intento di scongiurare il dumping normativo prodotto dalla differente gestione dei flussi migratori negli Stati membri (74).

3.1. La competenza dell'Unione europea in materia di visti, immigrazione e asilo

Per molti anni la disciplina dei visti, immigrazione e asilo è stata oggetto di accordi conclusi tra alcuni Stati membri del sistema comunitario nell'ambito di una cooperazione rafforzata (Accordo di Schengen e la successiva Convenzione).

Solo con il Trattato di Amsterdam, sono state invece attribuite alla Comunità ampie competenze in materia di immigrazione e asilo, facendo venir meno quel compromesso a cui si era giunti nel contesto del precedente trattato. Nel Trattato di Maastricht (1992-1993), infatti, la competenza in materia di visti, asilo e immigrazione era stata ricondotta nell'ambito della cooperazione GAI, noto come 'terzo pilastro', il quale aveva trovato il consenso degli Stati per le particolari procedure decisionali caratterizzate dall'unanimità in seno al Consiglio e dal ruolo esclusivamente consultivo del Parlamento europeo (75). Nel 1997 (76), la cooperazione GAI venne ripartita tra 'primo pilastro' nel Titolo IV TCE (Circolazione delle persone, frontiere, visti, asilo, immigrazione e cooperazione giudiziaria in materia civile) e 'terzo pilastro' nel Titolo VI TUE (cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).

Nel Trattato di Amsterdam veniva, inoltre, previsto un periodo transitorio di cinque anni per la realizzazione delle misure per l'eliminazione dei controlli alle frontiere esterne.

Già nel 1999, all'interno del Consiglio europeo straordinario di Tampere, tenutosi nei giorni 15 e 16 ottobre, nell'intento di creare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, vennero individuate quelle che dovevano essere le linee guida dell'UE nella prima fase di sviluppo delle politiche di immigrazione (1999-2004). In effetti, il Consiglio ammise che la libertà di circolazione che caratterizza lo spazio della Comunità fungeva da innegabile attrattiva per quanti non potessero beneficiare di un simile privilegio nel mondo, producendo per evidenti ragioni economiche, sociali e di stabilità politica, l'effetto di un «magnete» (77).

In tale occasione si riconobbe le necessità, da una parte di «garantire l'equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente in uno Stato membro» e, dall'altra di «affrontare alla radice l'immigrazione illegale, soprattutto contrastando coloro che si dedicano alla tratta di esseri umani e allo sfruttamento economico dei migranti» (78).

Per questi motivi, il Consiglio invitava gli Stati all'assistenza ai Paesi di origine «al fine di promuovere il rientro volontario e di aiutare le autorità di tali paesi a rafforzare la loro capacità di combattere efficacemente la tratta degli esseri umani e di adempiere i loro obblighi di riammissione nei confronti dell'Unione e degli Stati membri», nonché alla conclusione di accordi riammissione con gli stessi.

Con il Trattato di Lisbona, l'Unione europea ha, infine, acquisito piena competenza in tutti gli aspetti della politica dei visti, asilo e immigrazione, definita adesso come 'comune', nell'intento di superare progressivamente le difficoltà di armonizzazione che avevano caratterizzato l'era Post-Amsterdam (79). Un risultato che, ad oggi, come si vedrà discutendo la 'direttiva rimpatri', non si può certo dire raggiunto.

3.2. Gli accordi di riammissione

Uno degli strumenti che sono stati messi in campo, al fine di facilitare la cooperazione con gli Stati terzi per il rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi illegalmente soggiornanti, sono gli accordi di riammissione. Dietro questa scelta vi è la consapevolezza che senza una (attiva) collaborazione dello Stato di cittadinanza del migrante irregolare, il rimpatrio incontra nella pratica molte più difficoltà (80). Sussiste, infatti, una norma di diritto internazionale generale (81) che impone allo Stato di riammettere il proprio cittadino su richiesta di un altro Stato; permangono, tuttavia, le problematiche legate all'accertamento della nazionalità dell'individuo e all'eventuale assenza di collaborazione dello Stato, in quanto l'obbligo non è coercibile.

L'Unione europea ha deciso di avvalersi di tali strumenti nel contesto della lotta all'immigrazione clandestina, armonizzando il contenuto degli accordi bilaterali già sperimentati dagli Stati membri nelle relazioni con altri Stati terzi (82). Si tratta di uno strumento preferibile rispetto ad altre procedure di allontanamento, in quanto da una parte si tende a 'sfruttare' la cooperazione dello Stato terzo e dall'altra si fanno ricadere sullo stesso le conseguenze delle sue mancanze nel controllo dei flussi migratori (83)

Il primo vero e proprio atto di armonizzazione in questa materia ha riguardato gli aspetti procedurali e formali dell'accordo di riammissione: nella raccomandazione del 30 novembre 1994 (84) si è indicato un modello 'standard' di accordo bilaterale cui gli Stati avrebbero dovuto fare riferimento nei negoziati per i nuovi accordi. La forma bilaterale rispondeva meglio alle esigenze degli Stati, in quanto le procedure di elaborazione erano meno impegnative rispetto a quelle degli accordi multilaterali; inoltre, la procedura era molto breve perché si concedeva allo Stato un termine massimo di quindici giorni per rispondere alla domanda di riammissione (85).

Tuttavia, con il trasferimento delle competenze in materia di immigrazione all'Unione, avvenuto con la sottoscrizione del Trattato di Amsterdam, le istituzioni europee hanno cominciato a concludere veri e propri accordi comunitari di riammissione (oggi tale competenza è attribuita espressamente dall'art. 79, par. 3, TFUE, e già in precedenza esercitata in base all'art. 63, par. 3, lett. (b), combinato con l'art. 300, par. 2, TCE) (86).

Tali accordi prevedono, nella loro formulazione più semplice, l'obbligo di ciascuna parte di riammettere, su richiesta dell'altra, i propri cittadini, presenti nel territorio del richiedente, che non soddisfino o non soddisfino più le condizioni di ingresso e di soggiorno applicabili in quel territorio. Presupposto per la riammissione è la cittadinanza, che sarà accertata tramite una serie di documenti predeterminati, nonché presunta sulla base di alcuni elementi, quali, ad esempio, la carta di immatricolazione, le patenti o i certificati di nascita.

Visto l'aumentare dell'arrivo di migranti negli ultimi decenni, negli accordi è stata prevista altresì la riammissione di cittadini in situazione irregolare in possesso, almeno al momento dell'ingresso nel territorio della parte richiedente, di un visto o di un permesso di soggiorno validi rilasciati dalla parte richiesta, ovvero di coloro che siano entrati «irregolarmente e indirettamente» dal territorio dello Stato richiesto (87).

Occorre, infine, soffermarci sul carattere della competenza a concludere accordi di riammissione da parte dell'Unione europea, se esclusiva o concorrente: nel primo caso agli Stati membri non spetterebbe più la facoltà di concludere accordi di riammissione, mentre nel secondo la competenza rimarrebbe in capo agli Stati, seppure nel principio di leale cooperazione di cui all'art. 4, par. 3 TUE (88). Secondo una certa dottrina (89), si dovrebbe preferire l'opinione che afferma la sussistenza di una competenza concorrente, visto lo stesso carattere di quella in materia di immigrazione e il principio del parallelismo delle competenze a stipulare accordi, quale risulta dall'art. 3, par. 2, TUE; inoltre, conferma di ciò vi è nella prassi, ove ininterrotto è l'esercizio da parte degli Stati di tale competenza.

3.3. Il lungo processo di adozione della 'direttiva rimpatri'

Prima di analizzare il testo della direttiva 2008/115/CE è utile fare qualche passo indietro: occorre infatti prendere in considerazione alcuni atti adottati dall'Unione europea (90), con i quali sono state poste le basi perché venisse realizzata, qualche anno dopo, una «politica di rimpatrio efficace» quale strumento necessario per una politica d'immigrazione correttamente gestita (91).

Le difficoltà riscontrate nella predisposizione di uno strumento di armonizzazione a livello europeo in tale settore hanno dilatato notevolmente i tempi di adozione della direttiva. In effetti, la fattispecie dell'espulsione, incidendo su un aspetto fondante la sovranità dello Stato, si è sempre rivelata estremamente complessa da regolare, tanto che nessuna convenzione internazionale è mai stata adottata e che gli obblighi sussistenti a livello sovranazionale sono per lo più di carattere negativo e incapaci di delineare oneri positivi in capo agli Stati (92).

3.3.1. Il Libro verde su una politica comunitaria di rimpatrio delle persone che soggiornano illegalmente negli Stati membri

Nel 2002 il Consiglio adottò un piano globale di azione (93) nel quale si individuava, come «parte integrante e cruciale» nella lotta all'immigrazione clandestina, la politica di riammissione e rimpatrio. L'obiettivo era quello di definire un approccio comune ed un livello di cooperazione tra gli Stati dell'Unione europea in materia di esecuzione delle misure di rimpatrio.

Era poi necessario «individuare i paesi terzi con i quali [...] negoziare e concludere nuovi accordi di riammissione, nonché adottare azioni comuni volte a far sì che detti paesi rispettino i propri obblighi in materia di riammissione dei propri cittadini, secondo le norme stabilite dal diritto internazionale». Tali accordi avrebbero dovuto sancire, inoltre, «l'obbligo di riammissione dei cittadini di paesi terzi e degli apolidi provenienti dal paese interessato o che hanno risieduto in detto paese», nonché «istituire norme comuni di rimpatrio per tutti gli stati dell'Unione» (94).

Vista la rilevanza e la complessità della materia, il Consiglio ritenne che quella dei rimpatri dovesse essere oggetto di una trattazione indipendente: per questo motivo, invitò la Commissione europea a presentare urgentemente un libro verde dedicato all'analisi di eventuali misure e azioni al fine di concretizzare una politica comunitaria in materia di rimpatrio e di valutare l'opportunità di istituire uno strumento finanziario per il rimpatrio.

Dopo appena due mesi la Commissione presentò il 'Libro verde su una politica comunitaria di rimpatrio delle persone che soggiornano illegalmente negli Stati membri' (95), in cui si affermava per la prima volta il principio secondo il quale «i cittadini di paesi terzi privi di uno status giuridico che li autorizzi a restare, in via permanente o temporanea, e di cui uno Stato membro non è giuridicamente tenuto ad accettare la presenza, devono lasciare la UE» (96); si dava, tuttavia, priorità al rimpatrio volontario, che oltre ad essere maggiormente in linea con il rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo, comporta uno sforzo amministrativo di gran lunga minore rispetto a quello coattivo. Tale principio risultava essenziale per «garantire che la politica di ammissione non [fosse] indebolita» e necessaria ad «imporre il principio di legalità», quale «elemento costitutivo di un'area di libertà, di sicurezza e di giustizia». La delegazione italiana aveva obiettato alla Commissione (97) che il rimpatrio volontario era di norma ipotizzabile solo nei confronti di particolari categorie di migranti, ossia di coloro che fossero fuggiti da conflitti interni o regionali: i programmi di ritorno volontario, oltre ad interessare zone geografiche ben delimitate, comportavano infatti l'intervento di organizzazioni internazionali, la predisposizione di servizi volti a fornire informazioni ed assistenza al fine di preparare le persone al rientro, nonché adeguati piani finanziari di medio o lungo periodo per garantire che la persona rimpatriata nel Paese di origine potesse rimanervi. L'estensione del rimpatrio volontario anche ai migranti, giunti in Europa per motivi esclusivamente economici, si sarebbe rivelato, in assenza di precise condizioni, un fallimento, perché si sarebbe prestato a facili strumentalizzazioni da parte di coloro che avrebbero potuto usufruire di incentivazioni solo al fine di un arricchimento personale.

La Commissione sembrava in realtà voler adottare un approccio step-by-step, senza la presunzione di risolvere tutte le questioni inerenti il rimpatrio, materia complessa e fortemente incidente sui diritti fondamentali delle persone; si proponeva piuttosto di avviare uno studio e una riflessione sull'argomento, prospettando le misure che si sarebbero potute verosimilmente adottare (98) e stimolando un dialogo con le istituzioni, le organizzazioni e gli esperti del settore al fine di avvicinare le posizioni degli Stati membri.

Con premura la Commissione sottolineava la necessità di una politica di rimpatri pienamente rispettosa dei diritti umani e delle libertà fondamentali e, a questo proposito, richiamava specificatamente la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e la Carta dei diritti fondamentali dell'UE: in particolare, menzionava, il diritto ad un ricorso davanti ad un tribunale durante la procedura di rimpatrio (art. 6 CEDU e art. 47 Carta dei diritti fondamentali), il principio di un controllo giurisdizionale sulla detenzione (art. 5 CEDU), la protezione della vita familiare (art. 8 CEDU e art. 7 Carta dei diritti fondamentali), nonché la tutela dei dati personale (art. 8 Carta dei diritti fondamentali).

Inoltre si metteva in luce, nel Libro verde, come un'efficace politica di rimpatrio dipendesse anche da una 'proficua cooperazione' con i Paesi di origine o di transito interessati: questa, infatti, sarebbe stata rilevante nelle varie fasi della procedura di rimpatrio e spesso decisiva per la riuscita della stessa (99).

La Commissione provò ad immaginare anche di introdurre una distinzione fra le cause che rendono obbligatoria una decisione di allontanamento per motivi di pericolo eccezionale e gli altri motivi legittimi che possono comportare, di norma, una decisione di allontanamento (come la condanna a pene che comportano la reclusione o quando il soggetto possa rappresentare una minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato); ma in tutti i casi, si sarebbe dovuto tenere conto della situazione individuale specifica, in quanto la decisione, come espliciterà qualche anno più tardi la direttiva 2008/115/CE, deve essere sempre adottata 'caso per caso' (100). Tale principio si tradurrà, pertanto, nell'inammissibilità delle espulsioni collettive e nella necessaria valutazione di tutte le circostanze del caso in concreto, in particolare, facendo attenzione alla presenza del diritto al ricongiungimento familiare e al diritto di asilo, quali limiti indiscutibili al potere discrezionale dello Stato di decidere chi ammettere sul proprio territorio.

Si evidenziava, poi, la necessità di norme minime concernenti i provvedimenti di trattenimento, le modalità e la durata dello stesso, in quanto disciplinati in maniera diversa in tutti gli Stati. Su questo punto, tuttavia, il Regno Unito espresse il proprio disappunto, in quanto non riteneva necessaria un'ulteriore armonizzazione a livello europeo sulle condizioni e i termini del trattenimento amministrativo degli stranieri (101). D'altronde il Regno Unito, nonostante avesse accolto con piacere l'avvio di una discussione tra la Commissione e gli Stati membri, al fin di esplorare le migliori pratiche messe in campo dagli stessi in questo settore, affermò di non avvertire l'urgenza di stabilire norme comuni sul rimpatrio dei cittadini di paesi terzi in situazione irregolare (102).

Per quanto concerneva, invece, l'accompagnamento alla frontiera la Commissione individuava quattro settori nei quali si sarebbe potuta compiere un'armonizzazione a livello europeo: salvaguardia finale in relazione al principio di non-refoulement; fissazione di criteri da seguire per quanto riguarda la valutazione dello stato fisico e mentale dell'individuo sottoposto a rimpatrio; norme sull'impiego di mezzi di coercizione; elencazione dei Paesi in cui non sia possibile rinviare temporaneamente a causa di perpetrate violazioni dei diritti umani (anche grazie ai pareri dell'UNHCR e delle amministrazioni ONU).

La Commissione considerava, infine, la direttiva 2001/40/CE, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi (103), un primo passo verso la possibilità di eseguire le decisioni di allontanamento emesse da uno Stato membro in un altro, senza che quest'ultimo dovesse emettere una nuova decisione di allontanamento. Tuttavia, la direttiva in questione non comportava un quadro vincolante per il riconoscimento reciproco di tali decisioni, per questo, si ipotizzò la possibilità di creare un quadro vincolante per il riconoscimento reciproco di atti amministrativi o giudiziari connessi al rimpatrio proprio in una futura proposta sulle procedure di rimpatrio, tenendo debitamente conto anche dei necessari progressi dell'armonizzazione nel campo dell'asilo (104).

3.3.2. Il Programma dell'Aia: rafforzamento della libertà, della sicurezza e della giustizia nell'Unione europea

Il Consiglio europeo, constatando il mancato raggiungimento di alcuni degli obiettivi fissati a Tampere, nel 2004 adottò un nuovo programma ('Programma dell'Aia') (105), il quale, insieme al Piano d'azione del Consiglio e della Commissione (10 giugno 2005) (106), che lo integra, rappresentavano il quadro generale della politica di immigrazione e asilo nel quinquennio successivo (2004-2009).

L'obiettivo del programma, come si evince dal titolo stesso, era quello di rafforzare e potenziare il ruolo dell'Unione europea nella costruzione e nella definizione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, quale «preoccupazione cruciale dei popoli degli Stati riuniti nell'Unione» (107).

Al momento della sua adozione il programma dell'Aia si prefiggeva di rappresentare il trait d'union tra il diritto vigente e le prospettive future dell'Europa, quest'ultime costituite, in particolare, dal Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa, più volte nominato sia nel programma che nel piano. Nonostante la mancata adozione della Costituzione, si tratta di due documenti di fondamentale importanza sia ai fini della comprensione della politica dell'Unione in materia di immigrazione e asilo, sia nel senso di un'anticipazione degli obiettivi di più stretta integrazione (108).

Il programma è suddiviso in tre parti intitolate rispettivamente 'Rafforzamento della libertà', 'rafforzamento della sicurezza' e 'rafforzamento della giustizia'.

Le disposizioni relative all'asilo e alle migrazioni, contenute interamente nel primo capo ('Libertà') mostrano l'intenzione di assumere un nuovo approccio, un «approccio globale, che abbracci tutte le fasi della migrazione, relativo alle cause di fondo delle migrazioni, alle politiche in materia di ingresso e ammissione e alle politiche in materia di integrazione e rimpatrio» (109).

Assumere un approccio globale significava considerare il fenomeno migratorio in tutti i suoi aspetti, attraverso un'analisi che doveva impegnare sia le istituzioni europee che gli Stati (110).

Se si esclude l'asilo, per il quale si ponevano le basi per la creazione di un regime comune europeo in materia di asilo, la gestione dei flussi migratori era affrontata in una prospettiva securitaria, in linea con i lavori di Siviglia (111) e Salonicco (112), caratterizzati per un approccio focalizzato sulla lotta contro l'immigrazione clandestina. Le politiche di ammissione e d'integrazione, infatti, non sono altro che oggetto di qualche timida dichiarazione, mentre la gestione dei flussi migratori e la dimensione esteriore dell'immigrazione sono dotate di tutt'altra concretezza e pronte ad essere tradotte in azioni precise (113).

In materia di gestione dei flussi migratori si riscontrava, in particolare, la problematica del controllo alle frontiere e la lotta contro l'immigrazione clandestina, accogliendo, tuttavia, con piacere l'istituzione dell'Agenzia FRONTEX; mentre, in materia di rimpatrio e riammissione, veniva ribadito il principio secondo il quale «i migranti che non hanno o che hanno perso il diritto di soggiornare legalmente nell'UE devono rimpatriare su base volontaria, o se necessario, obbligatoria» (114), sollecitando lo sviluppo di norme comuni sul rimpatrio e l'allontanamento degli stranieri irregolari, sempre nel rispetto dei diritti fondamentali. Infine, si invitava la Commissione a provvedere all'istituzione di un Fondo europeo per i rimpatri entro il 2007 (115).

Il programma dell'Aia si allontana, dunque, sensibilmente dalle conclusioni di Tampere (1999) (116): se in quest'ultima occasione si privilegiava, infatti, un approccio equilibrato ai differenti settori dell'immigrazione e dell'asilo, all'Aia si rilevava una preoccupazione degli Stati membri per il controllo delle frontiere e per la lotta contro l'immigrazione clandestina. Questo testo sembra perciò riflettere una visione destabilizzante dei fenomeni migratori tipica, d'altronde, dell'epoca, caratterizzata, in particolare dopo l'11 settembre, dal costante timore di infiltrazioni terroristiche, dello sviluppo della criminalità organizzata nonché dall'ineluttabile bisogno di riaffermare le proprie identità tradizionali e di superare l'instabilità economica che coinvolgeva tutta l'Europa (117).

In conclusione si può ammettere che la migrazione economica (o legale) è, probabilmente, la sfida più importante che si pone di fronte all'Unione europea nell'ambito della politica di immigrazione e asilo (118). In quest'ambito, gli atti sono ancora adottati secondo la procedura consultiva e con l'unanimità di tutti i membri del Consiglio, rendendo, di fatto, molto ardua un'armonizzazione delle legislazioni nazionali.

3.3.3. La proposta di adozione della 'direttiva rimpatri'

Sulla base del mandato conferito nel Programma dell'Aia circa lo sviluppo di «un'efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio basata su norme comuni perché le persone siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità», la Commissione europea, nel 2005, ha adottato la 'Proposta di Direttiva recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini dei paesi terzi soggiornanti illegalmente' (119) ('Direttiva rimpatri').

In particolare la proposta si basava sulla Comunicazione su una politica comune in materia di immigrazione illegale del 2001 (120), in cui si sottolineava come «la politica di rimpatrio [fosse] parte integrante e fondamentale della lotta all'immigrazione clandestina», nonché sul Libro verde (121) e sulla Comunicazione su una politica comunitaria in materia di rimpatrio delle persone soggiornanti illegalmente (122). Tali atti possono essere considerati alla stregua di lavori preparatori per la presentazione della proposta in questione.

La proposta trovava la propria base giuridica nell'art. 63, paragrafo 3, lettera (b) del TCE (123), sulla scorta del principio di sussidiarietà, in quanto la proposta non rientrava tra le competenze esclusive della Comunità, ma tra quelle concorrenti, e di proporzionalità, perché stabiliva principi generali lasciando la scelta della forma e dei mezzi più appropriati per attuarli agli Stati membri (124). Nonostante ciò alcuni Stati hanno considerato la proposta eccessivamente dettagliata, dunque contraria al principio di proporzionalità, nonché messo in dubbio l'utilità di un'armonizzazione in questo settore strettamente legato alla sovranità degli Stati membri (125).

È opportuno rammentare, a questo punto, che in conformità all'art. 67, paragrafo 2, del Trattato CE, nel 2004 il Consiglio ha adottato una decisione (126) secondo la quale, a partire dal 2005, la procedura di codecisione (127) si applica anche per adottare le misure previste dall'art. 63, par, lett. (b) del Trattato (128). Da questo momento in poi per le misure in materia di «immigrazione e soggiorno irregolari, compreso il rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare» si è proceduto con la votazione a maggioranza qualificata del Consiglio e del Parlamento europeo.

La proposta aveva come obiettivo quello di stabilire norme comuni per il rimpatrio delle persone illegalmente soggiornanti, senza tuttavia definire le cause o le procedure che possono porre fine al soggiorno regolare (129). Tali regole, pertanto, rimanevano nell'ambito delle competenze statali.

In base a quanto previsto dai protocolli allegati al Trattato di Amsterdam, si ricorda che la Danimarca, il Regno Unito e l'Irlanda non sono obbligati a partecipare all'adozione di misure nell'ambito del Titolo IV del Trattato CE (130).

L'art. 2 della proposta definiva l'ambito di applicazione della direttiva, prevedendo espressamente un caso in cui gli Stati potevano derogarvi al par. 2 (131). Si tratta di una norma molto discussa, riguardante il caso in cui lo straniero si trovi in una zona di frontiera - spesso non facilmente identificabile -, condizione che permette allo Stato di astenersi dall'applicare la direttiva. Tuttavia, si sarebbe dovuto provvedere affinché ai cittadini di paesi terzi esclusi dalla direttiva fosse riservato un trattamento non meno favorevole di quello previsto da altre norme della proposta, con riguardo al rinvio dell'esecuzione della decisione di rimpatrio, alla misura dell'allontanamento, assicurate le garanzie previste prima del rimpatrio e rispettate le condizioni per il trattenimento (132). Nonostante il richiamo specifico a queste norme, alcune organizzazioni e associazioni attive nella difesa dei diritti dei migranti (133), censurarono immediatamente la possibilità offerta agli Stati di non applicare le garanzie della direttiva qualora il cittadino si fosse trovato in una 'zona di transito': si trattava di una discriminazione ingiustificata, peraltro contraria alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale ritiene gli obblighi internazionali vincolanti anche nelle 'zone di transito' (134).

Erano, inoltre, esclusi dal campo di applicazione della direttiva coloro ai quali fosse riconosciuta la libertà di circolazione, in virtù di altre disposizioni dell'UE o altre disposizioni vigenti in forza di accordi bilaterali più favorevoli (135).

Ai sensi dell'art. 3, il rimpatrio venne definito come quel «processo di ritorno nel proprio paese di origine o di transito o in un altro paese terzo, volontario o forzato», senza specificare ulteriormente le condizioni in presenza delle quali fosse ammesso il rimpatrio in un paese che non fosse quello di provenienza, aprendo, dunque, alla possibilità di rinviare gli stranieri irregolari anche in paesi in cui non fossero mai stati (136).

All'art. 5 si precisava, inoltre, che nell'applicazione della direttiva dovessero essere tenuti in debita considerazione i vincoli familiari del cittadino di paese terzo, la durata del soggiorno e l'eventuale esistenza di legami familiari, culturali e sociali con il Paese d'origine, nonché l'interesse superiore del minore in conformità con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989. Quest'ultima disposizione è stata molto criticata dagli Stati membri in seno al Consiglio. Nonostante si trattasse di una tutela meramente dichiarativa, gli Stati temevano che un'esplicita menzione di tali obblighi internazionali, sebbene ugualmente vincolanti, potesse comportare un ulteriore miglioramento delle condizioni dello straniero (137). Nel testo finale della direttiva 2008/115/CE vedremo che, seppur sia stato mantenuto l'articolo che impone di tenere in considerazione tali situazioni derivanti da obblighi internazionali, scompare ogni riferimento alla durata del soggiorno e all'esistenza di legami con il territorio d'origine (138).

Il secondo capitolo della Proposta, intitolato 'Fine del soggiorno irregolare', descriveva la procedura che gli Stati avrebbero dovuto porre in essere, obbligatoriamente, ai fini del rimpatrio dello straniero che soggiornasse illegalmente, proponendo loro l'alternativa tra un procedimento in un'unica fase o in due fasi. Erano, infatti, previsti due provvedimenti: la decisione di rimpatrio (ossia la decisione ovvero l'atto amministrativo o giudiziario che dichiarava semplicemente l'irregolarità del soggiorno) e il provvedimento di allontanamento (la decisone ovvero l'atto amministrativo o giudiziario che ordinava l'allontanamento, e che atteneva, dunque, alla fase esecutiva dell'obbligo di rimpatrio) (139). Entrambi potevano essere adottati singolarmente o contenuti nel medesimo atto (140), a seconda che la procedura si svolgesse in un'unica o in due fasi. L'opportunità di scegliere tra una procedura in una o due fasi, in realtà, non incontrava il favore degli Stati membri che ritenevano che la procedura in due fasi potesse ritardare eccessivamente il rimpatrio (141): in particolare, la delegazione olandese, riteneva che questa proposta contrastasse con quanto previsto nei Paesi Bassi, dove il rifiuto del permesso di soggiorno, la decisione di rimpatrio e l'ordine di allontanamento venivano notificati contemporaneamente (142).

In ogni caso, la procedura doveva rispettare il principio del rimpatrio volontario, perciò la decisione di rimpatrio doveva stabilire «un termine congruo per la partenza volontaria di quattro settimane al massimo» (143), salvo sussistessero «elementi oggettivi per ritenere che l'interessato [potesse] tentare la fuga in quel periodo».

Come visto nel Libro verde (144), la Commissione aveva ritenuto di privilegiare una forma di rimpatrio 'volontario', piuttosto che ricorrere all'allontanamento coattivo, giudicando il primo maggiormente rispettoso dei diritti fondamentali dell'immigrato, nonché meno dispendioso per gli Stati stessi in termini di costi e risorse umane. L'unica deroga originariamente prevista alla concessione di un termine per la partenza volontaria era rappresentata dalla presenza di un pericolo di fuga, ma anche su questo punto vennero formulati rilevi da parte di alcuni Stati. La Germania, l'Estonia e il Regno Unito si opposero, infatti, alla possibilità di emettere un provvedimento di allontanamento solo nel suddetto caso, volendo estenderla alle ipotesi in cui il cittadino di paese terzo rappresentasse una minaccia per la pubblica sicurezza, non disponesse di sufficienti risorse o non potesse essere identificato (145).

Il paragrafo 6, dell'art. 6, imponeva, poi, agli Stati di emettere una decisione di rimpatrio qualora il cittadino di paese terzo in situazione irregolare fosse in possesso di un permesso di soggiorno valido rilasciato da altro Stato membro. Viste, tuttavia, le obiezioni sollevate con riferimento a tale norma da parte di alcuni Stati, tra cui il Regno Unito (146), la disposizione venne riformulata durante le discussioni in seno al Consiglio prevedendo l'obbligo per il cittadino di paese terzo di recarsi immediatamente nello Stato membro che aveva rilasciato il permesso di soggiorno, al fine di non incorrere in una decisione di rimpatrio di cui all'art. 6, par. 1 (147).

Inoltre, con riferimento all'art. 7, il quale stabiliva che il procedimento di allontanamento dovesse specificare altresì «il termine per l'esecuzione dell'allontanamento e il paese di ritorno», le delegazioni nazionali fecero notare come fosse praticamente impossibile prevedere la tempistica precisa con cui effettuare il rimpatrio (148). Per questi motivi tale disposizione non è stata trasposta nel testo finale della 'direttiva rimpatri'.

Ulteriori critiche sono state sollevate dal Consiglio, per gli stessi motivi di cui supra, riguardo il richiamo dell'art. 6 agli obblighi «derivanti dai diritti fondamentali, in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come il principio di non-refoulement, il diritto all'istruzione e il diritto all'unità familiare», i quali costituivano dei limiti espliciti all'applicazione della direttiva. Anche tale riferimento non verrà definitivamente approvato.

Per quanto concerne il rinvio dell'allontanamento, l'art. 8 lasciava ampia discrezionalità agli Stati nella possibilità di differire l'esecuzione di un provvedimento, avuto riguardo alle «circostanze specifiche per ciascun caso», sollevando, tuttavia, anche in questo caso, alcune perplessità.

La proposta prevedeva, inoltre, che i provvedimenti di allontanamento dovessero sempre contenere un divieto di reingresso in tutta l'area Schengen per un termine massimo di 5 anni (149), ma la durata del divieto poteva essere superata nel caso di grave minaccia per l'ordine pubblico o per la sicurezza nazionale; con riferimento, invece, alle decisioni di rimpatrio era lasciata facoltà agli Stati prevedere o meno il divieto.

Trattandosi di una norma orizzontale e interessando, dunque, la totalità degli Stati appartenenti all'area Schengen, tale divieto conferiva alla procedura di rimpatrio una dimensione tutta comunitaria (150), producendo un effetto deterrente per tutti gli stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio dell'Unione europea, che una volta espulsi non avrebbero potuto far più ritorno in Europa per un lungo lasso di tempo. Tale meccanismo veniva garantito attraverso un sistema informatico (SIS) che, trasmettendo le informazioni relative ai cittadini di paesi terzi destinatari di una decisione di rimpatrio in una banca dati centrale accessibile a tutti gli altri Stati membri, avrebbe reso effettivo il divieto in tutto il territorio europeo.

All'art. 10 veniva, poi, introdotta una norma che consentiva l'utilizzo di misure coercitive al fine di allontanare il cittadino di un paese terzo che opponesse resistenza: tali misure dovevano, comunque, essere proporzionate e non eccedere l'uso ragionevole della forza.

Per quanto riguarda la forma, sia la decisione di rimpatrio che il provvedimento di allontanamento dovevano essere adottati in forma scritta, nonché motivati in fatto e in diritto; inoltre, l'interessato doveva essere informato circa le modalità di impugnazione disponibili (151). Anche quest'articolo è stato fortemente osteggiato dagli Stati membri in quanto, a loro parere, era troppo orientato verso la protezione dei diritti degli stranieri (152); nonostante ciò tale garanzia rimarrà nel testo finale della direttiva (153).

La proposta di direttiva assicurava, inoltre, allo straniero interessato il diritto ad un 'ricorso effettivo', il quale sospendeva, automaticamente o su richiesta dell'interessato, l'esecuzione della decisione di rimpatrio o del provvedimento di allontanamento: anche su questo punto si riscontra la resistenza degli Stati perché la presentazione automatica di ricorsi avrebbe potuto causare l'inefficienza della procedura di rimpatrio. In realtà questo sembrerebbe l'unico modo per tutelare, adeguatamente, il diritto dello straniero che una volta allontanato non potrà seguire il procedimento di ricorso.

L'articolo IV disciplinava, infine, la custodia temporanea ai fini dell'allontanamento, la quale si stabiliva che potesse essere applicata unicamente quando vi fosse un fondato sospetto di rischio di fuga e qualora l'uso di altre misure coercitive, meno afflittive, fosse insufficiente; la sua durata non doveva superare nel complesso i sei mesi. Anche questa disposizione suscitò numerose critiche da più Stati membri, viste le numerose differenze che esistevano tra le legislazioni nazionali in questo settore, e in particolare sulla durata massima della detenzione amministrativa degli stranieri irregolari.

La custodia doveva avvenire, in ogni caso, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e in conformità con il diritto nazionale e internazionale.

3.3.4. Le negoziazioni della 'direttiva rimpatri' tra Parlamento europeo e Consiglio

Le negoziazioni per l'adozione della direttiva sono state molto lunghe e caratterizzate da numerose interruzioni (154), derivanti in gran parte dalla necessità di combinare in uno stesso testo numerosi e divergenti interessi, tanto da lasciargli le stigmate del compromesso (155)

Innanzitutto occorre soffermarsi sulla procedura di codecisione allora prevista dall'art. 251 TCE (oggi art. 294 TFUE). Le principali tappe possono riassumersi nel modo seguente: la Commissione invia al Consiglio e al Parlamento europeo la proposta legislativa, se il Parlamento adotta una posizione sull'atto e il Consiglio l'approva senza modificarla, l'atto è adottato in prima lettura; se il Consiglio non approva la posizione del Parlamento, può adottare una sua posizione e trasmetterla al Parlamento. Nel caso in cui non vi sia accordo nemmeno in seconda lettura può essere convocato un comitato di conciliazione che approva un progetto comune, che dovrà essere in seguito votato a maggioranza dal Consiglio e dal Parlamento europeo.

In realtà questa procedura è raramente seguita: infatti, nella recente prassi, si fa più volentieri ricorso ai cosiddetti 'triloghi' informali (informal 'trilogues'), ossia delle riunioni tra i rappresentati del Consiglio, della Commissione e del Parlamento europeo (156) al fine di trovare un accordo sulle differenti posizioni e giungere ad un testo di compromesso da adottare direttamente in 'prima lettura'. Si tratta di negoziazioni informali che, sebbene molto più efficienti dell'iter ordinario, finiscono per incidere sulla trasparenza dell'intero procedimento (157).

Questa è la procedura che è stata seguita anche per l'adozione della 'direttiva rimpatri'. Il giorno successivo alla sua adozione la proposta della Commissione venne inviata al Consiglio e al Parlamento europeo che parallelamente avviarono un processo di discussione, ciascuno nel proprio organo appositamente competente ad analizzarla. Al Parlamento europeo la commissione responsabile era la commissione LIBE ('Libertà civili, giustizia e affari interni'), mentre al Consiglio lo SCIFA (Strategic Committee for Immigration, Frontiers and Asylum), il COREPER II (158), nonché i vari Ministri competenti (159).

L'analisi si propone di seguire in parallelo i progressi dei lavori in seno alle due istituzioni europee (Consiglio e Parlamento europeo) dal momento della trasmissione della proposta da parte della Commissione fino all'inizio dei 'triloghi' nel novembre del 2007, in seguito ai quali venne finalmente raggiunto un 'compromesso', approvato in prima lettura dal Parlamento, il 18 giugno 2008, e dal Consiglio, nel dicembre dello stesso anno.

Per quanto riguarda i lavori in seno al Consiglio, occorre fare immediatamente una precisazione: il progetto 'direttiva rimpatri' è stato discusso sotto ben sei presidenze differenti, ciascuna delle quali si è approcciata con un interesse diverso alla materia da trattare. Il differente grado di coinvolgimento delle diverse presidenze si è manifestato, in particolar modo, nell'esercizio del potere di agenda, che, come è noto, spetta al Presidente del Consiglio: questo ha potuto in tal modo determinare rallentamenti o accelerazioni nello svolgimento dei lavori, a seconda della priorità che egli conferiva alla proposta.

Fin dall'inizio, in una prima discussione nel gruppo di lavoro del Consiglio (160), la proposta suscitò non poche critiche per il fatto di essere troppo orientata verso la protezione dei diritti umani, portando alla formulazione di numerose annotazioni (161). In particolare, in questa prima fase si chiese immediatamente di abbandonare la doppia procedura (decisione di rimpatrio e provvedimento di allontanamento) in quanto considerata eccessivamente gravosa per l'apparato amministrativo-burocratico degli Stati membri; inoltre, si chiese di escludere dall'ambito di applicazione della direttiva le persone respinte alla frontiera, coloro che non avessero mai ottenuto il diritto a rimanere - ossia coloro che fossero entrati illegalmente nello Stato al fine di non permettere loro di beneficiare delle garanzie ivi previste - e coloro che dovessero essere allontanate in seguito ad una decisione del giudice penale. Veniva, inoltre, caldeggiato un generale abbassamento del livello di protezione sia con riferimento ai rimedi legali a disposizione dello straniero, sia con riguardo alle garanzie in caso di detenzione amministrativa, nonché l'eliminazione dal testo dell'intero capitolo V, che conteneva le disposizioni relative all'arresto in uno Stato membro.

Tra l'ottobre e il novembre del 2006 la presidenza finlandese lanciò un secondo turno di discussioni tecniche che portarono ad un testo di compromesso con cui si proponeva di modificare alcuni articoli (162), molti dei quali assunsero una formulazione che sopravvisse fino all'adozione del testo finale.

In questa prima fase i più ostinati oppositori alle garanzie previste dalla proposta della Commissione furono il Regno Unito, i Paesi Bassi, la Germania e la Grecia, mentre solo la Finlandia operò per un confronto produttivo (163).

Nel testo di compromesso della Presidenza finlandese, a causa delle numerose resistenze, vennero, infatti, indebolite molte delle garanzie inizialmente proposte dalla Commissione: in primis, riducendo notevolmente l'ambito di applicazione, permettendo agli Stati di continuare a fare riferimento alla legislazione nazionale in caso di respingimento alla frontiera (164).

Nonostante le opposizioni di numerosi Stati che volevano restringere le ipotesi di partenza volontaria (165), gli articoli relativi a tale modalità di esecuzione dell'espulsione rimasero sostanzialmente invariati, salvo per l'introduzione di una deroga che permetteva di ridurre il termine per la partenza volontaria qualora la persona rappresentasse una minaccia per la sicurezza pubblica, l'ordine pubblico e la sicurezza nazionale (166).

Con riferimento al divieto di reingresso, il 'compromesso finlandese' stabilì una serie numerosa di ragioni per le quali la decisione doveva essere accompagnata da un divieto, scardinando il sistema configurato dalla proposta della Commissione che prevedeva l'imposizione dello stesso solo nel caso in cui fosse stato emesso un provvedimento di allontanamento e lasciando discrezionalità agli Stati nel caso della decisione di rimpatrio. Molti Stati non ritennero comunque soddisfacente la modifica: in particolare, le delegazioni di Irlanda e Regno Unito avrebbero preferito, in proposito, lasciare agli Stati piena discrezionalità, mentre altri Stati, tra cui la Germania, l'Ungheria, la Spagna, i Paesi Bassi e l'Ungheria avrebbero voluto introdurre nella decisione di rimpatrio una previsione automatica del divieto di reingresso (167).

Un'altra importante modifica apportata al testo della proposta, sotto la spinta di molti Stati, riguardava l'obbligo degli Stati di concedere un ricorso effettivo allo straniero destinatario di una decisione di espulsione. Questo obbligo, in seguito al 'compromesso finlandese', poteva essere soddisfatto attraverso la previsione non solo di un ricorso davanti ad un giudice, ma anche davanti ad altra autorità comunque dotata delle necessarie garanzie di indipendenza e imparzialità (168). Si era eliminata in questo modo la necessità di predisporre un rimedio unicamente giurisdizionale, ma si era conservato il potere dell'autorità chiamata a pronunciarsi sulla legalità della misura di sospendere temporaneamente gli effetti della decisione di rimpatrio. Anche su questa previsione vennero comunque formulate riserve da parte di più di dieci Stati (169).

Obiezioni vennero sollevate anche con riferimento al patrocinio a spese dello Stato che, ai sensi della proposta della Commissione, doveva essere concesso a coloro che non disponessero di mezzi sufficienti e qualora fosse stato necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia. Alcuni Stati membri avrebbero voluto assoggettare la previsione di tale garanzia alla condizioni che i cittadini di paesi terzi non beneficiassero di un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto per i propri cittadini (170); tale modifica, come si vedrà, non fu mai recepita nel testo finale della direttiva.

Con riguardo alla custodia temporanea, questa fu ammessa, in aggiunta alla presenza di un rischio di fuga, anche nel caso in cui il cittadino di paese terzo avesse tenuto un comportamento tale da evitare o ostacolare la procedura di rimpatrio (171). Inoltre, ben ventuno delegazioni, tra cui il Regno Unito, la Francia e il Belgio (172), formularono riserve alla previsione secondo la quale la custodia temporanea poteva essere disposta solo dall'autorità giudiziaria, e non da quella amministrativa: il testo di compromesso introdusse, pertanto, quest'ultima possibilità, ma richiese una convalida dell'autorità giudiziaria entro le quarantotto ore successive all'adozione del provvedimento (173). La durata massima della detenzione venne stabilita tra i quattro e gli otto mesi, salvo la possibilità di estenderla qualora vi fosse una mancanza di cooperazione del paese terzo interessato o un ritardo nell'ottenere i documenti necessari dallo stesso (174). A questo proposito, è interessante notare che, nonostante il Regno Unito non preveda nella propria legislazione un tetto massimo alla durata delle detenzione degli stranieri sottoposti ad una procedura di rimpatrio, la delegazione britannica non formulò alcuna obiezione alla previsione in questione. Venne previsto, inoltre, che la custodia temporanea dovesse cessare nel momento in cui venissero a mancare delle prospettive ragionevoli di allontanamento del cittadino di paese terzo (175).

Nel 2007 il turno della presidenza del Consiglio passò alla Germania, la quale si dimostrò fin dall'inizio molto scettica nei confronti della 'direttiva rimpatri' (176): in una lettera al Vice Presidente della Commissione, Franco Frattini, affermò infatti che ritenendo la direttiva troppo orientata alla protezione dei diritti degli immigrati non la considerava una base appropriata per una discussione in seno al Consiglio («not even an appropriate basis for discussion») (177).

Successivamente, la nuova presidenza decise di sospendere i lavori del gruppo 'Migrazione ed espulsione' a cui era devoluto l'esame della proposta (Migration-Expulsion Working Group) e nel frattempo sottopose alcune questioni al SCIFA (178). Facendo leva sulle numerose divergenze tra gli Stati membri emerse durante la redazione del 'compromesso finlandese' la presidenza tedesca propose una prima fase di progressivo riavvicinamento delle legislazioni in materia di divieto di reingresso, garanzie procedurali e custodia temporanea, e dall'altra affermò che l'obiettivo di una maggior armonizzazione in materia di rimpatrio e delle relative norme procedurali sarebbe stato un obiettivo perseguibile solo a lungo termine. Nello stesso documento, noto con il nome di German Paper, la presidenza tedesca proponeva anche una serie di orientamenti politici su come riteneva dovesse essere regolata la materia, ossia delle linee guida che perseguivano in maniera minima l'obiettivo dell'armonizzazione.

Le numerose esclusioni di applicazione della direttiva e i continui rimandi alle legislazioni nazionali, tuttavia, finivano per svuotare della sua sostanza l'iniziale proposta della Commissione (179).

In tali linee guida, venne, infatti, proposto di lasciare alla scelta discrezionale degli Stati la possibilità di concedere un periodo per la partenza volontaria (180), nonché di accompagnare alla decisione di rimpatrio un divieto di reingresso. Tale divieto doveva comunque necessariamente applicarsi in caso di esecuzione di un provvedimento di allontanamento (181).

Alle legislazioni nazionali veniva rimessa, altresì, la previsione dei mezzi di impugnazione avverso la decisione si rimpatrio o il provvedimento di allontanamento, nonché la garanzia dell'effetto sospensivo del ricorso contro la decisione di rimpatrio e la previsione del patrocinio a spese dello Stato (182). La custodia temporanea poteva, inoltre, essere disposta fino a dodici mesi e il riesame della misura veniva lasciato, ancora una volta, alle previsioni legislative dei diversi Stati membri (183).

L'evidente mancanza di interesse della Germania nel portare avanti i lavori sulla 'direttiva rimpatri', comportò che, durante il periodo della sua presidenza al Consiglio, la discussione subì una forte battuta di arresto.

Nel frattempo, anche i lavori in seno al Parlamento, in particolare alla Commissione LIBE, procedevano molto lentamente, tanto che si dovette aspettare il 2007 per ottenere un testo contenente gli emendamenti alla proposta da adottare: la prima votazione all'interno della Commissione parlamentare si ebbe, infatti, solo il 12 settembre 2007 (184). Il testo adottato dalla Commissione LIBE migliorava in molti aspetti quello della proposta originale: tuttavia, questo non venne mai approvato dall'assemblea plenaria del Parlamento perché, come accennato, nel novembre del 2007 vennero avviate le negoziazioni informali ('triloghi') con il Consiglio, per cercare di raggiungere un compromesso da adottare in prima lettura.

È interessante, comunque, soffermarsi sulla posizione assunta dalla Commissione LIBE, in quanto diametralmente opposta rispetto a quella del Consiglio.

Nel rapporto in questione si stabiliva che la decisione di rimpatrio dovesse contenere un termine congruo per la partenza volontaria di al massimo quattro settimane, salvo l'autorità amministrativa o giudiziaria ritenesse, in base ad elementi oggettivi, che la persona potesse tentare la fuga in quel periodo o qualora la stessa costituisse una minaccia per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale (185). Il termine poteva essere, comunque, modificato in base a circostanze particolari, inoltre allo straniero doveva essere fornita assistenza materiale e consigli, al fine di garantire un corretto rimpatrio.

La 'custodia temporanea' veniva sostituita in 'detenzione', in quanto la terminologia sembrava più appropriata al carattere e alla durata di una simile privazione della libertà; la sua applicazione veniva, tuttavia, resa discrezionale (186). La detenzione era giustificata solo per il periodo necessario alla riuscita dell'allontanamento dello straniero e doveva cessare qualora non vi fossero prospettive ragionevoli di allontanamento per ragioni giuridiche o altre ragioni.

In ogni caso la durata non poteva essere superiore ai tre mesi, salvo la possibilità degli Stati di accorciare o prolungare il termine di massimo diciotto mesi quando nonostante tutti gli sforzi ragionevoli, l'operazione di allontanamento rischiava di durare più a lungo a causa della mancata cooperazione dello straniero o causa di problemi amministrativi ovvero quando la persona rappresentasse una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza nazionale (187).

Il divieto di reingresso veniva trasformato in facoltativo ed erano previsti dei casi in cui poteva essere revocato (188).

La decisione circa il mantenimento in detenzione doveva essere sottoposta al controllo dell'autorità giudiziaria nel termine massimo di quarantotto ore dall'inizio dell'applicazione della misura (e non settantadue ore come inizialmente previsto) e disposta un con atto distinto dalla decisione di rimpatrio o allontanamento, nonché provvista di adeguata motivazione in fatto e in diritto.

La commissione parlamentare riteneva, inoltre, di dover offrire maggiori garanzie alle persone sottoposte a detenzione riconoscendo, in particolare, il diritto all'unità familiare, il diritto all'assistenza familiare e, per i bambini, il diritto all'istruzione. Gli Stati membri sarebbero stati chiamati a definire e pubblicare, a livello nazionale, un codice di condotta comune contenente le procedure applicabili nei luoghi di detenzione. A questo proposito veniva inserito un nuovo articolo riguardante le condizioni di detenzione dei minore e delle famiglie.

Gli Stati dovevano, inoltre, garantire il diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un giudice, non solo contro la decisione di rimpatrio o di allontanamento, ma anche contro quella che applica la detenzione e il divieto di reingresso.

Veniva istituito il 'Mediatore del Parlamento europeo per il rimpatrio' affinché fosse assicurata una procedura di rimpatrio efficiente e allo stesso tempo rispettosa dei diritti umani (189); il Mediatore veniva dotato di una serie di diritti e poteri che gli consentivano di procedere ad ispezioni ovvero alla raccolta e alla richiesta di informazioni agli Stati sui procedimenti di rimpatrio.

Si prevedeva che le organizzazioni nazionali, internazionali e non governative quali l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), potessero accedere ai locali dei centri di custodia temporanea per valutare le condizioni della custodia temporanea e assistere le persone sotto custodia temporanea, in conformità delle norme internazionali e nazionali, e non si consentiva più agli Stati di assoggettare tali visite ad autorizzazioni.

Un'ulteriore previsione innovativa stabiliva l'impossibilità di espellere o trattenere in detenzione i minori non accompagnati, nonché il divieto di rimpatriare coloro che potessero beneficiare di trattamenti medici migliori nei paesi membri piuttosto che nel loro luogo di origine (190).

Gli emendamenti del Parlamento non vennero, tuttavia, presentati né formalmente né informalmente agli Stati e nessuna discussione provocarono all'interno del gruppo di lavoro del Consiglio.

Nemmeno il Parlamento venne d'altronde informato dell'andamento dei lavori in seno al Consiglio; pertanto si può affermare che per più di due anni le istituzioni lavorarono in completo isolamento, ignorando la posizione una dell'altra parte, il ché li portò a collocarsi ai due poli opposti della questione (191). È evidente che questo fu uno dei motivi del lento procedere dei lavori che caratterizzò l'adozione della 'direttiva rimpatri'.

Al Consiglio, in seguito all'appoggio da parte del SCIFA delle linee guida proposte dalla presidenza tedesca, l'idea di un'armonizzazione in materia di rimpatri sembrava praticamente svanita, visti i rimandi continui alla legislazione interna che avrebbe previsto la direttiva; una serie di eventi, tuttavia, riportarono in auge il progetto che si avviò a grandi passi verso la sua definitiva adozione.

Il passaggio della presidenza al Portogallo costituì un'accelerazione importante dei lavori, permettendo di mettere tra le priorità della agenda del Consiglio quella dell'adozione della direttiva rimpatri (192).

Già il 7 dicembre 2007, la nuova presidenza riuscì a produrre un testo di compromesso (193), il quale ottenne almeno la maggioranza qualificata sui punti fondamentali della proposta. Il compromesso raggiunto durante la presidenza di turno portoghese si distingueva in molti aspetti dal rapporto adottato appena tre mesi prima dalla Commissione LIBE. In particolare, veniva rimodellato e ristretto l'ambito di applicazione della direttiva (194): l'approvazione del compromesso fu infatti favorita dall'introduzione di una procedura accelerata da applicare a coloro che fossero entrati irregolarmente e arrestati nell'arco di sette giorni dall'ingresso (195); tuttavia, l'articolo venne fortemente osteggiato dalla Commissione che la considerava capace di ridurre in modo considerevole l'ambito di applicazione della futura direttiva (196).

Inoltre, il periodo per la partenza volontaria veniva ridotto al massimo a trenta giorni e si prevedeva per la prima volta la possibilità per gli Stati di concedere tale periodo, solo laddove ci fosse una richiesta in questo senso da parte del cittadino di paese terzo, che all'uopo avrebbe dovuto essere informato (197); il divieto di reingresso veniva inoltre rafforzato tanto da divenire la regola (198).

Per quanto concerneva i rimedi legali a disposizione dello straniero, il gratuito patrocinio sarebbe stato applicabile in linea con le diverse legislazioni nazionali (199); la detenzione doveva essere disposta obbligatoriamente qualora fosse necessaria per preparare il ritorno e/o effettuare l'allontanamento e altre misure sufficienti ma meno coercitive non potessero essere applicate (200).

Il trattenimento amministrativo poteva essere disposto sia da un'autorità amministrativa che da una giurisdizionale ma la decisone avrebbe dovuto essere sottoposta ad un riesame giudiziario secondo la normativa nazionale di riferimento; la durata poteva essere prolungata per un tempo indeterminato, sebbene dovesse essere scandita ad intervalli ragionevoli da un riesame della misura.

Come accennato, la stesura di un nuovo compromesso frenò le intenzioni del Parlamento europeo circa la votazione in plenaria del rapporto della commissione LIBE, nell'evidente premura di lasciare spazio a delle negoziazioni con il Consiglio (201).

Anche la Commissione europea, avendo ricevuto durissime critiche sia da parte del Consiglio che del Parlamento europeo - il primo interessato ad una procedura rapida ed efficace e il secondo preoccupato di offrire un'adeguata protezione ai diritti umani -, cercò di mediare le due posizioni su cui si erano arroccate le istituzioni europee (202).

Fu così che nelle prima settimane del 2008, sotto la spinta della presidenza slovena, la quale era intenzionata a portare a termine il processo di adozione della 'direttiva rimpatri' entro la fine del proprio mandato, furono inaugurati una serie di 'trilogues' tra la presidenza stessa, la Commissione e il relatore del Parlamento europeo, Manfred Weber (203).

In poco tempo, un nuovo compromesso fu stilato e a sua volta riconsiderato da altri organi del consiglio, quali il JHA e il COREPER, nonché da altri membri del Parlamento (204) nel corso di febbraio e marzo 2008 (205). Nell'indagare sui progressi conseguiti attraverso le negoziazioni tra Consiglio e Parlamento, è interessante analizzare i principali cambiamenti apportati al testo della 'direttiva rimpatri' prendendo a riferimento la versione del 28 Marzo 2008.

Per quanto riguarda l'ambito di applicazione, nella nuova versione, gli Stati membri potevano astenersi dall'applicare la direttiva ai cittadini di paesi terzi che fossero entrati irregolarmente nel territorio degli Stati, salvo avessero ottenuto un'autorizzazione o un diritto a rimanere. Nell'intento di avvicinarsi alla posizione del Parlamento europeo, il Consiglio accettò, tuttavia, per la prima volta l'inserimento di un nuovo articolo, il quale permetteva ai cittadini di paesi terzi esclusi dall'ambito di applicazione della direttiva di usufruire quanto meno del livello di protezione accordato da altre norme del testo in questione (206). Le disposizioni relative al periodo per la partenza furono modificate, prevedendo la concessione di un congruo periodo compreso tra i sette e i trenta giorni, estendibile in presenza di determinate circostanze, mantenendo la possibilità, già prevista nel testo di compromesso del 7 dicembre 2007, per gli Stati di rilasciarlo solo in presenza di una richiesta in tal senso dello straniero (207). Oltre al rischio di fuga e alla minaccia per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza e la sicurezza nazionale, venne aggiunta un'ulteriore ipotesi in presenza della quali era permesso agli Stati di astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria, ossia quando la domanda di soggiorno regolare fosse stata respinta perché infondata o fraudolenta (208). Dunque nel campo della partenza volontaria e delle ragioni per non concederla si rileva, sostanzialmente, una tendenza ad assecondare la posizione del Consiglio, piuttosto che quella del Parlamento europeo (209). Il divieto di reingresso a sua volta venne reso obbligatorio in due casi: qualora il termine per la partenza volontaria non fosse stato concesso o se il termine concesso non fosse stato rispettato; negli altri casi gli Stati avevano la facoltà di decidere se accompagnare o meno la decisione di rimpatrio con tale divieto. Laddove il termine fosse stato rispettato, il divieto doveva considerarsi revocato o sospeso.

Con riferimento alle garanzie procedurali, era possibile un ricorso di fronte ad un'autorità giudiziaria, o amministrativa, competente ovvero a un organo composto da membri imparziali che offrissero garanzie di indipendenza (210); si riconosceva, inoltre, il potere all'autorità o all'organo in questione di sospendere temporaneamente l'esecuzione della decisione di rimpatrio e il patrocinio a spese dello Stato, veniva lasciato alla regolazione delle legislazioni nazionali (211).

La detenzione amministrativa si configurava come facoltativa e applicabile in due ipotesi: in caso di rischio di fuga e qualora il cittadino di paese terzo eviti o ostacoli la preparazione del rimpatrio o dell'allontanamento. Inoltre, a dispetto della volontà del Consiglio di mantenere un limite indefinito alla durata del trattenimento, questo venne fissato a diciotto mesi, in linea con le richieste del Parlamento (212). Qualora il trattenimento fosse disposto da un'autorità amministrativa era previsto un pronto riesame giudiziario della misura.

Le negoziazioni portarono, infine, ad un miglioramento delle previsioni concernenti i minori non accompagnati: sebbene il Parlamento europeo non riuscì a garantire il medesimo livello di protezione proposto nel proprio rapporto, ottenne l'inserimento di un articolo che assicurava condizioni di trattenimento più favorevoli per i minori accompagnati (213).

Il testo venne nuovamente ritoccato nel mese di Aprile, ma durante il 'trilogo' tenutosi il 23 aprile del 2008 venne, finalmente, raggiunto un primo compromesso tra il Consiglio e il relatore del Parlamento europeo da sottoporre ad entrambe le istituzioni (214).

Il 25 aprile la presidenza del Consiglio inviò il compromesso al COREPER (215), il quale all'ultimo momento, sotto la pressione di alcuni Stati membri, tentò di trasformare il dovere di garantire il patrocinio gratuito a chi lo richiedesse in una mera possibilità (216). Le maggiori pressioni per una modifica in tal senso si ebbero dall'Austria, dalla Germania e dalla Grecia, che non intendevano coprire il costo dell'assistenza legale ai cittadini di paesi terzi sottoposti ad una procedura di rimpatrio.

Tuttavia, il relatore del Parlamento con una lettera alla presidenza mise subito in guardia sulle difficoltà che tale modifica avrebbe comportato nel raggiungimento della maggioranza in Parlamento in prima lettura (217).

La presidenza considerò, di conseguenza, l'avvertimento e nel nuovo compromesso, sottoscritto il 2 giugno del 2008 (218), decise di lasciare intatta la disposizione aggiungendo un riferimento alle condizioni della 'direttiva procedure' (219) in base alle quali era garantita l'assistenza legale gratuita (220).

Per contro, il Consiglio ottenne comunque due temperamenti al principio del gratuito patrocinio obbligatorio: da una una parte si stabilì un termine supplementare di un anno per la trasposizione di tale paragrafo (221) e dall'altra la Commissione si impegnò ad assistere gli Stati nel reperimento delle risorse necessarie al soddisfacimento di tale garanzia (222). Il testo della direttiva venne definitivamente accettato il 5 giugno 2008.

Il risultato fu quello di un compromesso tra le posizioni restrittive degli Stati del Consiglio e quelle più garantiste del Parlamento; visti, tuttavia, i numerosi insuccessi del Parlamento nell'ottenere quanto richiesto durante le negoziazioni, il testo che ne conseguì appare fortemente sbilanciato in favore delle pretese dei governi espresse in seno al Consiglio, le quali riflettevano per lo più l'approccio repressivo delle stesse legislazioni interne degli Stati membri.

Il compromesso fu dibattuto in Parlamento il 17 giugno 2008 e rese palese immediatamente una forte divergenza tra i gruppi politici (223). I punti più discussi furono quelli relativi alla durata massima della detenzione, il divieto di reingresso fino a cinque anni, nonché la mancanza di un'adeguata protezione dei diritti fondamentali: in particolare, vi fu chi affermò che tale direttiva rifletteva il senso comune che stava assumendo il dibattito sull'immigrazione in Europa, un'Europa che si costruiva sul principio della diffidenza (224).

Secondo il relatore, l'atto sottoposto al vaglio del Parlamento avrebbe rappresentato, invece, uno strumento di miglioramento delle legislazioni nazionali, vista la protezione dei bambini e dei minori non accompagnati, l'accesso ai servizi sanitari, nonché la configurazione della detenzione solo in caso di necessità; pertanto dichiarava di non comprendere le forti critiche avanzate dalle organizzazioni non governative (225).

Nonostante le forti opposizioni, il 18 giugno 2008 il compromesso raggiunto fu approvato dal Parlamento europeo in prima lettura con 369 voti favorevoli, 197 contrari e 106 astensioni (226).

3.3.5. Il testo finale della 'direttiva rimpatri'

La direttiva 2008/115/CE, dal punto di vista della sua applicazione geografica, costituisce l'esempio di un Europa a geometria variabile, in ragione della mancata partecipazione di tre Stati membri.

Nella misura in cui si applica ai cittadini di Paesi terzi che non soddisfano o non soddisfano più le condizioni d'ingresso ai sensi della Convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen, la 'direttiva rimpatri' costituisce uno sviluppo dell'acquis di Schengen (227); pertanto la Danimarca, alla luce di quanto previsto dal Protocollo n. 5 allegato al Trattato, nei sei mesi successivi all'adozione dell'atto, avrebbe potuto decidere di recepire la direttiva.

La Danimarca non ha, tuttavia, manifestato nessuna volontà in tale senso, pertanto non deve ritenersi vincolata alla suddetta direttiva.

Per quanto riguarda il Regno Unito e l'Irlanda, questi hanno deciso di non partecipare all'adozione della direttiva, dunque non risultano assoggettati alla sua applicazione, né in alcun modo vincolati (228); tuttavia, il Regno Unito decise di partecipare ugualmente alla discussione in seno al Consiglio, suggerendo spesso emendamenti da apportare al testo della direttiva.

La direttiva si applicherà, invece, alla Norvegia, alla Svizzera, all'Islanda e al Liechtenstein in virtù degli accordi conclusi con Unione europea per l'attuazione, l'applicazione e lo sviluppo dell'acquis di Schengen (229).

L'ambito di applicazione è definito dall'art. 2, secondo il quale, la direttiva si applica ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro è irregolare (230), ossia quando non sono soddisfatte o non più soddisfatte le condizioni d'ingresso che il Codice frontiere Schengen fissa all'art. 5 oppure le altre condizioni previste dai singoli Stati in materia di ingresso e soggiorno (231). La nozione di 'irregolarità' del soggiorno si caratterizza, dunque, per un'area comune e per una che continuerà a variare da uno Stato membro all'altro.

Si consente, invece, agli Stati di non applicarla ai cittadini di paesi terzi: (a) sottoposti a respingimento alla frontiera conformemente all'articolo 13 del codice frontiere Schengen ovvero fermati o scoperti dalle competenti autorità in occasione dell'attraversamento irregolare via terra, mare o aria della frontiera esterna di uno Stato membro e che non hanno successivamente ottenuto un'autorizzazione o un diritto di soggiorno in tale Stato membro; (b) sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità della legislazione nazionale, o sottoposti a procedure di estradizione.

Questa prima disposizione riflette, più di tutte, l'approccio minimalista mantenuto dal Consiglio durante il processo di negoziazione della direttiva (232), che ha finito per impedire un significativo riavvicinamento delle legislazioni nazionali in materia di rimpatri.

Con riferimento alla lettera (a), la conseguenza potrebbe essere quella che la direttiva sia applicata unicamente alle 'espulsioni in senso stretto', ossia a quei casi in cui lo straniero irregolare si trovi già sul territorio nazionale, evitando di regolare a livello comune il respingimento all'ingresso (233) e lasciando, dunque, agli Stati la piena libertà di esercitare quella sovranità, riconosciuta a livello internazionale, che si concretizza nel decidere chi ammettere o meno all'interno dei propri confini.

La proposta iniziale della Commissione prevedeva la possibilità di escludere l'applicazione della direttiva allo straniero a cui fosse stato rifiutato l'ingresso in una 'zona di transito'. Le ragioni di una simile esclusione sono spiegate nell'explanatory memorandum della Commissione (234), dove si afferma che gli stranieri a cui sia stato rifiutato l'ingresso e che si trovano in una 'zona di transito' sono, in numerosi Stati membri, soggetti ad una disciplina speciale: attraverso una 'finzione legale', infatti, queste persone non sono considerate 'staying in the territory' degli Stati membri e pertanto sottostano a regole diverse. Riconoscendo la differenziazione utilizzata dai diversi Stati membri nel trattare le persone in tali situazioni, la Commissione propose, dunque, la possibilità di non applicare la direttiva a coloro cui fosse stato rifiutato l'ingresso nello Stato membro mentre si trovavano in una 'zona di transito'.

La disposizione trovava tuttavia l'opposizione del Consiglio che voleva esonerare non solo chi si trovasse nella 'zona di transito', ma anche tutti coloro che fossero fermati in occasione dell'attraversamento irregolare delle frontiere (235).

Il compromesso tra une definizione estensiva voluta dal Consiglio e una più restrittiva voluta dal Parlamento arrivò solo nel momento delle negoziazioni informali, all'inizio del 2008, durante le quali si decise da una parte di prendere a riferimento l'art. 13 del Codice frontiere Schengen e dall'altra di mutuare la terminologia più restrittiva dell'art. 8, par. 1, del Regolamento «Eurodac» (236), che tratta di coloro che sono «fermati dalle competenti autorità di controllo in relazione all'attraversamento irregolare via terra mare o aria della propria frontiera in provenienza da un paese terzo».

La disposizione, nella formulazione pensata dalla Commissione, fu inoltre modificata in quanto si riteneva che potessero crearsi dei contrasti con l'art. 5 della CEDU (237): nella sentenza Amuur c. Francia (238), la Corte europea dei diritti dell'uomo aveva, infatti, condannato la Francia per violazione dell'art. 5 per aver disposto il trattenimento nei confronti di alcuni richiedenti asilo nella zona internazionale dell'aeroporto di Paris-Orly, la quale «nonostante la sua denominazione [...] non beneficia dello statuto della extra-territorialità», di conseguenza, il diritto interno avrebbe dovuto «offrire una protezione adeguata e la sicurezza giuridica necessaria per prevenire le minacce arbitrarie del potere pubblico ai diritti garantiti dalla Convenzione».

Si ricorda, tuttavia, che nel corso dei frequenti 'triloghi' con il Consiglio, il Parlamento europeo riuscì a far inserire una norma capace di garantire quanto meno un livello di protezione per coloro che sono esclusi dall'ambito di applicazione della direttiva: all'art. 4, par. 4, si stabilisce infatti che gli Stati membri devono assicurare adeguate garanzie, anche in termini di prestazioni sanitarie d'urgenza (239), nonché vigilare sul rispetto del principio di non-refoulement.

L'obbligo di non-refoulement, affermato per la prima volta a livello internazionale dalla Convenzione relativa allo statuto internazionale dei rifugiati del 1933, è ora riconosciuto nella Convenzione di Ginevra del 1951 all'art. 33, il quale però, a differenza del precedente testo, non richiede più agli Stati di astenersi esplicitamente dal non ammettere rifugiati alla frontiera dello Stato (240). Le iniziali incertezze interpretative sono state ben presto superate dalle prassi degli Stati e dai numerosi documenti internazionali (241), secondo i quali nel divieto di refoulement vanno ricomprese anche le persone che si trovano alla frontiera; tale tesi è oltretutto confermata dalla Convenzione di Vienna del 1969 relativa all'interpretazione dei trattati che, all'art. 31, stabilisce che il trattato deve essere interpretato «alla luce del suo oggetto e del suo scopo», e certamente non si può negare che lo scopo della Convenzione di Ginevra sia quello di proteggere i rifugiati (242).

In ogni caso, i richiami operati dalla 'direttiva rimpatri' nel considerando n. 26 e nell'art. 4, par. 2, che si riferisce al respingimento (243), sgombrano il campo da qualsiasi discussione.

Con riguardo alla seconda deroga, questa sembra essere stata inserita affinché la direttiva non interferisse con i provvedimenti dell'autorità giudiziaria ma il rischio maggiore poteva essere quello di consentire agli Stati di astenersi dall'applicazione della direttiva nei casi in sui la sanzione penale fosse diretta conseguenza del reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio dello Stato (244).

Già prima che la Corte di giustizia dell'Unione europea (245) si pronunciasse su tale problematica, parte della dottrina (246) aveva sostenuto che una simile interpretazione estensiva avrebbe finito per frustrare l'effetto utile della direttiva, limitando la portata applicativa dell'atto comunitario, e dunque, anche alla luce della giurisprudenza che vincola la discrezionalità degli Stati al rispetto dei principi generali di leale cooperazione e dell'effetto utile (247), si doveva ritenere che gli Stati potessero evitare di applicare la direttiva solo nelle ipotesi di espulsioni che fossero conseguenza di una sanzione comminata per un reato diverso dall'ingresso e il soggiorno irregolari.

Nonostante la sentenza resa nel caso Achughbabian lasci in sospeso alcune questioni, come vedremo nel capitolo sulla Francia, sotto il profilo problematico dell'ambito di applicazione dell'art. 2, par. 2, lettera (b), la pronuncia della Corte può dirsi veramente risolutiva: questa, infatti, respingendo la tesi del governo francese, il quale riteneva applicabile al reato di clandestinità la deroga in questione, afferma che l'art. 2, par. 2, lettera (b) «non può manifestamente essere interpretato, salvo privare la direttiva della sua ratio e del suo effetto vincolante, nel senso che gli Stati possono omettere di applicare le norme e le procedure comuni previste dalla direttiva in parola ai cittadini di Paesi terzi che abbiano commesso solo l'infrazione consistente nel soggiorno irregolare» (248).

In ogni caso, la direttiva non si applica ai cittadini comunitari, nonché ai loro familiari (249) e ai cittadini di paesi terzi che in virtù di accordi con l'Unione europea godono di un regime giuridico analogo a quello dei cittadini comunitari (250).

Occorre ricordare inoltre che la direttiva, al pari della proposta, non si occupa dei motivi per i quali si pone fine al soggiorno irregolare: il mancato riavvicinamento delle legislazioni con riferimento alle condizioni per l'ingresso, il soggiorno e l'espulsione (251) costituisce senza dubbio uno degli aspetti più critici della normativa in esame (252).

Ai sensi dell'art. 5, gli Stati devono tenere in debita considerazione l'interesse superiore del bambino, la vita familiare e le condizioni di salute. Ciò vuol dire che i minori o le persone con problemi di salute non sono immuni alle decisioni di rimpatrio, ma devono beneficiare di un trattamento preferenziale nel corso dello svolgimento delle procedure. Sul punto sono già state illustrate, al momento dell'esame della proposta della Commissione, le resistenze degli Stati in seno al Consiglio circa il mantenimento di tale disposizione, considerata eccessivamente garantista; per questo motivo tali riferimenti erano stati espunti dalla direttiva e menzionati unicamente nel Preambolo (253). Tuttavia il richiamo è stato reinserito nella versione di febbraio 2008 e, successivamente, nel testo finale.

In linea con il considerando n. 6, all'art. 6 viene sancito a livello europeo il principio di inammissibilità del soggiorno irregolare dei cittadini di paesi terzi, nei confronti dei quali deve obbligatoriamente essere adottata una decisione di rimpatrio, salvo le deroghe di cui ai paragrafi 2 e 5. Dal testo della Commissione è stata, invece, eliminata la limitazione al potere di espulsione dello Stato in presenza di obblighi derivanti dai diritti fondamentali, e in particolare, dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ora, menzionata solo nei preambolo della direttiva.

L'alternativa secca offerta agli Stati membri è quella, dunque, di espellere o regolarizzare i migranti irregolari presenti sul proprio territorio (254). Tuttavia la possibilità di sanatorie, compresa tra le competenze dei singoli Stati dalla stessa direttiva (255), sembra essere stata fortemente ridimensionata dal Patto sull'immigrazione e l'asilo del 2008 (256), il quale invita gli Stati a «limitarsi a regolarizzazioni caso per caso e non generali (...) per motivi umanitari o economici» (257). Nonostante tale patto non sia dotato di forza vincolante, costituisce un accordo politico forte volto a screditare le pratiche di regolarizzazione 'di massa' di alcuni paesi europei.

Si deve concludere che lo strumento privilegiato a livello di Unione europea per fronteggiare l'immigrazione irregolare sia quello della loro espulsione, pur sempre dando precedenza al rimpatrio volontario.

Le deroghe di cui ai paragrafi 2 e 5 riguardano in primo logo il cittadino di un paese terzo che sia in possesso di un permesso di soggiorno o di altra autorizzazione che conferisca il diritto al soggiorno rilasciati da un altro Stato membro (nel quale dovrà immediatamente recarsi) e, in secondo luogo, il caso in cui lo Stato decida di astenersi dall'emettere la decisione di rimpatrio nei confronti del cittadino irregolare che abbia iniziato una procedura per il rinnovo del permesso di soggiorno.

La procedura di rimpatrio (258) è costruita come un processo graduale (259) che inizia con la concessione di un termine per la partenza volontaria e può arrivare fino al trattenimento e all'accompagnamento coattivo alla frontiera.

La decisione di rimpatrio deve fissare un termine congruo per la partenza volontaria compreso, di norma, tra i sette e i trenta giorni (260), ma è suscettibile di essere prorogato tenuto conto «delle circostanze specifiche del caso individuale, quali la durata del soggiorno, l'esistenza di bambini che frequentano la scuola e l'esistenza di altri legami familiari e sociali» (261).

Nonostante vi fosse un generale consenso nel ritenere preferibile il rimpatrio volontario rispetto a quello forzato, l'accordo su tale previsione fu estremamente arduo da trovare: le resistenze da parte degli Stati membri erano motivate dalla preoccupazione delle ricadute che una simile procedura avrebbe avuto sulla gestione dei rimpatri, considerato il rischio di fuga degli immigrati in questa fase (262).

Tuttavia, tale priorità data al ritorno volontario rispetto a quello forzoso, si rivela, secondo alcuni (263), «illusoria» visto che l'obbligo degli Stati di corredare la decisione di rimpatrio con un termine per la partenza volontaria è «svuotato di sostanza» per due motivi: da una parte, si permette agli Stati di astenersi dal concedere un termine qualora sussista un rischio di fuga o la domanda di soggiorno irregolare sia stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta ovvero il cittadino di paese terzo costituisca un pericolo per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale (264); dall'altra si lascia la libertà allo Stato di prevedere che il termine venga concesso unicamente su richiesta del cittadino del paese terzo, con l'obbligo, comunque di informarlo della possibilità di inoltrare tale richiesta (265). Nel primo caso la formulazione della norma è talmente ampia da lasciare totale discrezionalità al legislatore nel prevedere i casi in cui potrà non essere concesso un periodo per la partenza volontaria, nonostante l'art. 3 nel momento in cui definisce il «rischio di fuga» richieda «la sussistenza in un caso individuale di motivi basati su criteri obiettivi definiti dalla legge per ritenere che un cittadino di un paese terzo oggetto di una procedure di rimpatrio possa tentare la fuga» (266). Nel secondo caso, invece, la possibilità di scegliere se usufruire del rimpatrio volontario ricade interamente sullo straniero, che qualora non richieda il termine per la partenza sarà assoggettato all'allontanamento con accompagnamento alla frontiera (267).

La concessione del periodo per la partenza volontaria può essere accompagnato da alcune misure quali l'obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l'obbligo di dimorare in un determinato luogo (268), che hanno lo scopo di evitare il rischio di fuga del cittadino di paese terzo. Il rischio di fuga è anche però il presupposto per permettere agli Stati di astenersi dal concedere il termine per il rimpatrio volontario, dunque per conciliare le due disposizioni si dovrà ritenere quest'ultima possibilità come l'estrema ratio, favorendo, invece, l'imposizione di altri obblighi qualora siano comunque idonei a garantire che lo straniero non si sottragga al rimpatrio.

Nel caso in cui non venga concesso il termine per la partenza volontaria o questo non venga rispettato, gli Stati adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio, comprese - in ultima istanza - misure coercitive qualora il cittadino straniero opponga resistenza al rimpatrio; le misure coercitive dovranno essere proporzionate e non dovranno eccedere l'uso ragionevole della forza e, comunque, dovranno essere attuate «in ottemperanza ai diritti fondamentali e nel debito rispetto delle dignità e dell'integrità fisica del cittadino di un paese terso interessato» (269).

L'obbligo di allontanamento è sottoposto, comunque, ad alcune eccezioni: si deve disporre obbligatoriamente il rinvio della misura laddove si violi il principio di non-refoulement o sia stata concessa la sospensione dell'esecuzione ai sensi dell'art. 13 par. 2, mentre in tutti gli altri casi, il rinvio è solo facoltativo ma gli Stati dovranno tenere conto, in particolare, delle condizioni fisiche e mentali del cittadino, l'assenza di trasporti o la mancata identificazione.

La direttiva non si occupa, tuttavia, di disciplinare il trattamento delle persone che non possono essere allontanate, nonostante si possa implicitamente ricavare un dovere degli Stati di regolarizzare laddove non si possa espellere. La Commissione aveva proposto, a ragione, il rilascio di un apposito permesso di soggiorno, al fine di evitare di lasciare tali persone senza alcuna possibilità di accedere ad un lavoro o a prestazioni sociali (270). L'accordo con il Consiglio, tuttavia, non è stato trovato, pertanto questi immigrati irregolari, qualora i governi non predispongano adeguati canali per la sanatoria della loro posizione, saranno verosimilmente condannati ad un 'limbo' perenne, senza la speranza di accedere ad una qualche stabilità (271). In ogni caso, queste persone non potranno essere ulteriormente trattenute oltre il limite massimo di diciotto mesi di cui all'art. 15 della direttiva in questione. Sulla questione si è pronunciata la Corte di giustizia nelle sentenze Kadzoev (272) e El Dridi (273).

Uno degli aspetti più criticati della direttiva riguarda le previsioni circa il rimpatrio di minori non accompagnati (274): si estende anche a questi, infatti, la possibilità di essere oggetto di una decisione di rimpatrio, sebbene, prima dell'allontanamento - ma comunque dopo l'adozione della decisione -, lo Stato debba accertare che questi sia ricondotto «ad un membro della sua famiglia, a un tutore designato o presso adeguate strutture di accoglienza nello Stato di rimpatrio» (275). Le critiche che una simile disposizione solleva, nonostante i frequenti richiami nel testo e nel preambolo alla tutela dell'interesse superiore del minore, riguardano la mancata considerazione dei differenti modelli familiari che possono sussistere nei Paesi di provenienza (o transito) dei soggetti interessati, ponendo dei rilevanti problemi a livello interpretativo, nonché il parametro di adeguatezza, richiesto per le strutture di accoglienza, che può prestarsi anche a valutazioni poco rigorose (276).

Al fine di «conferire una dimensione europea agli effetti delle misure nazionali di rimpatrio» (277) e considerato il miglior deterrente al soggiorno irregolare, è previsto un divieto di reingresso all'art. 11 della direttiva il quale proibisce «l'ingresso e il soggiorno nel territorio di tutti gli Stati membri» (278). Ai sensi dall'art. 3, n. 6, della direttiva il divieto di reingresso è definito come la decisione ovvero l'atto amministrativo o giudiziario che vieta l'ingresso o il soggiorno sul territorio degli Stati membri per un periodo determinato e che accompagna una decisone di rimpatrio. Su tale istituto, si ricordano, le posizioni diametralmente opposte del Consiglio e del Parlamento: il primo orientato a rendere obbligatoria la previsione del divieto in tutti i casi in cui venisse adottata una decisione di rimpatrio, il secondo desideroso di mantenerlo facoltativo (279).

Il compromesso, trovato vicino all'iniziale proposta della Commissione, stabilisce che di tale divieto sono necessariamente corredate le decisioni di rimpatrio, qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria o quando lo straniero non abbia ottemperato all'obbligo stesso; in tutti gli altri casi è lasciata facoltà gli Stati di prevederlo o meno. Quest'ultima possibilità, nonostante debba ritenersi eccezionale, sembra allo stesso tempo svuotare di sostanza quanto precedentemente affermato sull'esigenza di attribuire una dimensione orizzontale alle misure di rimpatrio dei singoli Stati, perché lascia ampia discrezionalità agli Stati nella previsione degli ulteriori casi in cui prevedere tale divieto di reingresso, mettendo in discussione così l'obiettivo dell'armonizzazione (280).

La durata del divieto di reingresso non può eccedere i cinque anni e la sua applicazione dovrà essere individualizzata, ossia misurata sulla base delle circostanze del caso concreto (281). Nel caso in cui il cittadino di paese terzo dimostri tuttavia di aver lasciato il territorio di uno Stato membro in piena ottemperanza della decisione di rimpatrio, gli Stati possono valutare la possibilità di revocare o sospendere il divieto di reingresso (282).

A questo proposito gli Stati dovrebbero disporre di un accesso rapido alle informazioni riguardanti i divieti d'ingresso di altri Stati membri (283), tramite il sistema di informazione Schengen di seconda generazione (SIS II) (284).

Il terzo capo della direttiva riguarda le garanzie procedurali, in particolare, i requisiti di forma dell'atto, la previsione di mezzi di ricorso e altre garanzie che dovrebbero essere assicurate prima del rimpatrio.

Tutte le decisioni relative al rimpatrio, l'allontanamento e il divieto di reingresso dovranno essere adottate in forma scritta e motivate sia in fatto che in diritto con l'indicazione specifica dei mezzi di ricorso a disposizione dell'interessato (285). Come si è visto, si tratta di una disposizione molto discussa e osteggiata da molti Stati, tanto che nel testo finale è stata aggiunta una norma che consente agli Stati di ridurre le informazioni sui motivi in fatto qualora la legislazione nazionale permetta di limitare il diritto di informazione «per salvaguardare la sicurezza nazionale, la difesa, la pubblica sicurezza e per la prevenzione, le indagini, l'accertamento e il perseguimento di reati».

Su richiesta, gli Stati procedono anche alla traduzione dei principali elementi delle decisioni in una lingua comprensibile per il cittadino di un paese terzo o che si può ragionevolmente supporre tale; tale garanzia non si applica tuttavia a coloro che sono entrati irregolarmente sul territorio dello Stato (286). Le decisioni connesse al rimpatrio devono essere adottate per mezzo di un «modello uniforme previsto dalla legislazione nazionale»: tale disposizione pone, tuttavia, il rischio di una standardizzazione delle decisioni di rimpatrio che invece dovrebbe essere il più possibile individualizzate e basate sulle circostanze del singolo caso concreto (287).

Per quanto riguarda i mezzi di ricorso, la proposta della Commissione era molto garantista in quanto prevedeva in ogni caso il diritto di ricorrere dinanzi ad un giudice e un effetto sospensivo dell'esecuzione della decisione, almeno fino alla pronuncia sul merito della richiesta di sospensione (288). Ad una simile previsione, che prevedeva un ricorso obbligatoriamente giurisdizionale si erano opposti ben undici Stati in seno al Consiglio e tredici avevano manifestato riserve circa l'effetto sospensivo di un tale rimedio (289).

Per questi motivi, nel testo approvato a giugno si stabilisce che il ricorso potrà essere presentato indifferentemente dinanzi ad un'autorità giudiziaria o amministrativa competente o ad un organo competente composto da membri imparziali che offrono garanzie di indipendenza (290) e che tale autorità o organo avrà, altresì, la facoltà di sospendere in maniera temporanea l'esecuzione della decisione (291).

Il cittadino di un paese terzo ha la facoltà di farsi rappresentare da un legale e il diritto, laddove richiesto, al gratuito patrocinio ai sensi della legislazione nazionale. Gli stati possono disporre, dal canto loro, che tale assistenza e/o rappresentanza gratuita sia soggetta alle condizioni di cui all'art. 15, paragrafi da 3 a 6, della direttiva 2005/85/CE (292).

La disposizione sul gratuito patrocino è quella che ha incontrato maggiori resistenze tra gli Stati, per questo motivo si è preferito rimandare, nel testo finale della direttiva, alla legislazione nazionale ed è stato concesso un termine più lungo per l'attuazione della direttiva nell'ordinamento interno, passando da ventiquattro mesi dall'entrata in vigore dell'atto a trentasei (293).

Durante il periodo per la partenza volontaria si garantisce che sia mantenuta l'unità del nucleo familiare, che siano assicurate le prestazioni sanitarie d'urgenza, che sia assicurato l'accesso al sistema educativo di base per i minori e che si prendano in considerazione le esigenze particolari delle persone vulnerabili; in questo caso gli Stati devono confermare, per iscritto, la proroga del periodo o che l'esecuzione è stata temporaneamente sospesa (294).

Uno dei temi centrali e più discussi della direttiva è il trattenimento: previsto dall'art. 15 e ispirato al principio di proporzionalità e necessità, il trattenimento può essere disposto se nel caso concreto non possono essere efficacemente applicate altre misure sufficiente ma meno coercitive e unicamente al fine di preparare il rimpatrio e/o effettuare l'allontanamento. In particolare, lo straniero irregolare può essere trattenuto quando sussiste un rischio di fuga o la persona ostacola il rimpatrio. Nella proposta della Commissione, l'unica situazione capace di legittimare il trattenimento era la presenza di un pericolo di fuga, successivamente il Parlamento europeo propose di aggiungere «la minaccia all'ordine pubblico» (295) nel caso di espulsioni di presunti terroristi che non possono essere eseguite per il rischio di tortura o trattamenti disumani o degradanti nel paese di destinazione (296). Si precisa che il periodo di detenzione deve durare il meno possibile e «solo per il tempo necessario all'espletamento diligente delle modalità di rimpatrio»: ciò vuol dire che il trattenimento non può costituire un passaggio obbligato tutte le volte che si deve eseguire l'allontanamento (297), dovendo essere applicato solo in presenza di determinati requisiti e come ultima ratio. La misura può essere disposta - a differenza di quanto previsto nell'originale proposta della Commissione (298) - dall'autorità amministrativa che dall'autorità giudiziaria e deve essere motivata, in fatto e in diritto, per iscritto (299); nel caso in cui il provvedimento venga adottato dall'autorità amministrativa è previsto però, a scelta degli Stati, un pronto riesame giudiziario o il diritto a presentare ricorso ad un giudice da parte del cittadino di paese terzo.

La proposta, come visto, prevedeva invece che la 'custodia temporanea' fosse disposta solo dall'autorità giudiziaria, salvo casi urgenti in cui si accordava all'autorità amministrativa di disporla qualora fosse convalidata entro settantadue ore dall'autorità giudiziaria; in ogni caso era previsto un controllo giurisdizionale sulla misura almeno una volta al mese. Sul punto vi furono numerose obiezioni: in particolare, si ricorda quella della delegazione olandese (300) che contestò il requisito del pronto riesame giudiziario della detenzione sulla base del motivo che questo avrebbe rappresentato un sovraccarico dell'attività del giudice e che tale garanzia non fosse nemmeno imposta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale aveva sostenuto che la convalida giudiziaria fosse necessaria solo nel caso di carcerazione preventiva (art. 5, par. 3, lett. (c) della CEDU) e non in caso di detenzione in vista dell'espulsione (301).

In conseguenza delle numerose riserve formulate dagli Stati, il testo finale richiede il controllo dell'autorità giudiziaria solo nel caso di trattenimenti prolungati e non più ogni mese (302).

Per quanto concerne la durata del trattenimento, questa, di norma, non dovrebbe superare i sei mesi. Proprio su questo aspetto si sono scatenate le più forti critiche delle organizzazioni non governative: infatti, in presenza di determinate circostanze, l'iniziale periodo di sei mesi, può essere prolungato fino ad ulteriori dodici (303).

Il prolungamento sarà possibile qualora «nonostante si sia compiuto ogni ragionevole sforzo, l'operazione di allontanamento rischia di durare più a lungo a causa della mancata cooperazione da parte del cittadino di un paese terzo interessato o dei ritardi nell'ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi» (304). Nonostante i limiti stringenti che si pongono alle proroghe degli iniziali sei mesi, le preoccupazioni che ha destato questa nuova disposizione sono state moltissime, soprattutto considerando il rischio che avrebbe potuto abbassare le garanzie di diversi Stati che fino a quel momento prevedevano un tetto massimo alla detenzione amministrativa nettamente inferiore (305). Ciò che sicuramente stupisce è il fatto che il primo a proporre un simile emendamento fu proprio il Parlamento europeo (306).

Tuttavia si deve riconoscere che l'iniziale proposta del Consiglio prevedeva un trattenimento amministrativo a durata illimitata, come d'altronde previsto in alcuni Stati, come il Regno Unito e la Svezia, per i quali la direttiva viene sicuramente a rappresentare un miglioramento.

Difficile vederne, secondo alcuni, gli aspetti positivi se si considera però che tale durata si applica, in linea di principio, anche ai minori, nonostante la tutela, seppur meramente dichiarativa, di cui all'art. 17, ai sensi del quale i minori non accompagnati sono trattenuti «solo in mancanza di altra soluzione e per un periodo il più breve possibile».

All'art. 16 sono, inoltre, brevemente descritte le condizioni in cui dovrà avvenire il trattenimento: dovrà essere disposto in appositi centri di permanenza temporanea e, qualora non sia possibile, in istituti penitenziari separatamente dagli altri detenuti. È prevista la possibilità di entrare - a tempo debito - in contatto con rappresentanti legali, familiari e autorità consolari competenti se l'interessato lo richiede e sono assicurate le prestazioni sanitarie d'urgenza. Le organizzazioni nazionali, internazionali e non governative sono ammesse, infine, all'accesso nei centri di permanenza temporanea, previa eventuale autorizzazione.

Nel testo finale è stato eliminato il capitolo della proposta concernete il caso di cittadini di paesi terzi, destinatari di un provvedimento di allontanamento o una decisione di espulsione, che siano arrestati in un altro Stato membro.

In conclusione, si prevede che in caso di situazioni di emergenza (307), comportanti un numero eccezionalmente elevato di cittadini di paesi terzi da rimpatriare lo Stato possa derogare ad alcune delle condizioni del trattamento: possono essere prorogati i termini per il ricorso giudiziario, è possibile trattenere gli stranieri nelle carceri piuttosto che nei centri di permanenza temporanea e si può procedere alla separazione delle famiglie (308). Si tratta comunque di una situazione eccezionale che non può essere sfruttata dagli Stati per derogare agli obblighi imposti dalla direttiva (309).

3.4. Le reazioni europee e internazionali alla 'direttiva rimpatri'

Nella fase finale delle negoziazioni, tra la primavera e l'estate del 2008, la 'direttiva rimpatri' fu sommersa da un'ondata di critiche provenienti, principalmente, da numerose organizzazioni internazionali e non governative, nonché da parte di intellettuali ed artisti europei, tra i quali - si ricordano - Margherita Hack, Pedro Almodòvar, Moni Ovadia e Dario Fo (310).

Le forti opposizioni, tuttavia, non stimolarono alcun passo indietro delle istituzioni europee, decise a portare a termine il lungo processo di discussione e negoziazione della direttiva. Il 9 dicembre dello stesso anno, infatti, qualche mese dopo la votazione del Parlamento europeo, il compromesso venne approvato nello stesso testo anche dal Consiglio.

Tra le voci di dissenso molte si levarono dall'America Latina, considerata un'importante partner strategico per l'Unione europea, anche dal punto di vista della gestione dell'immigrazione regolare e irregolare. Alcune organizzazioni sudamericane deprecavano l'adozione dell'atto europeo come un'ingiustizia verso chi per secoli aveva accolto i migranti provenienti dall'Europa (311).

Anche a livello individuale, tutti i capi di governo dell'America Latina condannarono la 'direttiva rimpatri' per le sue storture repressive. Il giorno seguente l'approvazione del compromesso da parte del Parlamento europeo, il Presidente del Venezuela, Hugo Chavez, minacciò di sospendere l'invio del petrolio a quegli Stati europei che avessero applicato la direttiva; dall'altra parte, il Presidente dell'Ecuador, Rafael Correa, avvertì della possibilità di sospendere i negoziati commerciali tra la Comunità Andina delle Nazioni (Bolivia, Colombia, Ecuador e Perù) e l'Unione europea (312), se questa avesse perseguito nel suo intento di criminalizzare gli immigrati (313).

Non solo, nel disperato tentativo di convincere i parlamentari europei a non votare il testo in questione, il Presidente della Bolivia, Evo Morales aveva pubblicato una lettera sul quotidiano francese Libération (314) con la quale cercava di dimostrare come i flussi migratori fossero un beneficio tanto per gli Europei quanto per il Terzo mondo, facendo leva sulla secolare ospitalità dell'America Latina, che anche, a suo discapito, aveva sempre accolto migliaia di immigrati giunti dall'Europa senza visto: «l'attuale prosperità dell'Europa è fonte di ammirazione per tutte le periferie del mondo e occasione per molti di spostarsi, non solo per migliorare i proprio status, ma anche per contribuire allo sviluppo economico e al dinamismo demografico del vecchio continente». Ora, la 'direttiva rimpatri' sembrava mettere in discussione tutto questo prevedendo, tra l'altro, un trattenimento amministrativo fino a diciotto mesi per il solo fatto dell'irregolarità del soggiorno, senza 'processo', né 'giustizia' e, pertanto, palesemente in contrasto con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948. Inoltre, alle stesse parole del presidente boliviano si ritiene sia da attribuire la paternità dell'espressione 'direttiva della vergogna' (directive de la honte).

Le censure vennero indirizzate, in particolare, contro il Parlamento europeo che aveva approvato il testo senza proporre un solo emendamento, e contro il governo spagnolo che, sia in Parlamento che in seno al Consiglio, aveva sostenuto il compromesso (315), ritenendo che si sarebbe rilevato un apprezzabile strumento di protezione dei diritti dei migranti.

Invero, il Capo di Governo spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, in un'audizione di fronte al Congresso del Deputati del 15 giugno 2008, aveva difeso a spada tratta la nuova disciplina europea mettendone in mostra gli effetti positivi che questa avrebbe prodotto in molti Stati membri, le cui legislazioni prevedevano una soglia di trattamento degli stranieri da espellere decisamente inferiore (316); lo stesso affermò che i paesi dell'America Latina non avevano compreso la reale portata della direttiva e, per questo, riteneva necessaria un'azione del proprio governo e del Parlamento europeo nell'illustrazione delle nuove regole (317). Il governo spagnolo ebbe così l'occasione di ribadire il proprio sostegno alla direttiva, in quanto la riteneva capace di migliorare gli standard nazionali esistenti, per esempio con riferimento all'imposizione di un tetto massimo alla detenzione amministrativa, mancante in diversi paesi d'Europa. La Spagna tentò inoltre di rassicurare l'America Latina mettendo in luce le migliori garanzie offerte dalla propria legislazione, la quale non sarebbe stata modificata per effetto dell'entrata in vigore della 'direttiva rimpatri' (318).

A livello internazionale, la 'direttiva rimpatri' ricevette alcune censure anche da parte di dieci membri indipendenti del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, i quali in una lettera indirizzata alla presidenza di turno francese (319), biasimarono il testo di compromesso approvato, per aver legittimato la detenzione amministrativa fino a diciotto mesi, ricordando che l'irregolarità del soggiorno non può essere causa di criminalizzazione degli stranieri. Gli esperti incoraggiano gli Stati a rafforzare le garanzie procedurali, la previsione del riesame giurisdizionale della misura del trattenimento e la protezione dei gruppi più vulnerabili, più esposti alle restrizioni della nuova misura europea.

Preoccupazioni vennero espresse anche dall'Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (320), il quale nonostante avesse apprezzato l'inserimento nella direttiva del principio di non-refoulement, lo ritenne non adeguatamente salvaguardato: l'UNHCR proponeva di estendere l'applicazione della direttiva anche a quei casi in cui la domanda di asilo fosse stata rigettata senza una decisione sul merito della questione, perché il paese verso cui rinviare era considerato sicuro o per altre ragioni procedurali. Fuori dall'ambito di applicazione si riteneva, infatti, insufficiente la protezione accordata: l'art. 2, par. 2, della direttiva permette agli Stati di astenersi dall'applicare la direttiva ai cittadini di paesi terzi fermati in occasione dell'attraversamento irregolare delle frontiere esterne, che non hanno successivamente ottenuto un autorizzazione a rimanere. Ciò vuol dire che le garanzie previste dalla direttiva si applicheranno principalmente a coloro che sono entrati legalmente nel territorio degli Stati membri, un'ipotesi difficilmente configurabile con riguardo alle persone in cerca di protezione, che nella stragrande maggioranza di casi giungeranno alle porte di ingresso dell'Unione europea senza visto d'ingresso. L'UNHCR considerava, inoltre, non opportunamente ponderati i particolari bisogni delle persone più vulnerabili e dei minori non accompagnati.

A livello europeo, un'azione delle organizzazioni non governative in difesa di diritti dei migranti si manifestò già a partire dall'agosto del 2005, quando la Cimade, insieme ad altri partner europei (321), propose una serie di principi comuni sull'espulsione degli stranieri in situazione irregolare: in particolare si sosteneva un ricorso eccezionale alla detenzione amministrativa, la preferenza da attribuire al ritorno volontario, la protezione delle persone vulnerabili e un rimedio effettivo contro la misura dell'allontanamento, con efficacia sospensiva.

Presto le spinte per un miglioramento della proposta della Commissione si trasformarono in forti esortazioni al rigetto del testo della direttiva, ormai irrimediabilmente destinato ad una torsione repressiva nella gestione dell'immigrazione irregolare. Anche dopo l'approvazione degli emendamenti alla proposta da parte della Commissione LIBE era chiara, infatti, la direzione verso l'istituzionalizzazione dell'allontanamento e della detenzione degli stranieri in situazione irregolare (322). In particolare, il testo non sembrava ispirarsi alle migliori pratiche allora esistenti in taluni Stati membri, ma tendeva ad un compendio degli standard più bassi, producendo una sostanziale armonizzazione verso il basso: alcuni di questi furono mutuati proprio dalla legislazione tedesca che prevedeva un trattenimento amministrativo fino a diciotto mesi, un divieto di reingresso pressoché sistematico e un sistema di protezione degli stranieri molto debole.

Le sollecitazioni rivolte ai membri del Parlamento europeo sfociarono in un appello («No to the outrageous Directive!») (323) che venne firmato da più di quattrocento organizzazioni europee (324) e più di ottomila cittadini. Il documento si proponeva di richiamare l'attenzione di tutti i parlamentari europei, per convincerli a rigettare il progetto di direttiva in nome di una 'storica responsabilità': impedire che l'Europa tornasse a quell'epoca di segregazione degli 'indesiderati' attraverso la sistematica detenzione e il rimpatrio forzato.

Tra i detrattori della 'direttiva rimpatri' si riscontrarono anche alcuni politici europei come Michele Rocard e Jacques Delors (325), i quali criticavano che il primo utilizzo della procedura di codecisione nella materia dell'immigrazione avesse riguardato misure repressive, trascurando il fatto che a livello europeo non si fosse ancora proceduto alla definizione delle condizioni di accoglienza e di integrazione dei cittadini di paesi terzi (326).

Altri ancora hanno sostenuto che, inaugurando questa nuova politica in materia di rimpatri, l'Unione europea rischiava di violare la libertà di movimento dei cittadini di paesi terzi riconosciuta dall'art. 13, § 2, della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (327), perché per salvaguardare la libertà di circolazione all'interno dello spazio europeo impediva la stessa al di là delle sue frontiere (328).

Dal canto suo la Commissione uscì con un comunicato stampa in cui elencò 'Nove ragioni per adottare la Direttiva Rimpatri' (329). Tra queste vi erano menzionate: la possibilità di tracciare una linea netta tra chi si trova ancora sul territorio di uno Stato membro e chi non è ancora riuscito ad entrare ma viene arrestato mentre prova a farlo (330); la priorità concessa alla partenza volontaria, aspetto da non sottovalutare in confronto alle pratiche opposte della maggior parte dei Paesi membri; il fatto che le regole riguardanti la detenzione avrebbero dovuto essere applicate nel rispetto delle garanzie, così come affermate dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, producendo, di conseguenza, un miglioramento in molti stati membri (331); nonché la previsione di un riesame giudiziario in caso di periodi prolungati di detenzione.

Molti, in dottrina, si sono interrogati, infine, sulle motivazioni che hanno condotto il Parlamento europeo ad abbandonare lo storico ruolo di protezione dei diritti umani e, in particolare, dei migranti per cedere alle numerose richieste del Consiglio e accontentarsi di ben pochi successi durante le negoziazioni del testo (332). A questo proposito, è interessante notare quanto il passaggio dalla previgente procedura legislativa, in cui il Parlamento esprimeva unicamente un parere consultivo, alla procedura di codecisione abbia inciso sul comportamento e sulle preferenze politiche del Parlamento europeo.

Emergono motivazioni diverse a seconda del modello che si utilizza per descrivere l'approccio con cui si è mosso il Parlamento nel fare le proprie scelte (333). Se si adotta il rational-choice model, si nota che il Parlamento ha preferito raggiungere un un accordo in prima lettura piuttosto che spingere le negoziazioni fino alla conciliazione: le ragioni risiedevano, probabilmente, nel timore di non giungere all'adozione di alcun atto comunitario nella materia dei rimpatri, per questo sembrava necessario accettare il compromesso. Lo stesso modello spiegherebbe il cambiamento nelle preferenze politiche del Parlamento europeo, vista l'inedita coalizione trovata dal Partito Popolare Europeo (EPP) con i liberali, i quali hanno aderito al compromesso, distanziandosi dalle precedenti posizioni in favore dei migranti.

Il constructivist model offre, forse, una spiegazione più completa, in quanto inserisce il mutamento nelle scelte del Parlamento nel più ampio quadro istituzionale. Il nuovo paradigma istituzionale che ha trasformato il ruolo del Parlamento nel processo decisionale europeo avrebbe, infatti, spinto alcuni gruppi politici, tra cui il Partito Popolare Europeo ad invocare un atteggiamento più 'responsabile' e 'maturo' da parte di tutti i membri, affinché fosse permesso loro di partecipare effettivamente alla nuova procedura legislativa. Questo argomento, che ovviamente non persuase i socialisti, fu utilizzato anche dal Consiglio nei confronti della Commissione LIBE per convincerli della necessità di raggiungere un accordo in prima lettura.

Inoltre, è stato sostenuto, che l'accordo inter-istituzionale tra il Consiglio e il Parlamento avrebbe permesso di concludere il processo di adozione in prima lettura, la quale richiede unicamente una maggioranza semplice in plenaria, mentre in seconda lettura sarebbe stata necessaria una maggioranza assoluta; pertanto la maggior facilità nell'adozione del compromesso in prima lettura, avrebbe aumentato le spinte in seno alla plenaria a non usare il formale potere del Parlamento per inserire degli emendamenti che avrebbero rischiato di non avere la necessaria maggioranza in seconda lettura (334).

Un'altra motivazione dell'approvazione del compromesso in prima lettura da parte del Parlamento europeo è da ricercare nelle pressioni esercitate dai rispettivi governi nazionali: un considerevole numero di parlamentari europei ha, in effetti, preso in considerazione - al momento del voto - la posizione che il proprio governo aveva assunto all'interno della discussione in Consiglio (335). Non è una coincidenza che la maggior parte dei socialisti spagnoli (336) abbia votato in plenaria a favore del compromesso nonostante la posizione del gruppo dei Socialisti fosse quella di votare in senso contrario. Gli interessi nazionali giocarono, pertanto, un ruolo fondamentale all'interno del Parlamento europeo.

4. Le nuove sfide dell'Unione europea in materia di immigrazione e rimpatri

Nel contesto di adozione della 'direttiva rimpatri', il Consiglio europeo ha deciso di concordare ulteriori sviluppi nella politica dell'immigrazione, suggellati dal Patto sull'immigrazione e l'asilo del 2008 (337). Con tale atto gli Stati membri ritengono di dover dare un nuovo impulso alla definizione di una 'politica comune' di immigrazione, assumendo cinque impegni fondamentali la cui concretizzazione sarà proseguita nell'ambito del programma che ha fatto seguito, nel 2010, al programma dell'Aia (338): organizzare l'immigrazione legale tenendo conto delle priorità, esigenze e capacità di accoglienza stabilite da ciascuno Stato membro, favorire l'integrazione, combattere l'immigrazione clandestina anche provvedendo al rimpatrio, rafforzare i controlli alle frontiere esterne, costruire un'Europa dell'asilo nonché creare un partenariato globale con i paesi di origine e di transito.

Con particolare riferimento alla lotta all'immigrazione clandestina, il Consiglio invita gli Stati a limitarsi a regolarizzazioni caso per caso, evitando misure generali, per motivi umanitari o economici e a combattere attraverso sanzioni dissuasive e proporzionate, coloro che sfruttano gli stranieri in posizione irregolare; conviene, inoltre, di dover concludere accordi di riammissione a livello comunitario o bilaterale e di rafforzare la cooperazione con i paesi di origine e transito.

Questi orientamenti hanno trovato, in seguito, una precisa enunciazione nel 'Programma di Stoccolma' del 2009 (339) in cui si tracciano le linee prioritarie dell'Europa per il periodo 2010-2014 in materia di liberà, sicurezza e giustizia. Nel paragrafo denominato 'un'Europa all'insegna della responsabilità, della solidarietà e del partenariato in materia di immigrazione e asilo', si chiariscono ancora una volta le politiche efficaci per una lotta all'immigrazione clandestina quali l'incoraggiamento del rimpatrio volontario, la necessaria assistenza, da parte della Commissione, di Frontex e degli Stati membri a quegli Stati che subiscono pressioni specifiche e sproporzionate e, in particolare, la conclusione di accordi di riammissione operativi ed efficaci (340).

Nel 2013 la Commissione comunica al Consiglio e al Parlamento europeo la quarta relazione annuale sull'immigrazione e l'asilo relativa al 2012 (341), nella quale, dopo aver aver fatto una breve descrizione del fenomeno migratorio nell'Unione europea nell'arco dell'anno 2012 (342), valuta la situazione e i progressi compiuti dagli Stati e dall'Unione europea nella materia suddetta.

La Commissione ricorda che il 23 aprile 2012 il Consiglio ha adottato l'Azione dell'UE sulle pressioni migratorie - Una risposta strategica (343), che mette in luce i settori strategici prioritari, ossia rafforzare la cooperazione con i paesi terzi di transito e di origine sulla gestione della migrazione, migliorare i controlli alle frontiere esterne, prevenire l'immigrazione clandestina attraverso la frontiera greco-turca, contrastare in modo più efficace gli abusi dei canali di migrazione legale, preservare la libera circolazione prevenendo abusi da parte di cittadini di paesi terzi e, infine, migliorare la gestione della migrazione, tra cui i rimpatri.

Con riguardo alla politica comune dei rimpatri, la Commissione rileva l'avvenuto recepimento della direttiva rimpatri da parte di tutti gli Stati membri vincolati (344), eccetto l'Islanda e il Lichtenstein, entro la fine del 2012, e afferma che per la fine del 2013 è prevista la pubblicazione di una comunicazione sul rimpatrio, al fine di valutare l'impatto della direttiva e le problematiche che hanno assunto maggior rilievo (345).

Dalla relazione si evince che nel 2012 il 52,1 % dei rimpatri effettuati è costituito da rimpatri o partenze volontarie, constatazione dalla quale la Commissione deduce che tale modalità costituisce l'opzione preferita, sebbene in alcuni casi possa essere necessario il rimpatrio forzato.

Si raccomanda agli Stati di avvalersi delle possibilità offerte dalla rete europea di rimpatrio volontario (VREN) e dei finanziamenti del Fondo europeo per i rimpatri; si sottolinea, inoltre, che andrebbe incentivata la soluzione dei voli di rimpatrio congiunti, sfruttando appieno il Fondo europeo per i rimpatri e il coordinamento Frontex.

La Commissione mette in luce anche la problematica dei cittadini di paesi terzi, che pur destinatari di una decisione di rimpatrio, non è possibile allontanare. La Commissione, riscontra da uno studio comparativo, che alcuni Stati membri hanno già predisposto degli appositi canali affinché la persona colpita da una decisione di rimpatrio o da un provvedimento di allontanamento possa avviare una procedura di regolarizzazione. La Commissione annuncia di essere in procinto di esaminare tale studio in modo più approfondito avendo intenzione di proporre eventuali azioni in tale settore nell'ambito della comunicazione sul rimpatrio, prevista per dicembre 2013.

Note

1. Dichiarazione in occasione del cinquantesimo anniversario della firma dei trattati di Roma, 25 marzo 2007, Berlino.

2. Con tale espressione si intendono due trattati firmati a Roma il 25 marzo 1957: il trattato che istituisce la Comunità economica europea (CEE) e il trattato che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica (EURATOM).

3. Direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in GUUE L 348 del 24 dicembre 2008.

4. P. Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 88 ss.

5. E. Aja e L. Diez, La normativa sull'immigrazione negli Stati e nella Comunità europea, in Diritto, Immigrazione e cittadinanza, 2005, 1, p. 13.

6. Uno dei primi studi sulla migrazioni in Italia fu quello del Censis (1978), il quale, oltre a fornire una stima degli stranieri presenti sul territorio, osservando ed analizzando la questione, registrerà la presenza dei lavoratori stranieri in settori nei quali gli italiani non hanno più interesse a svolgere mansioni, contribuendo alla costruzione del principale luogo comune in materia di immigrazione economica. Sul punto si veda: D. Sacchetto, Migrazioni e lavoro nella sociologia italiana, in S. Mezzadra e M. Ricciardi (a cura di), Movimenti indisciplinati, Verona, Ombrecorte, 2013, p. 54.

7. K. J. Bade, L'Europa in movimento. Le migrazioni dal Settecento ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2001 p. 345 ss.

8. M. C. Locchi, I diritti degli stranieri, Roma, Carocci, 2011, p. 111.

9. E. Aja e L. Diez, La normativa sull'immigrazione negli Stati e nella Comunità europea, cit., p. 14.

10. M. C. Locchi, I diritti degli stranieri, cit., p. 113.

11. In origine la Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato, del 28 luglio 1951, all'art. 1 prevedeva due limitazioni: unatemporale, che riservava la definizione di rifugiato solo a coloro che avessero subito una persecuzione «per causa di avvenimenti anteriori al 1º gennaio 1951» e unageografica, che permetteva agli Stati di considerare «avvenimenti anteriori al 1º gennaio 1951» solo gli avvenimenti accaduti «anteriormente al 1º gennaio 1951 in Europa». Negli anni successivi all'adozione della Convenzione, gli Stati Contraenti si resero conto della necessità di estendere anche ai nuovi rifugiati la protezione garantita dalla Convenzione di Ginevra. Il 31 gennaio 1967 venne pertanto adottato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, un nuovo Protocollo relativo allo status dei Rifugiati, entrato in vigore il 4 ottobre 1967. Tale Protocollo prevedeva l'eliminazione sia della riserva temporale che di quella geografica, ma si configurava come uno strumento indipendente a cui gli stati potevano decidere di aderire o meno. L'Italia ha aderito al Protocollo di New York nel 1972, ma ha abolito la riserva geografica dall'ordinamento, riconoscendo la protezione anche tutte le altre nazionalità, solo con la legge n. 39/1990 (legge 'Martelli').

12. Il caso più diffuso è quello degli overstayers, ossia coloro che, seppur entrati regolarmente (ad esempio con un visto per motivi di turismo), si trattengono sul territorio oltre il tempo consentito (oltre la scadenza del visto) e, dunque, in violazione delle leggi in materia di immigrazione.

13. E. Aja e L. Diez, La normativa sull'immigrazione negli Stati e nella Comunità europea, cit., p. 15.

14. Si tratta di un'economia in cui sono preponderanti le attività produttive come l'agricoltura, servizi, i piccoli commerci ambulanti, la pesca e l'edilizia. Settori in cui potevano inserirsi facilmente lavoratori stranieri anche non qualificati.

15. M. C. Locchi, I diritti degli stranieri, cit., p. 115.

16. Il patto è allegato alle conclusioni del Consiglio europeo del 15-16 ottobre 2008. Documento del Consiglio n. 13440/08.

17. Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, Quarta relazione annuale sull'immigrazione e l'asilo (2012), COM (2013) 422 def. del 17 giugno 2013.

18. G. Carella, L'immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell'Unione europea, Milano, Monduzzi, 2012, p. 181.

19. Le norme sui controlli alle frontiere esterne riguarderanno solo l'ingresso irregolare, mentre quelle repressive dell'immigrazione clandestina anche il soggiorno irregolare.

20. G. Carella, L'immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell'Unione europea, cit., p. 181-182.

21. La formula 'spazio di libertà, sicurezza e giustizia' è, oggi, contemplata anche nell'art. 3, par, 2 del TUE: “L'Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest'ultima”, nonché nell'art. 4, par. 2, lett. j), TFUE che contiene l'elenco delle competenze concorrenti.

22. Si veda l'art. 3, par. 2 TUE e art. 26, par. 2 TFUE.

23. G. Caggiano, Le nuove politiche dei controlli alle frontiere, dell'asilo e dell'immigrazione nello Spazio unificato di libertà, sicurezza e giustizia, in Studi sull'integrazione europea, 2008, 1, p. 105.

24. L'inaugurazione di rigorose politiche di controllo alle frontiere è stata una delle cause che hanno portato molti a parlare di 'Fortezza europea' per descrivere un'Europa chiusa in se stessa, in atteggiamento di difesa dall'influenze esterne, soprattutto di ordine culturale.

25. A. Adinolfi, La libertà di circolazione delle persone e la politica dell'immigrazione, in G. Strozzi (a cura di), Diritto dell'Unione europea, parte speciale, Torino, Giappichelli, 2010, p. 124 - 125.

26. Si veda: l'art. 13, par. 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948); l'art. 12, par. 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) e l'art. 2 par. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali che riconosce certi diritti e libertà non inclusi nella Convenzione e nel relativo protocollo addizionale (1963).

27. Raccomandazione del Parlamento europeo n. 1449 del 2000.

28. M. Anderson e D. Bigo, What are EU Frontiers for and What Do They Mean?, in K. Groenendijk, E. Guild e P. Minderhoud (a cura di), In Search of Europe's Borders, The Hague, London, New York, 2003, p. 13.

29. In origine, alla Convenzione partecipavano solo la Francia, la Germania e i Paesi del Benelux, ma tra il 1990 e il 1997 tutti gli Stati allora appartenenti alla Comunità europea vi avevano aderito, ad eccezione del Regno Unito e dell'Irlanda. Partecipano all'accordo anche alcuni Paesi terzi: l'Islanda, la Norvegia e la Svizzera vi aderiscono, infatti, con particolari regimi di associazione. Un protocollo sulla partecipazione del Liechtenstein è stato firmato, inoltre, il 20 febbraio 2008.

30. G. Carella, L'immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell'Unione europea, cit., p. 182.

31. Tale incorporazione è avvenuta attraverso il Protocollo sull'integrazione dell'acquis di Schengen nell'ambito dell'Unione europea.

32. Si tratta della cosiddetta 'cooperazione rafforzata', un meccanismo introdotto con il Trattato di Amsterdam (ora disciplinato dall'art. 20 TUE e dagli artt. 326-334 TFUE) che consente, a determinate condizioni, di realizzare un'applicazione differenziata delle norme dell'Unione. Almeno nove Stati possono perseguire, infatti, obiettivi dell'Unione europea qualora questi non possano essere conseguiti entro un termine ragionevole dall'Unione nel suo insieme. Per quanto riguarda la materia di nostro interesse, oggi il Protocollo n. 19 autorizza 25 Stati membri, eccetto il Regno Unito e l'Irlanda, ad «attuare tra loro una cooperazione rafforzata nei settori riguardanti le disposizioni definite dal Consiglio che costituiscono l'acquis di Schengen»; tuttavia, il Regno Unito e l'Irlanda possono chiedere di «partecipare, in tutto o in parte, alle disposizioni di detto acquis». Per un'analisi più approfondita si veda inoltre: G. Gaja e A. Adinolfi, Introduzione al diritto dell'Unione europea, Bari, Laterza, 2012, p. 123-125.

33. La gestione è definita «integrata» in quanto comprende quattro livelli di attività: controlli alle frontiere sui documenti e sulle banche dati; controlli all'interno, inclusi i rimpatri; rilascio di visti e lotta alla tratta degli esseri umani nei Paesi terzi; cooperazione con i paesi vicini.

34. Regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento e del Consiglio, del 15 marzo 2006, che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone ('Codice frontiere Schengen'), in GUUE L 105 del 13 aprile 2006.

35. Per frontiere interne si intendono le frontiere terrestri comuni tra gli Stati Schengen, e gli aeroporti adibiti al traffico interno e i porti marittimi e lacustri degli stessi. La nozione di frontiere esterne si ricava de residuo, considerando tutte le frontiere marittime, terrestri, aree, fluviali e lacustri che non possono essere considerate interne.

36. Artt. 23 e 24 del 'Codice frontiere Schengen'.

37. G. Carella, L'immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell'Unione europea, cit., pag. 185.

38. La potestà decisionale dovrebbe rimanere in capo ai singoli Stati solo nei casi di eventi imprevedibili e urgenti che richiedano un'azione immediata, ma limitata a soli cinque giorni.

39. COM(2011)560, def.

40. COM(2011)559, def.

41. Questi ultimi controlli sono svolti grazie alle banche dati nazionali e all'istituzione del Sistema d'informazione Schengen (SIS) sostituito dal SIS II in base al regolamento (CE) n. 1987/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 dicembre 2006. Si tratta di un sistema che contiene i dati, forniti da ciascuno Stato, riguardanti determinate persone ai fini del divieto d'ingresso e di soggiorno.

42. Regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio, del 26 ottobre 2004, che istituisce un'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea, in GUUE L 349 del 25 novembre 2004.

43. A. Adinolfi, La libertà di circolazione delle persone e la politica dell'immigrazione, in G. Strozzi (a cura di), Diritto dell'Unione europea, parte speciale, cit., p. 129.

44. G. Carella, L'immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell'Unione europea, cit., p. 185.

45. Regolamento (CE) n. 863/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 luglio 2007, che istituisce un meccanismo per la creazione di squadre di intervento rapido alle frontiere e modifica il regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio limitatamente a tale meccanismo e disciplina i compiti e le competenze degli agenti distaccati, in GUUE L 199 del 31 luglio 2007.

46. Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica del regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio che istituisce un'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea (Frontex), COM(2010) 61 def. del 24 febbraio 2010.

47. Regolamento (UE) n. 1168/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, recante modifica del regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio che istituisce un'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea, in GUUE L 304 del 22 novembre 2011.

48. Art. 1, par. 2, Regolamento (UE) n. 1168/2011, cit.

49. Si veda sul punto: Migreurop, Germany-Serbia: another charter flight to Serbia organised by Frontex, press release del 13 marzo 2012.

50. Le squadre RABIT (istituite con il Regolamento (CE) n. 863/2007, cit.) fino ad oggi sono state dispiegate in una sola occasione, tra la fine del 2010 e gli inizi del 2011, nella zona del fiume Evros, al confine tra la Grecia e la Turchia. La richiesta d'intervento era stata avanzata dalle autorità greche, in quanto incapaci di far fronte all'afflusso massiccio di migranti. Il 2 novembre 2010 Frontex inviò in Grecia una squadra di intervento rapido composta da 175 guardie di frontiera provenienti da altri paesi dell'area Schengen con il compito di sorvegliare la zona di confine ed evitare l'attraversamento irregolare delle frontiere. Nonostante il “General report 2011” di Frontex descriva la missione RABIT come un successo, il rapporto dell'organizzazione Human Rights Watch ha accusato l'Agenzia di gravi violazioni dei diritti umani compiute all'interno dei centri di detenzione greci, dove circa 12.000 profughi sarebbero stati sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Il rapporto di HRW fa riferimento, in particolare, alla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, nel caso M.S.S. c. Belgio e Grecia, che, durante lo svolgimento delle attività di RABIT sul fiume Evros, aveva condannato non solo la Grecia - a causa delle condizioni di detenzione e di vita dei richiedenti asilo in questo paese - ma anche il Belgio perché, rinviando nella Repubblica ellenica un richiedente asilo, aveva consapevolmente esposto quest'ultimo a un trattamento inumano e degradante, vietato ai sensi dell'art. 3 della CEDU. Secondo l'organizzazione, Frontex avrebbe favorito il trasferimento di migranti negli stessi centri di detenzione deprecati nella pronuncia della Corte di Strasburgo, esponendoli di conseguenza a trattamenti inumani e degradanti. Human Rights Watch, The EU's Dirty Hands, Frontex Involvement in Ill-Treatment of Migrant Detainees in Greece, 2011.

51. Parlamento europeo, Commissione sulle libertà civili, giustizia e affari interni, Orientyation Vote Result on the proposal for a regulation of the European Parliament and of the Council amending Council Regulation (EC) n. 2007/2004 establishing a European Agency for the Management of Operational Cooperation at the External Borders of Member States of the European Union (Frontex), Rapporteur Simon Busuttil, 2010/0039 (COD) del 23 marzo 2011.

52. Vedi nota n. 48.

53. A. Liguori e N. Ricciuti, Frontex ed il rispetto dei diritti umani nelle operazioni congiunte alle frontiere esterne dell'Unione europea, in Diritti umani e diritto internazionale, 2012, p. 553.

54. Per considerare uno Stato a disposizioni di un altro è necessario che il primo agisca «in conjunction with the machinery of that State and under its exclusive direction and control»; ma dubbi potrebbero sorgere nel caso di cui trattiamo, in quanto gli agenti distaccati dei Paesi partecipanti sono tenuti ad indossare le proprie uniformi, portano le armi di ordinanza e possono ricorrere all'uso della forza se autorizzati dalla legislazione nazionale ai sensi dell'art. 10 par. 4.

55. A. Liguori e N. Ricciuti, Frontex ed il rispetto dei diritti umani nelle operazioni congiunte alle frontiere esterne dell'Unione europea, cit., p. 554-555.

56. Ivi, pag. 556. Le autrici prospettano nel loro articolo la possibilità di configurare una 'shared responsability' che potrebbe tra l'altro moltiplicare i mezzi di ricorsi a disposizione di coloro che hanno subito una violazione dei loro diritti fondamentali.

57. Il codice di condotta, ai sensi dell'art. 2-bis, Reg. (UE) n. 1168/2011, è stato elaborato dall'Agenzia al fine di salvaguardare il rispetto dei diritti fondamentali, è valido per tutte le operazioni che coordina ed è applicabile a tutti coloro che prendono parte alle attività dell'Agenzia.

58. A. Liguori e N. Ricciuti, Frontex ed il rispetto dei diritti umani nelle operazioni congiunte alle frontiere esterne dell'Unione europea, cit., p. 567.

59. G. Carella, L'immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell'Unione europea, cit., p. 194.

60. Direttiva 2002/90/CE del Consiglio, del 28 novembre 2002, volta a definire il favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegali, in GUCE L 328 del 5 dicembre 2002.

61. Decisione quadro 2002/946/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2002, relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegali, in GUCE L 328 del 5 dicembre 2002.

62. Art. 1, Direttiva 2002/90/CE, cit.

63. L'adozione di due atti distinti era giustificata dal fatto che prima della sentenza della Corte di giustizia del 13 settembre 2005 (C-176/3) e della riforma di Lisbona, si sosteneva l'impossibilità di stabilire degli obblighi concernenti delle sanzioni con una direttiva, essendo necessario in questo caso adottare un atto, come la decisione quadro, sulla base del cosiddetto 'terzo pilastro' (cooperazione GAI).

64. Art. 1, par. 1 e 2, Decisione quadro 2002/946/GAI, cit.

65. Art. 2 e 3, Decisione quadro 2002/946/GAI, cit.

66. G. Cellamare, Lezioni su la disciplina dell'immigrazione irregolare nell'Unione europea, Torino, Giappichelli, 2011, p. 33.

67. G. Carella, L'immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell'Unione europea, cit., p. 196.

68. Direttiva 2009/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 maggio 2009, che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in GUUE L 168 del 30 giugno 2009.

69. Art. 1, Direttiva 2009/52/CE cit. La stessa definizione di migrante irregolare era già stata utilizzata nella direttiva 2008/115/CE, cit.

70. G. Carella, L'immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell'Unione europea, cit., p. 197.

71. Art. 5, Direttiva 2009/52/CE, cit.

72. Art. 6, Direttiva 2009/52/CE, cit.

73. M. Le Barbier-Le Bris, La politique de retour de l'Union Européenne, in S. Leclerc (sous la direction), Europe (s), droit (s) et migrant irrégulier, Bruxelles, Bruylant, 2012, p. 123.

74. Unione delle Camere Penali Italiane - Osservatorio Europa, Immigrazione clandestina tra incriminazioni interne e diritto dell'Unione europea, 25 febbraio 2011.

75. C. Favilli, Il Trattato di Lisbona e la politica dell'Unione europea in materia di visti, asilo e immigrazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2010, 2, pag. 17.

76. Il 1997 è l'anno in cui viene adottato il Trattato di Amsterdam.

77. M. Le Barbier-Le Bris, La politique de retour de l'Union Européenne, in S. Leclerc (sous la direction), Europe (s), droit (s) et migrant irrégulier, cit., p. 124.

78. Conclusioni della Presidenza, SN 200/99 del 15-16.10.1999.

79. C. Favilli, L'attuazione in Italia della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, in Rivista di diritto internazionale, 2011, p. 694.

80. L. Aleni, La politica dell'Unione europea in materia di rimpatrio e il rispetto dei diritti fondamentali, in Diritto dell'Unione europea, 2006, p. 589.

81. Nella dottrina internazionalistica contemporanea non vi è discussione circa l'obbligatorietà, a livello consuetudinario, della riammissione del cittadino da parte dello Stato di appartenenza, in presenza di una richiesta da parte di un altro Stato. Tale obbligo, infatti, sarebbe collegato alla libertà di espulsione di cui godono gli Stati nei confronti degli stranieri. Sul punto si veda: F. Pastore, L'obbligo di riammissione in diritto internazionale: sviluppi recenti, in Rivista di diritto internazionale, 1998, p. 976.

82. L. Aleni, La politica dell'Unione europea in materia di rimpatrio e il rispetto dei diritti fondamentali, cit., p. 587.

83. C. Cournil, La politique de réadmission de l'Ue avec les pays tiers: diversification et expansion de l'externalisation des contrôles migratoires, in L. Dubin (sous la dirction), La legalité de la lutte contre l'immigration irrégulière per l'Union européenne, Bruxelles, Bruylant, 2012, p. 187.

84. Raccomandazione del 30 novembre 1994 relativa all'accordo tipo bilaterale di riammissione tra uno Stato membro e uno Stato terzo, in GUCE C 274 del 19 settembre 1996.

85. C. Cournil, La politique de réadmission de l'Ue avec les pays tiers: diversification et expansion de l'externalisation des contrôles migratoires, cit., p. 195.

86. I primi accordi sono stati siglati con le Regioni Amministrative speciali cinesi di Hong Kong (27 novembre 2002) e di Macao (13 ottobre 2003), con l'Albania (4 aprile 2005). In seguito furono conclusi con la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro, la Macedonia, la Serbia (8 settembre 2007), e l'Ucraina (18 giugno 2007), il Pakistan (26 ottobre 2009) e la Georgia (22 novembre 2010).

87. G. Cellamare, L'immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell'Unione europea, Milano, Monduzzi, 2012, p. 248-249.

88. In base al quale si dovrà ritenere l'esclusione di tale competenza in capo agli Stati ove alla Commissione sia già stato conferito l'incarico di siglare un accordo con lo stesso Stato.

89. G. Cellamare, Lezioni su la disciplina dell'immigrazione irregolare nell'Unione europea, cit., p. 75.

90. Tra gli atti che assumono rilevanza nella definizione di un quadro giuridico per le questioni connesse alla procedure di rimpatrio si segnalano: la direttiva 2001/40/CE del 28 maggio 2011, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi, in GUCE L 149 del 2 giugno 2001 (la proposta di direttiva rimpatri prevede all'art. 20 l'abrogazione della direttiva 2001/40/CE), la direttiva 2003/110/CE del 25 novembre 2003, relativa all'assistenza (nel corso del transito) nell'attuazione dei provvedimenti di espulsione per via aerea, in GUUE L 321 del 6 dicembre 2003; la decisone 2004/573/CE del 29 aprile 2004, relativa al coordinamento delle operazioni congiunte di allontanamento per via aerea delle persone soggiornanti illegalmente, in GUUE L 261 del 6 agosto 2004.

91. Considerando n. 4, Direttiva 2008/115/CE, cit. L'esigenza di un'armonizzazione in questo settore nasce proprio dalla volontà di assicurare una maggiore effettività alle espulsioni, fino a quel momento molto scarsa.

92. C. Favilli, L'attuazione in Italia della direttiva rimpatri: dall'inerzia all'urgenza con scarsa cooperazione, cit., p. 696. Tra i fattori che più incidono sulla disciplina del fenomeno rientrano senz'altro le complesse relazioni tra gli Stati di emigrazione e quelli di immigrazione, spesso contrapposti fra loro, i considerevoli costi che comportano le procedure di espulsione nonché i vincoli di carattere internazionale e costituzionale che si frappongono all'azione discrezionale dello Stato.

93. Proposta di piano globale per la lotta all'immigrazione clandestina e alla tratta degli esseri umani nell'Unione europea, documento del Consiglio n. 6621/1/02 del 28 febbraio 2001, in GUCE C 142 del 14 giugno 2002.

94. Ivi, nn. 77 e 81.

95. Libro verde su una politica comunitaria di rimpatrio delle persone che soggiornano illegalmente negli Stati membri, COM (2002) 175 def., del 10 aprile 2002.

96. Ivi, par. 2.2.

97. Ministero dell'Interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, Contributo italiano al Libro verde sul rimpatrio, 6 agosto 2002, pp. 2-3.

98. B. Nascimbene, Il “libro verde” della Commissione su una politica comunitaria di rimpatrio degli stranieri irregolari: brevi rilievi, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2003.

99. Ad esempio sarà necessaria un'assistenza a livello amministrativo per ottenere documenti di viaggio nonché un sostegno per la procedura di riammissione ai punti di ingresso, spesso gli aeroporti.

100. Considerando n. 6, Direttiva 2008/115/CE cit.

101. UK response to the Commission Green Paper on a community return policy on illegal residents, COM (2002) 175, Issued 10 April 2002, p. 5.

102. Ivi, p. 1.

103. Direttiva 2001/40/CE del Consiglio del 28 maggio 2001, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi, in GUCE L 149 del 2 giugno 2001. Ai sensi dell'art. 3 l'allontanamento deve essere giustificato da una minaccia grave ed attuale per l'ordine pubblico e la sicurezza nazionale, ovvero, sulla violazione delle norme riguardanti l'ingresso e il soggiorno sul territorio. In presenza delle suddette condizioni, ogni Stato potrà porre in esecuzione la decisione già adottata, senza che sia necessario esaminarne nuovamente il merito, ma limitandosi ad “un esame preliminare della situazione della persona interessata per assicurarsi che né gli strumenti internazionali pertinenti, né la normativa nazionale applicabile ostino all'esecuzione della decisione di allontanamento”.

104. COM(2002) 175 def., par. 3.1.5.

105. Programma dell'Aia: rafforzamento della libertà, della sicurezza e della giustizia nell'Unione europea, in GUUE C 53 del 3 marzo 2005.

106. Piano d'azione del Consiglio e della Commissione sull'attuazione del programma dell'Aia, inteso a rafforzare la libertà, la sicurezza e la giustizia dell'Unione europea, in GUUE C 198 del 12 agosto 2005.

107. In questo senso l'introduzione del Programma dell'Aia.

108. B. Nascimbene, L'approccio globale nella gestione dell'immigrazione: la politica della UE alla luce dell'attuazione del Programma dell'Aia, in Diritto dell'Unione europea, 2008, p. 435.

109. Punto III, par. 1.2 del Programma: 'Politica in materia di asilo, migrazione e frontiere'.

110. La competenza in materia di visti, immigrazione e asilo è a carattere concorrente.

111. Consiglio europeo di Siviglia. Conclusioni della presidenza, 21 e 22 giugno 2002.

112. Consiglio europeo di Salonicco. Conclusioni della presidenza, 19 e 20 giugno 2003.

113. D. Duez, L'Union européenne et l'immigration clandestine. De la sécurité interieure à la construction de la communauté politque, Bruxelles, Editions de l'Université de Bruxelles, 2008, p. 117.

114. Punto III, par. 1.6.4 del Programma: “Politica in materia di rimpatrio e riammissione”.

115. A questo proposito la Commissione, nell'ambito del programma generale “Solidarietà e gestione dei flussi migratori” (COM (2005) 123 def. del 6 aprile 2005) ha proposto di istituire un Fondo europeo per i rimpatri per il periodo 2008-2013.

116. Consiglio di Tampere, par. 4: «L'obiettivo è un'Unione europea aperta, sicura, pienamente impegnata a rispettare gli obblighi della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati e di altri importanti strumenti internazionali per i diritti dell'uomo, e capace di rispondere ai bisogni umanitari con la solidarietà. Deve altresì essere messo a punto un approccio comune per garantire l'integrazione nella nostra società dei cittadini di paesi terzi che soggiornano legalmente nell'Unione».

117. D. Duez, L'Union européenne et l'immigration clandestine. De la sécurité interieure à la construction dela communauté politque, cit., p. 119-120.

118. B. Nascimbene, L'approccio globale nella gestione dell'immigrazione: la politica della UE alla luce dell'attuazione del Programma dell'Aia, cit., p. 438.

119. Proposta di Direttiva recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini dei paesi terzi soggiornanti illegalmente, COM (2005) 391 def. del 1º settembre 2005.

120. COM (2001) 672 def. del 15 novembre 2001.

121. Libro verde su una politica comunitaria di rimpatrio delle persone che soggiornano illegalmente negli Stati membri, cit.

122. Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia di rimpatrio delle persone soggiornanti illegalmente, COM (2002) 563 def. del 14 ottobre 2002.

123. L'art. 63, par. 3, lett. (b) TCE attribuisce al Consiglio il potere di adottare misure in materia di politica dell'immigrazione, e in particolare nel settore «immigrazione e soggiorno irregolari, compreso il rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare».

124. Art. 5, par. 3 e 4, TUE.

125. Per un commento della proposta e sulle problematiche da questa sollevate si può consultare il rapporto depositato dalla delegazione del Parlamento francese per l'Unione europea: T. Mariani, Rapport d'information n. 3042 sur la politique européenne d'immigration, Assemblée Nationale, Paris, 2006.

126. Decisione del consiglio che assoggetta taluni settori contemplati dal Titolo IV, parte terza del Trattato che istituisce la Comunità europea alla procedura di cui all'art. 251 di detto Trattato, Documento del Consiglio n. 15526 del 2004.

127. La procedura di codecisione è stata introdotta dal Trattato di Maastricht ed era disciplinata dal previgente art. 251 TCE, mentre oggi prende il nome di procedura legislativa ordinaria ed è prevista all'art. 294 TFUE. Questa procedura si caratterizza per una maggior democraticità, mettendo allo stesso livello il Consiglio e il Parlamento europeo ai fini dell'adozione dell'atto.

128. Tale decisione non si applicherà dunque alle misure di cui all'art. 63, par. 3 lett. (a) che riguarda le «condizioni di ingresso e soggiorno e norme sulle procedure per il rilascio da parte degli Stati membri di visti a lungo termine e di permessi di soggiorno, compresi quelli rilasciati a scopo di ricongiungimento familiare», ossia la cosiddetta immigrazione legale. In questo caso, dunque, il Parlamento sarà ancora solamente consultato e sarà necessaria l'unanimità del Consiglio.

129. Informazioni supplementari, capitolo I.

130. Il Regno Unito e l'Irlanda non hanno esercitato il diritto di opt-in durante il procedimento di adozione della Proposta di direttiva, anche se potrebbero decidere di trasporla, anche successivamente, una volta entrata in vigore la direttiva; al contrario, la Danimarca ha un periodo di sei mesi dall'adozione della direttiva per decidere se trasporla o meno. Attualmente nessuno di questi tre Paesi è vincolato al rispetto direttiva 2008/115/CE.

131. Art. 2, par. 2, COM (2005) 391 def.: “Gli Stati membri possono decidere di non applicare la presente direttiva ai cittadini di paesi terzi cui sia stato rifiutato l'ingresso in una zona di transito di uno Stato membro”.

132. Art. 2, par. 2, COM (2005) 175 def.: “Gli Stati membri possono decidere di non applicare la presente direttiva ai cittadini di paesi terzi cui sia stato rifiutato l'ingresso in una zona di transito di uno Stato membro. Tuttavia provvedono affinché a quei cittadini di paesi terzi siano riservati un trattamento e un livello di protezione non meno favorevoli di quanto disposto agli attuali articoli 8,10,13 e 15”. Cfr: art. 4, par. 4, Direttiva 2008/115/CE, cit.

133. UNHCR Observations on the European Commission's Proposal for a Directive on common standards and procedures in Member States for returning illegally staying third-country nationals, December 2005, p. 3; ILPA, Response to the Commission's proposed directive on common standards and procedures in Member States for returning illegally staying third country nationals, 24 November 2005, p. 2; Amnesty International European Union Office, Returning 'irregular' migrants: the human rights perspective, May 2006, p. 4.

134. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 25 giugno 1996, Amuur c. Francia.

135. Art. 2, par. 3 e art. 4, COM (2005) 391 def.

136. F. Webber, The original EU Directive on return (expulsion), Statewatch analysis, p. 5.

137. E. Canetta, La disciplina comunitaria in materia di rimpatrio dei cittadini dei paesi terzi in posizione irregolare nel territorio degli Stati membri, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2007, 3, p. 38.

138. Art. 5, Direttiva 2008/115/CE, cit.

139. Le definizioni dei due provvedimenti in esame sono contenute nell'art. 3, COM (2005) 391 def.

140. Art. 6, par. 3 e art. 7 par. 3, COM (2005) 391 def.

141. E. Canetta, La disciplina comunitaria in materia di rimpatrio dei cittadini dei paesi terzi in posizione irregolare nel territorio degli Stati membri, cit., p. 39.

142. Dutch position on the return directive, 15701/06, 22 November 2006.

143. Art. 6, par. 2, COM (2005) 391 def. Nel testo finale della 'direttiva rimpatri', ai sensi dell'art. 6, il termine per la partenza volontaria viene fissato tra i sette e i trenta giorni, prorogabile avuto riguardo delle circostanza specifiche del caso individuale, quali la durata del soggiorno, l'esistenza di bambini che frequentano la scuola e l'esistenza di altri legami familiari e sociali.

144. Libro verde su una politica comunitaria di rimpatrio delle persone che soggiornano illegalmente negli Stati membri, cit., Parte I, par. 2.2.

145. F. Webber, The original EU Directive on return (expulsion), cit., p. 7.

146. Ivi.

147. Vedi art. 6, par. 2, Direttiva 2008/115/CE, cit.

148. T. Mariani, Rapport d'information n. 3042 sur la politique européenne d'immigration, cit., afferma: “La mention d'un délai d'exécution du retour dans la décision d'éloignement est aussi problématique, car il apparaît souvent difficile, voire impossible en pratique, d'indiquer un tel délai lorsque la décision est prise”, capitolo II, par. 6.

149. Art. 9, COM (2005) 391 def.

150. E. Canetta, La disciplina comunitaria in materia di rimpatrio dei cittadini dei paesi terzi in posizione irregolare nel territorio degli Stati membri, cit., p. 40.

151. Art. 11, COM (2005) 391 def.

152. E. Canetta, La disciplina comunitaria in materia di rimpatrio dei cittadini dei paesi terzi in posizione irregolare nel territorio degli Stati membri, cit., p. 41.

153. Art. 12, par. 1, Direttiva 2008/115/CE, cit.

154. In particolare, il procedimento di adozione della direttiva 2008/115/CE è stato scandito dai seguenti momenti: 01.09.2005 adozione della proposta da parte della Commissione; 02.09.2005 Trasmissione al Consiglio; 02.09.2005 Trasmissione al Parlamento europeo; 27.04.2006 Parere del Comitato delle Regioni; 05.06.2008 Discussioni al Consiglio; 18.06.2008 Parere del Parlamento europeo in prima lettura; 18.06.2008 Posizione della Commissione sugli emendamenti del Parlamento europeo in prima lettura; 08.12.2008 Approvazione da parte del Consiglio in prima lettura; 16.12.2008 Sottoscrizione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio..

155. F. Kauff-Gazin, La directive «retour»: une victoire du réalisme ou du tout-répressif?, in Europe, 2009, 2, p. 6.

156. Di solito ai 'triloghi' prende parte il Relatore del parlamento che negozia il testo con il Presidente del Consiglio, alla presenza di un rappresentate della Commissione.

157. D. Acosta, The Good, the Bad and the Ugly in EU Migration Law: Is the European Parliament Becoming Bad and Ugly? (The Adoption of Directive 2008/115: The Returns Directive), in European Journal of Migration and Law, 2009, p. 24-25.

158. Il Comitato dei rappresentanti permanenti o COREPER (art. 240 TFUE) è un organo composto dai rappresentati degli Stati membri aventi il rango di ambasciatori degli Stati membri presso l'Unione europea ed è presieduto dallo Stato membro che esercita la presidenza del Consiglio. Il comitato è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio dell'Unione europea ed articolato in due formazioni: COREPER I, composto dai rappresentanti permanenti aggiunti che redigono rapporti a carattere specificatamente tecnici, e COREPER II, composto dagli ambasciatori degli Stati membri che si occupano delle materie a carattere politico, commerciale, economico e istituzionale.

159. Si ricorda anche, al Consiglio, il fondamentale ruolo giocato dai consiglieri del JHA (Justice and Home Affairs), ossia i rappresentanti permanenti all'interno del COREPER che si occupano del settore della giustizia e degli affari interni (GAI).

160. Una prima discussione, tra la fine del 2005 e l'ottobre del 2006, in seno al Consiglio, fu condotta dal Working Party on Migration and Expulsion/ Mixed Committtee of EU-Iceland/Norway/Switzerland.

161. F. Lutz, The Negotiations on the Return Directive: comments and materials, Nijmegen, Wolf Legal Publishers, 2010, p. 18.

162. Documents 13451/06 (Presidency compromise suggestione on Articles 1-10, 6.10.06) and 15165/1/06 REV 1 (Presidency compromise suggestions on Articles 11-22, 15.11.06).

163. F. Webber, The original EU Directive on return (expulsion), cit.

164. Art. 3 (2) of the Finnish Presidency compromise suggestions.

165. F. Webber, The original EU Directive on return (expulsion), cit., p. 7: “Thus, in response to Member States' objections, the provisions on forced removal would have been much tougher and the Commission's principle of giving priority to voluntary departure would have been fundamentally undermined”.

166. Art. 6 (2) of the Finnish Presidency compromise suggestions.

167. La proposta del Belgio, invece, prevedeva il divieto automatico per i cittadini di Paesi terzi entrati illegalmente e totale discrezionalità per gli overstayers. F. Webber, The original EU Directive on return (expulsion), cit., p. 9.

168. Art. 12 (1) of the Finnish Presidency compromise suggestions.

169. Su questo punto, il Regno Unito aveva suggerito di escludere la tutela cautelare della sospensione qualora il ricorso fosse apparso 'manifestamente infondato'. Come si vedrà, nella legislazione britannica quando lo straniero, destinatario di una provvedimento di allontanamento, faccia richiesta di asilo o promuova ricorso per la violazione dei diritti umani o del diritto dell'Unione europea può esercitare il diritto di appello all'interno del Regno Unito e l'esecuzione della decisione è sospesa finché il giudizio è pendente di fronte al giudice. Qualora, tuttavia, il Secretary of State ritenga la richiesta 'manifestamente infondata' si applica la regola generale secondo la quale lo straniero che deve essere allontanato ha un diritto di appello che può essere esercitato solo una volta che il rimpatrio sia stato effettuato (out-of-country right of appeal).

170. F. Webber, The original EU Directive on return (expulsion), cit., p. 10.

171. Art. 14 (1) of the Finnish Presidency compromise suggestions. Questa previsione è riuscita a rimanere nel testo finale della Direttiva 2008/115/CE, cit.

172. La Germania in questo caso non formulò obiezioni dato che il trattenimento amministrativo in questo paese poteva essere disposto solo dall'autorità giudiziaria.

173. Art. 14 (2) of the Finnish Presidency compromise suggestions.

174. Art. 14 (4) of the Finnish Presidency compromise suggestions.

175. Anche questa previsione venne mantenuta nel testo finale della Direttiva 2008/115/CE, cit.

176. Si ricorda che le negoziazioni intorno alla 'direttiva rimpatri' scatenarono non poche polemiche in Germania: il governo tedesco, infatti, riteneva la proposta della Commissione troppo liberale, e cercò, per tutto il periodo in cui si svolsero le discussioni in seno al Consiglio, di proporre modifiche in senso restrittivo, che più rispecchiavano la normativa tedesca in materia di immigrazione (Aufenthaltsgesetz). Sul punto si veda: M. Pelzer, The Implementation of the Returns Directive in Germany, in K. Zwaan (ed.), The Returns Directive: Central Themes, Problem Issues, and Implementation in Selected Member States, Nijmegen, Wolf Legal Publishers, 2011, p. 109.

177. F. Lutz, The Negotiations on the Return Directive: comments and materials, cit., p. 19.

178. Documento del Consiglio n. 6624/07 del 28 febbraio 2007.

179. D. Acosta, The Good, the Bad and the Ugly in EU Migration Law: Is the European Parliament Becoming Bad and Ugly? (The Adoption of Directive 2008/115: The Returns Directive), cit., p. 29.

180. Documento del Consiglio 6624/07, p. 3.

181. Ivi, p. 4: “La fissazione di un termine per la partenza, per ogni singola decisione di rimpatrio, è lasciata alle autorità competenti degli Stati membri”.

182. Ivi, p. 4.

183. Ivi, p. 5.

184. Voto in Commissione, prima lettura/lettura unica, 12 settembre 2007 (PE 374.321v01-00). Il rapporto della commissione parlamentare, depositato il 20 settembre 2007, fu approvato con 47 voti a favore e 5 contrari. Per un riassunto delle modifiche apportate alla Proposta della commissione da parte della Commissione parlamentare si consulti il sito del Parlamento europeo.

185. Art. 6 (2) of the Parliament's report.

186. Art. 14 (1) of the Parliament's report.

187. Questa previsione fu trasposta nel teso finale della Direttiva 2008/115/CE, salvo per quanto riguarda la durata iniziale delle detenzione, prolungata da tre a sei mesi.

188. Art. 9 (3) of the Parliament's report.

189. Ogni riferimento a questa figura del Mediatore per il rimpatrio è venuto meno nel testo finale della direttiva.

190. Art. 5, lett. (c) of the Parliament's report.

191. F. Lutz, The Negotiations on the Return Directive: comments and materials, cit., p. 19.

192. Ivi, p. 22.

193. Documento del Consiglio 15566/07 del 7 dicembre 2007.

194. Art. 2 (2) of the Portuguese Presidency document: “Member States may decide not to apply this Directive to third-country nationals who: (a) are subject to return as a criminal law sanction or as a consequence of a criminal law sanction, according to national law (b) are subject to extradition procedures, (c) are subject to a refusal of entry, in accordance with Article 13 of the Schengen Borders Code, or who are intercepted at, or in the vicinity of the external border of the Member States while trying to enter or are apprehended in circumstances where are reasons to believe that they have illegally entered within a period of no more than 72 hours the territory of the Member States”.

195. Art. 13 (a) “Accelerated procedure following illegal entry” of the Portuguese Presidency document: “Member States may provide for an accelerated procedure. This procedure shall be applicable to persons who are intercepted at, or in the vicinity of, the external border while trying to enter illegally the territory of the Member States or who are apprehended within fourteen days after their illegal entry to the territory of the Member States. Return decisions and entry bans issued with regard to this category of persons shall be given by means of a standard form as set out in Annex I. To decisions taken in accordance with paragraphs 1 and 2, Article 11 par. 2 does not apply. Member States shall make available generalised information sheets explaining the main elements of the standard form in at least five of those languages, which are most frequently used or understood by illegal migrants entering this Member State. To decisions taken in accordance with paragraphs 1 and 2, Article 12 does not apply. The legal remedies shall be determined in accordance with national legislation”.

196. F. Lutz, The Negotiations on the Return Directive: comments and materials, cit., p. 23.

197. Art. 6 (a) of the Portuguese Presidency document.

198. Art. 9 of the Portuguese Presidency document.

199. Art. 12 (4) of the Portuguese Presidency document.

200. Art. 14 of the Portuguese Presidency document.

201. S. Peers, The Proposed EU Returns Directive, in Statewatch Analysis, January 2008.

202. F. Lutz, The Negotiations on the Return Directive: comments and materials, cit., p. 21.

203. Manfred Weber è un politico tedesco, eletto nel 2004 membro del Parlamento europeo; si tratta di esponente del Partito Popolare europeo e siede nella Commissione LIBE (Libertà civili, giustizia e affari interni).

204. I relatori 'ombra' del Parlamento erano: Adeline Haza (PSE), Jeanine Hennis-Plasschaert (ALDE), Jean Lambert (Verts/ALE), Johannes Blokland (IND/DEM) e Giusto Catania (GUE).

205. Documento del Consiglio 6541/08 del 15 febbraio 2008 e documento del Consiglio 7774/08 del 28 marzo 2008. Una comparazione delle due versioni del testo della 'direttiva rimpatri' (febbraio e marzo 2008) è rinvenibile in: S. Peers, The EU's Returns Directive, in Statewatch Supplementary Analysis, April 2008.

206. Questa previsione è rimasta nel testo finale della direttiva all'art. 4(4), Direttiva 2008/115/CE, cit.: “Per quanto riguarda i cittadini di paesi terzi esclusi dall'ambito di applicazione della presente direttiva conformemente all'articolo 2, paragrafo 2, lettera a), gli Stati membri: (a) provvedono affinché siano loro riservati un trattamento e un livello di protezione non meno favorevoli di quanto disposto all'articolo 8, paragrafi 4 e 5 (limitazione dell'uso di misure coercitive), all'articolo 9, paragrafo 2, lettera a) (rinvio dell'allontanamento), all'articolo 14, paragrafo 1, lettere b) e d) (prestazioni sanitarie d'urgenza e considerazione delle esigenze delle persone vulnerabili) e agli articoli 16 e 17 (condizioni di trattenimento) e (b) rispettano il principio di non-refoulement”.

207. Le medesime disposizioni sono state riportate nel testo finale della 'direttiva rimpatri'.

208. Anche questa disposizione è rimasta invariata nel testo finale della 'direttiva rimpatri', salvo per l'aggiunta dell'avverbio 'manifestamente' alla domanda di soggiorno irregolare infondata. Si veda art. 7, par. 4, Direttiva 2008/115/CE, cit.

209. D. Acosta, The Good, the Bad and the Ugly in EU Migration Law: Is the European Parliament Becoming Bad and Ugly? (The Adoption of Directive 2008/115: The Returns Directive), cit., p. 34.

210. Le stesse parole sono riportate nel testo finale della 'direttiva rimpatri': la soluzione finale si presenta, dunque, molto lontana rispetto all'iniziale proposta della Commissione e alla posizione assunta dal Parlamento europeo.

211. Su questo ultimo punto, la forte opposizione del Parlamento comportò un'importante cambiamento al testo finale.

212. Il rapporto del Parlamento prevedeva una durata massima di tre mesi, estendibile fino a diciotto in determinate circostante. La versione del 28 marzo 2008, che in questo punto rimase invariata fino all'adozione finale del testo, prevedeva una durata massima di sei mesi, prolungabile, in presenza di alcune circostanze fino a diciotto mesi.

213. Mantenuto nel testo finale della 'direttiva rimpatri', oggi si rinviene all'art. 17, parr. 3 e 4, Direttiva 2008/115/CE, cit.: “Ai minori trattenuti è offerta la possibilità di svolgere attività di svago, tra cui attività di gioco e ricreative consone alla loro età e, in funzione della durata della permanenza, è dato accesso all'istruzione. Ai minori non accompagnati è fornita, per quanto possibile, una sistemazione in istituti dotati di personale e strutture consoni a soddisfare le esigenze di persone della loro età”.

214. D. Acosta, The Good, the Bad and the Ugly in EU Migration Law: Is the European Parliament Becoming Bad and Ugly? (The Adoption of Directive 2008/115: The Returns Directive), cit., p. 35.

215. Documento del Consiglio 8148/08 del 25 aprile 2008.

216. Nel testo di compromesso inviato dal Consiglio al COREPER l'art. 12 (4) statuiva: “If the third-country national concerned does not have sufficient means to pay for necessary legal aid, he/she shall be given it free of charge, in accordance with the relevant national rules regarding legal aid”.

217. F. Lutz, The Negotiations on the Return Directive: comments and materials, cit., p. 23.

218. Documento del Consiglio 9829/08 del 2 giugno 2008.

219. Direttiva 2005/85/CE, cit.

220. Art. 12 (4) del compromesso finale: “Gli Stati membri provvedono a che sia garantita, su richiesta, la necessaria assistenza e/o rappresentanza legale gratuita ai sensi della pertinente legislazione o regolamentazione nazionale in materia e possono disporre che tale assistenza e/o rappresentanza legale gratuita sia soggetta alle condizioni di cui all'articolo 15, paragrafi da 3 a 6, della direttiva 2005/85/CE”. La versione coincide con quella definitiva di cui all'art. 13, par. 4, Direttiva 2008/115/CE, cit.

221. Si veda l'art. 20, Direttiva 2008/115/CE, cit.: “Gli stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro il 24 dicembre 2010. Per quanto riguarda l'articolo 13, paragrafo 4, gli Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro il 24 dicembre 2011. Essi comunicano immediatamente alla Commissione il testo di tali disposizioni”.

222. Si previde la possibilità di usare il Fondo europeo per i rimpatri, creato per i periodo 2008-2013, confidando nell'azione dei governi a rendere effettiva l'applicazione dell'art. 12 (4).

223. Comunicato stampa del 17 giugno 2008, consultabile sul sito del Parlamento europeo.

224. Si veda l'intervento di Claudio Fava (PSE, IT).

225. Si vedano in particolare le osservazioni di Amnesty International, il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli (ECRE), Immigration Law Practitioners' Association (ILPA) e l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR).

226. Fu respinta, invece, con 114 voti favorevoli, 538 contrari e 11 astensioni, la proposta di Verdi e GUE/NGL di respingere in toto la proposta di direttiva. inoltre sono stati respinti anche gli emendamenti di questi gruppi e del PSE, diretti a rendere più favorevole ai destinatari le decisioni di rimpatrio.

227. A. Liguori, Le garanzie procedurali avverso l'espulsione degli immigrati in Europa, cit., p. 167.

228. Rispettivamente i considerando n. 26 e 27 richiamano il Protocollo sulla posizione del Regno Unito e dell'Irlanda, nonché la decisione 2000/365/CE del Consiglio del 29 maggio del 2000, riguardante la richiesta del Regno Unito di partecipare ad alcune disposizioni dell'acquis di Schengen, in GUCE L 131 dell'1 giugno del 2000 e la decisione 2002/192/CE del Consiglio del 28 febbraio del 2002, riguardante la richiesta dell'Irlanda di partecipare ad alcune disposizioni dell'acquis di Schengen, in GUCE L 64 del 7 marzo 2002.

229. Ai sensi dei considerando n. 29, 29, 30.

230. Si noti che nella traduzione italiana il termine 'illegalmente' è stato sostituito dal termine 'irregolarmente': scelta condivisibile considerata l'assenza di un connotazione criminalizzatrice di quest'ultimo.

231. Art. 3, n. 2, Direttiva 2008/115/CE, cit.

232. A. Baldaccini, The Return and Removal of Irregular Migrants under EU Law: An Analysis of the Returns Directive, in European Journal of Migration and Law, 2009, p. 3.

233. C. Favilli, La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di paesi terzi, in Osservatorio sulle fonti, 2009, 2, p. 4.

234. Commission Staff Working Document, Detailed comments on Proposal for a European Parliament and Council Directive on common standards on procedures in Member States for returning illegaly staying third country nationals (COM(2005) 391 final), 4 october 2005, SEC (2005)1175.

235. F. Lutz, The Negotiations on the Return Directive: comments and materials, cit., p. 31.

236. Art. 8, par. 1, Regolamento (CE) n. 2725/2000 del Consiglio dell'11 dicembre 200 che istituisce l'«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l'efficace applicazione della Convenzione di Dublino, in GUCE L 316 del 15 dicembre 2000: “ Ciascuno Stato membro procede tempestivamente, in conformità delle salvaguardie previste dalla convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, al rilevamento delle impronte digitali di tutte le dita di stranieri di età non inferiore a quattordici anni, che siano fermati dalle competenti autorità di controllo in relazione all'attraversamento irregolare via terra mare o aria della propria frontiera in provenienza da un paese terzo e che non siano stati respinti”.

237. Art. 5, par. 4, CEDU: “Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso a un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima”.

238. Corte europea dei diritti dell'uomo, Amuur c. Francia, cit.

239. In particolare si richiama l'art. 8, par. 4 e 5, che prevede una limitazione nell'uso delle misure coercitiva, l'art. 9 par. 2, lettera (a), che prevede la possibilità di rinviare l'allontanamento tenuto conto delle condizioni fisiche o mentali del cittadino di un paese terzo, e gli artt. 16 e 17 che disciplinano le condizioni di trattenimento.

240. Art. 3 della Convenzione relativa allo statuto internazionale dei rifugiati del 28 ottobre 1933. Tale Convenzione fu sottoscritta solo da otto Stati e per questo ebbe una scarsa efficacia vincolante.

241. Si veda, in proposito, la Dichiarazione sull'asilo territoriale adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1967, la risoluzione n. 14 del 1967 del Consiglio d'Europa, nonché le conclusioni n. 6 (XXVIII) del Comitato esecutivo dell'UNHCR del 1977.

242. Sull'argomento si rimanda a: M. Spatti, I limiti all'esclusione degli stranieri dal territorio dell'Unione europea, Torino, Giappichelli, 2010, p. 197 ss.

243. Art. 4, par. 2, Direttiva 2008/115/CE, cit.: “La presente direttiva lascia impregiudicate le disposizioni più favorevoli ai cittadini di paesi terzi previste dall'acquis comunitario in materia di immigrazione e di asilo”.

244. M. Borraccetti, Il rimpatrio di cittadini irregolari: armonizzazione (blanda) con attenzione (scarsa) ai diritti delle persone, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2010, 1, p. 25.

245. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 2011, Achughbabian, causa C-329/11.

246. C. Favilli, La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di paesi terzi, cit., p. 6.

247. Si veda ad esempio: Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 14 ottobre 1999, Adidas, causa C-223/98, par. 24 «allorché una disposizione di diritto comunitario è suscettibile di svariate interpretazioni delle quali una sola idonea a salvaguardare l'effetto utile della norma, è a questa che occorre dare priorità».

248. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 6 dicembre 20011, Achughbabian, cit., par. 41.

249. Questi godono della libertà di circolazione in virtù della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, GUUE L 229 del 29 giugno 2004.

250. Art. 2 par. 3, Direttiva 2008/115/CE, cit.

251. Salvo le direttive sullo statuto dei residenti di lungo periodo e in tema di ricongiungimento.

252. A. Liguori, Le garanzie procedurali avverso l'espulsione degli immigrati in Europa, cit., p. 168.

253. Ivi, p. 170.

254. M. Le Barbier-Le Bris, La politique de retour de l'Union Européenne, cit., p. 129.

255. Art. 6 par. 4: “In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo o un'altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terso il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare”.

256. Patto europeo sull'immigrazione e l'asilo, documento del Consiglio n. 13189/2008 del 24 settembre/16 ottobre 2008.

257. Ivi, p. 7.

258. Il rimpatrio è definito, ai sensi dell'art. 3 n. 3, come quel «processo di ritorno di un cittadino di un paese terzo, sia in adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio sia forzatamente nel proprio paese di origine o in un paese di transito in conformità di accordi comunitari o bilaterali di riammissione o di altre intese» ovvero «in un altro paese terzo, in cui il cittadino del paese terzo in questione decide volontariamente di ritornare e in cui sarà accettato». La possibilità di rimpatriare in un paese di transito desta qualche perplessità, in quanto ciò potrebbe essere disposto anche in virtù di accordi con altri Stati a prescindere dalla volontà dello straniero interessato. La norma sembra essere stata inserita con l'intento di superare le frequenti difficoltà riscontrate nell'identificazione del cittadino irregolare. Sul punto si veda: M. Borraccetti, Il rimpatrio di cittadini irregolari: armonizzazione (blanda) con attenzione (scarsa) ai diritti delle persone, cit., p. 26-27.

259. C. Favilli, La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di paesi terzi, cit., p. 7.

260. Nella proposta della Commissione era previsto un termine massimo di quattro settimane: art. 6, par. 2, COM (2005) 391 def.

261. Art. 7, par. 2.

262. A. Baldaccini, The Return and Removal of Irregular Migrants under EU Law: An Analysis of the Returns Directive, cit., p. 7.

263. F. Martucci, La directive «retour»: la politique européenne d'immigration face à ses paradoxes, in Revue trimestrelle de droit européen, 2009, 1, p. 27.

264. Art. 7, par. 4.

265. Art. 7, par. 1.

266. Com vedremo, l'Italia ha sfruttato ampiamente tale possibilità offerta dalla direttiva declinando il rischio di fuga in tutta una serie di ipotesi che ricomprendono la maggioranza degli stranieri da espellere, riducendo di conseguenza l'ambito applicativo della concessione del termine per la partenza volontaria, privilegiato dalla direttiva 2008/115/CE. È chiaro che la sua mancata codificazione a livello europeo abbia compromesso l'obiettivo dell'armonizzazione.

267. Tale norma, inizialmente non prevista dalla proposta di direttiva della Commissione, è stata inserita successivamente su pressione degli Stati in seno al Consiglio nell'intento, probabilmente, di favorire la modalità di esecuzione coattiva dell'allontanamento. L'Italia si è avvalsa di tale possibilità (art. 13, co. 5, d. lgs. 286/1998) prevedendo la concessione di un termine per la partenza volontaria solo su richiesta dell'interessato; pertanto, anche se l'espellendo si trova nelle condizioni per ottenere un termine per la partenza volontaria non potrà beneficiarne senza una dichiarazione in tal senso.

268. Art. 7, par. 3. Si ricorda che l'elencazione non è tassativa ma puramente esemplificativa, lasciando liberi gli Stati di prevedere anche diverse misure.

269. Art. 8, par. 1 e 4. Con riguardo al rimpatrio forzato, nel considerando n. 3 della direttiva, si richiamano i «Venti orientamenti sul rimpatrio forzato» che il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha adottato il 4 maggio del 2005.

270. A. Liguori, Le garanzie procedurali avverso l'espulsione degli immigrati in Europa, cit., p. 171.

271. In questo senso anche il suggerimento fornito da ILPA (Immigration Law Practitioners' Association) nella loro risposta alla proposta di direttiva della Commissione: ILPA, Response to the Commission's proposed directive on common standards and procedures in Member States for returning illegally staying third country nationals, 24 novembre 2005. L'associazione propone di emendare l'art. 6, concedendo un permesso di soggiorno, o altra autorizzazione capace di conferire il diritto al soggiorno, per coloro il cui ritorno non è possibile per violazione di obblighi internazionali o per altre ragioni umanitarie: “Where return would breach international human rights obligations or there are other compassionate or humanitarian reasons why the third country national should not be removed the Member State must issue the person with an autonomous residence permit or another authorisation granting a right to stay”. A questo proposito ILPA ricorda anche il caso del sig. Ahmed, il quale, nonostante avesse ottenuto, per effetto di una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (9 ottobre 1997), il diritto a non essere espulso dall'Austria, si era tolto la vita non riuscendo a sopravvivere in una situazione di totale insicurezza e precarietà.

272. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 30 novembre 2009, causa C-357/09, Kadzoev.

273. Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 28 aprile 2011, causa C-61/11, El Dridi.

274. La 'direttiva rimpatri' non dà una definizione di minore non accompagnato, tuttavia, questa è rintracciabile in altri atti dell'Unione europea, come ad esempio la direttiva 2004/81/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di Paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un'azione di favoreggiamento dell'immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti, in GUUE L 621 del 6 agosto 2004, nella quale si definisce tale categoria come «i cittadini di Paesi terzi di età inferiore ai diciotto anni, che entrano nel territorio degli Stati membri senza essere accompagnati da una persona adulta responsabile per essi in base alla legge o agli usi, finché una tale persona non ne assuma effettivamente la custodia, ovvero i minori che sono lasciati senza accompagnamento una volta entrati nel territorio dello Stato membro».

275. Art. 10, par. 2.

276. M. Borraccetti, Il rimpatrio di cittadini irregolari: armonizzazione (blanda) con attenzione (scarsa) ai diritti delle persone, cit., p. 33.

277. Considerando n. 14.

278. In questo l'utilizzo dell'espressione «nel territorio di tutti gli Stati membri» è inesatta, visto che la direttiva si applica unicamente agli Stati che fanno parte dell'area Schengen.

279. F. Lutz, The Negotiations on the Return Directive: comments and materials, cit., p. 55.

280. Martucci, La directive «retour»: la politique européenne d'immigration face à ses paradoxes, cit., p. 38.

281. Art. 11, par. 2.

282. Art. 11, par. 3.

283. Considerando n. 18.

284. Regolamento (CE) n. 1987/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 dicembre 2006, sull'istituzione, l'esercizio e l'uso del sistema d'informazione Schengen di seconda generazione (SIS II), in GUUE L 381 del 28 dicembre 2006.

285. Art. 12, par. 1.

286. Art. 12, par. 2 e 3.

287. C. Favilli, La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di paesi terzi, cit., p. 10.

288. Art. 12, par. 1 e 2, COM (2005) 391 def.

289. F. Webber, The original EU Directive on return (expulsion), cit., p. 9.

290. Art. 13, par. 1.

291. A questo proposito è utile ricordare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sul diritto ad un ricorso effettivo (art. 47 CEDU), la quale afferma che tale diritto sarà garantito dovrà prevedere la sospensione dell'esecuzione dell'espulsione. Sul punto si veda: Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 30 settembre 1991, Vilvarajah and others v. United Kingdom, par. 117-127.

292. Direttiva 2005/85/CE, cit. In particolare vengono richiamati i paragrafi da 3 a 6: “3. Gli Stati membri possono prevedere nella legislazione nazionale di accordare assistenza e/o rappresentanza legali gratuite: a) soltanto nei procedimenti dinanzi a un giudice a norma del capo V e non per i ricorsi o riesami ulteriori previsti dalla legislazione nazionale, compreso il riesame della causa in seguito ad un ricorso o riesame ulteriori; e/o b) soltanto a chi non disponga delle risorse necessarie; e/o c) soltanto rispetto agli avvocati o altri consulenti legali che sono specificamente designati dalla legislazione nazionale ad assistere e/o rappresentare i richiedenti asilo; e/o d) soltanto se il ricorso o il riesame hanno buone probabilità di successo. Gli Stati membri provvedono affinché l'assistenza e la rappresentanza legali di cui alla lettera d) non siano oggetto di restrizioni arbitrarie. 4. Le norme a disciplina delle modalità di presentazione e di trattamento di richieste di assistenza e/o rappresentanze legali possono essere previste dagli Stati membri. 5. Gli Stati membri possono altresì: a) imporre limiti monetari e/o temporali alla prestazione di assistenza e/o rappresentanza legali gratuite, purché essi non costituiscano restrizioni arbitrarie all'accesso all'assistenza e/o rappresentanza legali; b) prevedere, per quanto riguarda gli onorari e le altre spese, che il trattamento concesso ai richiedenti non sia più favorevole di quello di norma concesso ai propri cittadini per questioni che rientrano nell'assistenza legale. 6. Gli Stati membri possono esigere un rimborso integrale o parziale delle spese sostenute, allorché vi sia stato un considerevole miglioramento delle condizioni finanziarie del richiedente o se la decisione di accordare tali prestazioni è stata presa in base a informazioni false fornite dal richiedente”.

293. A. Liguori, Le garanzie procedurali avverso l'espulsione degli immigrati in Europa, cit., p. 173, nota nº 565.

294. Art. 14, par. 1 e 2.

295. Si veda: PE 374.321V02-00.

296. A. Liguori, Le garanzie procedurali avverso l'espulsione degli immigrati in Europa, cit., p. 174.

297. C. Favilli, La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di paesi terzi, cit., p. 8.

298. Art. 14, COM (2005) 391 def.

299. Art. 15.

300. Dutch position on the return directive, 15701/06 del 22 novembre 2006.

301. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 27 novembre 2003, Shamsa c. Polonia. In un obiter dicutm della sentenza si evince il diritto ad essere portato in breve tempo davanti ad un giudice che convalidi la misura privativa di libertà, diritto che è esplicitamente previsto al par. 3 dell'art. 5 solo con riferimento all'ipotesi di cui all'art. 5, par. 1, lett. c), ossia nell'ipotesi di carcerazione preventiva.

302. A. Liguori, Le garanzie procedurali avverso l'espulsione degli immigrati in Europa, cit., p. 176.

303. Secondo Amnesty International, inoltre, il testo approvato «non garantisce il rimpatrio dei migranti irregolari in condizioni di sicurezza e dignità», mentre un periodo di detenzione fino a un anno e mezzo e il divieto di reingresso, valido per tutto il territorio dell'UE, per le persone rimpatriate forzatamente «rischiano di abbassare gli standard vigenti negli Stati membri e costituiscono un esempio estremamente negativo per altre regioni del mondo».

304. Art. 15, par. 6.

305. In Italia, ad esempio, non si perse tempo a profittare di tale possibilità: il trattenimento degli stranieri irregolari fu infatti innalzato fino al limite massimo, cioè 18 mesi, già nel 2009, ancora prima che il Governo prendesse in considerazione la necessità di recepire la 'direttiva rimpatri'.

306. Vote en commission, 1ère lecture/lecture unique, 12 settembre 2007 (PE 374.321v01-00).

307. Art. 18.

308. Il diritto all'unità familiare è tutelato dall'art. 17, par. 2, Direttiva 2008/115/CE, cit. nella parte in cui prevede la possibilità per le famiglie trattenute in un centro di usufruire di una sistemazione separata, che assicuri loro un adeguato rispetto della vita privata.

309. Art. 18, par. 3.

310. Appello di venticinque intellettuali europei contro la Direttiva Rimpatri, reperibile sul sito di Melting Pot Europa: Venticinque intellettuali europei lanciano un appello contro la Direttiva Rimpatri.

311. Le notizie sono state riportate dal giornale «L'express» del 20 giugno 2008. Tra le organizzazioni si veda anche: Permanent Council of the OAS, CP/RES. 938 (1654/08), OAS Action on the European Union's Returns Directive on Migration Issues, 26 June 2008; Declaración de los países del MERCOSUR ante la Directiva de Retorno de la Unión Europea, Tucumán, 1 July 2008; Declaración de la Unión de Naciones Suramericanas sobre la 'Directiva de Retorno' de la Unión Europea, 4 July 2008.

312. Si tratta di un Accordo di Associazione a cui l'Unione europea era molto interessata perché comportava per i Paesi della Comunità Andina delle Nazioni la liberalizzazione del commercio, dei servizi finanziari, della proprietà intellettuale e di molti servizi pubblici.

313. Latin America could halt EU trade talks over return directive, EUobserver.com, 23 giugno 2008.

314. La lettera è stata pubblicata il 13 giugno 2008 con il titolo «Je fais appel à la coscience des députés européens...». Versione italiana: Direttiva rimpatri - Lettera del Presidente boliviano Evo Morales.

315. La Spagna è per ovvie ragioni la meta più ambita dai migranti provenienti dall'America del Sud, che ammontano a circa due milioni, di cui una grossa fetta in situazione irregolare: C. González-Enríquez, Country Report Spain, Undocumented Migration. Counting the Uncountable. Data and Trends across Europe, Clandestino, 2009.

316. F. Lutz, The Negotiations on the Return Directive: comments and materials, cit., p. 75.

317. D. Acosta Arcarazo, Latin American Reactions to the Adoption of the Returns Directive, Centre for European Policy Studies, November 2009, p. 4.

318. El País, España Explica que Nunca va a Aplicar la Directiva de Retorno, 8 August 2008.

319. United Nations experts express concern about the proposed European Union Return Directive, United Nations press release, 18 July 2008.

320. United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR Position on the Proposal for a Directive on Common Standards and Procedures in Member States for Returning Illegally Staying Third-Country Nationals, 16 June 2008.

321. Amnesty International Union Européenne, Jesuti Refugee Service Europe, ECRE, Caritas Europa, PICUM, Human Rights Watch, CCME, Save The Children, Sensoa, Quakers, FCEI, Eglise Evangélique Espagnole.

322. Cimade, Pour un rejet de la directive retour, 2007.

323. L'appello lanciato all'epoca da alcune organizzazioni europee è consultabile sul sito di Statewatch.

324. Tra i primi firmatari: Migreurop e AEDH (Organizzazioni europee), Cimade (FR), Gisti (FR), Pro Asyl (DE), Arci (IT), Statewatch (UK).

325. Jacques Delors, noto europeista francese, è stato presidente della Commissione europea dal gennaio del 1985 al gennaio del 1995, ricoprendo per ben tre mandati consecutivi il suddetto ruolo.

326. Lettera pubblicata su Le Monde il 18.06.2008.

327. Art. 13, § 2, Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese”.

328. Y. Maccanico, Against the outrageous Directive!, at the hearing with NGOs organised by the GUE group, European Parliament, Strasburg on 12 December 2007.

329. Lettera pubblicata sull'Espresso l8.05.2008. Sul punto si veda anche: F. Lutz, The Negotiations on the Return Directive: comments and materials, cit., p. 75.

330. Questi 'border case' possono essere esclusi dall'ambito di applicazione della direttiva, ma devono comunque poter beneficiare delle garanzie previste dall'art. 4, par. 4.

331. Si ricorda che in nove Stati membri al momento della discussione della direttiva non esisteva un tetto massimo alla durata della detenzione amministrativa.

332. D. Acosta, The Good, the Bad and the Ugly in EU Migration Law: Is the European Parliament Becoming Bad and Ugly? (The Adoption of Directive 2008/115: The Returns Directive), cit., p. 19 e ss.; A. Ripoll Servent, Adapt or die: How co-decision shaped the fate of the 'Return' directive in the European Parliament, ECPR Fifth Pa-European Conference on EU Politics, Porto, Portugal, 23-26 june 2010.

333. A. Ripoll Servent, Adapt or die: How co-decision shaped the fate of the 'Return' directive in the European Parliament, cit., p. 3.

334. A. Rasmussen e M. Shackleton, The Scope for Action of European Parliament Negotiators in the Legislative Process: Lessons of the Past and for the Future, Ninth Biennal International Conference of the European Union Studies Association, Austin, Texs, March 31- April 2, 2005, p. 17.

335. K. Pollet, The Negotiations on the Return Directive: Challenges, Outcomes and Lessons learned from an NGO Perspective, in K. Zwaan (ed.), The Returns Directive: Central Themes, Problem Issues, and Implementation in Selected Member States, cit., p. 29.

336. Solo due parlamentari spagnoli del gruppo dei Socialisti votarono contro la 'direttiva rimpatri' (Josep Borrell e Raimon Obiols) con un astenuto (Martí Grau).

337. Il Patto è allegato alle conclusioni del Consiglio europeo di Bruxelles del 15-16 ottobre 2008, doc. 13440/08.

338. Si tratta del 'Programma di Stoccolma' che è stato adottato dagli Stati membri nel dicembre 2009 e poi tradotto dalla Commissione, nel piano d'azione per il 2010-2014, in alcune misure che verranno proposte al Consiglio e al Parlamento europeo.

339. Programma di Stoccolma - Un'Europa aperta e sicura a servizio e a tutela dei cittadini, allegato al documento del Consiglio n. 170241/09 del 2 dicembre 2009 e reperibile in GUUE C 115 del 4 maggio 2010.

340. Ivi, par. 6.1.6.

341. COM (2013) 422 def., cit.

342. Si veda supra paragrafo 1.

343. Documento del Consiglio 8714/1/12, REV 1, del 23 aprile 2012.

344. Il termine previsto per il recepimento della direttiva era il 24 dicembre 2010, ma la maggior parte degli Stati membri, tra cui la Francia, l'Italia e la Germania, lo hanno fatto scadere inutilmente, adottando misure di esecuzione nazionale solo nel 2011, probabilmente con l'intento di mostrare un certo disagio circa l'ingerenza dell'Unione europea in una materia che tradizionalmente è di spettanza statuale. Sul punto si veda: M. La Rosa, Diritto penale e immigrazione clandestina in Francia: cui prodest?, in Diritto penale contemporaneo, p. 2.

345. Dal 2008 la Commissione ha convocato dodici 'Contact Committee' tra gli esperti dei vari Stati membri obbligati al rispetto della 'direttiva rimpatri', allo scopo di facilitare l'individuazione delle problematiche e le questioni rimaste aperte in seguito al primo stadio di applicazione delle disposizioni della direttiva. Sulla scia di queste discussioni informali, la Commissione ha promosso cinque studi comparativi (1. Minors in return procedures, 2. Forced return monitoring 3. Reintegration of returnees 4. Situation of non-removable returnees 5. Correct legal transposition of the Return Directive by Member States) in previsione della comunicazione sul rimpatrio, prevista per dicembre 2013.