ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Il Reato di tortura e l'ordinamento italiano

Fabrizio Vitagliano, 2012

1. La Giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo: Una base concettuale importante per la distinzione tra tortura e pene o trattamenti inumani o degradanti

In Italia è sempre più acceso il dibattito sull'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento penale italiano. I governi che si sono succeduti hanno solo espresso buone intenzioni non riuscendo però ad arrivare a una codificazione definitiva. Eppure nella Costituzione italiana l'art. 13 si stabilisce il principio secondo cui "E' punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà", anche se il legislatore non ha mai trovato la forza di adottare una normativa specifica a tale riguardo.

Il divieto di tortura è contemplato non solo da numerose convenzioni generali sui diritti umani (1), ma anche da specifici trattati ai quali l'Italia ha aderito, come la Convenzione dell'ONU contro la tortura del 27 giugno 1987 e la Convenzione Europea per la Prevenzione della Tortura e della pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti del 26 novembre 1987.

La Convenzione dell'ONU Contro la Tortura prevede all'art. 1, in combinato disposto con l'art. 4, l'obbligo per gli Stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura (come pure il tentativo di praticare la tortura o qualunque complicità o partecipazione a tale atto) fosse espressamente e immediatamente contemplato come reato nel diritto penale interno, conformemente alla definizione prevista dall'art. 1 della su citata Convenzione, la quale identifica la tortura come:

"(...) qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali al fine di segnatamente ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito."

Tale definizione costituirebbe un'ottima base concettuale per la codificazione del reato di tortura in Italia, anche se non individua le condotte perseguibili demandando l'onere di identificare tali condotte ai singoli Stati.

A tal proposito viene in aiuto l'ampia giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, la quale in varie occasioni e ambiti è intervenuta condannando gli Stati per la violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, che richiama letteralmente l'art. 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

L'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo contempla tre tipi di condotte: tortura, trattamenti o pene inumane e trattamenti o pene degradanti. La definizione e puntuale specificazione di ciascuna condotta è stata curata nei dettagli dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nelle numerose sentenze a riguardo.

La prima storica sentenza è al caso Ireland v. United Kingdom del 1978, nella quale la Corte si soffermò in particolare sull'identificazione di elementi che possono portare alla configurazione di una tortura:

"(...) It is undoubtedly an aggravated form of inhuman treatment causing intense physical and/or mental suffering. Although the degree of intensity and the length of such suffering constitute the basic elements of torture, a lot of other relevant factors had to be taken into account. Such as: the nature of ill-treatment inflicted, the means and methods employed, the repetition and duration of such treatment, the age, sex and health condition of the person exposed to it, the likelihood that such treatment might injure the physical, mental and psychological condition of the person exposed and whether the injuries inflicted caused serious consequences for short or long duration are all relevant matters to be considered together and arrive at a conclusion whether torture has been committed" (2).

Per la Corte rientrano nella previsione dell'articolo 3 quei "maltrattamenti", di natura fisica e/o mentale, che raggiungono un minimo livello di gravità e il "livello minimo di gravità", come ribadito in tutta la giurisprudenza successiva della corte, inclusa la recente sentenza al caso Idalov v. Russia (3), deve essere valutato in base a un insieme di circostanze quali: sesso, età e stato di salute della vittima, durata del trattamento e conseguenze fisiche e mentali:

"(...) Ill-treatment must attain a minimum level of severity if it is to fall within the scope of Article 3. The assessment of this minimum is relative; it depends on all the circumstances of the case, such as the duration of the treatment, its physical and mental effects and, in some cases, the sex, age and state of health of the victim (4).

Nel caso Ireland v. United Kingdom Unito la Corte, davanti alle confessioni estorte ai presunti componenti dell'IRA (Irish Republican Army) attraverso le c.d. Cinque tecniche di privazione sensoriale (5), ritenne che:

"The five techniques were applied in combination, with premeditation and for hours at a stretch; they caused, if not actual bodily injury, at least intense physical and mental suffering to the persons subjected thereto and also led to acute psychiatric disturbances during interrogation. They accordingly fell into the category of inhuman treatment within the meaning of Article 3 (art. 3). The techniques were also degrading since they were such as to arouse in their victims feelings of fear, anguish and inferiority capable of humiliating and debasing them and possibly breaking their physical or moral resistance" (6).

Per "degradante" la Corte intende quel trattamento in grado di causare nella vittima paura, angoscia e umiliazione e portarla ad agire contro la propria volontà e coscienza. Parafrasando le parole di Fornari: "Una volta stabilito che un determinato trattamento supera la soglia minima di sofferenza, il grado di intensità costituirà il criterio per distinguere un trattamento inumano o degradante da un atto di tortura". (7) e ancora sempre per lo stesso autore "nella giurisprudenza della Corte, la tortura non risulta essere una fattispecie autonoma, viene definita in relazione in relazione alle altre due categorie di reato. In particolare, la tortura è un trattamento disumano o degradante che causa sofferenze più intense". (8) Possiamo quindi evidenziare come ogni atto di tortura sia anche allo stesso tempo un trattamento disumano e degradante.

Tale concetto è stato con forza ribadito nella già citata Idalov v. Russia:

"(...) Ill-treatment that attains such a minimum level of severity usually involves actual bodily injury or intense physical or mental suffering. However, even in the absence of these, where treatment humiliates or debases an individual, showing a lack of respect for or diminishing his or her human dignity, or arouses feelings of fear, anguish or inferiority capable of breaking an individual's moral and physical resistance, it may be characterized as degrading and also fall within the prohibition of Article 3" (9).

Quanto sopra conferma che, a prescindere da qualsiasi offesa a livello fisico o mentale, quando si è in presenza di un trattamento che degrada e umilia l'individuo, dimostrando mancanza di rispetto per la dignità umana e infondendo nella vittima un sentimento di inferiorità che possa distruggere in qualsiasi modo la resistenza fisica e morale dell'individuo, in tale condizione si ha una violazione dell'articolo 3 della CEDU, pur non essendoci alcun atto di tortura.

La Corte già in passato, nella sentenza Labita c. Italia (10), nella valutazione di un trattamento disumano ha tenuto maggiormente in considerazione la rilevanza delle sofferenze fisiche, mentre nella valutazione di un trattamento degradante ha posto maggiore attenzione alle sofferenza psichiche e morali dell'individuo che le subiva.

Rimanendo alla sentenza Labita c. Italia è importante evidenziare come la Corte:

"(...) recognises that it may prove difficult for prisoners to obtain evidence of ill-treatment by their prison warders."

Tale affermazione sembrerebbe quantomeno auspicare un'inversione dell'onere della prova, evidentemente troppo gravoso per un detenuto, nel caso di specie, in balia dei propri aguzzini.

Molte sentenze della Corte, infatti, hanno portato all'assoluzione degli Stati non per infondatezza della pretesa dell'attore, ma perché non si è riusciti a dimostrare "beyond reasonable doubt" i fatti allegati, non essendo possibile dimostrare l'evidenza di atti che per loro natura lasciano segni solo ed esclusivamente nella psiche della vittima.

Dalla definizione concettuale di tortura e trattamenti inumani e degradanti la Corte ha esteso la portata del divieto posto dall'art. 3 della Convenzione a questioni non espressamente previste dalla Convenzione stessa. La Corte, ad esempio, con la sua giurisprudenza ha affermato che la pena dell'ergastolo è eccessiva quando comminata per reati senza conseguenze gravi o efferate (11) o che, avendo riguardo delle condizioni di salute dei detenuti, l'esecuzione della pena deve "evitare di accentuare il senso di umiliazione che è insito nella sanzione penale inflitta al condannato" (12). Anche la pena di morte di per sé, il cui divieto è ormai divenuto esplicito all'art. 2 del Trattato di Lisbona3, che già in precedenza faceva parte della CEDU tramite apposito Protocollo aggiuntivo nº 6 (13), può essere considerata considerata come un trattamento inumano o degradante (14), costituendo "in ogni caso, un limite assoluto alla possibilità di concedere l'estradizione o di consegnare l'individuo in questione" (15).

2. Elementi costitutivi e caratteristiche delle fattispecie criminose

Abbiamo in precedenza identificato, servendoci della giurisprudenza dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, le tre possibili condotte che possono essere distinte tra loro in base al grado di sofferenza inflitta: "molto gravi e crudeli nella tortura, mentali e fisiche di particolare intensità nel trattamento inumano e atte a provocare umiliazione e angoscia nel trattamento degradante" (16). Occorre adesso entrare nello specifico del reato di tortura così come potrebbe essere codificato nell'ordinamento penale italiano, individuandone gli elementi costitutivi e tracciando, seppur in maniera sommaria, quelle che sono le caratteristiche dei comportamenti vietati.

Per quello che riguarda l'actus reus gli elementi costitutivi possono essere dedotti dal citato art. 1, par. 1, della Convenzione ONU contro la tortura del 1984. Tali elementi sono ad oggi accettati dall'intera comunità internazionale, a riprova di ciò, qualora ve ne fosse stato bisogno, anche il Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia ha sostenuto in alcuni casi tali elementi costitutivi (17).

L'elemento oggettivo del reato consiste: 1. in qualsiasi azione atta, anche solo potenzialmente, a provocare un'acuta sofferenza, sia essa fisica o mentale; 2. nella pena e nella sofferenza non causate soltanto, o non appropriate o accidentali all'esecuzione di sanzioni legittime; 3. nella sofferenza fisica o mentale inflitta da un pubblico ufficiale o da ogni altra persona che agisce in qualità di organo (rapporto di immedesimazione organica), oppure su sua istigazione, oppure con il suo consenso o con la sua acquiescenza.

Per quello che riguarda l'elemento soggettivo del reato, secondo quanto affermato dagli organi giudiziari e paragiudiziari internazionali, sono richiesti due elementi: 1. il perseguimento di un particolare scopo, ossia di ottenere dalla persona sottoposta a tortura o da una terza persona informazioni o una confessione, oppure la volontà di infliggere una punizione per comportamenti che egli o una terza persona ha commesso o è sospettato di aver commesso, o intimidirlo o fare pressioni su di lui o su una terza persona, o infine per qualunque altro motivo fondato su di una discriminazione di qualunque tipo, o anche per umiliare la vittima; 2. l'infliggere dolore e sofferenze deve essere intenzionale.

Dagli elementi sopra tracciati, appare chiaro come atti violenza privata, ad esempio di un marito nei confronti della moglie, per quanto gravi ed efferati, non possono rientrare nel reato di tortura in quanto è richiesto che a porli in essere sia un soggetto che ricopra un ruolo pubblico, o meglio, tali atti devono caratterizzarsi per la partecipazione in una qualche forma di un organo de iure o de facto dello Stato.

La punibilità della tortura, in quanto crimine internazionale, non dovrebbe prevedere termini di prescrizione e la perseguibilità dei sui autori dovrebbe essere d'ufficio, vista la gravità dell'atto che si contesta, e anche per il singolo atto estemporaneo, potendosi qualificare tali atti, in casi di elevata diffusione e sistematicità della pratica, come crimini contro l'umanità.

Secondo tale definizione diventerebbe assai improbabile riuscire a punire gli autori di atti inumani o degradanti, essendo estremamente difficile provare che gli atti che sono stati posti essere. La previsione in separati dettati normativi delle due forme di atti inumani e di atti degradanti, corredati da una puntuale previsione e specificazione delle differenze con il reato di tortura, risulta l'unico modo per evitare di creare un pericoloso vuoto normativo nel quale singoli o gruppi di appartenenti ad organi statali possano perpetrare atti che ledano la dignità dell'uomo. Basterebbe a tal fine che il legislatore richiamasse quanto argomentato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (18).

Un elemento al quale il nostro legislatore dovrà porre particolare attenzione riguarda lo scopo dell'atto posto in essere. In base all'importanza che verrà data a se un atto è stato posto in essere, ad esempio, con lo scopo di estorcere una confessione o con l'intenzione ultima di umiliare la vittima potrà rilevare al fine della commisurazione della pena in sede giudiziale, ma non potrà rilevare al fine di concedere una scriminante al reo. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo da questo punto di vista si è tenuta alla larga dall'attribuire rilevanza allo scopo prefisso dall'autore nel praticare l'atto di tortura fondamentalmente perché la Corte si è sempre professata per l'assolutezza del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti e quindi per la sua «non bilanciabilità» (19) con altre esigenze, come, a mero titolo d'esempio, il controllo delle frontiere o il contrasto del terrorismo.

Un elemento di dibattito in sede legislativa potrebbe essere costituito dall'opportunità o meno che venga contemplato nel dettato normativo il caso in cui l'autore del reato non sia un pubblico ufficiale, ma un privato cittadino, configurandosi in questo caso un sorta di responsabilità oggettiva in capo chi avrebbe dovuto adoperarsi attivamente affinché tale atto non si verificasse (20). Tale impostazione non è certamente esente da critiche, soprattutto da quella parte della dottrina punta necessarietà del dolo e non ritiene accettabile una mera culpa in vigilando, e da rischi di una cattiva codificazione che poterebbe a effetti opposti a quelli desiderati.

L'ultima caratteristica da analizzare, che è comunque fra i cardini della nostra civiltà giuridica, è la decisione" al di là di ogni ragionevole dubbio". Tale principio deve essere però considerato alla luce della posizione di squilibrio in cui si vengono a trovare chi è stato vittima di tortura e il suo presunto torturatore. Come è stato accennato in precedenza è difficile per un individuo privato della propria libertà riuscire a denunciare nell'immediatezza gli atti subiti, anche a causa di complicità esterne, e quindi potere avere elementi di prova a futura memoria per un processo. A tal proposito sarebbe opportuno che il legislatore prevedesse per tale reato l'inversione della prova o quanto meno un onere di prova molto più blando di quello generalmente richiesto per la parte lesa e un rafforzato per il pubblico ufficiale chiamato in giudizio. Un importante elemento a favore di questa impostazione arriva, oltre che dalla citata sentenza Labita c. Italia, dal caso Indelicato c. Italia (21) dove la Corte ha stabilito che, partendo dalla considerazione che fra la privazione di libertà di un individuo da parte delle autorità e gli evidenti segni di maltrattamenti subiti dall'individuo stesso (ove sufficientemente dimostrati) vi è un nesso di causalità, è onere dello Stato dimostrare che tale nesso di causalità non risulta essere sussistente. L'interesse dell'individuo, quale parte debole, dovrebbe essere prevalente anche per il legislatore italiano.

3. La necessità della codificazione. Alcuni esempi

Gli ambiti nei quali in prevalenza si sente la mancanza del reato di tortura e trattamenti inumani o degradanti sono l'ordine pubblico in generale, sul quale hanno il monopolio le forze di polizia, e l'ordinamento carcerario riguardo diversi punti di vista.

Per quello che riguarda il c.d. ordine pubblico l'esempio primo che possiamo utilizzare per porre in rilievo l'assoluta urgenza e necessità di una codificazione riguarda gli atti di tortura e trattamenti inumani e degradanti perpetrati durante il G8 di Genova del 19-22 luglio 2001 presso la scuola Diaz e presso la caserma di Bolzaneto. Dalle risultanze processuali è emerso come all'interno della caserma di Bolzaneto siano stati posti in essere veri e propri atti di tortura, nonché atti inumani e/o degradanti. La condanna in Appello tuttavia è andata incontro a prescrizione e nessuno dei colpevoli ha scontato la pena prevista. Come osservato, tra gli altri, da Amnesty International, se l'Italia non fosse stata inadempiente rispetto agli obblighi internazionali, il procedimento non si sarebbe prescritto e i responsabili sarebbero stati assicurati alla giustizia. Come previsto dalle norme internazionali di carattere generale la prescrizione non vale per i crimini internazionali come ad esempio la tortura (22).

Il problema riguardante l'ordinamento carcerario riguarda principalmente il sovraffollamento carcerario. Tale problema è stato affrontato nel recente Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia (23). In tale rapporto, oltre a evidenziare quelli che dovrebbero essere gli standard minimi di vita in una cella, viene evidenziato Rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della torture e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), che ha spesso ripreso lo Stato italiano per la mancata adozione di una legislazione sulla tortura nonché sulle attuali condizioni dei detenuti nei penitenziari della penisola. Allo stesso modo della Corte Europea dei Diritti dell'uomo, la quale ha in più sentenze (24) affermato che costituisce un trattamento inumano e degradante in grado si aggravare il senso di umiliazione insito nella sanzione penale la mancanza per il detenuto di uno spazio sufficiente che gli consenta di avere un minimo di privacy, il Rapporto analizza lo stato delle carceri evidenziandone in parecchi casi le criticità riguardanti l'oggetto della nostra disamina. Nel rapporto si evidenza anche l'ormai celebre caso Asti, nel quale casi di tortura vera e propria, che erano stati puntualmente documentati, sono stati derubricati a maltrattamenti aggravati e lesioni lievi, proprio a causa della mancanza nel codice penale italiano del reato di tortura.

Conclusioni

Da quanto sopra esposto appare evidente come il ritardo del Parlamento Italiano nell'adozione della normativa contro la tortura non vada solo contro quelli che sono gli impegni presi in sede internazionale, ma anche contro gli stessi cittadini italiani, potenziali vittime di atti riconducibili alla categoria di trattamenti inumani o degradanti, se non ad una vera e propria "macelleria messicana", parafrasando l'espressione utilizzata da parte di un appartenente alle forze dell'ordine nel caso della caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001. Le legislature che si sono succedute negli anni si sono perse in buone intenzioni e buoni progetti di legge che tuttavia non hanno mai raggiunto il traguardo dell'approvazione definitiva. In molti casi è pesato il pregiudizio che una modifica legislativa come l'introduzione del reato di tortura potesse comunque incidere sui numerosi processi in corso a carico di rappresentanti delle forze dell'ordine, per fatti riconducibili a violenze commesse a vario titolo ai danni di persone comunque sottoposte a limitazioni della libertà personale, spesso in assenza di provvedimenti che ne legittimassero l'arresto o la detenzione.

Tanto le Organizzazioni non governative, fra le quali spicca Amnesty International, quanto gli Organismi internazionali chiedono a gran voce che l'Italia si adegui e che colmi quel vuoto normativo che ad oggi ha prodotto ingiustizie diffuse e segnato il destino di tante famiglie.

La normativa internazionale che dovrebbe guidare il legislatore italiano appare chiara e direttamente applicabile, anche per dare un senso effettivo al disposto dell'art. 13 della Costituzione. Anche ove sono presenti dei punti ancora oscuri, la copiosa giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo è intervenuta con sentenze che affrontano ogni aspetto della materia e che possono essere utilizzate per una più puntuale codificazione.

I disegni di legge ad oggi in Senato hanno mostrato una nuova sensibilità dei parlamentari, pur non riuscendo, ancora una volta, a giungere a una definitiva approvazione. Il livello di codificazione del reato, avendo riguardo dell'ultimo disegno di legge presentato, ovvero il 1596/2009, è alto rispetto ai precedenti progetti, prevedendo la punibilità di chiunque commetta atti di tortura, senza limitarsi quindi ai pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio ma prevedendo per costoro una pena aggravata. Purtroppo la genericità dell'espressione "la pena è aumentata" non ci permette di valutare positivamente o negativamente la norma, mancando proprio la quantificazione dell'aumento.

Non possiamo che evidenziare positivamente come nel disegno di legge sia stata prevista l'inutilizzabilità delle dichiarazioni ottenute con la tortura, eccezion fatta per il procedimento contro coloro i quali sono accusati delle torture usate per estorcere quelle dichiarazioni, ciò al fine di stabilire se esse sono state conseguenze della tortura stessa.

E' da rilevare come, rispetto al precedente disegno di legge, sia stato fatto un grande passo in avanti. Il precedente testo all'esame dell'aula, il disegno di legge n. 4990/04 a firma degli On. Pecorella e Mormino, prevedeva che "Il fatto non è punibile se sono inflitte sofferenze o patimenti come conseguenza di condotte o sanzioni legittime ad esse connesse o dalle stesse cagionate". L'esclusione della punibilità di "atti conseguenza di condotte o sanzioni legittime" avrebbe rischiato concretamente di lasciare impuniti tutti quei comportamenti, comunque rientranti nella fattispecie, protetti da una qualche sorta di legittimità, ricavata magari da una decisione discrezionale delle forze dell'ordine.

I rilievi più importanti all'attuale disegno di legge n. 1596/09, a firma del Sen. Di Giovanpaolo e altri, possono essere mossi riguardo: la mancata netta distinzione tra torture e trattamenti inumani e degradanti, non tanto per il profilo definitorio quanto per quello sanzionatorio; l'abbassamento del minimo e del massimo edittale rispetto ai precedenti disegni, da 4 a 3 anni di reclusione per il minimo, da 15 a 12 anni di reclusione per massimo; la mancata quantificazione dell'aumento di pena sia nel caso di lesioni gravi o gravissime, sia nel caso in cui l'autore del reato sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio; la mancata indicazione dell'imprescrittibilità del reato, che non può ritenersi scontata nell'ordinamento italiano in quanto non si tratta di reato punito con l'ergastolo a norma dell'art. 157 comma 8 c.p. ma comunque desumibile dalla giurisprudenza della corte europea dei diritti dell'uomo e dalle norme internazionali in materia.

Se appare evidente come il legislatore italiano sia seriamente intenzionato una legislazione interna sulla tortura, anche se saranno necessarie alcune correzioni che potrebbero essere introdotte in sede di dibattito in parlamento, si prospetta ancora una volta il rischio che tanto lavoro finisca sprecato, non rientrando tale materia tra gli impegni assunti dal governo e dalle forze politiche che lo sostengono in questo scorcio finale di legislatura. E le reazione seguite alle condanne nei processi sulla irruzione nella scuola Diaz a Genova, e per l'omicidio di Federico Aldrovrandi, non lasciano purtroppo sperare in un clima di assunzione tanto condivisa delle responsabilità da parte delle forze politiche per inserire nel nostro ordinamento una fattispecie penale, il reato di tortura, che possa svolgere in futuro una qualche funzione dissuasiva rispetto a comportamenti istituzionali che sono indegni di un paese democratico che vuole ancora definirsi come stato di diritto.

Note

1. Su tutte ricordiamo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, A/Res/217 A (III), Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 10 dicembre 1948; la Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide, New York, 9 dicembre 1948; entrata in vigore il 12 gennaio 1951. Art. 2 e 3; la Convention on the Abolition of Slavery, the Slave Trade, and Institutions and Practices Similar to Slavery, Ginevra, 7 settembre 1956, entrata in vigore il 30 aprile 1957. Art. 5; la Convention on the Elimination of Racial Discrimination, New York, 7 marzo 1966, entrata in vigore il 4 gennaio 1969. Art. 5b; infine la Convention on the Rights of the Child, New York, 20 novembre 1989, entrata in vigore il 2 marzo 1990. Art. 37.

2. ECHR, Case of Ireland v. United Kingdom, 18 gennaio 1978, cit., p. 90. Il testo può essere così tradotto: "(La tortura) E' senza dubbio una forma più grave di trattamento inumano che causa intense sofferenze fisiche o mentali. Sebbene il grado di intensità e la lunghezza di ogni sofferenza costituisca l'elemento base della tortura, numerosi altri fattori rilevanti devono essere presi in considerazione. Come ad esempio: la natura del maltrattamento inflitta, i mezzi e i metodi impiegati, la ripetizione e la durata di ogni trattamento, l'età, sesso e condizioni di salute della persona esposta, la possibilità che ogni trattamento possa ferire la condizione psicologica, mentale e fisica della persona che le subisce e se le ferite inflitte causano serie conseguenze nel breve o nel lungo periodo sono tutti elementi rilevanti nell'insieme per comprendere se è stata commessa una tortura".

3. Idalov v. Russia, Application no. 5826/03, sentenza del 22 Maggio 2012.

4. Idalov v. Russia, par. 91.

5. Cinque tecniche i privazione sensoriale consistenti in: incappucciamento, assoggettamento continuo a forti rumori, privazione del sonno, negazione di cibo e bevande, obbligo di rimanere in piedi per lunghi periodi di tempo, simulazione della sensazione di annegamento attraverso ripetute immersioni del capo in recipienti contenenti acqua.

6. Irlanda c. Regno Unito, ric. 5310/71, sentenza 18 gennaio 1978, par. 167. Nostra traduzione: "Le cinque tecniche sono state inflitte in maniera combinata, con premeditazione per diverse ore di fila; hanno causato, se non reali danni fisici, almeno intense sofferenze fisiche e mentali alle persone soggette ad esse e hanno anche portato gravi disturbi psichici durante gli interrogatori. Di conseguenza, tali trattamenti rientravano nella categoria dei trattamenti inumani ai sensi dell'articolo 3. Le tecniche sono anche "degradanti" poiché erano tali da suscitare nelle vittime paura, angoscia e senso di inferiorità in grado di umiliare e degradare al punto da spezzare ogni resistenza fisica e morale".

7. M. Fornari, L'art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani, in AA.VV., La tutela internazionale dei diritti umani, a cura di L. Pineschi, Giuffrè, Milano, 2006, p. 353.

8. Ibidem.

9. Idalov v. Russia, par. 92.

10. Labita c. Italia, ric. 26772/95, sent. 6 aprile 2000.

11. Per un approfondimento si rimanda a ECHR, Caso Weeks c. Regno Unito, sent. 2 marzo 1987, Ser. A, n. 114.

12. M. Fornari, L'art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani, in AA.VV., La tutela internazionale dei diritti umani, a cura di L. Pineschi, Giuffrè, Milano, 2006, p. 364-365.
Per un ulteriore approfondimento sulla tematica si rinvia alle seguenti sentenze della ECHR: Caso Tyrer c. Regno Unito, sent. 25 aprile 1978; Caso Costello-Roberts c. Gran Bretagna, sent.. 25 marzo 1993; Caso Labita c. Italia, sent. 6 aprile 2000; Caso Mouisel c. Francia, sent. 14 novembre 2002; Caso Matencio c. Francia, sent. 15 gennaio 2004; Caso Farbtuhs c. Lettonia, sent. 2 dicembre 2004.

13. Protocollo nº 6 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, relativo all'abolizione della pena di morte, Strasburgo, 28 aprile 1983.

14. A tal proposito Borelli afferma che "Le argomentazioni a favore di tale posizione si basano sul fatto che gli sviluppi verificatisi nella seconda metà del 20º secolo nei sistemi penali dei singoli Stati, e -sul piano internazionale- nell'ambito del Consiglio d'Europa, sembrano indicare che si sia formata e consolidata una consuetudine regionale che proibisce la pena capitale in tempo di pace. Alla luce di tali sviluppi si afferma che l'art. 2 della Convenzione Europea, nella parte in cui riconosce espressamente che la pena di morte può, in alcune circostanze, costituire un'eccezione all'obbligo degli Stati parti di rispettare il diritto alla vita, sarebbe stato tacitamente abrogato. Pertanto venendo a mancare tale eccezione, la pena di morte dovrebbe essere sempre considerata una forma di trattamento crudele e degradante, se non addirittura una violazione del diritto alla vita", cit. S. Borelli, Estradizione, espulsione e tutela dei diritti fondamentali, in AA.VV., La tutela internazionale dei diritti umani, a cura di L. Pineschi, Giuffrè, Milano, 2006, p. 742.

15. S. Borelli, Estradizione, espulsione e tutela dei diritti fondamentali, in AA.VV., La tutela internazionale dei diritti umani, a cura di L. Pineschi, Giuffrè, Milano, 2006, p. 741.

16. Di Perna, A. Situazione carceraria e divieto di tortura: il caso Sulejmanovic dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, Diritti Umani e Diritto Internazionale, 3 (2009), pp. 640-644.

17. Si rimanda alle sentenze: caso Delalić, 16 novembre 1998, parr. 455-474; caso Furundzija, 10 dicembre 1998, par. 257; caso Kunarac, 2 settembre 1998, parr. 483-497.

18. Su tutte le già ampiamente citate sentenze Labita c. Italia e Idalov v. Russia.

19. Per approfondimenti sul tema si rimanda a Tancredi, A. La tutela dei diritti fondamentali "assoluti" in Europa: "it's all balancing", Ragion Pratica, 2 (2007) pp. 383-398; Bonetti, P. Il divieto di subire maltrattamenti nello Stato verso cui è espulso lo straniero è bilanciabile?, Quaderni costituzionali-Rivista italiana di diritto costituzionale, 2 (2008) pp. 409-412; Saccucci, A. Divieto di tortura ed esigenze di sicurezza nel contesto della war on terror: verso una flessione "al ribasso" degli obblighi internazionali? Diritti umani e diritto internazionale, 3 (2009) pp. 5-31; Tancredi, A. Assicurazioni diplomatiche e divieto 'assoluto' di refoulement alla luce di alcune recenti pronunzie della Corte europea dei diritti umani, Diritti umani e diritto internazionale, 4 (2010) pp. 55-58.

20. Su tale prospettiva si è pronunciata la Corte Europea dei Diritti dell'uomo nel caso Costello-Roberts c. Regno unito, ric. 5310/71, sentenza 25 marzo 1993, Ser. A, n.25.

21. Indelicato c. Italia, ric. 31143/96, sentenza 18 ottobre 2001.

22. Per necessità espositive ci si limita a questo caso, ma per corettezza si rammentano altri casi di presunta tortura quali il caso Cucchi e il caso Aldrovandi.

23. Senato della Repubblica Italiana, XVI Legislatura, Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione dei Diritti Umani, Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari enei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia, 2012.

24. Si evidenziano le seguenti sentenze riguardo alle quali è corretto evidenziare come la mancanza di adeguati spazi costituisca un fattore importante, ma non un criterio esclusivo, entrando in gioco anche criteri come le condizioni igieniche e condizioni fisiche e mentali: Sulejmanovic c. Italia, ric. 22635/03, sentenza 16 luglio 2009; Aleksandr Makarov c. Russia, ric 15217/07, sentenza 12 marzo 2009; Trepachkine c. Russia, ric. 36898/03, sentenza 19 luglio 2007; Lazbov c. Russia, ric. 62208/00, sentenza 19 luglio 2007.